Parto
Jooen, Ader, Liam.
Raccolsi un mazzetto di soffioni. Uno, due, tre, quattro.
Quattro steli con sfere bianche, quasi trasparenti.
Soffiai su uno. Light mi aveva organizzato tutta la
giornata: di mattina, dopo la visita di Matsuda mi aveva detto di recuperare il
numero di qualche vecchia amica.
“Quanto tempo, sì lo so. Sì, sto bene. Un’amica di
famiglia lavora al giornale, lo so che è una vita che non ci sentiamo, ma è un
modo anche per incontrarsi, potremmo fare un articolo sulla nuovo museo della
nostra città, venite con un block notes, il vostro nome sarà sull’articolo”
aggiunsi con più enfasi. Le sue amiche non avrebbero voluto vedere la ragazza
sfortunata e traumatizzata, ma l’idea di mettersi in mostra le piaceva. E così
ognuna di loro aveva un taccuino e io un pezzetto delle pagine del quaderno,
passeggiando avevo visto tre ragazzi e tre dei mostri che li accompagnavano. Mi
trovavo nel gruppo e non avevano riconosciuto il mio volto, poi non avevano il
quaderno a portata di mano, io sì.
Jooen, Ader, Liam.
Tre dei della morte in cambio di metà della mia vita.
Soffiai: fili bianchi nell’aria.
Poi avevo dovuto passare buona parte del pomeriggio a
scrivere i nomi dei criminali. Elimina. Elimina. Elimina.
“Fffff” la sfera dei soffioni si sfalda, si discioglie,
vola.
E questa sera, aveva sbuffato Light, “Potrai avere il tuo
dannato appuntamento…”
“Fffff”
“… Sayu”
Lasciai cadere i gambi spogli per terra. Avevo
passeggiato lungo la strada per il cimitero. Non volevo andare a trovare mia
madre.
Sarebbe stato doloroso e non avevo voglia di dolore.
Avevo voglia di sole, di un cielo appena schiarito, di cipressi con la loro
ombra, di un mazzetto di steli umidi dei soffioni.
Acqua tra una mattonella e l’altra, per terra. Anche
questo mi piaceva.
Abbassai la testa. Vento sulla nuca, i capelli si
spostano, il pavimento di mattonelle grigie del cimitero è ruvido sotto i
piedi, come se fosse cosparso di sassolini fini come sabbia. Era così, in
effetti, riflettei.
Dovevo tornare a casa, farmi una doccia, prepararmi.
Abbassai gli occhi, raccolsi un altro soffione.
“Ffffff”
***
“Puoi fare tre cose”
Kuraji rovesciò i vestiti dall’armadio. Caldo.
Improvvisamente faceva caldo e lui come avrebbe fatto?
Avrebbero visto le braccia sottili come due pezzi di
legno chiari e non avrebbero avuto abbastanza paura. Avrebbero lottato di più.
Una di loro sarebbe scappata, poi la polizia, poi…
“Puoi rinunciare subito al quaderno e così io lo porterò
a qualcun altro…”
Afferrò la maglietta da basket col numero “6” sulla
schiena e la buttò a terra con rabbia.
Stronze!
Anche sua madre è una stronza: una stronza che gli aveva
lasciato un piatto di carta con una pesca tagliata a cubetti col succo che si
infilava tra i minuscoli quadratini ruvidi, facendo finta di non vedere
l’espressione feroce di suo figlio, limitandosi a sorridere come un’idiota. Una
stronza sottomessa a suo padre.
“Puoi usarlo facendo solo di testa tua rifiutando sia lo
scambio che di restituirmi il quaderno, in tal caso scriverò il tuo nome sul
mio quaderno”
Suo padre che la faceva tanto lunga sull’essere il
migliore e non aveva che una schifosa fabbrica di cravatte. Patetico.
“La nostra è una famiglia forte Kuraji, cerca di non
assomigliare a quella stupida di tua madre, è solo una persona piccola, mentre
tu assomigli a me, no?” mi aveva detto un paio di volte.
Poi mamma arrivava e lui sorrideva. Quello che succedeva,
poi, Kuraji lo sapeva a memoria.
Lui si sarebbe arrabbiato perché lei non avrebbe creduto
che non stava parlando di lei.
“Che prove hai? Sei una vecchia pazza!” avrebbe riso lui.
“Oppure puoi usare il Death Note come vuoi, ma devi
vedere il volto di una ragazza e ucciderla”
Kuraji lasciò perdere i vestiti e guardò lo Shinigami.
“Si chiama Sayu Yagami, mi è vietato scrivere il suo
nome, ma tu. Tu puoi. Che ne dici, Kuraji? Non sarebbe uno spasso?”
Si passò la mano sulla frangetta scura sudata.
“Va bene, farò come mi chiedi…”
Riaprì stancamente gli occhi.
“…Ryuk”
***
Lì al parcheggio ci sono delle casse su dei pali e
riempiono di musica quel posto.
Lene mette gli occhiali da sole. Si è messo a fare caldo
improvvisamente, che rottura. A casa avrebbe acceso il condizionatore, avrebbe
preso una lattina di tè freddo. Sì lei lo comprava in lattina e molti giapponesi
avrebbero avuto da ridire. Tè con due cubetti di ghiaccio, il bicchiere alla sua
sinistra si sarebbe coperto di goccioline perché il tè, nell’immaginazione di
Lene, era bello freddo, poi si sarebbe messa al computer e avrebbe aspettato,
perché non aveva fatto un sito internet per scrivere articoli e aspettare
messaggi di incoraggiamento o minacce. Lei voleva che Kira lo venisse a sapere.
Immaginava che si sarebbe spacciato per un qualsiasi utente e avrebbe fatto
domande e lei doveva stare attenta ad accorgersi di qualcosa che non andava.
Per il momento due utenti avevano attirato la sua attenzione e li teneva
d’occhio.
Tenerli d’occhio, certo, invece era lì in uno stupido
parcheggio di un maledetto centro commerciale: l’aveva costretta Jim.
“Se non ti distrai almeno un po’ diventerai un vegetale”
le aveva detto.
Ora lui era in macchina, aveva ricevuto una telefonata e
Lene lo aspettava fuori appoggiata all’auto.
La musica era vecchia, aveva già ascoltato due o tre
brani. Erano nello stesso ordine di un cd che aveva avuto in macchina molto
tempo prima e che ascoltava fino alla nausea, quando andava al mare col suo ex
marito. Di solito mezz’ora di viaggio.
La macchina vibrava piano, allora, scorrendo
sull’asfalto, la musica ronzava a volume basso.
“Jim quanto ci metti?” sbuffò Lene bussando con l’indice
contro il finestrino.
Prima la costringe a uscire e poi la ignora. Che tipo.
Lui si mise il cellulare in tasca e uscì.
“Era ora” sbuffò Lene.
Lui la guardò serio.
“Come al solito lavoravo per te. Quell’imbecille di Adam
River sta cominciando a darmi sui nervi con le sue insinuazioni” disse,
cominciò ad avviarsi facendo cenno a Lene di seguirlo. Lei si tolse gli
occhiali da sole e li buttò senza attenzione nella borsa.
“Insinuazioni?”
“Vuole spillarti soldi. Oh Lene è una così cattiva
moglie” lo scimmiottò Jim nervoso.
Lene cominciò a pensare che il suo non era un
comportamento molto professionale.
“Dice che dubita che Nate fosse figlio suo perché aveva i capelli bianchi. Certo, per lui
te la sei fatta con un albino”
Lene si fermò indignata.
“Nate era malato! Era malato, maledizione, non ha i miei
capelli, non ha i suoi capelli e neanche quelli di un qualsiasi amante, cazzo!”
“Calmati” l’ammonì Jim.
“Non è questo il punto, ovviamente io sosterrò
diversamente, ma a me lo devi dire. Possiamo dire molte cazzate, ma a me devi
dire la verità” disse lui.
“Lene, mi confermi che non hai avuto Nate con un altro?”
***
Matsuda era venuto a prendermi molto presto. Forse avrei
dovuto dire “prenderci”, visto che Light si era seduto dietro e probabilmente
fissava lo schienale del mio sedile e i miei capelli in modo molto contrariato.
Certamente, avrebbe preferito che continuassi ad assecondarlo come una servetta
senza prestarmi a questo genere di sciocchezze.
“Allora Sayu” iniziò Matsuda.
“Dopo tutto questo tempo avrai sentito qualche amica,
no?”
Dopo quella specie di coma hai riallacciato qualche rapporto?
Tradussi mentalmente e mi sforzai di sorridere. Gli
angolini della bocca disobbedivano, forse tremavano un po’, ma lui guardava la
strada, non l’avrebbe notato.
“Sì. Proprio stamattina” risposi.
“Fantastico Sayu!” sorrise lui, girò la testa per
guardarmi.
“Non hai perso tempo, fai bene! Sono contento per te”
“Ehm… la strada” gli ricordai.
Lui fece una faccia buffa e tornò a guardare avanti,
imbarazzato.
Io ridacchiai.
“Dove mi porti Matsuda?” cercai di essere gentile,
dopotutto era così buono. Light dietro di me sbuffò.
“Dove ti porto? In pizzeria credo. Ma chiamami per nome”
Be’ a dire il vero il suo nome era orrendo.
“Tati” decisi alla fine. Sperai che lui lo prendesse per
un nomignolo affettuoso e in effetti sorrise compiaciuto.
“Non per essere
ripetitivo, ma tutto questo è una gran buffonata” sbuffò Light.
“Forse preferisci ristorante, Sayu?” chiese.
“No, troppo formale” risi.
“Oppure potremmo andare in un centro commerciale e
mangiare qualcosa lì”
Mi stupii del mio stesso entusiasmo e anche del fatto che
Light non avesse fatto qualche commento sprezzante.
Matsuda si girò verso di me.
“Agli ordini!” esclamò felice.
“Matsuda la strada!”
Lui si girò di scatto e continuò a guidare. Mi portò
fuori città e per qualche minuto vidi solo autostrada, poi Matsuda svoltò a
sinistra. La strada era piena di buche, io ridevo come se la macchina fosse una
giostra. Lui stava per parcheggiare davanti al centro commerciale, poi cambiò
idea, si allontanò con la macchina e mi portò in una parte vuota del
parcheggio: accanto c’era solo una discesa affiancata a due muretti.
Lui si tolse la cintura uscì e aprì il mio sportello.
“Vuoi provare a guidare?” chiese.
Io mi irrigidii: non avevo mai toccato un’auto prima,
soltanto una volta un mio amico mi aveva fatto provare il motorino ma aveva
fatto praticamente tutto lui dietro di me.
“Ehm…” esitai.
“Dai Sayu, qui è tutto vuoto, sarà divertente, ti aiuto
io!”
“Sayu non farlo!” il tono di allarme nella voce di mio
fratello mi fece infuriare per l’ennesima volta.
“Ok, Tati”
Lo stavo facendo per sfida, pensai allarmata mentre
scendevo e Matsuda prendeva il mio posto.
Entrai anche io e chiusi lo sportello.
“Sayu!” gridò Light.
Matsuda prima girò il volante a destra fino a quando si
bloccò, poi girò le chiavi. Io misi le mani sul volante.
“Il pedale a sinistra è la frizione, schiaccialo fino in
fondo” mi disse. Io premetti il piede, ma invece del pedale stavo schiacciando
solo una parte ancora più a sinistra della macchina, irritata guardai meglio e
puntai il piede.
Tak-taaak
“Bene” disse lui soddisfatto.
“Sayu smettila subito, togli il piede, esci, non farlo!”
“A destra invece c’è l’acceleratore schiaccia anche
quello ma non molto, ok?”
Le mani sul volante sudavano, avevo una gran voglia di
toglierle.
Misi il piede sul pedale a destra.
Bruuum
Deglutii. E ora?
La macchina si mosse con mio orrore.
No! Troppo tardi per alzarmi, troppo tardi!
“Ok calma” disse Matsuda un po’allarmato.
Girare a sinistra? A sinistra c’era l’autostrada. La
macchina prese velocità anche se non stavo facendo niente.
Il panico vero e proprio mi prese quando vidi che eravamo
vicini alla discesa a quel punto l’auto andava veloce.
Sollevai appena i piedi sperando che almeno uno dei due
affari bloccasse l’auto.
“Frena!” mi avvertì Matsuda.
Io guardai davanti a me: avevamo preso la discesa, il
muro era vicino.
“Dove sono i freni?”
Veloce, veloce, muro, muro.
BAAAAAAM
Il dolore invase le ginocchia l’urto sembrava non voler
smettere di spingermi avanti.
Fermo.
Respirai aspettando che la fitta alle ginocchia si
sciogliesse.
Nessun dolore alla testa. Le braccia erano ancora tese
come due tronchi contro il volante.
Aprii gli occhi.
Qualcosa teneva le mie spalle attaccate al sedile.
Light.
“Sayu” gemette Matsuda. Io girai la testa e lui mi
abbracciò.
“Come stai? Come stai?”
Mi veniva da piangere, ma cercai di trattenermi.
“Sto bene”
“Maledizione!” esclamò.
“Ti chiedo scusa Sayu, sono un idiota”
“Sì che lo sei!” gridò Light dietro di me.
“Stupido! Stupidi! Sayu! Non è solo la tua vita che
rischi! Non è solo la tua! Vedi di crepare quando sei solo tu a morire! Hai
capito?”
Era furibondo.
A quel punto la tensione si fece così forte che scoppiai
a piangere per davvero.
“Scusa Sayu! Ti prego perdonami è colpa mia! Scusa!”
Lasciai il volante e scesi. Anche Matsuda uscì e fuori mi
abbracciò ancora. Lo lasciai fare, le braccia mi tremavano troppo per
ricambiare o respingerlo.
Scambiammo una seconda volta posto, questa volta fu lui a
spostare la macchina, poi uscì a controllare il motore e io rimasi dentro.
Light si sporse verso di me e mi appoggiò una mano sulla
guancia.
“Stai bene?”
Feci segno di no con la testa.
“Ti sei rotta qualcosa”
“No ma… le ginocchia fanno… fanno male” sussurrai.
“Alza i pantaloni” disse.
Io tirai su l’orlo fin sopra le ginocchia.
Erano molto arrossate ma non gonfie e c’era uno strato
sottile di pelle sollevato.
“Ok” disse.
“Anche se ti sei fatta male, ti è andata bene”
“Non volevo gridarti contro” si scusò.
Matsuda aveva finito di controllare ed era rientrato.
“Posso tornare a casa?” gli chiesi.
“Certo” sussurrò lui, sconsolato.
“Ci mancherebbe”
Mi sentii sola.
Anzi avevo paura, perché sarei rimasta sola con una testa
piena di morti, di segnalazioni dai telegiornali, di pagine scritte.
“Matsuda…” aggiunsi.
“Resta a casa con me”
***
Lene evitava di ripensarci anche se inevitabilmente
ricordava: lei e Adam si erano sposati da poco e non c’erano soldi. Si erano
appena laureati ed erano senza lavoro, la madre di lui gli aveva passato
qualcosa e per un periodo Adam aveva spacciato marijuana a ex compagni di
università più giovani di un anno che ancora frequentavano la scuola.
“Per rimanere svegli, per studiare” le aveva spiegato.
I suoi genitori invece non ne sapevano ancora niente, lei
voleva trovare il tempo, il momento.
Non c’erano soldi e loro avevano affittato un
appartamentino in periferia, poco arieggiato, ricordava.
Adam quel giorno era andato a un colloquio di lavoro,
solo successivamente Lene avrebbe scoperto che era andato bene e che i soldi
potevano cominciare ad arrivare. Lei era stanca e si era lasciata cadere sul
letto rimanendo sdraiata per ore con la finestra del balcone un po’ aperta. Era
in canottiera e pantaloncini, per la comodità naturalmente.
Poi cominciò a far caldo, un caldo infernale anche se
fuori pioveva, la sua pancia era bagnata
di sudore, e allora si era tolta i vestiti, poi la biancheria e solo dopo si
era accorta che il suo corpo non si muoveva.
Dalla portafinestra socchiusa entrò un uomo, un uomo dai
capelli lunghi castani e gli occhi scuri, un uomo che si appoggiò su di lei, sul suo corpo
irrigidito.
Lene ricordava che il caldo era intollerabile, doloroso.
Quell’uomo la terrorizzava col suo volto impassibile, il
volto di un messaggero di morte, un dio della morte.
Quell’uomo che poi scomparve le aveva dato Nate. A Jim
non l’aveva detto naturalmente e lui le aveva creduto. All’uscita dal centro
commerciale Lene vide una macchina con la carrozzeria ammaccata uscire
frettolosamente dal parcheggio. Per qualche motivo si sentì inquieta.
***
Sesso è…
La finestra semi aperta dietro di me, il fascio d’aria
che si fa strada come una falce, tocca la schiena, la percorre fredda fino al
collo, sottile tocco gelido e tagliente come minacciando di calare fino alle
ossa.
Hai paura? Hai paura? Hai…
Sesso è…
I capelli davanti agli occhi, come sbarre, che dividono
le schegge di immagini davanti a me, la scrivania, capelli neri, non i miei:
Matsuda, un mento, labbra.
I capelli sulla schiena, sulla bocca, sulle spalle, sul
collo, bagnati, ancorati alla pelle, sottili, taglienti, in fili. Fili. Fili.
Sesso è…
Calore denso: lava sulle gambe, lava sulla pancia, lava e
sudore che scendono lenti come un’agonia.
Sesso è…
Le spalle spinte all’indietro tese come se si volessero
toccare fra loro dividendo la schiena e il mio corpo che si accartoccia come
attorno a un perno. Ecco: separazione. Frammenti che rabbrividiscono, si
spezzano, volano. Volano. Volano. Il mio corpo è un puzzle infranto con pezzi
indipendenti.
I polmoni premono quasi contro le costole. Ecco che fanno
male un male pulsante che vuole freddo. Desidera. Freddo. Desidera. Tagli. E il
sudore.
Sesso è…
La mia ombra, una sagoma nera che si inarca e trema, si
tende, si contrae.
Hai paura? Hai paura? Hai…
Sesso è…
Un cuore che sembra spezzarsi al momento dell’orgasmo, il suo poco prima
del mio. Perché, perché l’allontanamento dei sessi è un parto. Il più
spaventoso.
Dall’oblio al buio io nacqui.
***
Lo schermo si colorò di grigio davanti agli occhi di
Kuraji, la pagina di un sito dove una elle nera macchiava lo sfondo.
Le indagini su Kira lesse.
“Guarda, guarda”
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Scusate tanto il ritardo, colpa della gita :) sono stato in
Sicilia e ho visto Medea a teatro, proprio rossa come la immaginavo scrivendo
il primo capitolo.
Un piccolo dettaglio: Kuraji è nato pensando agli
ikikomori (ci sarà l’acca iniziale? Mistero) cioè ragazzi giapponesi che a
causa della competizione che nasce nella scuola e nella società sono spinti a
gesti come chiusura totale e rifiuto del mondo esterno o addirittura
comportamenti violenti. Ho notato che tutti avete colto questo aspetto. Ne sono
lieto.
Passo ai ringraziamenti.
Reus: lo so che sembra strano vedere una Sayu così sfacciata,
in effetti trattare il cambiamento è sempre un’operazione delicata per uno
scrittore. Il dolore cambia la gente, come la paura, questo è vero, ma come
cambia? Probabilmente tu immaginavi una minore forza in Sayu. Tuttavia gli atti
di ribellione sono spesso conferma di debolezza in questi casi, infatti
nonostante tutto lei si piega alla volontà del fratello. Il tuo parere però mi
ha fatto fare più attenzione al riguardo e mi ha giovato a prescindere dall’eventuale
torto o ragione del tuo commento. Detto questo ti ringrazio e ti invito a
rimanere schietta come in questo caso perché mi serve :D! Grazie disgraziata :-*
Darseey: La tua recensione mi ha molto tranquillizzato. Ammetto
di essere stato in ansia. Grazie per quel che hai detto sui nuovi personaggi:
per chi si inserisce in una storia già bella e formata l’inserimento di
creature proprie rappresenta un grande punto interrogativo e motivo di ansia.
Per fortuna dissipata in questo caso. Quando scrivo in effetti do molto peso
all’elemento introspettivo e spero di rendere i personaggi credibili, con
spessore, ma non pesanti… è una fatica ma è bello sapere di riuscirci. Ancora
mille grazie.
Bleus De Methylene: Vedo che sei tra quelle che hanno
riconosciuto il triste fenomeno in Giappone. Naturalmente gli assassini si
possono al massimo comprendere :) Sì è vero queste donne vogliono farsi valere
e lottare. Una come madre, l’altra proprio come persona. Grazie per il tuo
commento.
Francy91: Medea è sempre presente, hai ragione è presente in un’indole
passionale che crea l’emozione e gli eroi di un racconto. In un certo senso
Medea è l’arte: la passione che la gente non si concede, il furore estremo è anche
la bellezza estrema. Più una cosa è impossibile più è bella. Non riesco neanche
a risponderti perché quello che scrivi nei commenti indovina molto di quello
che ci sarebbe da dire.