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Autore: KyraPottered22years    05/12/2016    4 recensioni
Dopo un drammatico evento che le ha scombussolato completamente la vita, Mayve abbandona il villaggio dove è cresciuta per andare a vivere con il padre e la sua gente. Ancora non sa di essere destinata a grandi cose, quando il suo cammino si incrocia con quello di Thorin Scudodiquercia e la sua compagnia. Ciò che ha sempre saputo è che a volte delle piccole cose cambiano il corso del futuro drasticamente. Ma ogni sua certezza si infrange nel Reame Boscoso, di fronte al sentimento che ha reso la sua esistenza difficile ancor prima della sua nascita. Di fronte a un bagliore freddo, a uno sguardo di ghiaccio, a un cuore di pietra che da centinaia di anni si rifiuta di ritornare ad amare.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haldir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Thranduil, Un po' tutti
Note: Lemon, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Flare of a Frozen Heart
                                        

 
Capitolo Secondo



Calò un silenzio in cui molti occhi confusi scrutavano  il Capitano e la forestiera.
Quell’immagine nella radura rimase immobile per una decina di secondi, poi Haldir ebbe la forza di distogliere lo sguardo da quello di sua figlia per rivolgersi alle truppe intorno a lui. Mayve si risvegliò da una specie di stato di trance quando l’elfo ordinò qualcosa in elfico. Senza esitazione, gli elfi eseguirono: andarono via di lì. Alcuni di loro si arrampicarono sugli alberi, altri sparirono fra gli spessi tronchi.
Adesso c’erano solo loro due, il canto elfico di sottofondo e quello splendido paesaggio a cingere le loro figure.
 «Mi spiace se la mia irresolutezza ti ha turbata, ma non mi sarei mai aspettato una tua visita.» Mayve studiò il suono della sua voce; era limpida, pacata e cortese. Le labbra si muovevano appena mentre parlava e i suoi occhi erano pieni di una luce che gli rendeva le iridi blu più chiare.
Gli sorrise timidamente. «Non vi dovete scusare, non ne avete nessuna colpa.» Le parole tremarono un po’, ma non avrebbero potuto fare altrimenti: un turbine di emozioni le scombussolavano la bocca dello stomaco e i polmoni, che facevano fatica a respirare.
 «Vieni, camminiamo.» La invitò a passeggiare al suo fianco e lei non se lo fece ripetere un’altra volta. Il terreno sotto i suoi piedi era morbido e quasi le sembrava un peccato calpestare quei fiori così belli.
 «Qual è il tuo nome?» Le chiese con gentilezza.
 «Mayve.» Rispose piano, scandendo bene ogni lettera.
 «E’ stata tua madre a chiamarti così?»
 «Non credo. Penso che sia… morta prima di poterlo fare.»
 «E’ un nome incantevole, comunque.»
Mayve lo ringraziò ed entrambi si guardarono per qualche secondo, studiandosi come se stessero davanti a un complesso dipinto da interpretare.
I primi raggi lunari arrivarono nella radura, illuminando d’argento le chiare cortecce degli alberi. Quel paesaggio aveva qualcosa di magico, paradisiaco. Così rilassante e accogliente da far piangere d’emozione chiunque avesse avuto un cuore in pena.
Sotto la luce della luna, il medaglione che Mayve portava al collo splendé, e riflettendo i raggi, catturò l’attenzione di Haldir, che ebbe un fremito al cuore alla vista dell’oggetto.
 «Questo me lo ha dato Alun pochi giorni fa.» Disse lei, capendo su che cosa si erano soffermati gli occhi dell’elfo. Entrambi smisero di camminare, sostando l’uno davanti all’altra.
 «Lo regalai a tua madre come promessa.» Allungò una mano e toccò il medaglione d’argento, lo aprì, scoprendo la gemma incastonata all’interno. «Avremmo dovuto essere una famiglia.» Chiuse il ciondolo e alzò gli occhi sullo sguardo scuro della giovane. «Non sai quante notti ho passato insonne, rimpiangendo quel futuro che non vi ho mai potuto dare.» E ciò che disse era l’aspra verità con cui aveva dovuto convivere per diciannove anni.
Quasi ogni notte dopo la notizia, Haldir vagava per la radura e il bosco per contemplare le stelle, ma esse non riuscivano a dargli conforto. C’era solo un sordo dolore al petto, qualcosa che faceva così male da togliergli il fiato, ma al contempo esso era così silenzioso da sembrare solo un’illusione.
Un peso asfissiante.
Un nodo alla gola che gli impediva di esprimere le sue emozioni.
E l’elfo si stendeva fra i fiori bianchi, ma nemmeno la dolcezza del loro profumo o la morbidezza dei petali gli annebbiavano per un decimo di secondo la vista degli occhi di Groewia pieni di lacrime, a implorargli perdono per qualcosa di cui non aveva colpa.
Allora dagli occhi spenti di Haldir fuoriuscivano lacrime calde e dense. Immaginava la vita che avrebbe potuto avere se il destino non fosse stato così crudele con lui.
 «Non potete incolparvi di qualcosa che non avreste potuto controllare.» Gli disse con dolcezza e compassione, con l’intento di consolare quello sguardo che si era rabbuiato di malinconia. «Se il marito di mia madre non fosse stato così avido da raccontarvi quella bugia…»
 «Lui dov’è?» Chiese in un improvviso moto di rabbia. «E’ ancora vivo?»
Sentiva ancora la voce rauca e grottesca di quell’uomo nelle sue orecchie che gli urlava: “E’ quello che tu e quella lurida vi meritate!”
 «Non vi so dire, non l’ho mai conosciuto.»
Haldir scosse la testa, nell’udire la voce della ragazza, scacciò via quelle brutte emozioni e il ricordo di quell’uomo.
Mayve si riconobbe molto in quel gesto, in quello scuotere del capo quasi a scrollare via tutta la negatività, e sulle sue labbra si dipinse un sorriso involontario che scaldò il petto dell’elfo.
 «Per favore, non rivolgerti a me con il voi. Sono tuo padre.» Le disse, facendosi pervadere completamente dalla bellezza che c’era nell’assurdità di quel momento.
Finalmente, dopo tutto quel supplizio, gli appariva davanti un miracolo, una concessione divina.
Sua figlia.
Allora Mayve lasciò che l’istinto prendesse il sopravvento, ignorò le possibili conseguenze o una sua probabile reazione di sdegno a quella richiesta.
 «Magari sarò inopportuna - disse inizialmente, avanzando di un passo - ma ho il bisogno di farlo.» Si avvicinò di colpo al corpo dell’elfo, gli circondò il busto con le braccia e poggiò una guancia sul suo petto. La sorpresa lasciò Haldir di pietra, tantoché non riuscì a muoversi. «Adesso se lo desideri posso anche allon-» Mayve fece come stava per dire, ma il padre, prima che lei potesse allontanarsi e terminare la frase, ricambiò il gesto affettuoso con gentilezza e premura. Sentì il mento di lui sulla propria testa e il suo odore delicato pervaderle i sensi. La sensazione di protezione era così forte che avrebbe potuto giurare di sentirsi al sicuro da qualunque cosa.
Lì, in quello scambio di affetto, i due non erano due persone che si erano appena conosciute, ma due anime che da sempre erano state legate e che solo in quel momento si stavano toccando per la prima volta.
Dalle guance di Mayve scivolarono varie lacrime, qualche secondo dopo dei piccoli singhiozzi le fecero tremare la schiena. «Sono così felice di essere qui con te.»
Haldir sorrise teneramente e per risposta, la strinse ancor di più a sé, sussurrandole: «Anche io lo sono.»



 «Qual è la parola elfica per dire felicità?» Chiese con la bocca ancora piena.
 «Alassë.»
 «Allasee?»
 «No, è alassë.» La corresse nella pronuncia, scandendo meglio la parola.
Mayve la ripeté un’altra volta, correttamente.
 «Fai presto a mangiare la tua mela, dobbiamo procedere con lo studio.»

Haldir impallidì quando Mayve gli confessò di non essere capace né a leggere e né a scrivere. Non aveva esitato un solo momento a offrirsi come maestro e lei accettò volentieri, entusiasta dell’idea. Le era sempre dispiaciuto non riuscire a leggere un testo, un avviso o una qualunque scritta. Anche Alun era analfabeta, come quasi tutti in quel villaggio.
Erano due settimane e mezzo che Mayve prendeva lezioni da Haldir, imparando poco a poco le basi della lingua elfica, gli usi e i costumi del popolo e la sua storia.
Mayve scoprì che studiare era la cosa più bella che si potesse mai fare per occupare il proprio tempo, imparare cose nuove era come un modo per conoscere meglio la Terra di Mezzo. Haldir era un bravo insegnante, sempre presente e disponibile: da quanto lei alloggiava da lui, si era reso libero da ogni impegno, mancava solo quelle volte in cui veniva convocato dai suoi soldati per assemblee o controlli giornalieri.
La cosa più bella che le era successa fino a quel momento era stata fare la conoscenza di Lady Galadriel. Haldir la presentò ufficialmente come sua figlia e la dama parve guardarla come se sapesse già tutto, fin dal principio. Mayve si era sentita tremendamente a disagio sotto il suo sguardo penetrante, come se ogni suo pensiero o segreto sotto i suoi occhi scrutatori fossero solo carte scoperte facili da leggere.
 «Spero tu possa trovarti bene qui da noi.» Le aveva augurato e per la prima volta da quando l’aveva incontrata, si sentì improvvisamente libera di poterla guardare senza alcun timore.

 «Ti vedo pensierosa oggi, c’è qualcosa che ti turba?» La figlia camminava di fianco al padre, appoggiandosi al suo braccio lungo la via.
 «Penso ancora alla storia che mi hai raccontato ieri.»
 «Sauron e l’anello del potere?»
 «Esattamente.» Mayve aveva pensato a lungo al potere, alle guerre e battaglie sanguinolente che caratterizzavano quel racconto. Iniziava a capire come andava avanti il mondo e la sua ingenuità, man a mano, andava maturando in una piena consapevolezza della realtà. «Mi chiedo perché proprio gli uomini caddero più facilmente sotto il potere dell’anello.»
 «Perché essi sono deboli di cuore, iell nín (figlia mia).»
 «E i nani? I nani come sono?» Haldir sospirò e indugiò un attimo a quella domanda. Mayve notò un certo fastidio negli occhi dell’elfo. «Ho chiesto qualcosa di sbagliato?»
 «Assolutamente no, è solo che tra gli elfi e i nani non scorre buon sangue.»
 «Come mai?»
Haldir sorrise a quell’insistenza per pura curiosità. «Che ne dici se concentri questa tua voglia di sapere nella scrittura?» Le propose, ammiccando scherzosamente. Le indicò i fogli di pergamena sul tavolino e la invitò a sedersi per ricominciare a lavorare.



Il giorno seguente, Haldir avvisò Mayve che quella sera ci sarebbe stata la festa di Sheelala.
Alla domanda della ragazza, l’elfo rispose: «La natura lascia trasparire un’energia che si manifesta in molti modi: i mille colori dei fiori, il verde brillante delle foglie e l'aria frizzante sono solo alcuni di questi.»
Così Mayve fece un bagno caldo, intrecciò varie ciocche di capelli e indossò l’abito che il padre le aveva portato quella mattina: il tessuto verde scuro era soffice e leggero, lo scollo le lasciava le spalle e le clavicole scoperte, le maniche erano lunghe e larghe e alla vita aveva legato un cordoncino dorato.
Quando Haldir entrò in stanza, rimase immobile a contemplare ciò che gli si presentava davanti con un sorriso solare sul volto. «Sei splendida.»
Mayve sentì le guance avvampare, piegò la testa da un lato e sorrise, abbassando lo sguardo. « Diola lle, ada (Grazie, papà).»
 «Il tuo elfico fa progressi.» Si avvicinò a lei, offrendole il braccio come appoggio. Era arrivato il momento di raggiungere gli altri nella radura.
 «Il merito è tutto tuo.»

Osservò ogni cosa, ogni minimo particolare e apprezzò tutto.
In quell’occasione, ebbe modo di conversare con vari elfi, sia maschi che femmine, anche se inizialmente fu molto timida e riservata; solo verso la fine della serata cominciò ad avere più confidenza con se stessa e gli altri. Erano tutti gentili e disponibili, le loro voci erano leggiadre e soavi, i loro modi di parlare e di fare erano raffinati. Mayve si ritrovò in ogni loro movimento. Si sentiva a suo agio lì, in mezzo a quella gente, accanto a suo padre.
Fu una delle serate più belle della sua vita.
Sulla strada del ritorno, Mayve raccontò ad Haldir le sue impressioni. 
 «Per la prima volta non sentivo di essere nel posto sbagliato.» Terminò il suo discorso davanti alla porta degli alloggi di Haldir.
 «Non mi hai ancora raccontato dei tuoi rapporti con la gente di quel villaggio.» Entrarono nella stanza e andarono a sedersi sul divano nel balconcino, con i nasi in su ad ammirare le stelle. Dopo minuti, Mayve rispose all’osservazione del padre.
 «Sono a mala pena duecento abitanti, nessuno esce dal villaggio se non per andare ai campi. E’ una società chiusa e di conseguenza molto ignorante. Non sono cattivi, sono solo impauriti dalla natura e dai misteri della vita.» Haldir sorrise impercettibilmente alle parole della figlia, apprezzando in cuor suo quella gentilezza e quell’ingenuità, eppure iniziò a preoccuparsi, perché suonavano come una difesa. «Non sanno se sia normale un mezzelfo e per evitare che un’altra disgrazia si abbattesse su di loro, hanno preferito allontanarmi.»
 «Mayve, dimmi solo se ti hanno mai fatto del male.»
Guardò il padre perché sentiva il suo sguardo insistente su di sé: aveva degli occhi apprensivi, le sopracciglia aggrottate in segno di profondo interesse.
 «Ci hanno provato.» Mentì, sussurrando appena, ma Halir la udì comunque.
 «Quante volte?»
Mayve schiuse le labbra, indugiando a rispondere. «Alun mi ha protetta.»
 «Hanno mai tentato di ucciderti?»
 «No,» rispose immediatamente, mentendo di nuovo. «anche se mi avrebbero voluta morta, non hanno mai provato ad uccidermi. Penso abbiano avuto troppa paura che gli scagliassi contro qualche… maledizione.» Ridacchiò amaramente all’ultima parola, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, intente a stringere la stoffa dell’abito.  
 «Mayve, ascoltami:» le disse con dolcezza, prendendole le mani premurosamente, così che lei potesse guardarlo negli occhi, «tu non puoi più vivere lì. Il tuo posto è qui, con la tua gente, con me.» Lo guardò con uno sguardo pieno di confusione, anche se aveva perfettamente capito. «Continuerei a insegnarti. Potresti iniziare l’allenamento per prendere parte dei guerrieri di Lady Galadriel, come tu stessa hai detto che ti piacerebbe fare.» Ed era quello che lei voleva, ciò che desiderava era diventare parte integrante di quella società dove si trovava così bene… «Potresti scegliere una vita immortale, essere un elfo.» …ma non poteva farlo.
Abbandonò le mani di suo padre e si alzò in piedi.
 «Ciò che mi proponi è tutto quello che io desidero, ti ringrazio per la tua gentilezza, te ne sono davvero grata. Ma non posso accettare.»
 «E’ per tua zia, non è vero?»
 «Non posso lasciarla da sola dopo tutto quello che ha fatto per me.»
Haldir curvò un angolo della bocca, sospirando. Si alzò in piedi e raggiunse sua figlia.
 «Ti capisco.» Disse solamente.
Dagli occhi di Mayve scesero delle lacrime calde, in contrasto con la fredda aria notturna. «Domani partirò, ma non voglio dire addio alla vita che tu mi hai fatto conoscere.»
 «Sono un essere immortale, iell nín. Sarò sempre qui ad attendere il tuo ritorno.» Si avvicinò a lei e quando quella capì le sue intenzioni, gli saltò al collo quasi come se abbracciarlo fosse l’unica cosa che contasse davvero. Haldir strinse sua figlia fra le proprie braccia con protezione e affetto, apprezzando la bellezza di quell’istante.



Il viaggio di ritorno fu più duro di quello di andata.
Piovve incessantemente durante tutti i cinque giorni e nelle notti fu costretta a proteggersi dal freddo da una sola coperta, soggetta a inzupparsi dopo poche ore di sonno.
Due giorni prima di arrivare alla meta si ammalò di un forte raffreddore. Ogni volta che starnutiva, un dolore allucinante le scuoteva il petto. Sperò vivamente di non peggiorare prima di arrivare a casa.
Quando arriverò mi preparerò un infuso alle erbe, si diceva per tirarsi su il morale. Le mancava quella piccola dimora di appena quattro stanzette, piena di profumi e colori. Sorrise solo al pensiero di stringere fra le sue braccia Alun, le mancava tantissimo il suo sorriso e non vedeva l’ora di raccontarle tutto nei minimi dettagli.
Arrivò al villaggio nelle prime ore del pomeriggio, legò il cavallo alla stalla e gli diede da mangiare. Si incamminò verso casa, immaginando la zia durante il suo riposo pomeridiano. L’avrebbe svegliata, ma almeno sarebbe stata una sorpresa piacevole.
Bussò alla porta e la chiamò.
Nessuna risposta.
Sta decisamente dormendo.
Decise di entrare e di raggiungerla nella sua camera da letto, ma quando mise piede all’entrata, notò subito qualcosa di diverso. I fiori erano spariti, non ve ne era rimasto uno, il pavimento era polveroso e il tavolo pieno di stoviglie sporche.
Un raccapricciante presentimento si impossessò di ogni suo muscolo, si sentì sbiancare in volto e le dita delle mani le tremarono per la preoccupazione.
 «Alun!» Urlò il suo nome, correndo verso la sua camera.
Arrivata alla soglia, scoprì che non c’era traccia di lei. La cercò in tutta la casetta. Andò per ultimo in giardino e con sgomento osservò come alcune piante erano appassite o disidratate.
Corse fuori dalla casa e bussò alla prima porta con il pugno chiuso, facendo sobbalzare gli abitanti all’interno.
Gli occhi di colei che andò ad aprire si spalancarono di terrore nel momento in cui la riconobbero. «Cosa vuoi?» Le domandò freddamente, con una gran voglia di chiuderle la porta in faccia.
Mayve non ci vedeva più dall’angoscia che le provocava quell’ansia. «Avete visto Alun?»
La donna schiuse le labbra con sorpresa. «Pensavo lo avessi saputo.»
 «Sapere cosa?» Domandò rude.
 «L’hanno sepolta due giorni fa.»

Quel giorno Mayve imparò a convivere con qualcosa che aveva da sempre temuto: il vuoto che una persona cara lascia nel momento in cui va via.
Aveva sempre avuto paura di perdere Alun, ma ogni volta che lo pensava, scacciava via quel pensiero.
Eppure, in quel freddo pomeriggio di primavera, dopo aver cercato quella lapide per minuti, capì che tutto quello che stava vivendo era reale.
Quando cadde in ginocchio, incapace di respirare regolarmente per i troppi singhiozzi che le scuotevano il corpo, capì che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di rivederla un’ultima volta.
Perché era andata via.
Per sempre.
E questo era troppo difficile da comprendere nello stato di shock in cui si trovava.
Si distese sul terreno a braccia larghe, come un modo per abbracciare la terra, abbracciare lei.
Pianse disperatamente, ma urlò una sola volta, così forte da sentire le corde vocali lacerarsi. Così forte che i suoi timpani presero a fischiare subito dopo.
Si rannicchiò in posizione fetale e tremò, sporcandosi il volto in un impasto di terra e lacrime.
Ricordò e gli mancò angosciosamente ogni singola carezza, ogni abbraccio, ogni bacio.
Nella testa, la sua voce le cantava la ninna nanna con cui si addormentava ogni notte da piccola. Schiuse le labbra e in dei sussurri intonò la dolce melodia, interrompendosi più volte a causa del pianto incessante.
Nessun dolore terreno era paragonabile a quelle fitte al petto e alla testa, a quei pensieri assordanti, a quella consapevolezza di un vuoto incolmabile.

Quando dopo un paio d’ore riuscì a smettere di piangere, svuotò alla rinfusa la bisaccia da tutti i fiori che le aveva raccolto durante il viaggio. Intrecciò i steli fino a quando non ottenne una ghirlanda profumata e colorata. La posò sulla lapide e le sue dita indugiarono sulla pietra fredda, come a voler accarezzare quel volto che non avrebbe mai più rivisto.
Il sole iniziava a tramontare e lei prese coscienza di non poter più rimanere lì a compiangerla.
Era arrivato il momento di dirle addio.
 «Adesso capisco perché insistevi così tanto.» La sua voce era un mormorio rauco e malinconico. «Conosci meglio di me le malattie, sapevi che non saresti mai guarita e mi hai mentito: dovevi lasciarmi andare prima che fosse troppo tardi. E io sono stata così stupida da assecondarti.» Si portò le mani al viso, reprimendo quei singhiozzi in gola. «Non mi perdonerò mai per non essere riuscita a salutarti dignitosamente, un’ultima volta. Perché, sarebbe stato il minimo, dopo diciannove anni passati a crescermi senza esserti mai lamentata una volta.» Si asciugò le lacrime e si passò una mano fra i capelli, spostandoli all’indietro. «Il tuo sorriso era il sole della mia vita. Tu mi hai dato amore quando nessun’altro era disposto a darmelo.» Impugnò la terra morbida e ingoiò un fiotto di saliva. «Ti prometto di essere una persona buona e paziente. Farò le scelte giuste per tutto il corso della mia vita. Seguirò i miei sogni come volevi tu.» Si alzò in piedi e lasciò che la terra scivolasse via dalla sua mano. «Rimarrai per sempre nel mio cuore, nella mia mente e nella mia anima.»



Decise di ritornare da Haldir immediatamente, ignorando il fatto di essere ammalata o che il cavallo era ancora troppo stanco per affrontare un altro viaggio.
Sta di fatto che riuscì a raggiungere Lórien in quattro giorni e mezzo.
Quando attraversò la radura, il cavallo si fermò e, esausto, si sdraiò sull’erbetta. Mayve si alzò in piedi, barcollando un po’. La testa le girava vorticosamente e la febbre era così forte che le tempie, bollenti e gocciolanti di sudore, le pulsavano insistentemente.
Le ginocchia non resistettero più: cadde e chiuse gli occhi ancora gonfi dal pianto, addormentandosi immediatamente. Pochi minuti dopo due elfi la trovarono svenuta fra i fiori d’argento di Lórien. Fortunatamente uno di loro la riconobbe, ricordando la chiacchierata che avevano avuto durante la festa; questo la prese fra le sue braccia e la portò direttamente alla porta di Haldir.

Il padre si prese cura della propria figlia.
Dopo tre giorni di sonno, Mayve si svegliò. Non appena Haldir guardò nei suoi occhi, capì che qualcosa era andato tremendamente storto.
La ragazza gli raccontò tutto.
Lo stesso giorno, Haldir disse a Mayve: «Il marito di Alun era un uomo saggio, buono ed era anche un mio amico. Lui sapeva di me e Groewia, ma non ha mai raccontato nulla a nessuno fuorché sua moglie. Lui me la descriveva come una donna dolce e gentile.»
 «Come fai a sopravvivere al dolore della morte?»
 «E’ la parte più brutta dell’immortalità. Alla fine, devi imparare a convivere con quel dolore ed evitare di affezionarsi a un mortale diventa sempre più necessario.»





























NDA


Parto ringraziando tutti coloro che hanno recensito, messo fra le preferite e\o seguite questa storia. Vi ringrazio tantissimo per il vostro sostegno.

Un grazie speciale va alle Giulie, una di Roma e una che è una filmaker (che, giusto per dire, mi ha aiutata nella trama di questa storia e nella scelta del nome della protagonista).

Spero di leggere varie recensioni sui vostri pareri su questa storia

Grazie ancora,

alla prossima ;)

 
  
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