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Autore: rossella0806    12/12/2016    1 recensioni
E' vero che la vita toglie sempre qualcosa per poi restituire con gli interessi?
E' quello che pensa Lara, una ragazza di ventitré anni, che studia Lingue a Milano ed è nata due volte.
Quattro anni prima, infatti, era stata rinvenuta esanime nella camera del convitto in cui si era trasferita dopo la fine delle superiori; l'incidente misterioso che l'ha vista coinvolta non è mai stato chiarito, costringendola a rimanere in coma per tre mesi.
Quando si sveglia, un giorno di fine aprile, non ricorda nulla, sa solo che deve riprendere in mano la sua vita e, per farlo, dovrà impiegare tutta la forza e la caparbietà che nemmeno lei sapeva di possedere.
La riabilitazione nel reparto di Neurochirurgia durerà un altro mese, ma alla fine ne uscirà vittoriosa e più determinata che mai, anche grazie all'aiuto del dottor Cavani, l'uomo a cui deve la sua stessa vita, e di cui si innamorerà perdutamente.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed in salita.
Riuscirà Lara ad affrontarla?
P.S. Il titolo della storia è un omaggio al film (tratto dall'omonimo libro) di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", un autentico capolavoro che vi consiglio di vedere!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La bellezza dell'essere indecisa è l'oppressione che si prova a non riuscire a manifestarla.

(Anonimo XX secolo)


L'istante dopo che avevo posato il cellulare nella borsa, appoggiandola su una delle due sedie vicino alla scrivania di legno di fronte ai nostri letti, la mia amica aprì la porta, spalancandola con l’entusiasmo che stava contraddistinguendo la riappacificazione eterna con il meccanico scansafatiche.

“Lara, sei pronta? Abbiamo già apparecchiato e tra cinque minuti si mangia!”
La guardai appena, reprimendo quel nodo alla gola che mi spingeva a piangere ogni minuto, cercando di concentrami sulle parole che mi erano state appena dette.
Toccava a noi ragazze preparare a turno la tavola della sala comune, un lavoro cadenzato ed ipnotico, che aveva il potere di rilassarmi e di trasformarmi in una sorta di ragazza con manie ossessivo- compulsive: quella sera, per l'appunto, il compito era spettato ad Alessia, che sembrava averlo svolto con insolita felicità, invece di lamentarsi dei logori sottobicchieri che le suore insistevano per farci mettere.
“Sì, arrivo…”
Mi alzai a sedere sprimacciando il cuscino che avevo repentinamente catturato per l’infantile gusto di avere qualcosa su cui concentrare la mia scarsa attenzione di quei momenti.
Forse è meglio se attendo più tardi, pensai, convincendomi che almeno non l'avrei turbata con le mie solite e lagnose paturnie amorose.
“Cos'è quella faccia? Il tuo bello non ti ha chiamata?” mi punzecchiò con aria cantilenante, facendomi il solletico per indurmi a sorridere.
“Più o meno…”
“Che cosa vuol dire più o meno? O sì o è no!” continuò a canzonarmi, incrociando le braccia sulla T-shirt rossa e aggrottando le sopracciglia chiare.
La sua aria da investigatrice aveva preso il sopravvento sul pesce lesso innamorato, spingendomi ad irritarmi e a sentirmi ulteriormente impotente.
“Non preoccuparti, ne parliamo dopo. Adesso andiamo a mangiare: mi è venuta fame”
Uscimmo dalla camera abbracciate, nonostante le insistenze della mia amica che cominciava ad intuire che fosse successo qualcosa di catastrofico.
Così, quando tornammo dalla cena, sedute a gambe incrociate sul mio letto, le raccontai ogni cosa.
“Oh cielo, Lara, che mascalzone…”
“Beh, non è proprio quello che volevo sentirmi dire, però non hai tutti i torti”
“Sei troppo buona con lui, troppo”
“È che io non voglio perderlo, non sono pronta a lasciarlo andare” spiegai con enfasi, mentre il vociare allegro e contagiante delle nostre compagne si diffondeva lungo i corridoi.
“Dici così perché sei innamorata e, credimi, ti capisco. Ma penso anche che sia giusto che tu cominci a camminare per un po’ con le tue gambe, che riprenda a respirare in autonomia, senza aspettare sempre il suo aiuto o quello di chiunque altro”
Sbuffai e mi morsi il labbro inferiore, alzando gli occhi al soffitto in un gesto meccanico di scarsa fantasia.
“È proprio per questo che mi sono rifiutata di vederlo, ma è così difficile…”
“Devi resistere e sforzarti di ricostruirti una vita lontana da lui”
 “Non so per quanto tempo riuscirò a resistergli: sai, a volte ho come degli impulsi assassini nei suoi confronti, è come se volessi vederlo morto, e ti giuro che non mi viene alcuno scrupolo ad augurargli il peggio che possa pensare, però…”
“Sei davvero innamorata, amica mia, irrimediabilmente e perdutamente innamorata” mi sorrise Alessia, lanciandomi il guanciale sulle gambe.
“Non è una semplice infatuazione, non lo è mai stata. E poi, lo sai, non voglio perderlo, non ce la farei”
In quel momento, mi accorsi di quanto fossi fortunato ad averla lì con me, pronta a consigliarmi e a sostenermi, sebbene comprendessi l’enorme costo che ciò comportava alla sua razionalità sempre impeccabile.
“In tutto questo, che cosa dice il latin lover? Perché dal suo punto di vista si possono capire molte cose, sai?” analizzò puntuale.
Mi allungai sul comodino per recuperare il cellulare e glielo porsi, in modo che potesse farsi un’idea leggendo la nostra ultima conversazione di nemmeno un’ora prima.
“Beh, direi che nessuno di voi due è così tanto confuso da non sapere che cosa vuole: qui ci saranno almeno dieci messaggi e quindici telefonate a cui non hai risposto. E da quello che vi siete scritti stasera, sembrate entrambi decisi a non lasciarvi andare… ma per quanto tempo sarete sicuri dei vostri sentimenti? Mi riferisco in particolar modo a lui, Lara. Un figlio cambia tutto, almeno nell’immediato…”
Annuii nervosa, grattandomi la punta del naso, il mio abituale gesto per indicare che stavo riflettendo.
“Tutto questo non fa altro che confondermi. La delusione per quello che è successo si mischia alla rassegnazione per il modo in cui mi ha trattata, ma allo stesso tempo voglio lottare per il nostro amore. E’ tutto così complicato ed ingiusto! Tu che cosa faresti al mio posto?” la supplicai con lo sguardo, mentre al vociare allegro delle altre ragazze si univano i timbri squillanti di suor Fabrizia e suor Augustina.
“E’ difficile mettersi nei panni altrui, soprattutto se non ti è mai capitato di vivere quella determinata situazione. Comunque, se vuoi davvero un mio consiglio, io ti direi di seguire il cuore e poi la mente, ma anche di considerare i pro e i contro della vostra relazione, separatamente, è ovvio, senza incontrarvi e rischiare di mandare a monte i buoni propositi. Solo dopo, una volta che hai capito cosa ti aspetti, potrai incontrarlo. Ecco, io farei così, ma naturalmente sei tu che dovrai decidere”
Di nuovo mi morsi il labbro inferiore, sbuffando sonoramente.
Perché non riesco a lasciarlo, a dimenticarlo? Sarebbe tutto più semplice, mi riapproprierei della mia vita, e non sarei più ingabbiata nei ricordi, nelle recriminazioni, preda dei ma e dei se. Certo, soffrirei, soffrirei in maniera indicibile, però dopo sarei una donna nuova, una donna libera.
Cercavo di convincermi con queste frasi astrattamente concrete, sebbene in quel momento fossi ancora molto confusa.
Inoltre, mi era impossibile distinguere i vantaggi di stare con lui dagli aspetti negativi, sempre che ce ne fossero…
Guardai la mia amica e le inviai un bacio volante.
“Grazie, Ale, ti voglio bene”

***


È trascorso quasi un mese dall'ultima volta che l'ho visto.
Mentre lui era via, in ferie chissà dove, con la famigliola al seguito, ritornai a casa, per godermi qualche giorno in famiglia e provare ad allontanare la presenza costante di quell'uomo che era diventata la mia ossessione.
Almeno una dozzina di volte, infatti, mi bloccai in mezzo alla strada, convinta di aver visto il profilo del suo volto, di aver riconosciuto l’ampiezza della spalle e la sua falcata così sicura e carismatica, per ricredermi l’istante successivo.
Era ormai la fine di agosto, le giornate erano scandite da temperature meno afose e temporali serali.
Trascorsi una settimana al mare con mia sorella Giada e mio fratello Matteo: affittammo una casetta molto graziosa in Liguria, su un promontorio da cui si godeva una vista spettacolare della piccola baia sottostante.
Scendevamo in spiaggia attraverso un percorso nell’abetaia, e passavamo le giornate immersi nell'acqua, a bagnarci del sole tiepido e a giocare a racchettoni o a pallone come fossimo stati dei ragazzini.
L'ultimo giorno ne approfittammo per bighellonare in paese, in attesa di salire sulla corriera che ci avrebbe portati alla stazione centrale di Genova e, da lì, alla nostra cittadina.
Dopo aver fatto una seconda colazione in un bar dalle pareti affrescate con dei ritratti improponibili degli artisti del Rinascimento, vagammo tra le botteghe incastonate nelle strette viuzze.
Trovai un negozietto tipicamente di mare, con le borse e i cappelli di paglia appesi a dei grossi ganci all’esterno, e mi ci fiondai, sperando di trovare qualche piccolo regalo da elargire una volta a casa.
Lì dentro comprai dei magneti e un foulard per mia madre e per me, più qualche confezione di biscotti tipici per zii, nonne e papà.
Mancava una mezz’ora scarsa alla nostra partenza, così mi divisi da Giada e Matteo per addentrarmi nella parte alta del paese, dove una leggenda che avevo appena letto su un arco di granito roseo, all’imbocco di un passaggio pedonale, mi spiegava che quella zona corrispondeva al porto vecchio del borgo, le cui tracce si erano perse da oltre quattro secoli.
Feci un giro lungo la piazzetta esagonale, al cui centro svettava una fontana di epoca medioevale, presa d’assalto da turisti assetati, quindi trascorsi gli ultimi minuti a visitare l’unica chiesetta ancora in piedi, un esempio di architettura romanica con la parete di pietra intonacata e la cupola in laterizio.
Scattai qualche fotografia al meraviglioso abside dorato del Seicento, per poi uscire e ricongiungermi ai miei fratelli.    
Durante il viaggio di ritorno, il sole infuocato che filtrava osceno dai finestrini, ripensai alla meravigliosa settimana che avevo trascorso.
Ero riuscita a rilassarmi, a non pensare troppo, e dovevo ammettere che mi sarebbe piaciuto rimanere lì ancora per qualche giorno.
Per la prima volta da quando era ricominciata tutta quella storia, però, avevo realmente paura.
Se non mi avesse più cercata? Se mi avesse già dimenticata, assorbito dal suo futuro ruolo di genitore?
Ecco che cosa temevo, che i suoi sentimenti fossero radicalmente cambiati.
Non è il momento di pensare ad una cosa del genere, mi convinsi.
Decisi quindi di ascoltare la musica scaricata sul mio iPod, dal momento che Giada si era addormentata e Matteo era intento a leggere un libro di Ken Follett.
Fino alla stazione della nostra città, tra uno spiffero d’aria condizionata e l’altro, mi fecero compagnia gli Snow Patrol, Marco Mengoni, i Coldplay, Zucchero, The Ark, Lucio Battisti e l'immancabile musica classica di Debussey, Mozart e Beethoven.
Se le orecchie venivano accarezzate da quelle piacevoli e suadenti note, la vista era occupata ad apprezzare il paesaggio marittimo e collinare che sfilava davanti a noi, in quelle quattro ore di viaggio che si alternavano tra corriera e treno.
Lately, I’ve been, I’ve been losing sleep, dreaming about the things that we could be. But baby, I’ve been, I’ve been praying hard. We’ll be counting stars.
Le strofe di “Counting stars” degli OneRepublic, mi stavano rovinando i timpani, devo ammetterlo, ma erano anche le uniche parole che sapevano infondermi una certa carica emotiva, ormai latente sotto strati di depressione che avevo accumulato nell’ultimo mese.
Sarà stato per la musica che rimbombava nelle cuffie, per la voce entusiasmante del solista, però in cuor mio speravo che non tutto fosse perduto.
Che sarebbe arrivato il momento, anche per noi, di contare le stelle.
Tornai a casa abbronzata e con le idee sempre meno confuse: sarei tornata a Milano la settimana successiva, e dentro di me mi auguravo che lui mi avrebbe cercata.
E così, infatti, fece, distraendomi da una lezione di ripasso sulla letteratura norvegese.
La biblioteca era semivuota, per questo avevo approfittato di rifugiarmi tra le sue mura, per riuscire a studiare in pace.
O, perlomeno, era quello che cercavo di fare, fino appunto all’arrivo del messaggio incriminato.
Sei tornata in città? Quando possiamo vederci? Mi manchi, piccolo angelo.
Guardai l'orologio: erano le dodici e mezza, probabilmente lui era in pausa, ed io presto avrei fatto lo stesso.
Alle due può andare bene? Ti aspetto nel bar fuori l'ospedale.
Attesi la risposta con una tranquillità irreale, mentre riordinavo quaderno e libro, e mettevo il tutto nello zaino, insieme all’astuccio su cui avevo scarabocchiato, tanto per cambiare, le nostre iniziali.
Se mi ha cercata, mi dissi, è perché tiene al nostro rapporto.
Uscii dalla biblioteca con il cellulare in mano, l’SMS ancora presente sul display.
D'accordo. A più tardi.
L’essenziale era sempre stata una sua dote...

   
 
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