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Autore: fri rapace    20/05/2009    6 recensioni
“Cosa potrà mai fare il nostro bambino da grande?” chiese, la voce spezzata, lo sguardo addolorato fisso sul figlio rannicchiato contro di lui. Lui che avrebbe dovuto proteggerlo, ed era invece stato la causa del suo male.
Piccola storia composta da tre capitoli, che possono essere letti anche singolarmente come one-shot. Protagonisti tre bambini (Remus, Tonks e Teddy) e le domande sul loro futuro che si pongono i rispettivi genitori.
Genere: Romantico, Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nimphadora Tonks, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da grande Silvie sollevò la mano dal capo del marito. John se ne stava chino sul tavolo, la fronte appoggiata agli avambracci.
Si era addormentato mentre lei gli lisciava i capelli. Erano mesi che non riposava decentemente, forse il senso di colpa per quello che era successo non gli avrebbe mai più concesso una notte di sonno tranquillo. Lei non lo incolpava, John non poteva sapere cosa era quel mostro di Greyback quando l’aveva preso a brutte parole, non poteva immaginare le conseguenze… Senza la luna piena quelli come lui erano quasi identici a un essere umano, impossibile distinguerli se non si sapeva cosa guardare.
E il suo bimbo, beh, era ancora il suo bimbo, quello che aveva portato in grembo per nove mesi, sangue del suo sangue, anche dopo che il sangue si era mescolato con la saliva di quell’essere maledetto, era sempre il suo bimbo.
Uguale, ma un pochino diverso. Piccole cose, qualcosa nei suoi occhi, la voce ora stranamente roca, il modo in cui tendeva l’orecchio verso cose che solo lui poteva sentire. Aveva battuto il suo papà a braccio di ferro. Sul serio.
Ora riusciva a correre senza tirare il fiato per ore.
La Gazzetta del Profeta aveva parlato dell’attacco del lupo mannaro.
Lupin.
Lo avevano scritto a chiare lettere il nome della loro famiglia, il nome della vittima.
Remus J. Lupin.
E il passo era stato breve dal “povero piccolo” al fuggirlo, e presto, lo sapeva, la vittima sarebbe stata trattata in egual modo del carnefice. Sarebbe diventato lui stesso il carnefice, senza aver mai fatto nulla di male.
Remus non conosceva l’identità del mannaro che lo aveva attaccato, né il perché era stato morso. John l’aveva supplicata per ore di non dirglielo, piangendo fino a non avere più lacrime, perché non voleva che il suo adorato bambino lo odiasse.
E lei aveva provato una gran pena, per lui, per Remus e per se stessa. Ma era una donna forte, e non si sarebbe fatta scoraggiare da nulla. Perché il suo piccolino era vivo, e i suoi occhi e la sua voce, anche se ora erano diversi, le dicevano le stesse identiche cose di prima e con ancora più forza. Ora Remus aveva solo lei e il papà che lo tenevano a galla in un abisso di solitudine.
Qualcuno bussò alla porta, e si alzò per andare ad aprire.
Eccolo lì il suo ometto, coperto di fango dalla testa ai piedi nudi, accavallati timidamente l’uno sull’altro, come per nasconderli.
Teneva stretto nella manina l’unica gamba di uno strano esserino, che sembrava fatto di fili di fumo. Esso si dimenava freneticamente, con una piccola lanterna tra le dita, che picchiava con furia sul fianco del bambino.
“Ehm… ciao mamma.” disse, guardandola di sottecchi.
“Ciao.” gli rispose, fissandogli con insistenza i piedi.
“Oh. Giusto!” fece lui, iniziando a sfregarseli vigorosamente sullo zerbino.
“Remus! Le scarpe. Dove sono le tue scarpe?”
Lui di strinse nelle spalle. “Risucchiate.” rispose laconico.
E visto che lei non sembrava affatto soddisfatta della sua spiegazione, si indicò i vestiti.
“Sai, nel fango. Vedi?” tirò un lembo del mantello particolarmente incrostato verso la mamma.
“Sì, l’avevo notato, ma ne hai così tanto addosso che non sono affatto certa che tu sia veramente il mio bambino.”
“Sicuro che lo sono, mamma!” esclamò stupito, quasi preoccupato.
“Ora lo vedremo.” lo minacciò, sollevandolo da terra.
Lui le si attaccò con un braccio umido e scivoloso al collo, allacciando le gambe altrettanto infangate dietro la schiena e tenendo l’esserino di fumo a debita distanza da lei.
“Stai diventando troppo alto, Remus, tra poco non potrò più prenderti in braccio.”
Lui non disse nulla, limitandosi ad aggrapparsi con più forza a lei, come se sapesse… Se capisse che con tutta probabilità gli abbracci di mamma e papà erano gli unici a cui avrebbe potuto ambire d’ora in avanti.
Silvie ricacciò indietro le lacrime che le riempivano gli occhi. Doveva essere forte, almeno lei.
Lo portò in bagno e lo scaricò nella vasca.
“Ora dammi quell’affare” ordinò.
“No! Tu lo fai scappare!” Remus interpretò come paura o indecisione lo strano tremolio della sua voce e si strinse l’omino al petto, come fosse un peluches e non un mostriciattolo che lo picchiava come un forsennato.
“Devo lavarti, ora mi dai il tuo… ehm…”
“Si chiama Marciotto, mamma,” le spiegò, serio. “L’ho letto in uno dei tuoi libri di quando andavi a scuola.”
Silvie gli sorrise. “Ma che bravo. C’era anche scritto dove possiamo metterlo, il tuo amico?”
“No. Ma io lo so, un barattolo sarà ok.” sembrava molto sicuro di sé.
Silvie si sfilò la bacchetta dalla tasca della veste e appellò un barattolo di marmellata vuoto.
Sistemato il Marciotto, che a dirla tutta non si stava mostrando molto entusiasta per la sua nuova casa, si dedicò al suo bambino, sforzandosi di fare scivolare via velocemente lo sguardo dalle cicatrici che gli segnavano il corpicino.
Aveva già vissuto cinque pleniluni e la loro disperata ricerca di una cura per la sua malattia era stata finora un buco nell’acqua.
John entrò in bagno con le spalle curve e il viso spento. Il suo sguardo si illuminò per un solo istante, mentre incrociava gli occhi del figlio.
“Ciao, papà!” lo salutò lui, allegro. “Visto cosa ho acchiappato?”
John annuì, senza neppure guardare il vasetto con il Marciotto. “Bravo il mio maghetto.” mormorò, sforzandosi di sorridergli.
Quel piccolo cenno fu sufficiente a Remus per impettirsi, pieno di orgoglio.
“Papà, poi ti spiego tutto quello che so sui Marciotti, e lo voglio studiare e farci dei test… ma mica gli faccio del male!”  lo rassicurò, sventolando le mani insaponate davanti al viso e gettando schiuma ovunque.
“Lo so, Remie, tu non saresti capace di fare del male a nessuno.”
Remus approfittò della cena per spiegare loro tutto quello che sapeva sui Marciotti, con inesauribile entusiasmo.
“Io vi insegno!” ripeteva come intercalare a ogni manciata di parole, la bocca piena, perché non si dava neppure il tempo per inghiottire. Cosa che un tempo, pochi mesi prima, gli sarebbe valsa uno scappellotto, ma ora né lei né John avevano cuore di punirlo.
Di giorno sembrava tornato ad essere il bambino spensierato di sempre, ma man mano che si avvicinava la sera il suo piccolo chiacchierone perdeva la capacità di parlare, iniziava a incespicare sulle parole, a balbettare, la voce sempre più roca. E quando, davanti al suo lettino, lo aiutava a infilarsi il pigiama, sembrava dimenticare persino come si faceva a respirare.
“Una notte senza incubi per il mio bambino,” aveva pregato mentre lo stringeva a sé, nascondendogli il viso dalla luce della luna, quella sera un sottile ed innocuo graffio nel cielo. “Almeno una notte.”
Era rimasta con lui fino a che si era addormentato, il faccino ancora premuto sul suo petto e il pugno stretto alla sua veste.
E poi lo aveva sollevato tra le braccia e portato nel lettone con sé, come faceva ormai tutte le sere da quella sera.
Remus non aveva mai chiesto a mamma e papà di poter dormire con loro, per vergogna. Ma il suo pugno che non la mollava neppure quando, finalmente addormentato, si abbandonava tra le sue braccia, era una richiesta di non lasciarlo solo sufficientemente chiara, per lei.
Silvie raggiunse il letto a tentoni, posando Remus tra lei e John.
L’uomo, che li stava aspettando, accarezzò piano i capelli chiari del figlio, soffermandosi con le dita sulle cicatrici che gli segnavano la fronte.
“Amore?” sussurrò.
“Sì, Johnny?”
“Cosa potrà mai fare il nostro bambino da grande?” chiese, la voce spezzata, lo sguardo addolorato fisso sul figlio rannicchiato contro di lui. Lui che avrebbe dovuto proteggerlo, ed era invece stato la causa del suo male.
“John… lui… lui insegna!” scherzò, sfiorando la guancia del marito con le dita. Poteva sentire nel leggero tremito che lo scuoteva tutto il suo tormento.
“Siamo seri, Silvie. Non potrà mai neppure frequentare Hogwarts, figurati insegnare… Remus, a causa mia, non ha futuro.”
“Oh, John...” Silvie sospirò, sforzandosi di essere convincente per rasserenare almeno un poco il marito, si stava uccidendo, non poteva continuare così. “Forse non sarà mai un insegnate, ma… vedrai, Remus ce la farà. Lui… saprà costruirsi il suo futuro.”






Ho scelto il nome "Silvie" per la madre di Remus perchè la madre di Romolo e Remo si chiamava Silvia ;-)

Ringrazio Nestoria e Ernil per aver commentato la mia precedente one shot, grazie :-)
Fri.
   
 
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