Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Violinlock    12/12/2016    0 recensioni
Tutto scorre e lascia un segno.
Genere: Angst, Fluff, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un’altra persona."
David Grossman - Che tu sia per me il coltello.


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Era domenica.
John Watson e Sherlock Holmes avevano le loro sante ragioni per dubitare. Dubitare è una delle cose che riesce meglio al genere umano, delle volte è proprio il dubitare tutto il cruccio di un intera faccenda. Non è prendere una decisione, in primis è dubitare. E questo ci sta. 
John Watson era seduto sulla poltrona abituale, quella vicino a Sherlock. Sherlock se ne era andato di tutta fretta, quel pomeriggio. Aveva detto che ad un tratto doveva schiarirsi le idee. Che bello, "schiarirsi le idee" detto da uno che le idee le aveva sempre pronte. 
Comunque sia, era contento Sherlock non ci fosse, perché di mattina aveva avuto il suo daffare con pensieri che voleva scacciare. 

"Sentiamo, che pensieri hai avuto?" disse Sherlock.
Era sera, John se ne stava diritto davanti a lui, la visuale della cucina non più raggiungibile. 
"Accetto tu voglia aiutarmi, Sherlock, ma parto dal presupposto che questo qui è un sogno, principalmente un sogno" puntualizzò John.
"Vuoi sapere la definizione di sogno?" chiese Sherlock guardandolo. 
"Ah, davvero? Mi credi così stupido?" Le palpebre di John si avvicinarono a malapena tra le due sponde, la sua faccia seria accentuava il discorso.
"No, schiocco mio caro amico, la definizione reale, quella... "
"Definizione reale di un sogno" soggiunse allora John, sghignazzando un po' dentro e fuori, agitato dalla piega lunga e reale che stavano prendendo i suoi sogni.
"Roba da matti? No. La definizione psicologica di una cosa non la rende più reale di quanto in realtà sia la cosa stessa." 
"Sono restio a capirti, ma va bene." 
"Cosa pensi che stia facendo?" chiese dunque Sherlock. 
"Tu aggiungi e aggiungi parole su parole" commentò allora John Watson, sospirando interiormente. 
"Sto sviando? Non mi interessa." 
"Neanche a me." 
John si ricordò della prima volta che avevano cenato insieme. Quella volta in cui stavano aspettando dentro un locale l'indizio forse culminante di un loro caso. John stava mangiando, una candela appesa tra loro due, John chiese a Sherlock, nel silenzio generale, la prima domanda nata spontanea per approfondire lo studio della mente di quel  nuovo quasi amico - o quello che sarebbe diventato. Gli chiese se aveva qualcuno accanto a sé, fidanzato o fidanzata che sia.
Aveva pensato molto a quella sera, nelle notti in cui non aveva niente da fare per l'apatia dei suoi occhi a chiudersi. Si rifugiava in quello che Sherlock aveva detto. Aveva detto di non volere una persona al suo fianco, che era quasi sposato con il lavoro, che non si lasciava andare a sentimentalismi che per lui stesso erano inutili o quasi. In realtà, non lo aveva capito neanche tanto bene. Ognuno ha i suoi istinti, ognuno pensa ad altro, pensa sopratutto a quella cosa che nasce spontanea come un fiore in un prato, cioè il sentimento. Nasce, magari muore, ma nasce. Vive quel lasso di tempo, cresce la sua convinzione, e poi sempre sullo stesso prato nascono anche altro cose. Convinzioni. Convinzioni di paure, anche.
"A che pensi?" 
"Tu? Tu che pensi delle convinzioni?" disse allora John riferito a Sherlock, e lo stesso a cui si era fatta presente la domanda fece spallucce. 
Sherlock era sdraiato e non accennava a smuoversi dalla sua posizione fetate.
John annuii, Sherlock guardò la gamba di John e poi si spostò lo sguardo verso il comodino accanto a lui. Si sporse e prese il telecomando.
"Sai, l'amore è un punto cieco. Non sai mai se ci stai andando incontro, ma quando ci arrivi è perché volevi, ti si avvicini, e ora c'è questo muro. Un muro fatto dell'amore che provi e che ricevi. Fatto dall'amore. Ci sono cose che non ti passano più intorno, piccoli spazi ricreativi quasi sempre uguali. Ti senti quello stupido, in amore. Perché tutti si sentono stupidi, per un motivo o per un altro. È come quando due persone si guardano da lontano. Sanno chi sono, ma non sanno cosa possono diventare. Magari è solo una persona che ama l'altra, quindi fantastichi e basta. Magari tu provi un sentimento maggiore, magari magari magari. L'amore delle volte è aspettare. Non arriva subito, o arriva troppo presto, così presto che non lo capisci." 
"Stai forse delirando?" chiese John, ma capendo più o meno quello che Sherlock intendeva: convinzioni che lui ha. Convinzioni di paure? Lui aveva solo incertezze generali. 
"Le convinzioni sono e si basano su altre cose come incertezze e paure, a volte" continuò Sherlock, come quasi a leggere nel pensiero di John.
"Ok, ora stai proprio delirando" sospirò fuori Watson. 
"Decisamente" esalò Sherlock. "Come mai sei qui?" 
"Faccio ancora questi sogni e... " 
"Non sono uno psicologo. Fatti visitare da uno bravo, te lo dico sempre." Un piccolo accenno di sorriso spuntò sulle labbra di Sherlock. 
John sospirò. Come sempre. Sospirava troppo, a parer suo, e quando ci pensava non sapeva se amare o odiare quella cosa. Di sicuro era un suo modo di essere, o un vizio, o tutte e due le cose. "Sbagli."
"Su cosa?" disse Sherlock, alzò poi lo sguardo preoccupato.
"Su tutto. Non so con chi parlarne, Sherlock. Non saprei con chi parlarne. Ho paura di perderti, in questi sogni. Intendo, nei sogni."
"Cosa succede, in questi sogni, oltre questo? Mi uccidi? Mi odi? No, in realtà sarebbero extra sogni."
Ti amo. Ti amo e qualche volta ti perdo. Anche se non vorrei. "Non lo so, forse." Questa volta fu John ad esalare. 
"Questa forma di preoccupazione è sufficientemente normale, mio caro dottore John Watson."
John alzò gli occhi al cielo.
"Però... Una cosa è preoccupante."
John si incuriosì. "Cosa?" 
Sherlock alzò lo sguardo. "La frequenza. Non so se tu me ne abbia accennato - di solito tendo ad eliminare le cose sostanzialmente inutili ed inutilizzabili, ma... " 
Voleva dargli un pugno in testa, John. Così magari sarebbe stato più umano.
"... credo che sia qualcosa che fai da un bel po' di tempo, se me ne stai parlando. Credo più o meno un mesetto o giù di lì, se hai sognato quasi tutte le notti. Magari la cosa si è aggravata?" Lo guardò. "Sarebbe interessante, direbbe che tu stia diventando pazzo, sosterebbe che lo stai diventando sempre di più. Ogni giorni di più." Annuì sempre guardando John. "La domanda è: perché John Watson sta diventando un pazzo senza fine?" 
"Non fare lo stupido." 
"Altrimenti da due mesetti, ma con sogni irregolari. La cosa è che, John, o tu mi parli di una cosa fin dall'inizio - o quasi - o me ne parli più in là, quando essa ti preoccupa, quando non hai daffare che dirmela."
Esatto. "Non è vero."
Si guardarono, parlarono parzialmente con gli sguardi, John teso come una corda di violino, mentre lo guardava pensava a tutto il complesso fino ad ora, e pesava cosa accennargli, pensava così dentro di sé che per qualche secondo era come se vedesse ciò che i suoi sogni erano.
"Lascia stare" disse, aggiungendo una manata in aria ed un espressione più serena.
"Lasci sempre stare?" chiese Sherlock, guardando poi la televisione e distogliendo lo sguardo da John. Lo sussurrò.
"Sei tu che... "
Sherlock lo bloccò, guardava la televisione e parlava. "Ma non è questo il punto, non è questa la questione. Se tu vuoi risolvere qualcosa, non ti preoccupi degli altri. John, tu sei istintivo solo nei casi più estremi, ma questo lo è, eppure non accenni a parlarmene come si deve." "Perché questo... "
"È più personale? È un problema strettamente tuo?" 
Esatto. "No. È solo uno stupido problema che ti sto accennando."
"I problemi non sono mai stupidi. Lascia che lo siano e ti porteranno alla morte o, peggio ancora, allo sfinimento." Sherlock si portò allora le mani, unite, proprio sotto il mento. "Rinuncia, piuttosto. Se non vuoi più sognare, rinuncia a sognarmi." Poi fece una risata. "Oggi sono proprio in vena di dire cose."
Agli occhi di John, sembrò per un momento un cowboy poeta, che non sapeva neanche che pensiero fosse, accennato e linearmente suo. Il problema di tutto era: perché? Perché riattrarlo come un poeta, quando poteva esserlo John? In che modo lo ammirava? Da amico, da lodatore, da amante? Forse tutte e tre le cose. Un amante dei pensieri, pensò John. Non un fidanzato, solo un fido amante che apprezzava e basta. Punto. Stop. Però non ne era propriamente sicuro, perché c'erano pur sempre quei pensieri sullo stare insieme, più vicini, sentimentali, labbra che si intersecano. C'era pur sempre quel pensiero di loro due che stavano bene insieme, con i loro difetti, con le loro battute sempre più vicine, con parole che si sarebbero detti sotto il piumone, non per forza romantiche, ovviamente. Erano solo amorevoli e compresivi pensieri su Sherlock? Non ne era poi più sicuro. Era qualcosa di diverso.
"Tutto così complicato" disse.
"Non è vero." 
"È vero" replicò allora John. Non voleva lasciargliela vinta e libera. 
In che modo era vero? Forse nel modo che intendeva Sherlock. 
Ma, andiamo, lui non poteva rinunciare a qualcosa che lo permaneva, che lo assillava, non poteva forse mai rinunciare ad un problema. 

Passarono dei giorni, John non sognò più Sherlock, quindi fortunatamente non doveva più prendere spontaneamente l'argomento. 
Poi successe. Era giovedì, la signora Hudson stava preparando la colazione, ripetendo continuamente a Sherlock che lo stava facendo solo perché era felice di una chiamata fatta da John, John era corso verso la casa di Sherlock, con una specie di illuminazione senza senso e, pensava John, scontata. Almeno per loro due. Però la banalità delle volte è il meglio. 
"O può diventare la cosa peggiore che farai. Dimmi il da farsi. Cosa dobbiamo fare e perché." 
"Ho il repellente bisogno di baciarti" esalò John. Cercò di dirlo il più tranquillamente possibile. 
Sherlock rimase un attimo incredulo, poi si avvicinò a John, ed in un attimo la sua figura alta era sopra John e mandava una specie di calore che fece confondere John.  "Alzati" fece autoritario.
John lo fece, non sapeva come decifrare il tutto.
Sherlock fece spalline e gli offrì la guancia sinistra. 
"Cosa? No! Voglio baciarti prepotentemente in bocca!"
"No!" esclamò Sherlock. 
"Ah, nella guancia sì, ma nella boccuccia a cuore no..." John scosse la testa. "Mi deludi, consulente qualcosa." 
Sherlock lo guardò.
John sorrise. "Non volevo baciarti." 
"Ah, no. Stupido imbroglione" commentò Sherlock, facendo spalline.
"Cosa... L'avevi capito?" indagò John, serio. 
Sherlock annuì, sentenziando che era tutto vero. "Eccitazione, quindi hai risolto un problema. Signora Hudson, lei credeva fosse vero, giusto? Perché sarebbe stato più reale" dice, senza sapere la risposta della signora Hudson, il suo viso pensoso poi puntato a terra. 
"È mattina presto, sei reduce da un sogno. Il sogno o qualcos'altro ti hanno fatto venire qui perché pensi o pensavi che io fossi la causa di un tuo incubo."
"Sogno" disse John. Non voleva considerarlo come un incubo. "Credo possa bastare." 
"Il motivo, John. Credevi avessi un cruccio, sentimentale o no, nei tuoi confronti, vero? Ma questo è solo un tuo problema. Non sono io il problema." 
Quelle parole fecero appena rabbrividire John. Il tono, lo sguardo, la frase per intero in un contesto di quel tipo. Il genere di risposta che gli fece pensare a quanto Sherlock potesse tenere a lui. E se era solamente John lo stupido non ancora capace di distinguere quello che provava? Ma John era cosciente di qualcosa, era cosciente di un sentimento. Un sentimento più o meno importante, ma aveva paura. Forse non era quello che voleva, forse l'amore avrebbe rovinato irrimediabilmente o meno l'amicizia autoritaria che avevano. La loro amicizia era un miscuglio di autoritratto, senso del dovere, emozione controllata, consapevolezza descritta dal loro stare insieme. Non aveva mai avuto un amicizia del genere, non voleva perderla, non voleva andare veloce, più veloce della consapevolezza che ora si dipingeva sul suo volto. 
John Watson voleva baciarlo.
Lasciò ogni remora, e lo pensò con un sorriso. 
"Che c'è?" chiese Sherlock.
Poi si ricompose. "Sei buffo" disse serio, fin troppo serio.
John era stato predisposto a baciarlo. 
Ma non poteva fare qualcosa che non sapeva neanche che significato avesse. 
Non poteva ridurre tutto a quello. 
Pero lo fece, e quando lo fece divenne tutto un po' più chiaro.
Baciava Sherlock, annaspando nelle sue labbra, felice, riempito, sollevato, stomaco in subbuglio, mente ferma a loro, a quello che si stavano dicendo senza parlare, a quel punto nuovo. Si baciavano e si abbracciavano, indifferenti a nessun gesto reciproco, pieni di tutto.
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Hey, ciao. Non so cosa dirvi, questo capitolo esiste già da un pochetto, e finalmente l'ho concluso. E niente, spero piaccia, che abbia senso, che non so, dovevo mettere una terza cosa, ma non l'ho a portata di mano. Alla prossima! (spero presto). Che il buon senso sia con voi! (because con me non l'ho è XD).
SBS - Stava baciando Sherlock.
   
 
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