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Autore: Roberto_Yoda    19/05/2009    1 recensioni
Un ultimo addio tra vittima e carnefice. Nei capitoli successivi a quelli della vicenda di Hitomiko, Naraku riceve una visita da un fantasma del passato, rivive eventi da tempo trascorsi ...
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kikyo, Naraku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ancora episodio 87

Ancora episodio 87.

 

Glossario.

 

Sòzu: la decorazione dei giardini giapponesi che si vede in molti anime.

Si tratta di quella canna di bambù collegata con un perno a un paletto infisso nel terreno. Un getto d'acqua riempie la parte mobile che per il peso ruota verso il basso, scaricando l'acqua accumulata all'interno. Alleggerita del peso dell'acqua, la canna ritorna alla posizione originaria, mentre l'estremità percuote una pietra producendo un suono secco.

Meioujuu: demone tartaruga come quello da cui fu estratta la corazza di Mouryoumaru.

 

 

 

Il passo di Kikyou è lento e cadenzato. Un piede davanti all’altro. Monotono e ripetitivo come il battito di un Sòzu. E può essere davvero faticoso, persino in un corpo che non avverte la stanchezza.

 

Ha capito che lottare contro quel che le è accaduto è cosa priva di senso. L’ha capito una volta per tutte quella notte, sotto il Goshinboku, quando si è sottratta all’abbraccio di Inuyasha.

 

Chi sono io? Che cosa sono?

 

Io sono Kikyou, ripete in continuazione alle tamashii delle donne dentro di lei.

Ma è una bugia addirittura ridicola.

 

Inutile combattere una battaglia che non può essere vinta. Perciò ha deciso. Che il destino faccia di lei quello che vuole.

Non si opporrà, non si lamenterà, non protesterà; non griderà più dentro di sé.

Qualunque cosa il Fato che le chiederà di fare, farà.

A qualunque cosa le verrà chiesto di rinunciare, rinuncerà.

 

Così, almeno, questo tormento avrà una fine, prima o poi.

 

Un passo.

 

Nonostante abbia deciso, a volte sente fremere il cuore che più non possiede.

Le capita ancora di svegliarsi col nome di lui sulle labbra.

Di essere tormentata da sentimenti che sono per i vivi, e che i morti non hanno ragione di provare.

 

Ma adesso ha imparato come fare. Quando le succede, non deve far altro che liberare la Furia che la abita. Il suo fuoco allontana il bisogno, il desiderio, il rimpianto. La cauterizza, la ripulisce e le permette di affrontare il giorno che la aspetta.

 

E’ una cosa buffa. Una di quelle amare ironie di cui la morte si diverte a farle dono di tanto in tanto.

 

Da quella notte, Kikyou ha imparato a usare l’odio inestricabilmente intrecciato a quanto resta della sua tamashii, allo stesso modo in cui, da viva, usava il suo addestramento di miko per svuotarsi dalle emozioni e mantenere la sua anima in uno stato di sereno distacco dal mondo e da tutto ciò che le stava attorno.

 

Ho corso così tanto e così lontano da ritrovarmi al punto da cui ero partita. Proprio come ero un tempo; solo, completamente diversa.

 

Un passo.

 

Sono passati dodici giorni da quando Naraku è svanito nel nulla. Prima, ovunque fosse, lei era in grado di percepirne la presenza. D’un tratto, il suo youki è scomparso. Eppure, Naraku non è morto. Perciò dov’è, e soprattutto, cosa starà architettando?

 

Alla scomparsa di Naraku, lei ha capito subito che cosa la aspettava. Quella stessa notte, era partita per raggiungere il palazzo nel quale il suo assassino dimorava sotto le mentite spoglie del daymio Kakewaki. Aveva trovato la reggia semidistrutta, il suolo scavato da solchi profondi che si aprivano come un ventaglio … solchi lasciati dalla spada di Inuyasha, Tessaiga.

 

Si era svolta una battaglia di grande violenza. Naraku sembrava avere subito una sconfitta ed era fuggito.

 

Mentre stava in ginocchio, esaminando le tracce, esplorando e vagliando le energie lasciate dagli youki di coloro che avevano combattuto – e, sì, c’era qualcun altro, uno youki che gli aveva ricordato quello di Inuyasha per certi aspetti ed era del tutto differente per altri – mentre immagini e suoni quasi si materializzavano ai suoi sensi, il dito ghiacciato della preveggenza le aveva sfiorato la nuca, facendola rabbrividire.

 

Non avrebbe più riposato in un villaggio, fingendosi una miko qualunque e traendo qualche ora di pace posticcia occupandosi dei malati e dei feriti, o anche solo più semplicemente facendo il bucato al fiume, spazzando il sagrato del tempio, svolgendo qualche semplice cerimonia religiosa.

 

Naraku si era mosso. Il suo destino, ora, l’avrebbe condotta a calpestare le orme in fuga del suo assassino.

 

Questo il comando che aveva udito nella musica del Fato.

 

Un altro passo.

 

Da lì, il suo proposito.

 

E sia. Lo farò. Rinuncerò. Non importa. Nulla importa, se non arrivare alla fine, una fine qualsiasi.

 

Poi. Riposerò poi.

 

I suoi shinidamachu volano ai quattro punti cardinali, ma tornano sempre senza poterle riferire nulla su Naraku.

A ogni villaggio e assembramento di capanne, si ferma quanto basta per sapere se ci sono notizie o voci su youkai apparsi all’improvviso, e indaga minuziosa, pur sapendo quasi con certezza che le sue ricerche non la porteranno a niente.

 

Oggi i suoi passi l’hanno guidata fino a una squallida palude, dalla vegetazione spoglia e dal fetore pungente.

Ha abbattuto un potente meioujuu, la cui corazza era talmente dura da respingere persino le sue frecce sacre. Nessun segno del suo assassino.

 

Un passo.

 

Sta per oltrepassare il tronco di una quercia robusta, quando un vecchio con un occhio solo e un lungo pugnale trattenuto con entrambe le mani malferme, le sbuca di fronte all’improvviso dal suo nascondiglio dietro l’albero.

 

Si ferma, fissandolo tranquilla.

Un uomo malato, le ossa deformate dall’età, la cui vita sta gocciolando via dal corpo.

 

“Gli abitanti del villaggio ti hanno dato una ricompensa molto ricca per aver distrutto lo youkai, non è vero, miko? La voglio.”

 

Kikyou sorride appena. “Una ricompensa? Nulla del genere; no.

 

“Non importa. Qualunque cosa. Tutto il denaro che hai. Dammelo subito!”

 

La voce di lei sgorga composta e distante come da una fredda sorgiva montana.

“Non ho denaro con me.”

 

L’occhio del vecchio brilla di astuzia, lucido come quello di un uccello.

 

“Non mentire. Non ci sono templi abitati qui attorno. Stai viaggiando senza bagagli. E’ impossibile che tu non abbia neppure una moneta, miko.

 

Kikyou allarga le braccia, impassibile. “Se credi che ti stia ingannando, perquisiscimi pure.

 

Il vecchio esita, mentre permette al dubbio di incrinare la sua certezza. “Non dirmi che mangi nebbia per sopravvivere!”

 

“Sì. Si potrebbe dire così.”

 

Il vecchio sussulta, schiacciandosi il palmo di una delle mani sul petto. Trema e il volto e le braccia si imperlano di sudore. China la testa, agitando l’altra mano.

 

“Ah. Vattene. Vai via.”

 

Le ginocchia gli cedono, e l’uomo si affloscia in direzione della quercia, appoggiando la schiena al tronco, appena un momento prima di cadere a terra. Si siede, respirando affannoso.

 

Kikyou fissa l’uomo con attenzione, senza accennare a muoversi.

 

“Cos’è, non ci senti?” ringhia il vecchio. “Levati di torno.

 

Che vai cercando in questi luoghi sperduti, vecchio bandito?”

 

Il vecchio si stringe nelle spalle. Sembra risoluto a non aggiungere altro, ma ombre si agitano dietro il suo sguardo.

 

“Ho più di settant’anni.” Si risolve a risponderle con voce debole, spezzata da colpi di tosse secchi e insistenti. “Davvero tanti. Troppi. Ma non posso morire, ancora. C’è qualcosa di importante che mi aspetta. ”

 

Cosa? Cosa hai intenzione di fare nelle tue condizioni?”

 

Tossendo con sempre maggiore violenza, risponde. “Trovare un luogo adatto per la mia morte.

 

Con un ultimo rantolo, perde i sensi e si accascia.

 

Kikyou sospira e una piega amara le incurva le labbra, mentre si prepara ancora una volta a occuparsi di un imprevisto fardello.

 

 

 

C’è un prato e c’è una ragazza.

 

Il prato è ancora rigoglioso nonostante l’autunno sia ormai alle porte, l’erba alta è ricca di una speciale sfumatura di verde che sembra gridare la propria salute. L’aria è profumata e pulita dopo la pioggia dei giorni scorsi. La terra è morbida e fresca.

In un giorno così, si può trarre lo stesso piacere sia correndo senza meta fino a sentire i fianchi in fiamme, sia sdraiandosi a schiacciare un pisolino su questo giaciglio così invitante.

 

La ragazza non ha intenzione di fare nessuna delle due cose. Sta invece raccogliendo alcune erbe, come fa spesso, e le sta riponendo in una cesta di vimini intrecciata.

 

Le dita affusolate attorno a uno stelo, inginocchiata, è immobile come una statua, la mente lontana, cullata dal frinire continuo, quasi ipnotico, delle cicale.

 

Inuyasha è partito da tre giorni. Le ha detto che voleva andare in un posto, senza precisare dove o perché, e che sarebbe stato di ritorno in una settimana, all’incirca.

 

Kikyou si era accorta che era in imbarazzo e non voleva dirle quel che gli era venuto in mente di fare, ma che gliel’avrebbe detto comunque, se lei avesse insistito; cosa che naturalmente non aveva fatto.

 

Solo qualche giorno.

 

Eppure in questi pochi giorni le è accaduto qualcosa di insolito.

 

E’ diventata tesa, inquieta, distratta, perfino, lei che non la è mai.

 

Non si era mai resa conto di quanto potesse essere mutevole, il tempo che scorre.

 

Nella sua vita, e in particolare da quando era diventata una miko, il tempo era sempre stato una costante uniforme; scorreva placido, ogni ora della medesima lunghezza di quella che l’aveva preceduta e di quella che l’avrebbe seguita. Come era logico e naturale.

 

Ma da quando c’è Inuyasha.

Le ore passate assieme a lui, a ridere, a camminare, a stare seduti vicini, a … imparare? … si riducono a fuggevoli minuti.

 

E ciascuno di questi giorni, è l’agonia di un’eternità.

 

Ancora quattro giorni. E se non dovesse tornare?

 

Allontana il pensiero come farebbe con una mosca molesta, e, riscuotendosi, si accorge con grande dispetto di essere rimasta incantata, forse perfino per qualche minuto, del tutto dimentica di quel che stava facendo.

 

Una ruga verticale fa capolino tra le sue sopracciglia. Stacca con un movimento deciso del polso lo stelo, si alza, il cesto trattenuto con un braccio, e rassetta svelta la piega dell’hakama, sgualcito dalla posizione inginocchiata.

 

Chiude gli occhi, levando il volto pallido e lasciando che il sole glielo accarezzi un momento.

 

Taglia diagonalmente il prato; l’erba le fruscia attorno alle gambe.

 

Raggiunge il sentiero che costeggia il fiume, impetuoso dopo le recenti piogge che hanno reso l’aria frizzante, nonostante il calore di queste ultime giornate estive. Presto la pioggia avrà la meglio del caldo, e l’autunno inizierà sul serio.

 

Finisce anche questa estate che ha visto così tante cose cambiare.

 

Cammina decisa, lo sguardo ben puntato in avanti. Un suono le sfiora l’orecchio. Forse un sibilo? Eccolo di nuovo. No, non un sibilo. Un gemito. Una specie di lamento.

Viene proprio dalla riva del fiume. A poche decine di metri di distanza, da un folto assembramento di canne di bambù alte quasi quanto lei. Posa a terra il cestino, vi si avvicina, mentre estrae il corto pugnale dalla manica dell’hitoe.

 

Di nuovo il gemito si fa sentire, più forte. E’ umano; comunque, sembra esserlo. Kikyou usa il pugnale per tranciare alcune delle canne di bambù più robuste che le intralciano il passo, si fa strada tra la vegetazione, le sue vesti troppo larghe e inadatte a questi ostacoli naturali si impigliano, si lacerano in alcuni punti, i suoi sandali fanno un rumore liquido sul terreno trasformato in acquitrino dalla vicinanza del fiume, le sue calze si impregnano d’acqua, trasmettendo al suo corpo scaldato dal sole una sensazione sgradevolmente fredda.

 

Il sipario del bambù lascia il posto a un tratto di terra spoglia molle e bagnato. Kikyou non riesce a trattenere un’esclamazione.

 

Ha assistito molti infermi nella sua giovane vita.

Le guerre si susseguono, e tanti sono i feriti e i mutilati che hanno bisogno delle sue cure.

Le malattie sono numerose, alimentate dalla fame e dalla disperazione.

 

Ma questo.

 

In tutto il Giappone, per quanto lei ne sappia, gli incendiari sono condannati alla morte.

Poiché gli incendi crescono incontrollati, mangiandosi ciecamente le case fatte di legna e paglia, e domarli non è mai semplice e costa sempre vita, in un modo o nell’altro.

Nonostante le precauzioni, gli incendi scoppiano. Le è già capitato di curare ustioni, anche gravi, di quelle che portano alla morte.

 

Ma questo.

 

Mai ha visto un uomo così consumato dal fuoco.

 

L’uomo è steso a faccia in giù. Il corpo è in parte coperto di fango fresco, in parte da stracci bruciacchiati che un tempo potevano essere dei vestiti.

 

La pelle. Ne è rimasta così poca! E il corpo è rosso. Rosso e nero. Il cranio nudo, su cui si arricciano ancora quelli che erano capelli e ora sono solo peli anneriti e contorti.

 

Kikyou avverte in gola il sapore del pranzo leggero che ha consumato. E’ costretta a chiudere gli occhi mentre attinge a ogni briciolo del suo addestramento di miko per allontanare la nausea che le appesantisce lo stomaco e le membra. Le sue viscere protestano per alcuni secondi, prima che lei riesca a ordinare loro di acquietarsi.

 

Riapre gli occhi ed è raggiunta dalla conferma di quel che già sapeva. L’uomo geme di nuovo, muove debolmente le dita nel fango.

 

Come può essere ancora vivo? Impossibile. Impossibile!!

 

Copre di corsa il breve tratto che la separa dall’uomo, si getta in ginocchio nel fango, e gli solleva con la massima delicatezza possibile la testa.

 

La palpebra priva di ciglia dell’unico occhio sopravvissuto nello sfacelo del volto dello sconosciuto, cerca a fatica di alzarsi.

 

Kikyou sente il cuore trafitto dalla pena. La faccia dell’uomo è rotta in più punti, molti denti spezzati, come se fosse stato percosso o fosse precipitato.

Ma quando la palpebra dello sconosciuto trova la forza di sollevarsi e mostrarle quel che nasconde, le sue mani quasi si allontanano di scatto come se si fosse accorta solo ora di stare maneggiando una teiera bollente.

 

Fuoco.

 

Fuoco che lo consuma. Fuori. E dentro.

 

L’uomo è solo in parte cosciente. L’occhio non la vede. E lei per questo prova sollievo, come la lepre nascosta in un cespuglio che sente allontanarsi la muta dei cani che le danno la caccia.

 

E un pensiero di estrema chiarezza la illumina.

 

Trascinalo fino al fiume. Per i talloni, prendilo per i talloni. Infilagli la testa sott’acqua. Almeno dieci minuti. E poi riconsegnalo alla corrente che l’ha portato fin qua. Nessuno lo saprà mai.

 

Orripilata, scuote la testa guardandosi attorno, come alla ricerca di colui che le ha pronunciato tali parole malvagie all’orecchio.

 

Nessuno.

 

Lei stessa.

 

Un uomo che così tenacemente si aggrappa alla vita. Un uomo in cui il fuoco di quella che sembra essere follia, ma non la è, brucia tanto intenso da tenere lontana persino la morte che avrebbe reclamato chiunque altro. Un uomo che neppure la morte vuole. E’ un uomo che fa paura. Perfino ridotto in questo stato.

 

Kikyou comprime rabbiosa le labbra in una linea sottile. Come può permettere a pensieri del genere di affiorarle alla mente, davanti a un proprio simile ridotto in uno stato di tale sofferenza? Non si è mai vergognata di se stessa tanto come in questo momento.

 

A ogni modo chiude la palpebra dell’uomo con un lieve movimento del pollice – solo per proteggergli l’occhio – prima di posare piano la testa e ispezionare con mani esperte il corpo del ferito.

 

Quel che scopre la sconvolge ancora di più.

 

Fratture.

 

Alcune costole rotte. Ma nessuna ha perforato i polmoni; altrimenti, coriaceo o no, sarebbe già morto. Le braccia e una gamba spezzate. E la schiena …

La schiena è rotta.

Ne è quasi certa. Quest uomo non camminerà mai più.

 

Si china ancora di più, annusando. All’apparenza, non c’è odore di putrefazione o di infezione.

Incredibile. Com’è possibile?

Non lo sa. Non importa.

 

Cosa fare? E’ un uomo pesante. Le condizioni delle sue ferite rendono rischioso spostarlo.

Goccioline di sudore si formano sulla fronte di Kikyou. Se le asciuga con un gesto spiccio della mano, sporcandosi il viso del fango che le appesantisce i vestiti.

 

Vorrebbe tornare al villaggio a chiedere aiuto a qualche uomo robusto, ma non se la sente di abbandonare lo sconosciuto al suo destino. Il villaggio dista più di mezz’ora di marcia.

 

La vecchia cava abbandonata.

 

Sì, adesso ricorda.

La cosa migliore è, innanzi tutto, portarlo al sicuro alla vecchia cava. Fortuna vuole che sia a non più di duecento metri in linea d’aria dal punto in cui si trovano.

 

Kikyou taglia svelta alla base le canne del bambù, così da creare un sentiero che possa portare il ferito fuori dalla macchia della vegetazione.

Poi, con qualche strattone deciso, strappa le maniche del suo hitoe, ricavandone lunghe strisce di tessuto da utilizzare, assieme al bambù, per steccare la gamba e le braccia dell’uomo.

 

Pur con tutta la cura possibile, non appena Kikyou prende a manipolare una delle braccia dello sconosciuto, questi lancia un urlo roco, perdendo del tutto i sensi. Le fratture non sono composte, ma lo sforzo necessario a riallineare i monconi delle ossa è tale che, quando ha finito le steccature, Kikyou avverte le prime fitte di stanchezza.

 

Raggiunge in fretta la cava, ne esplora la penombra alla ricerca di qualcosa di adatto, fino a quando trova una vecchia, sporca tavola di legno abbastanza grande e solida da poter reggere il corpo del ferito.

Tirando e strattonando, ignorando le schegge che le pungono i palmi delle mani, torna dall’uomo svenuto e con attenzione, provando a muoverlo il meno possibile, ne sposta il corpo adagiandolo sulla barella di fortuna.

 

Inclinando appena la tavola, cerca un percorso che non sia sconnesso.

La schiena piegata, la testa torta per vedere dove mette i piedi, i lunghi capelli, di solito così in ordine e adesso scarmigliati, a sfiorare quasi in terra, prende a camminare all’indietro, trascinandosi appresso il ferito.

 

 

Dopo avere depositato l’uomo all’interno della cava, Kikyou, nonostante le braccia che bruciavano, non si era concessa riposo, ben sapendo che la fatica le sarebbe piombata addosso, se si fosse fermata.

 

Fradicia di sudore, era tornata a passo svelto verso il villaggio e aveva intercettato Kaede che si allenava col piccolo arco al suo solito posto a poca distanza dal Goshinboku.

 

Dopo aver tranquillizzato la sorella, spaventata nel vederla ridotta in quello stato, l’aveva mandata alla capanna a procurarsi bende di lino, panni, svariate erbe medicamentose, un grosso recipiente per l’acqua e una Chihaya di ricambio avvolta in un fagotto.

 

Nonostante le insistenze di Kaede, era ripartita da sola. Non aveva alcuna intenzione di permetterle di vedere l’orrendo spettacolo del ferito.

 

Quindi aveva cominciato a prendersene cura sul serio.

 

Aveva staccato con la massima attenzione, quei pochi frammenti di tessuto che potevano essere tolti dal corpo dell’uomo senza strappare le parti di pelle sana sopravvissuta al morso del fuoco.

Nonostante la fibra straordinariamente resistente, l’uomo era sprofondato in uno stato di incoscienza per il quale avrebbe dovuto ringraziare i Kami.

 

Aveva lavato il corpo nudo dello sconosciuto. Rimosso lo strato di fango e sporcizia, era rimasta stupita dall’apparente casualità con la quale il fuoco aveva giocato con la sua vittima.

 

Alcune porzioni di pelle erano quasi intatte, mentre altre erano state del tutto divorate.

Quando gli aveva pulito la schiena, le pupille le si erano dilatate nel vedere una bruciatura ovale e frastagliata dalla quale promanavano, con la precisione dei raggi di una ruota, otto propaggini simili a zampe … come le zampe di un ragno.

 

Rifugiandosi nel distacco frutto di anni e anni di addestramento meditativo da miko, era riuscita a finire di lavarlo.

Poi aveva macinato le erbe per bloccare le infezioni e dare sollievo alle ustioni con acqua, fino a farne una poltiglia con la quale aveva cosparso il ferito. Infine lo aveva avvolto nelle bende di lino. Quando aveva finito, lo sconosciuto sembrava quasi una mummia.

 

Era corsa al fiume ancora una volta, aveva riempito il recipiente e aveva costretto l’uomo a riprendere i sensi quanto bastava da fargli bere più acqua possibile e combattere la disidratazione delle bruciature.

 

Poi si era seduta appoggiando la schiena alla parete della cava, il gomito sul ginocchio, le dita a massaggiarsi pian piano le tempie. Le energie l’avevano abbandonata d’un botto, lasciandola svuotata nel corpo e nella mente. Tremando, si era stretta addosso le vesti, mentre il freddo e l’umidità della grotta le gelavano il sudore sulla pelle.

 

 

Forse riuscirà a sopravvivere, per un po’.

Sapere di essere l’unica persona nel raggio di molte miglia, dotata di sufficienti conoscenze mediche da salvargli la vita, la riempie di una soddisfazione agra. Che razza di vita gli ha mai dato da vivere? Ma non avrebbe potuto comportarsi diversamente.

Si morde il morbido labbro inferiore. Vero?

 

Persa nei pensieri, alza la testa di scatto, colta di sorpresa, quando sente la sua voce. Una voce debole, come se il fumo dell’incendio che l’ha quasi ucciso gliel’avesse arrochita per sempre.

 

Miko.”

 

Solo una parola. E’ stupefatta che l’uomo abbia ripreso conoscenza.

L’occhio dello sconosciuto brilla nella semioscurità, fissandola.

D’istinto, incapace di pensare, Kikyou si passa le dita tra i capelli aggrovigliati.

 

E l’uomo fa una cosa stranissima, imprevista, incomprensibile. Le labbra piene di croste si schiudono, i denti spezzati e torti come radici d’albero scintillano. Sorride?

 

Kikyou si vede all’improvviso col suo sguardo.

 

Una donna sconosciuta, una giovane miko, sporca di fango da capo a piedi, le maniche dell’hitoe strappate fino alle spalle, i vestiti bagnati incollati addosso, il viso sfatto di stanchezza, gli occhi dilatati dalla sorpresa, con le dita infilate nella massa arruffata dei capelli.

 

Kikyou porta subito le mani in grembo, stizzita dal suo gesto istintivo, voltandosi verso di lui.

La mezzaluna del suo sorriso non esita un momento.

 

“Non sforzatevi di parlare. Siete gravemente ferito. Dovete riposare.”

 

“Ferito. Sì. Dove mi trovo, miko?”

 

“In una vecchia cava. Vi ho trovato in riva al fiume qualche ora fa. Vi ho …”

 

La zittisce, brusco come un colpo di spada. Per quanto fioca, la voce è pressante.

 

“Chi sa che sono qui, miko?”

 

Strana domanda.

 

“Nessuno. Non ho ancora avuto il tempo di …”

 

“Nessuno dovrà saperlo. Nessun altro. Sono stato chiaro?”

 

Perché?” ribatte lei.

 

L’uomo non ha esitazioni a rispondere.

 

Poiché sono un pericoloso brigante, e molti mi danno la caccia per vendicarsi su di me e uccidermi. Se dovesse spargersi la voce che giaccio qui, ferito e impotente, non sopravviverei più di qualche giorno. Dunque, tutto il disturbo che ti sei presa per trattenere la vita in questa carcassa di corpo, e senza che io te l’avessi chiesto, sarebbe stato inutile. Se dirai a qualcuno che mi hai trovato, allora meglio sarebbe stato se avessi deciso tu stessa di tagliarmi la gola, piuttosto che curarmi, quando mi hai trovato.

 

Kikyou rabbrividisce sentendosi per un secondo assurdamente in colpa.

 

“Ho capito. Farò come volete.”

 

L’uomo resta in silenzio, soppesandola.

 

“Avrete fame. Posso portarvi qualcosa …”

 

“No. Non ho voglia di mangiare. Piuttosto. Dimmi come ti chiami.”

 

“Il mio nome è Kikyou. E voi, come vi chiamate?”

 

Lo sconosciuto alza la testa per quanto possibile, con un grugnito che le sembra di sorpresa.

 

“Ho capito bene? Come hai detto che ti chiami?”

 

“Kikyou.”

 

“Bene. Oh bene. E io, sono Onigumo.”

 

Onigumo scivola in un sonno esausto.

 

Kikyou sospira. Anche lei è molto stanca. E preoccupata a causa del nuovo fardello che il destino le ha affidato.

 

Si accorge che le ore sono volate vie rapide, oggi. I raggi del sole passano attraverso l’entrata della cava informandola che è pomeriggio avanzato.

 

Sfiora il fagotto che protegge la sua Chihaya pulita. Tutto d’un tratto, sorride nel buio della grotta.

 

Dove hai intenzione di fuggire!? Ti ritroverò ovunque tu vada!! E’ inutile che provi a scapparmi!

Ti troverò subito! Con quella puzza di sangue youkai che hai tutt’addosso! Mi hai sentito!? Ehi!? Mi hai sentito … Kikyou?!

 

Prende tra le dita un lembo di quel che resta dell’hitoe stracciato, arricciando il naso.

 

Non smette di sorridere mentre afferra il fagotto, si alza, la fatica recede e, solo Inuyasha nella testa, abbandona la grotta e il suo cupo ospite per raggiungere la cascata.

 

 

 

 

Cammina, con il cibo e le medicine che ha preparato per il brigante.

 

L’eco dei suoi passi riempie i corridoi altrimenti deserti. Un vecchio tempio buddista abbandonato, ormai assediato da alberi e vegetazione e che presto – solo alcuni secoli – dovrà cedere le armi ai suoi silenziosi, pervicaci invasori.

 

Apre la porta. Il brigante è sdraiato a terra, su una coperta stesa sul pavimento freddo. Un piccolo involto è ripiegato a mo’ di cuscino sotto la sua testa.

 

Si inginocchia vicino a lui, facendo scivolare la polvere medicinale in una tazza d’acqua.

 

“Ecco. Bevi questo. Diminuirà il dolore.”

 

Il vecchio tiene lo sguardo fisso nel vuoto. “Perché mai aiuti una persona come me?”

 

“Non hai finito la tua storia.”

 

Il brigante piega le labbra in quello che è forse un sorriso; e beve.

 

“Trovare un posto adatto per morire. Già.”

“Negli anni della mia giovinezza, commisi ogni sorta di malvagità. Omicidi, incendi, ruberie.

Kansuke Rasetsu, l’assassino pazzo. Sì. Era un nome conosciuto e che metteva paura …”

“Allora ero convinto che sarei vissuto per poco, in ogni caso. Non mi importava, e decisi di vivere la vita come la volevo, senza preoccuparmi d’altro.”

“E invece, sono sopravvissuto molto al di là di ogni mia aspettativa, mentre, poco per volta, accanto a me, morivano tutti coloro che conoscevo. Non li chiamerò amici, poiché non li erano, così come io non lo ero per loro. Ma …”

“E’ una cosa strana. Ora che ho sono andato molto al di là degli anni che mi ero concesso, ho scoperto che lasciare andare la mia vita è molto, molto più difficile di quanto avrei mai immaginato. Adesso che ho assai meno da perdere rispetto ad allora. Ma questa è una cosa che una donna giovane come te non può capire, anche se è una miko.”

E ho paura. Paura del giudizio che sarà dato su di me.

 

Kansuke sospira.

 

Messa da parte la tazza, Kikyou rimesta tranquilla la ciotola con quel po’ di zuppa di rape che ha cucinato e gliene porge una cucchiaiata, imboccandolo.

Istintivamente, gli dà un colpetto col cucchiaio sotto il labbro inferiore, come si fa coi bambini per impedir loro che si sporchino il mento.

 

Vecchi. Bambini. Simili in tante cose. Le viene naturale, fare il possibile per proteggere quel poco di dignità che resta a questo vecchio. A qualcuno che, sì, proprio come lei, ha corso così a lungo, da ritornare al punto in cui era partita la propria vita. Uguale e differente.

Solo un bambino, gli occhi terrorizzati, sgranati a fissare un buio ignoto.

 

Un lampo di rabbia scuote all’improvviso Kansuke.

 

“Ah! Tanto tempo fa, promisi a me stesso che non avrei mai più accettato la pietà di una miko! Tieniti il tuo cibo, e vattene!”

 

Kikyou gli offre un’altra cucchiaiata della zuppa, come se non avesse udito. La sua voce è un quieto sussurro.

 

“I bambini, dall’alto della loro innocenza, e coloro che sempre sono convinti della giustezza del proprio pensiero, dal basso della loro presunzione, amano sopra ogni cosa la giustizia, poiché sanno che amministrarla è un giusto diritto e un necessario dovere.”

“I vecchi, dall’alto della loro saggezza, e coloro che macchiano le loro anime con azioni crudeli, dal basso della loro iniquità, amano sopra ogni cosa la misericordia, poiché sanno di averne grande bisogno.”

E tu, vecchio brigante, dimmi. Cosa pensi delle facili consolazioni? Negli anni della tua giovinezza, come avresti giudicato un vecchio che ti avesse parlato come fai tu ora?”

 

Kansuke ridacchia, spiazzato.

 

“Parli stranamente, per essere una miko, giovane donna. Ho sempre disprezzato i vecchi che, quando sentono la morte bussare, tremano e piangono per sfuggire al loro passato. Eppure …”

 

Esita.

 

“Adesso non so più che pensare. Oh, quanto odio questi anni che appesantiscono il mio corpo! Sono davvero uno stupido vecchio, non è vero?”

 

Le labbra di Kikyou si piegano in un sorriso appena accennato.

 

“Di tutte le cose che credevo di sapere, Kansuke Rasetsu, ben poche ne restano. Non so se sei uno stupido. So però, che è bene che un essere umano muoia senza portare nel cuore rimpianto, terrore e odio. Gli occhi di lei scintillano sarcastici. “Perciò è giusto combattere per liberarsene, finché c’è vita. Perché quando questa è perduta, Kansuke Rasetsu, tornare sui propri passi non è più possibile, per quanto lo si possa desiderare.”

“E sicuramente è molto più sciocco negarsi alla lotta, per restare fedeli a ciò che eravamo e per timore del giudizio di coloro che mai più saremo. Sì. Di questo son certa.”

 

Kansuke fissa sorpreso quegli occhi di donna così distaccati, e per un attimo gli pare di scorgervi un dolore disperato quale mai avrebbe pensato possibile, in una persona così giovane. E qualcosa di niente affatto familiare, e che assomiglia a quella che, forse, altri chiamano pietà, bussa alla sua porta.

Ma lui non ha proprio voglia di aprire.

 

Per distrarsi, butta lì un’osservazione per caso.

 

E dire che tu assomigli davvero tanto a quella miko!”

 

“A chi?”

 

A una miko che … sì, che cercai, senza riuscire, di uccidere. L’allora custode della Shikon no Tama. Si chiamava … Kikyou, se non sbaglio.”

 

“Una pura coincidenza.”

 

Ma certo! Ti parlo di cose successe più di cinquanta anni fa. Se fosse ancora viva, ormai sarebbe una vecchia! In ogni caso, morì tanto tempo fa. Almeno, questo udii raccontare. E assieme a lei, fu distrutta la Shikon no Tama.”

 

Restano in silenzio.

 

“E così, una volta cercasti di impadronirti della Shikon no Tama?”

 

“Sì! Me lo suggerì un brigante come me, chiamato Onigumo.

 

Di nuovo, Kansuke vede il distacco infrangersi negli occhi della donna. Come sassi gettati in pozze d’acqua placida.

E la pelle gli si accappona, come quando si sveglia di notte e non riesce a respirare e cerca di sollevarsi per trovare l’aria ma non ce la fa e sibila e si dice che sì è arrivata stavolta la sua ora ma maledizione ha paura e non vuole perché …

E poi i polmoni si ricordano come funzionare e – non stanotte. Anche questa notte passerà.

 

“Racconta.” Dice la miko, con un tono imperioso e pressante.

 

Così, Kansuke si lascia andare ai ricordi. Come gran parte dei vecchi, per quanto possa dimenticare le cose del giorno precedente, ricorda alla perfezione fatti e avvenimenti di anni lontani.

 

Di come Onigumo gli avesse suggerito di uccidere a tradimento la miko, tendendole un agguato solitario così che non si accorgesse dell’arrivo in massa della sua banda e non potesse fuggire con la Shikon no Tama. Di come l’hanyou lo avesse quasi ammazzato. Di come i suoi uomini lo avessero subito dimenticato per seguire Onigumo. Dell’altra miko che gli aveva curato l’occhio e che lui aveva probabilmente ucciso per rabbia.

Di come si era vendicato su Onigumo, quando era riuscito a raggiungere i suoi uomini che, da quei pusillanimi vigliacchi che erano, avevano voltato la schiena al loro nuovo capo con la stessa facilità con la quale avevano abbandonato quello vecchio.

Di come il palazzo saccheggiato bruciava. Per chi era rimasto intrappolato dal fuoco, una morte rapida. Per chi era riuscito a fuggire, con tutta probabilità una morte un po’ più lenta, per fame o per mano dei numerosi banditi presenti nella regione. Oppure divorati da qualche youkai nascosto nell’oscurità dei boschi.

 

Ma Onigumo era sopravvissuto! Come avesse fatto a trascinarsi fuori da quell’inferno, per Rasetsu era ancora un mistero. Così, lo aveva fatto gettare giù in un baratro. Per una qualche ragione, non gli andava di toccarlo. Il fatto che, pur solo in parte cosciente, invocasse il suo nome in un sussurro, lo aveva incomprensibilmente riempito di paura.

 

La donna annuisce. Rasetsu la guarda, in attesa, ma la miko resta silenziosa, finché non decide di fissarlo a sua volta. Sembra turbata? Ma perché? Da eventi del passato che risalgono a ben prima che lei nascesse.

 

“So che ti attendi da me un duro rimprovero oppure un’assoluzione, Kansuke Rasetsu. Mi dispiace. Non posso darti nessuna di queste due cose. Se lo facessi, sarei una bugiarda.

“Chiedimi qualcos’altro.”

 

La miko sorride come se volesse scusarsi, e Rasetsu scuote il capo, perplesso. Non capisce cosa lei voglia dire. Di più, non vuole capirlo. La pelle delle braccia gli si increspa in bolle di pelle d’oca.

 

C’è più luce, adesso. Trapela dalle finestrelle oscurate dai rampicanti. La notte è finita. Rasetsu rabbrividisce, mentre un freddo che non è il freddo di questa stanza vuota gli rosicchia le ossa.

 

“Mi piacerebbe uscire da qui. Non voglio … restare nel buio.

 

La donna gli infila le braccia sotto il corpo e, senza sforzo apparente, lo solleva come fosse un fanciullo.

 

Rasetsu non può fare a meno di gemere per la sorpresa. Sì, il tempo ha asciugato e rinsecchito la sua carne, assottigliato le sue ossa, gli ha portato via il peso assieme ai suoi muscoli … ma, accidenti, non è diventato così leggero da poter essere sollevato tanto facilmente, meno che mai da una donna! E solo in questo momento si chiede come abbia fatto, lei, a portarlo fino al tempio, mentre era svenuto.

 

La miko lo conduce lungo i corridoi umidi, fino a emergere dall’edificio abbandonato per vedere il sole che sta albeggiando. Rasetsu rabbrividisce di nuovo. Il corpo della donna è tanto freddo!

 

Lei appoggia la sua schiena ad uno degli abeti nel cortile del tempio, restando poi in ginocchio vicino a lui.

 

“Ho sentito voci. Voci su un luogo di purificazione, tanto sacro che anche le anime dei criminali più incalliti possono essere redente.

 

Ecco. L’ha detto. Ridicolo! Sì, è proprio ridicolo, a cercare rifugio in queste cose, dopo averle derise tutta la vita. Vergogna, imbarazzo e disprezzo di sé gli premono sul petto, gli mordono il ventre.

Chissà come lo starà giudicando questa … questa ragazza, sì, in fondo non è altro che una ragazza.

Ma poi, ricorda le parole che lei gli ha detto non più di paio d’ore prima … è molto più sciocco negarsi alla lotta per timore del giudizio di coloro che mai più saremo

La miko aspetta che lui continui.

 

“E’ un tempio. Un tempio fondato da uno houshi morto tempo fa. Si dice che sia divenuto un Buddha vivente. Houshi Hakushin. E si dice che la terra lì attorno, sia talmente sacra da purificare i peccati di chiunque vi venga sepolto.

“Ah! Chissà, forse, se avessi conosciuto una donna come te nella mia gioventù, adesso non ne avrei così bisogno.”

 

“Vuoi essere salvato.”

 

E’ un’affermazione, non una domanda.

 

“Ho viaggiato sperando di raggiungere il Monte Hakurei, la montagna dove sorge il tempio. Ma ormai la vita mi sta lasciando.

 

Quindi?”

 

Kansuke Rasetsu sfodera il pugnale con il quale l’ha minacciata solo poche ore prima, e che lei – da non credere! – gli ha lasciato al fianco. Trattenendo la sparuta coda dei propri capelli con una mano, la recide con la lama affilata.

 

“Seppelliresti … questa ciocca di capelli al Monte Hakurei? Non ho il diritto di chiederti niente, ma…”

 

La vede assentire col capo.

 

Rasetsu si sente pervaso dal sollievo. Sa che la miko manterrà fede al proprio impegno. Ha già avuto modo di sperimentare quanto seriamente queste donne ottemperino ai propri doveri.

Così, finalmente, lascia che il buio che tanto lo spaventa si faccia avanti per reclamarlo. Ci sarà questa strana miko … sì, ci sarà lei … a badare a lui …

 

“Non so neanche il tuo nome!” esclama come per un ripensamento, mentre già il mondo si scolora attorno a lui.

 

“Il mio nome? Mi chiamo Kikyou.”

 

Kansuke Rasetzu sussulta, ma non ha più le energie per ridere o per stupirsi.

 

“Ah! Che … che brutto scherzo …”

 

E sprofonda nel buio per sempre.

 

 

Kikyou resta inginocchiata accanto al cadavere di Kansuke, la testa china. Fa per prendere la ciocca di capelli.

 

Le ruote del destino sono sempre in movimento. Così sta scritto.

 

Un verso strozzato, non sa se un singhiozzo, una risata, un grido, le sfugge di bocca.

 

Cosa vuoi? Cos’altro vuoi? Anche questo? Tocca a me? Perché!? Perché deve sempre toccare … a me!?!

 

Oh, quanto vorrebbe dare tutto in pasto alle fiamme! Sì! Sarebbe la cosa più giusta! Così è cominciato! E perché non fare finire tutto allo stesso modo?

 

C’è tanta legna.

Asciutta legna secca, legna viva degli alberi, vegetazione verde e piena di linfa. Potrebbe fare una catasta. Gettarvi sopra Rasetsu e dare fuoco a tutto quanto.

 

Può quasi sentire il ruggito assordante delle fiamme nella testa. Fiamme che accarezzano le carni con il loro tocco maligno, avvizzendole fino a ridurle in cenere.

E che dopo avere spolpato la salma, anneriscono le ossa bianche, fino a consumarle e renderle fragili, friabili. E non più bianche ma nere, nere!!

 

Kikyou si piega come se le mancasse l’aria e stesse cercando di respirare - quando respirare le era ancora necessario - gemendo d’orrore, tenendosi le spalle con le mani, le braccia incrociate sul petto, le palpebre serrate.

 

E perché no? Cos’è rimasto di lei? Del suo corpo? Solo un mucchietto d’ossa sbriciolate, un cumulo di cenere e di terra sepolcrale. Non si merita, lui, la stessa sorte?

 

Il dolore dal petto si allarga fino a invaderla tutta. Le tamashii delle donne morte si protendono verso il dolore, come i rami di alberi piegati dalla siccità verso la pioggia, bramando questa sofferenza selvaggia, nutrendosene ancora una volta, ancora una … per sempre … rivedendo, rivivendo di nuovo … rimpianto, perdita, rancore … ancora … e ancora …

 

Daccene ancora!

 

Basta! Basta così.

 

Farà ciò che il Fato vuole. E’ questo che le chiede? Va bene. Ubbidirà. E non consentirà più a se stessa di ribellarsi. Non più.

 

Con gesti lenti e deliberati, Kikyou sottrae la ciocca di Kansuke Rasetsu dalla sua presa irrigidita, e la ripone tra le pieghe dell’hitoe, quasi all’altezza del posto dove una volta c’era il suo cuore.

 

Dietro il tempio. Prima, ha visto che c’erano dei vecchi attrezzi arrugginiti. E anche vanga e piccone.

Kikyou va a prendere quel che le serve per adempiere il proprio dovere.

 

 

  
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