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Autore: Giuu13    02/12/2016    0 recensioni
Storia originale ispirata a Battle Royale.
Dal testo:
Doveva uccidere qualcuno per sopravvivere? Doveva affrontare della gente? Era un “gioco” in cui, tra tutti i partecipanti, ne poteva rimanere in vita solo uno?
«No, col cazzo»
Genere: Avventura, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Usciti da scuola salirono sul retro di un furgoncino nero lucido, sembrava appena uscito da una concessionaria. Astrid era seduta tra l’uomo brizzolato e quello armato, che li aveva raggiunti pochi minuti dopo. Il furgone stava viaggiando piuttosto velocemente, le curve le prendeva male e Astrid era costretta ad appoggiarsi contro l’uno e poi l’altro uomo ed ogni contatto le faceva salire la rabbia.
L’uomo in nero più vecchio prese una valigetta metallica da sotto il suo sedile e ne tirò fuori una fialetta, ma che, a ben vedere, la ragazza capì essere una siringa.
«Dammi il braccio»
«No»
L’uomo la guardò sorpreso, non si aspettava un rifiuto così categorico, non dopo quello che aveva visto quella mattina.
«Ho detto di darmi il braccio»
«E io ho detto di no. Chiunque stia guidando è un incapace, non sa tenere la strada, prende i dossi a una velocità elevata fregandosene; in questo modo, puoi bucarmi qualsiasi cosa» disse Astrid indicando la siringa con gli occhi.
L’altro uomo, alla sua destra, la bloccò in una sorta di abbraccio e le prese il polso sinistro girandole il braccio verso l’alto. Astrid cercò di divincolarsi, ma la presa era di ferro e la stretta intorno al polso le faceva male, non sentiva più la punta delle dita. Senza alcuna delicatezza, gli ficcarono l’ago nell’incavo del gomito e premendo lo stantuffo le iniettarono quel liquido opaco; un calore soporifero prese a scorrere per tutto il braccio, poi raggiunse il petto e cominciò a sentire tutto il corpo caldo. La testa iniziava a pesarle e faticava a tenere gli occhi aperti, anche i pensieri si stavano appesantendo, si annebbiarono e infine crollò nel buio di un sonno indotto.
Si svegliò in una stanza buia, era sotto delle coperte morbide. Quando aprì gli occhi pensò di essere a casa, ma guardandosi intorno non riconobbe i mobili, quella non era la sua stanza, quello non era il suo letto. Le tornò tutto in mente in un unico doloroso istante. Si toccò il braccio ricordandosi dell’ago e si alzò per cercare un interruttore; vagò per la stanza tastando i muri, ma sembrava non esserci nulla per accendere una dannata luce. Trovò la maniglia di una porta, ma era chiusa a chiave e tutte le spinte e le botte che tirava contro il suo metallo non servirono a niente: la porta non si aprì e nessuno andò da lei. Con le mani protese avanti a sé cercò di tornare al letto e quando sentì la stoffa delle lenzuola si sedette costringendosi a pensare.
Avevano davvero detto Hunger Games? Cosa volevano dire? Doveva uccidere qualcuno per sopravvivere? Doveva affrontare della gente? Era un “gioco” in cui, tra tutti i partecipanti, ne poteva rimanere in vita solo uno?
«No, col cazzo»
Tirò un calcio al letto e il metallo dei sostegni produsse un suono prolungato. Tutto quel silenzio e quel buio rischiavano di farla impazzire. Si morse l’interno del labbro fino a farsi male, fino a sentire il sapore del sangue sulla lingua. Si sdraiò e sotterrò la testa sotto il cuscino obbligandosi a mantenere la calma, a non urlare, a non tirare pugni a qualsiasi cosa.
Dalla disperazione, nemmeno si accorse di star scivolando nuovamente nel sonno.
Questa volta, a svegliarla furono delle mani che la scuotevano, mani non propriamente delicate.
Il suo cervello, avendo già immagazzinato tutto quello che le era successo, la fece scattare in piedi e spingere lontano la figura vicino a lei. Era un uomo che indossava una tuta nera rinforzata, aveva una cintura di munizioni e un fucile in spalla; degli occhiali scuri, simili a quelli che si usano per sciare, coprivano metà volto, mentre la bocca era coperta da un tessuto scuro, sembrava imbavagliato. Indossava un casco, anche quello nero, e solo guardando meglio Astrid capì che davanti a sé aveva una donna: la tuta aderente le segnava le curve appartenenti solo a una donna, e da sotto il casco spuntavano ciuffi di capelli scuri, lunghi. La donna le afferrò un braccio e la trascinò fuori dalla stanza, illuminata. Forse la stanza aveva un pannello di controllo esterno ed erano altri a decidere quando tenerla al buio e quando alla luce. Quella in cui aveva dormito era una stanza comune, con un letto, una scrivania sgombra e un armadio (presumibilmente vuoto) del tutto comuni; c’era qualche brutto quadro appeso alle pareti e contro una di esse era sistemato un mobile su cui torreggiava uno specchio enorme e un peluche di un coniglietto rosa; non c’era nessuna finestra, ma in un angolo del soffitto c’era un condotto d’aerazione automatico, controllato dall’esterno.
Astrid era terribilmente stufa di essere presa, strattonata e condotta in posti sconosciuti, così prese la mano della donna e se la levò di dosso facendole capire che l’avrebbe seguita, ma da sola, senza bisogno di essere trasportata e trascinata. La donna chiuse la porta della stanza e le fece segno di camminare davanti a lei. Il corridoio che attraversarono era bianco, così bianco da far male agli occhi. Astrid si chiese se era per quello che la sua “custode” portava gli occhiali. Sul corridoio si affacciavano altre porte identiche alla sua. Che dietro ci fossero altre stanze, con altri partecipanti al gioco? Aveva anche notato che non c’erano finestre lungo il cammino. Il corridoio si divise in tre strade, una a destra, una a sinistra e una continuava dritto; la donna le toccò il gomito destro, così Astrid svoltò in quella direzione. In un modo completamente privo di senso e irrazionale, Astrid trovò carino quel gesto, il toccarle il gomito per indicarle la strada; la sua custode era stata delicata e le aveva appena sfiorato il gomito per dirle dove andare, senza urlare, senza puntarle il fucile contro la schiena e soprattutto senza strattonarla.
Pensò che quel pensiero era l’inizio della pazzia, sentiva che rischiava seriamente di impazzire.
Dopo varie svolte, indicate sempre da quel tenero tocco ai gomiti, si ritrovarono davanti una porta di metallo a due ante, anche quella bianca. Due dita toccarono la schiena di Astrid invitandola a proseguire. La ragazza sospirò, perché quel gesto le piaceva, la rassicurava, quasi, ed era gentile. Aprì le porte e si ritrovò in un’enorme sala, che doveva essere una mensa, perché c’erano diversi tavoli circolari e quello che sembrava il bancone per il self-service. In un angolo vuoto della stanza il pavimento era rialzato, sembrava quasi un palco su cui esibirsi, ma anche lì c’era un tavolo.
Un uomo sbucò da una porta dietro il bancone brandendo il più falso e bianco dei sorrisi. Era alto poco più di Astrid, era tarchiato, ma si vedeva nella struttura del fisico che quello era stato un corpo muscoloso e atletico, una volta. Aveva un accenno di barba e i capelli corti e radi, aveva un bel principio di calvizie.
Si avvicinò con passo molleggiante, sulle sue scarpe da ginnastica bianche e con il tacco interno.
«Astrid, giusto? Sei la prima! Ma è giusto così, la prima che arriva qui deve essere anche la prima a conoscermi, no? Io sono Max»
Allungò la mano, diversi anelli d’oro abbracciavano le sue dita corte, e strinse delicatamente quella che Astrid aveva alzato per educazione. Non sapeva ancora dove si trovava, cosa effettivamente doveva fare, tanto valeva fare tutto ciò che riteneva normale. Sospettava ancora in uno scherzo molto ben organizzato. Si guardava intorno aspettandosi che qualcuno di sua conoscenza saltasse fuori urlando “Fregata! Sei su Scherzi a Parte! Ah, ah, ah”. Non vedeva ancora nessuno, però.
«Accomodati pure, aspettiamo anche gli altri e poi cominciamo, ok?»
Ad Astrid cominciava a dar fastidio il suo modo di parlare, fare domande senza effettivamente aver bisogno di una risposta.
Senza aver detto ancora una parola si diresse verso il tavolo più lontano dall’entrata e mentre camminava si voltò per guardare la sua custode, ma di lei non c’era traccia, non era nemmeno entrata nella stanza. Si sedette e incrociò le mani sul tavolo. Non sapeva più a cosa pensare, aveva la mente vuota, totalmente prosciugata. Alzò il viso non appena sentì la porta aprirsi e osservò il nuovo arrivato. A entrare fu un ragazzo sulla ventina, alto e slanciato, le braccia erano due grissini e le gambe magre sbucavano dai bermuda verdi; i capelli avevano dei riflessi così biondi che davano l’impressione che indossasse un caschetto d’oro. Si guardò intorno spaventato e curioso, era sorpreso di trovarsi in una mensa. Quando gli occhi dei ragazzi si incontrarono ci fu un momento di immobilità, poi il nuovo arrivato le voltò le spalle e si sedette al primo tavolo sulla destra. Astrid lo osservò con la coda dell’occhio: muoveva le gambe freneticamente e si contorceva le dita dall’ansia, guardando la porta in attesa degli altri ragazzi. Venne raggiunto da Max che si presentò, gli disse più o meno le stesse cose che disse ad Astrid, in più gli diede una pacca sulle spalle per tirarlo su di morale. Sembrava abbattuto. Chi non lo sarebbe stato sapendo che di lì a poco avrebbe dovuto partecipare a uno pseudo Hunger Games?
«Ehi, Astrid!»
La voce di Max riecheggiò nella sala distraendola dai suoi pensieri.
«Questo qui è Daniele! Gran bel ragazzo, no? E tu che ne dici di Astrid, non è carina? Oh, forse è troppo lontana?»
Stava per invitarli ad unirsi, a sedersi allo stesso tavolo, ma il portone si aprì di nuovo e fece la sua entrata un altro ragazzo che guardò i presenti con aria confusa.
«Ehilà, Davide! Come te la passi?»
Max gli strinse calorosamente la mano e lo condusse al tavolo di Daniele. Sembrava che Max conoscesse tutti i ragazzi, neanche fosse un vecchio amico dei loro genitori.
Nessuno aveva ancora detto una parola, né Astrid, né i due ragazzi che si studiavano a vicenda; alla fine, Daniele allungò una mano presentandosi a Davide, che ricambiò la stretta accennando appena un sorriso. Era indeciso se andare a presentarsi anche con la ragazza seduta in fondo alla sala, ma sembrava chiusa nei suoi pensieri e poi la porta si aprì ancora vomitando una nuova figura.
Timidamente entrò una ragazzina esile, sembrava piccola, in realtà aveva almeno diciotto anni: i capelli erano legati in una lunga treccia castana, aveva un leggero abito scuro e dei sandali ai piedi. Ogni suo movimento produceva tintinnii vari, aveva i polsi coperti da braccialetti metallici. La ragazza guardò i ragazzi e poi Astrid e si sedette ad un terzo tavolo accavallando le gambe sottili; si passò una mano sugli occhioni per asciugarsi una lacrima incastonata tra le ciglia.
In quel momento Astrid notò qualcosa di strano in lei e la fissò per circa cinque minuti senza distoglierle gli occhi di dosso; al collo aveva un collare argentato con due piccole lampadine ai lati. Guardò Daniele e Davide e anche loro avevano i collari metallici; si toccò il collo e lo sentì freddo e duro. Anche lei aveva quell’aggeggio. Mise una mano in tasca per controllare la situazione con la telecamera interna del telefono, ma si ricordò che le era stato confiscato appena messo piede sul furgone che l’aveva portata in quel posto sconosciuto. Strinse i pugni sotto al tavolo maledicendo tutto quello che stava accadendo, mentre con lo sguardo osservava il solito rituale di Max che si presentava e scherzava con il prossimo. Altri ragazzi aprirono il portone ed entrarono e Astrid cominciò a contarli e ad osservarli uno per uno, analizzando le loro varie reazioni: una ragazza bionda e alta - poteva essere benissimo una modella per quanto fosse bella - entrata nella stanza si era coperta la bocca con una manina smaltata e aveva lanciato occhiate tutt’intorno, sorpresa; una ragazza in tutto e per tutto normale – occhi scuri, capelli scuri di lunghezza media, corporatura nella norma, viso sufficientemente armonioso – si era tolta gli occhiali, li aveva puliti con un lembo del maglione e se li era rimessi, andando poi a sedersi vicino alla ragazzina con la treccia. Nella stanza erano in ventitré, dodici ragazze e undici ragazzi, e si erano formati già dei gruppetti che chiacchieravano di tutto ciò che gli veniva in mente. Le ragazze al tavolo di Astrid stavano parlando di un film appena uscito al cinema, che volevano assolutamente vedere per via di un attore, mentre dei ragazzi parlavano di calcio e videogiochi. Astrid storse il naso piangendo internamente, pensando che si ritrovava immersa negli stereotipi più comuni e diffusi.
«Ehi»
Astrid si era sporta verso Ester, la ragazza di carnagione scura seduta accanto a lei.
«Che c’è?»
«Lo hai già notato?» le chiese indicandosi il collo.
Ester si toccò il collo e trovando quello strano pezzo di metallo spalancò gli occhi guardandola preoccupata.
«Che cos’è? Che. Cosa. È»
Astrid scosse la testa e tornò al suo posto guardando gli altri ragazzi. Come facevano a non accorgersene? Eppure neanche lei ci aveva fatto subito caso, solo dopo aver visto Adele se ne era accorta.
Il punto è che, essendo tutti preoccupati per la situazione in generale, nessuno aveva badato all’abbigliamento degli altri, e poi non c’erano specchi in cui potersi guardare, nemmeno nelle stanze.
«Perché ci sono queste lucine?» chiese Ester toccando i lati del suo collare e guardando quello di Astrid. «Anche le mie sono una verde e una rossa?»
«Sì, quella verde è accese, quella rossa no. Anche le mie sono così?»
Ester annuì e guardò tutti i collari della stanza, sembrava che tutte le lampadine verdi fossero accese; non emanavano una gran luce, era un flebile bagliore, ma si notava.
Nel frattempo erano entrati un ragazzo e una ragazza: lui era alto e aveva un fisico d’atleta, era stato chiamato sicuramente per quello, e i capelli scuri erano scompigliati, come se avesse avuto una battaglia con il pettine, mentre la ragazza aveva la corporatura di un maschio, aveva delle spalle larghe da nuotatrice e i capelli tinti di rosso erano corti e sparati verso l’alto.
«E lei è Rebecca, ragazzi!» urlò Max al gruppo.
Tutti dissero un cordiale «Ciao, Rebecca!», eccetto Astrid che credeva che fosse tutto uno scherzo e si stava innervosendo, il gioco è bello quando dura poco e loro erano lì da ore. Guardò l’orologio che segnava le cinque e mezza; non sapeva se della mattina o di sera, quel posto era privo di finestre e niente dava un indizio se fosse giorno oppure no.
Entrarono due ragazzi contemporaneamente, non era mai successo, e insieme si sedettero senza degnare nessuno di uno sguardo. Erano incredibilmente alti e muscolosi, avevano delle spalle e delle braccia da far paura: ricevere un loro pugno voleva dire morte certa, poco ma sicuro.
Una ventina di minuti dopo, quando un ragazzo smilzo che annegava nella sua maglietta di tre taglie più grandi si sedette, Max passò tra i tavoli regalando sorrisi a destra e a manca, fece anche qualche occhiolino. Alzò le braccia al cielo ridendo, sembrava contagioso, perché anche alcuni ragazzi ridacchiarono guardandolo dirigersi verso il palco in fondo alla sala. Quando fu lì sopra venne raggiunto da alcuni uomini e donne in tuta scura, i “custodi”, e con le mani invitò i ragazzi ad avvicinarsi e a mettersi in fila.
Tutti si sistemarono davanti a lui in un’unica ordinata fila, sembravano dei perfetti soldati e così Astrid, che detestava quel tipo di conformismo e uguaglianza, incrociò le braccia al petto e storse la testa. Anche a scuola, quando i professori dicevano di guardare un’immagine su un libro o qualcosa alla lavagna, lei guardava da tutt’altra parte, fuori dalla finestra, per terra, la porta; gli dava enormemente fastidio quel movimento unico che si creava quando qualcuno con una certa autorità diceva di fare qualcosa ad una folla. Odiava la folla che obbediva.
«Bene, bene. Allora, sapete tutti perché siete qui, giusto?» chiese Max facendo scomparire il sorriso dalle labbra.
Gli occhi dei ragazzi tornarono scuri, ricordandosi il perché di tutto quello.
«In realtà no»
Si voltarono tutti verso la figura che aveva appena parlato, Mattia, un ragazzo che non sembrava avere qualità fisiche speciali, in compenso aveva l’aria di avere un gran cervello.
«Allora ve lo spiegherò per l’ultima volta, quindi aprite bene le orecchie»
Max prese un profondo respiro e camminando avanti e indietro per il palco cominciò a parlare.
«Voi ragazzi siete stati scelti per un  programma antigovernativo, ribelle e rivoluzionario. Dovreste esserne onorati. Non dirò il nome dell’organizzazione perché non vi interessa e perché sicuramente non la conoscete: nemmeno l’FBI o la CIA, o il KGB o chiunque altro sa della nostra esistenza»
Mentre parlava gesticolava e per ogni parola detta sputava litri di orgoglio e fierezza.
«Vogliamo dimostrare al mondo, a tutti i governi del mondo, che la sua azione educativa è fallimentare. FALLIMENTARE! Vogliamo dimostrare che creano ragazzi repressi, aggressivi e violenti; vogliamo far vedere che le loro azioni portano solo caos e danno vita a mostri come voi»
Astrid stava ascoltando incredula, aveva letteralmente la bocca aperta per la sorpresa, nell’ascoltare la stupidità delle parole che Max stava vomitando in giro per il palco. Osservò i custodi che non battevano ciglio (non letteralmente, avevano quei cavolo di occhiali super coprenti in faccia) e si sorprese nel vederne qualcuno annuire compiaciuto; sentì Ivan alla sua sinistra borbottare un «Ma che cazzo sta dicendo».
«…e quindi dovrete mostrare la vostra mostruosità. So che ne siete in grado. Abbiamo scelto i migliori: quelli pompati dall’attività fisica che i governi apprezzano tanto, i cervelloni che i governi lodano e premiano ogni anno. Merda! Siete tutti delle merde del governo!»
«Ma tu sei pazzo!» gridò Christian scuotendo la testa. Fece qualche passo indietro allontanandosi dal folle sul palco, continuava a scuotere la testa. «Stai dicendo un sacco di cazzate. Voglio dire, ti senti mentre parli? Governi? Azione educativa? Mostri? Ma che stai dicendo?»
Astrid poteva vedere gli occhi spaventati e scioccati del ragazzo da sopra la spalla di Nicol, alla sua destra, mentre parlava.
«Mio caro Christian, non sono cazzate, ma la pura realtà. Appena usciti da questo edificio dovrete cominciare ad ammazzarvi a vicenda, ne dovrà rimanere uno solo. È così che funziona la dimostrazione, esperimento, gioco, come preferite chiamarlo. Personalmente, preferisco l’ultimo. Quando il “sopravvissuto” vincerà, le nazioni capiranno che cosa hanno creato, perché voi siete i loro figlioli, siete il loro futuro. Gente mostruosa come voi sta governando, dirige le più grandi imprese del mondo, ma noi metteremo sotto il naso dei bravi cittadini la crudeltà vostra e dei governanti. La mostreremo a tutto il mondo»
«Ma vaffanculo!»
Christian alzò il dito medio verso Max e fece un altro passo indietro per andarsene, ma non riuscì a fare di più. Si sentì uno sparo e la testa di Christian scattò all’indietro, le gambe cedettero sotto il suo peso e crollò a terra. Nicol cadde urlante in ginocchio, graffiandosi gli occhi, sentiva delle gocce calde sul viso. Il corpo di Christian era disteso a terra scomposto, le gambe erano piegate sotto il corpo e le braccia spalancate, come se stesse provando a fare un angelo in quella pozza di sangue che si stava creando sotto di lui; il viso era piegato e la bocca era aperta in un urlo muto di terrore. Gli occhi erano due sfere opache, avevano perso il loro colore; tutti i ragazzi alla sua sinistra erano sotto il suo sguardo vuoto.
Qualcuno disse «Oddiosantissimo» e poi scoppiò in un pianto trattenuto.
«Nicol. Alzati immediatamente. Non è necessario che tu rimanga lì seduta»
Max guardava la ragazza con disinteresse, come se lei stesse facendo qualcosa di davvero, ma davvero inutile ed evitabile. Vedendo che quella non accennava a muoversi puntò la pistola nella sua direzione.
«Se non ti alzi subito farai la sua fine»
Astrid si chinò e la tirò su per le ascelle, Nicol era un peso morto, ma lo sarebbe stato letteralmente se non si fosse alzata immediatamente. Non si reggeva sulle proprie gambe e le braccia erano abbandonate lungo i fianchi, sembrava non voler reagire a nulla, continuava a piangere disperatamente.
«Su, Nicol, non fare così. Sta dritta o quello ti ammazza» le sussurrò all’orecchio Astrid. Non era faticoso tenerla, aveva un fisico slanciato da ballerina.
«Se non stai su farai la fine di Christian. Vuoi una pallottola in fronte?»
Nicol scosse la testa e si raddrizzò, teneva la testa bassa continuando a toccarsi il viso per pulirlo dalle gocce di sangue.
Tutti erano girati verso il cadavere di Christian, lo guardavano senza riuscire a fare altrimenti: tutto quel sangue non lo avevano mai visto dal vero, ma solo in televisione, si riusciva a sentire addirittura l’odore del sangue nell’aria. Qualcuno all’estremità sinistra della fila vomitò, si sentiva lo scrosciare disgustoso del liquido sul pavimento, i colpi di tosse del povero ragazzo che non riusciva a smettere.
Gli occhi privi di luce di Christian le stavano dando alla testa, Astrid aveva l’impressione che la stessero guardando dicendole “La prossima sarai tu, attenta”.
«Signore, posso chiudergli gli occhi?»
Max la guardò sorpreso, ma annuì. «Ti danno fastidio?»
Astrid esitò guardando ancora il ragazzo steso a terra, la pozza che si ingrandiva.
«Allora? Ti fanno schifo? Ti danno fastidio?»
«Vorrei farlo riposare in pace»
Max sbuffò mostrando tutto il suo disgusto e disse: «Cristiani». Con un cenno della mano le diede il permesso di muoversi.
Astrid si avvicinò a Christian e gli si inginocchiò accanto. Non era cristiana e non credeva in nulla, ma aveva bisogno di chiudergli gli occhi: voleva davvero che riposasse in pace (al paradiso, o a qualcosa di simile, ci credeva), ma aveva bisogno anche di non avere più quegli occhi puntati addosso e voleva verificare che fosse effettivamente morto, e non che fosse uno stupido e macabro scherzo. La speranza è l’ultima a morire.
Deglutendo decise di sistemare il corpo in maniera più comoda, così liberò le gambe da quella posizione e gli mise la mano destra sul cuore e la sinistra sullo stomaco e con mano tremante gli chiuse gli occhi. Finalmente si sentì libera da quello sguardo. Guardandolo, poteva sembrare addormentato, se non fosse stato per quel foro sulla fronte. Un rivolo di sangue gli solcava il viso scendendo lungo una guancia e sotto la sua testa la pozza era enorme e l’odore di sangue, di metallo, era terrificante, le faceva venire il voltastomaco. Astrid si chiese come diavolo facesse a non vomitare, a non piangere e a non urlare, probabilmente lo shock le aveva bloccato qualsiasi tipo di reazione. Il volto di Christian era pallido, il ragazzo era morto. Morto. Nessuno scherzo, nessun Scherzi a Parte, solo la realtà.
Il suo sguardo cadde sul collare, poi si voltò verso gli altri ragazzi che stavano osservando la scena e tornò con gli occhi a Christian. Aveva visto giusto, adesso capiva. Sul collare del ragazzo la lucina verde era spenta, quella rossa invece brillava. I collari degli altri avevano la lampadina verde accesa e il cadavere quella rossa: luce verde, vita e luce rossa, morte.
«Torna al tuo posto, Astrid»
La ragazza fece come le aveva ordinato Max, tornò al suo posto con la braccia conserte.
«Beh, uno è andato. Consideratevi fortunati, avete un nemico in meno. Poi, mi piacciono i numeri pari e voi eravate dispari, ora è tutto a posto»
Sorrise e tese la pistola a un custode.
«Meglio se la tenete voi, la tentazione di ammazzare questi stronzetti è molto alta»
Ivan lanciava delle brevi occhiate al cadavere, ancora non riusciva a smettere di farlo; Nicol aveva smesso di toccarsi il viso, ma lo teneva basso per poter piangere in santa pace, senza essere guardata; Davide sentiva il sapore del vomito in bocca, non voleva fare altro se non sciacquarsi.
«Dove eravamo arrivati prima dell’interruzione? Ah, sì! Allora, appena finirò di parlare dovete raggiungere quella porta lì dietro, la vedete?»
Tutti si voltarono in quella direzione, ma non Astrid che rimase ad osservare Max. L’uomo la guardò e per un instante il suo volto divenne una maschera di freddezza e crudeltà, poi tornò quello di prima, sorridente, sadico, pazzo. «Sbucherete in corridoio e dovrete entrare nella stanza di fronte a questa, in cui starete fino a che i miei uomini non vi scorteranno nelle vostre stanze. Vi farete una doccetta e poi tutti a nanna!»
Batté le mani entusiasta, come un bambino felice di aver appena ricevuto un nuovo giocattolo.
«Spero non abbiate il sonno leggero, perché stanotte si comincia! Ai piedi del letto troverete una sacca contenente cibo e acqua per alcuni giorni e un’arma adatta alle vostre capacità e potenzialità. Le abbiamo scelte con cura quasi maniacale, quindi spero vi piacciano»
Sembrava davvero che la sua felicità dipendesse nell’apprezzamento delle armi da parte dei ragazzi. Aveva gli occhi lucidi di orgoglio per il lavoro svolto.
«Un segnale vi farà capire che il gioco è cominciato. Quando sarete fuori dalle vostre camere dovrete seguire i corridoi illuminati. Quelli al buio sono off-limits, chiaro? Chi si troverà in quelle zone morirà. Volete sapere anche come, immagino»
Sorridendo scese dal palco con un agile balzo, dopotutto non aveva perso la sua abilità di un tempo. Si spostò guardando i ragazzi negli occhi, poi i loro collari. Qualcuno, capendo, si portò le mani al collo terrorizzato, strattonando il pezzo di metallo.
«Oh, no, caro, non si possono aprire se non con un segnale dal pannello di controllo. Però hai capito: quei collari sono delle bombe. Sono inseriti dei chip in grado di indicarci la vostra posizione e se farete qualcosa di sbagliato come tentare di scappare o fermarvi nelle zone buie, beh, quel coso vi farà saltare la testa»
Diede una pacca sulla spalla al ragazzo, Loris, e si allontanò camminando con le mani intrecciate dietro la schiena, come un uomo che senza pensieri osserva il cielo limpido di fine primavera.
«Mi sembra di avervi detto tutto. Se mi viene in mente qualcosa ve lo comunicherò: ci sono amplificatori sparpagliati qua e là, fuori di qui. Quando avrò voglia di parlarvi, o quando ne avrò bisogno per farvi sapere qualche piccola variazione di gioco, mi sentirete, non vi preoccupate. Ora potete andare»
Alzò le mani in un gesto di liberazione, ma chiuse subito i pugni gridando: «No! Ho dimenticato di dirvi che non appena il gioco comincerà, stanotte, dovrete cominciare a uccidervi. Siete autorizzati, o meglio, obbligati a farlo non appena lascerete le vostre stanze. Ecco la prima regola: se non c’è almeno un morto nei corridoi farò attivare le bombe dei vostri collari e cinque di voi, scelti a caso, moriranno»
Dopo un momento carico di silenzio teso, aggiunse: «Ora potete andare, grazie»
Nessuno dei ragazzi si mosse, lo shock delle informazioni ricevute era troppo. Nicol riprese a piangere e Ivan a scuotere la testa e dire parolacce a go go. A un cenno di Max, che aveva ancora le mani in aria, i custodi scesero dal palco e con qualche spintone e minaccia fecero fare dietro front ai ragazzi indirizzandoli verso la porta. I custodi aprirono la porta dell’altra stanza e spinsero i ragazzi dentro a forza, dopodiché un rumore metallico indicò la chiusura automatica della porta.
Quella in cui i trenta ragazzi si trovavano era una stanza più piccola rispetto alla prima, ma abbastanza grande da permettere loro di muoversi: c’erano tre poltrone, due tavoli e diverse sedie, uno scaffale pieno di giochi da tavola e qualche mazzo di carte; a terra c’era un invitante tappeto e una bottiglia di vetro vuota. Astrid la osservò dubbiosa. Che volessero indurli a giocare al gioco della bottiglia?
Il muro di fronte all’entrata non esisteva, o meglio: al suo posto c’era un’immensa vetrata che ricopriva completamente la superficie della parete e al di là del vetro si poteva ammirare un panorama spettacolare. Un bosco rigoglioso e verde si estendeva davanti all’edificio, gli alberi alti raggiungevano la vetrata (finalmente scoprirono di essere a qualche piano di altezza) e il cielo era di un bel color arancione. Erano le sei del pomeriggio, quindi. Una porta dava su un’altra stanza, ma anche quella era chiusa a chiava, probabilmente.
Un ragazzo alto e magrissimo, con i capelli ondulati fino alle spalle, fece qualche passo e prese dallo scaffale una scatola rossa.
«Chi vuole giocare a Saltinmente
Adele, accarezzandosi la treccia si avvicinò a lui indicando un altro gioco.
«C’è anche Twister, io preferisco questo»
«Ok, chi gioca allora?»
Qualche mano si alzò timidamente, altri si allontanarono e si sedette sulle poltrone a chiacchierare; ovunque si stavano formando dei gruppetti, ma Astrid non riusciva ad avvicinarsi a nessuno, pensava ancora a Christian e al fatto che gli altri invece avevano già dimenticato. O forse no, si disse, forse stavano solo cercando di non pensarci, di andare avanti e sconfiggere la paura per qualche momento, stavano solo fingendo che fosse tutto normale e che quella fosse una festicciola tra amici.
«Vogliono farci fare amicizia»
Astrid spostò lo sguardo alla sua destra, dove c’era Lucas che guardava gli altri in modo indecifrabile. Era più alto di lei, aveva le spalle e le braccia muscolose; aveva la schiena perfettamente dritta, il portamento era quasi regale, nonostante le braccia incrociate al petto e il broncio in viso. Il suo modo di stare in piedi e la sua postura le ricordavano molto quelle di Chiara, una sua compagna di classe che faceva tiro con l’arco da parecchi anni. Possibile che lui facesse lo stesso sport, magari a un livello più alto?
«Cosa vuoi dire?»
Lucas guardò la ragazza e poi indicò la stanza con una mano.
«Vogliono rendere i giochi più divertenti» disse sussurrando, sembrava avesse paura che qualcuno lo potesse sentire. «Vogliono che ci sia più difficile ammazzarci l’uno con l’altro, vogliono aggiungere colpi di scena e intessere relazioni. Vogliono creare dei legami tra noi per vederli poi distruggere, da noi»
La cosa aveva un senso e Astrid l’aveva sospettata nel momento in cui Max le aveva presentato Daniele.
Annuì al ragazzo, poi disse: «Capito» e se ne andò verso la vetrata scavalcando un ammasso di corpi intento a giocare a Twister ed evitando gli inviti di alcune ragazze ad unirsi a loro in chiacchiere. Astrid aveva sempre evitato la compagnia femminile, anche se delle amiche le aveva, preferendo quella maschile: alle chiacchiere preferiva i fatti; preferiva stare con i ragazzi che faceva e disfacevano, che combinavano casini, piuttosto che con le ragazze che parlavano e basta.
Astrid prese dallo scaffale un mazzo di carte e si sedette al tavolino vicino alla vetrata; sistemò le carte preparando una partita di solitario. Sorrise pensando al fatto che quel mazzo era stato messo in quella stanza per unire tante persone nel gioco, ma lei lo stava usando per un solitario.
Lucas era rimasto sulla porta con le braccia incrociate ad osservare i suoi compagni di sventura, chiedendosi chi di loro avrebbe accettato il gioco e ucciso e chi, come lui, avrebbe invece rifiutato le regole.
I suoi occhi caddero sui due ragazzi seduti vicino alla vetrata, dalla parte opposta in cui si trovava Astrid, che parlavano e ridevano. Erano Laerte e Claudio e per loro immensa sfortuna erano amici. Erano amici ancora prima di entrare nel gioco, lo si capiva da come parlavano, da come si muovevano in confidenza l’uno con l’altro, dal fatto che fossero entrati nella sala mensa insieme e non separatamente come tutti gli altri. Le sue erano solo congetture, ma si fidava sempre di se stesso.
Quella situazione, quel cadavere a pochi metri da lui, le risate e le parole delle persone davanti a lui gli stavano facendo saltare i nervi, lo stavano stressando e innervosendo; poteva sentire un miscuglio di emozioni – frustrazione, paura, rabbia, tristezza, disperazione – e adrenalina circolargli in corpo. Aveva anche notato delle telecamere nascoste e il fatto di essere spiato non gli piaceva più di tanto.
Un ragazzo attraversò la stanza e picchiettò contro la schiena di Astrid, intenta a un solitario.
«Potresti prestarmela un attimino?» chiese indicando la sedia su cui lei era seduta. Astrid annuì e si alzò curiosa, si chiese a cosa gli servisse una sedia per “un attimino”.
Il ragazzo, Giulio, fece cenno ad Astrid di spostarsi e afferrò lo schienale della sedia con entrambe le mani, poi fece due giri su se stesso acquistando velocità, infine scagliò la sedia contro la parete di vetro con tutta la sua forza. La sedia si ruppe in vari pezzi, una gamba volò da una parte e un’altra raggiunse lo scaffale sfiorando la testa di una ragazza, ma la vetrata era intatta, non aveva neanche un graffio. Al momento dell’urto, Astrid aveva notato che il vetro si era piegato sotto il peso della sedia, ma poi l’aveva spinta via, distruggendola; le sembrò una scena da cartone animato.
Neanche un minuto dopo entrarono due custodi e Max, che scuotendo la testa si avvicinò a Giulio.
«Ci sono delle telecamere, sai? Abbiamo visto cosa hai appena fatto e non avresti dovuto. Potrei farti saltare la testa in questo momento attivando il collare, ma il gioco non è ancora cominciato, perciò…»
Allungò una mano per ricevere una pistola da un suo uomo, ma quello si avvicinò all’orecchio di Max e disse: «Signore, non possiamo permetterci altre morti prima del tempo. Sono pari e in giusto equilibrio, se ne eliminiamo un altro noi, la dimostrazione potrebbe saltare»
Max sospirò e infilò le mani in tasca. «Va bene, hai ragione. Ma possiamo punirlo, giusto? Fate voi»
Uscì dalla stanza con passo lento e con una mano diede il via libera ai due custodi che si avventarono su Giulio. Uno di loro lo prese per il colletto della maglia e facendo esattamente quello che aveva fatto poco prima Giulio con la sedia, lo scaraventò contro la vetrata. Anche in questo caso, questa si piegò e poi respinse il corpo gettandolo a terra. Sul pavimento, Giulio si strinse nelle spalle, non riusciva più a respirare per il colpo e all’arrivo di un calcio allo sterno si piegò dolorante di lato, si chiuse a riccio mentre degli scarponi di cuoio lo pestavano, avendolo scambiato forse per un pallone.
Astrid si intromise quasi subito mettendosi tra i custodi e il corpo rannicchiato di Giulio, tese una mano intimandogli di fermarsi.
«Volete ammazzarlo voi? Non avete, però appena detto che dobbiamo rimanere tutti in vita?»
I custodi si ricomposero e quello più basso le tirò uno schiaffo.
«Puttana»
Astrid premette una mano contro la guancia, gli occhi già umidi per la rabbia e l’affronto, ma non rispose alla provocazione lasciandoli uscire. Qualcuno volle sapere se stava bene, lei annuì e gettando uno sguardo a Giulio tornò al suo solitario.
Davide si alzò dal tappetino su cui stava giocando a Twister e si ravvivò i capelli.
«Non avresti dovuto farlo. Sei stupido?»
Giulio si sedette premendosi le mani contro i fianchi e respirando a fatica. Sorrise e si voltò verso di lui.
«Le avevo viste le telecamere»
Anche Lucas sorrise dal fondo della stanza.
 
Alle otto la seconda porta della stanza si aprì automaticamente e Arianna, interrompendo il suo racconto dell’estate passata in Francia, si affacciò per vedere cosa ci fosse oltre.
«C’è la cena, raga!»
Tutti abbandonarono le loro attività rendendosi conto di essere affamati avendo saltato il pranzo.
Al centro della sala c’era un enorme tavolo rotondo e tutt’intorno trenta sedie esatte, una per ognuno di loro. Davanti a ogni sedia c’era un vassoio e una targhetta con un nome. Ognuno cercò il proprio nome e si sedette, pronto a mangiare in compagnia, divertendosi per l’ultima volta, forse.
«Oh, Albe, ho il mio piatto preferito! Costata di manzo cotta al punto giusto, ci sono anche le patate che piacciono a me»
«Anche io ho il  mio piatto preferito: lasagne e una ciambella alla crema. Sto sbavando!»
«Raga, anche io! Big Mac, McChicken, due patate grandi e coca cola. Ho anche il muffin ai mirtilli, incredibile»
Astrid guardò la sua maccaronara al sugo, il panino per la scarpetta e il dolce al cioccolato e sentì aprirsi una voragine nello stomaco. Non si era resa conto di quanto fosse affamata fino a quel momento, però invece di sedersi al tavolo con gli altri prese il vassoio e si sistemò a terra, davanti alla vetrata che continuava anche in quella stanza. Non voleva pranzare con quelle persone perché non voleva farci amicizia, entro qualche ora il “gioco” sarebbe cominciato e si sarebbero dovuti uccidere a vicenda, non voleva farsi nemmeno piacere qualcuno, non voleva il minimo tipo di legame.
Qualcosa le toccò la gamba e alzando gli occhi vide quelli scuri di Lucas, che teneva il suo vassoio in mano.
«Penso che abbiano cucinato queste cose per farci socializzare a tavola. Tutti sono più felici se mangiano ciò che amano. Però non voglio dargli la soddisfazione di vedermi mangiare il mio piatto preferito preparato da loro. È una cosa stupida, lo so, ma faresti cambio?»
Astrid si impose di far morire il sorriso che le stava nascendo sulle labbra.
«Ho mangiucchiato un po’ il pane, però»
«Non importa»
Si scambiarono i vassoi e Lucas si sedette a mangiare in solitario contro la parete opposta.
Sentendo i commenti acidi degli altri ragazzi per la loro lontananza, Astrid prese una costina tra le mani e cominciò a mangiare con gusto, adorava la carne (mai come la pasta, però).
Quando era ormai al dolce, che consisteva in un dolcissimo e morbido muffin, una voce la sorprese alle spalle.
«Perché non mangi con gli altri?»
 Astrid stava guardando il vento scuotere gli alberi lì fuori, in un certo senso non vedeva l’ora di uscire da quel posto.
«Non mi piace la compagnia, ho voglia di stare sola»
«Bugiarda. Sappiamo che ti piace stare con le persone chiacchierone ed estroverse, per questo il tuo posto era tra Giacomo e Vincenzo»
Astrid si voltò e osservò il ghigno sul volto di Max.
«Ci avete spiato?»
«Certamente. Lo abbiamo fatto per un bel po’ di tempo, tanto da considerarvi i partecipanti adatti»
Il pensiero di essere stata osservata per un sacco di tempo le fece venire i brividi, la fece sentire vulnerabile e nuda, troppo esposta.
«Al tavolo si stanno formando delle alleanze per sopravvivere e tu e Lucas ne siete fuori. Sarete i primi loro obiettivi»
Astrid alzò le spalle riprendendo a dare piccoli morsi a quel delizioso muffin. Sentì Max allontanarsi e pensieri preoccupanti cominciarono a invaderle la mente. E se avesse ragione? E se lei fosse il loro primo obiettivo perché era sola? Forse doveva allearsi con qualcuno, ma allearsi significava fidarsi e in quel fottutissimo gioco non esisteva la fiducia. Un amico potrebbe uccidere nel sonno un suo alleato perché alla fine ne deve rimanere uno solo. Un unico sopravvissuto, non ci sono eccezioni. Finì il muffin convinta della sua scelta, sapeva di poter contare solo su se stessa.
«Perché non stai cenando con gli altri?»
«Perché non mi piace la compagnia»
Max sorrise e si appoggiò con una spalla alla parete guardando il ragazzo.
«Al contrario di Astrid, so che tu dici la verità. Ti piace stare da solo, va bene, ma sappi che al tavolo stanno nascendo le prime alleanze e tu ed Astrid ne siete tagliati fuori. Sceglieranno voi come primi obiettivi perché siete soli. Io alzerei il culo e andrei a trovarmi qualche compagno»
Lucas scosse la testa mandando giù un altro boccone di cheescake al cioccolato (cavolo se Astrid ha buon gusto in fatto di dolci!) e sollevò il viso.
«Possiamo farcela anche da soli, abbiamo corpo e cervello»
«Forse, ma c’è chi ha più corpo di voi e chi più cervello»
Lucas lanciò un’occhiata al tavolo: Roberto era il più grande, aveva venticinque anni e lo aveva sentito dire che praticava boxe da quando ne aveva dieci, era un colosso e aveva sicuramente un fisico più forte del suo; poi c’era Jessica, che con quegli occhi vispi e il viso furbo, era sicuramente la persona con più cervello.
«Un corpo senza cervello non si muove, un cervello senza corpo non può muoversi»
Max uscì dalla sala imprecando, ma nessuno lo sentì, erano tutti troppo impegnati nelle loro cose.
Lucas guardò Astrid, voltata di spalle, e pensò se era abbastanza forte da potercela fare da sola: aveva un fisico allenato, gambe ben sviluppate, forse era una velocista o faceva pallavolo, sotto la maglietta sottile si intravedevano i muscoli della schiena e delle spalle allenati, forse faceva anche lei tiro con l’arco, ma ne dubitava data la postura ingobbita che aveva in quel momento.
«No, non posso» si disse. Aveva cominciato a pensare alle persone dentro quella stanza come dei nemici, li aveva osservati e analizzati, stava calcolando le probabilità di sopravvivenza di ognuno. Stava entrando nel gioco e lui non voleva; aveva pensato di rimanerne fuori evitando di uccidere (ed evitando di essere ucciso, possibilmente).
Finì il suo dolce pensando a casa, a quello che la sua famiglia stava facendo in quel momento.
   
 
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