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Autore: Marina Swift    18/12/2016    1 recensioni
[Seconda classificata e vincitrice del premio come miglior sviluppo dell'AU e come storia preferita dal giudice al contest "Portami via da qui", indetto da AriaBlack sul forum di Efp]
{KageKi, 3752 parole} {Jazz!AU}
Dal testo:
Dopodiché, Ray si sedette al pianoforte e cominciò a suonare.
Fu come se non ci fosse stato nessun’altro, in quel luogo. Le sue dita scorrevano sui tasti come l’acqua di un ruscello, e producevano un suono dolce e struggente, che sembrava fondersi armonicamente con gli altri strumenti, pur riuscendo a sovrastarli: suonava note delicate e intense, rapide e lente, ma che parevano avere la capacità di toccare nel profondo l'anima delle persone che ascoltavano. Il pubblico aveva smesso di parlare ed era rimasto in silenzio tombale, le orecchie tese, che cercavano di catturare ogni singola sfumatura di quel così piacevole suono.
A Jude qualcuno - forse Caleb, ora che ci pensava - disse che un giorno, un uomo aveva provato ad appoggiare un sigaro sulle corde del pianoforte, dopo l’esibizione. E che si era acceso. Il ragazzo non ne fu affatto sorpreso.

Enjoy!
Genere: Generale, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Kageyama Reiji
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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Piano Bronx
[Questa fanfiction partecipa al contest "Portami via da qui" indetto da A r i a sul forum di Efp]


Nickname su Efp e sul forum:
Marina Swift (sia sul forum che su Efp)

Titolo:
Piano Bronx - la leggenda del pianista di New York

Fandom:
Inazuma Eleven

Genere:
Generale, sentimentale, triste

Personaggi (eventuale pairing):
Kageyama Reijii, Kidou Yuuto (KageKi, accennata)+ Fudou Akio, Kudou Michiya e la versione genderbender di Afuro Terumi

Rating:
giallo

AU scelta (+ song e/o quote, qualora ce ne siano):
Jazz!AU, quote K

Introduzione:
(Questa ff partecipa al contest "Portami via da qui", indetto da A r i a sul forum di Efp)
(KageKi, 3752 parole)
Dal testo:
Dopodiché, Ray si sedette al pianoforte e cominciò a suonare. Fu come se non ci fosse stato nessun’altro, in quel luogo. Le sue dita scorrevano sui tasti come l’acqua di un ruscello, e producevano un suono dolce e struggente, che sembrava fondersi armonicamente con gli altri strumenti, pur riuscendo a sovrastarli: suonava note delicate e intense, rapide e lente, ma che parevano avere la capacità di toccare nel profondo l'anima delle persone che ascoltavano. Il pubblico aveva smesso di parlare ed era rimasto in silenzio tombale, le orecchie tese, che cercavano di catturare ogni singola sfumatura di quel così piacevole suono.
A Jude qualcuno - forse Caleb, ora che ci pensava - disse che un giorno, un uomo aveva provato ad appoggiare un sigaro sulle corde del pianoforte, dopo l’esibizione. E che si era acceso. Il ragazzo non ne fu affatto sorpreso.
Enjoy!

Note dell'autrice:
la ff e' ambientata negli anni venti, durante il proibizionismo a NY. La scelta di usare i nomi europei al posto dei giapponesi e' per mantenere un ambiente verosimile
Null



Piano Bronx
La leggenda del pianista di New York


Jude Sharp si ricorda perfettamente della prima volta in cui è andato all'Underwater. Le cause di ciò potrebbero potenzialmente essere molteplici e, forse, gran parte della “colpa” andrebbe anche all'aspetto del locale.
Costruito in uno dei vicoli più infimi e sudici della zona del Bronx, New York, l'Underwater si poteva probabilmente classificare uno dei luoghi più squallidi della città. Esternamente, si presenta come un piccolo edificio schiacciato tra altri due, ben più imponenti; la porta di ingresso, in legno scheggiato e chiodi arrugginiti, ha su scarabocchiate incomprensibili scritte in vernice bluastra, verde e gialla.
Un'insegna con sopra il nome del locale era stata appesa in malo modo sopra l'ingresso: le lettere “u” ed “e” sono tuttora mancanti, sbiaditesi a tal punto da sembrare trasparenti; dunque, per chiunque lo guardi da fuori, il nome del locale è "Nderwatr”, il che lo farebbe sembrare ispirato ad un qualche piccolo bar germanico.
Non che l'interno sia molto meglio, in realtà: l'Underwater si presenta come un locale di medio-piccole dimensioni, pieno di tavolacci di legno - terribilmente ed irrimediabilmente scheggiati - e di sedie che minacciano di cedere ogni qual volta che qualcuno vi si accomoda sopra. Per richiamare un po' un effetto “marino”, qualcuno aveva provato a dipingere un'enorme transatlantico sul muro di sinistra, dietro l'imponente bancone di pietra biancastra: tuttavia, il lavoro era stato svolto a metà, e quindi la nave ad un certo punto s'interrompeva: per cercare di ovviare a questo problema il resto della parete era stato ricoperto di poster di avvenenti donne in minigonna e scaffali sovraccarichi di alcolici messi dentro bottiglie di acqua di varie marche. Infine, un palco si ergeva schiacciato contro la parete frontale: lì vi si esibivano ogni sera musicisti e cantanti, nel tentativo di allietare un po' l'atmosfera.
è un miracolo come la gente non scappi appena entrata: in quella stanza c'è un terribile odore di vomito, alcol e fumo e abbastanza polvere da stroncare qualsiasi persona anche solo minimamente allergica agli acari.
Eppure Jude non aveva tentato neanche minimamente di fuggire da lì, anzi: non appena vi era entrato, era rimasto fisso sulla porta, limitandosi ad osservare placidamente le varie persone che non avevano niente da fare che ubriacarsi fino al coma etilico. O almeno, era quello che aveva fatto fino a che un uomo sulla quarantina - lo stesso per cui si trovava lì in quel momento - non lo aveva avvicinato, facendolo distrarre un attimo dalla sua contemplazione della sala.
« Signor Travis, buongiorno » cercò di salutare educatamente il castano « O buonasera, in effetti »
« Sono felice che tu abbia deciso di accettare il lavoro che ti ho offerto » si limitò a replicare l’altro, passandosi una mano tra i capelli viola « Ma sei in ritardo di almeno un quarto d’ora. Sbrigati, va’ sul palco »
Detto ciò, l’uomo si congedò, mettendosi a chiacchierare amabilmante con uno dei clienti. A questo punto, Jude sarebbe volentieri andato a chiedere altre direttive, ma fu fermato dal rumore di un violoncello che si accordava; si mise a pensare che, in effetti, era lì per lavorare e non certo per fare conversazione. Cercò dunque dei gradini per salire sulla sorta di piano rialzato sopra la quale, in teoria, si sarebbe dovuto esibire: non trovandoli, cercò d’issarsi con la sola forza delle sue braccia, cosa che gli fu parecchio difficile, avendo un pesante sassofono sulla schiena (a volte, Jude si chiede ancora perché non se lo fosse tolto, per tirarlo su dopo).
Ad “attenderlo”, si può dire, c’erano già due ragazzi che dovevano avere pressapoco la sua età: uno dei due, quello che un istante prima aveva suonato il violoncello, decise d’iniziare a parlare al castano nel medesimo istante in cui esso stramazzò sul legno scheggiato della piattaforma, il quale, tra l’altro, gli aveva appena graffiato la guancia sinistra.
« Ma tu guarda… ritardatario e imbranato, una combinazione eccellente »
Quando si alzò per guardarlo, Jude notò che era quasi completamente calvo, salvo un lungo ciuffo scuro che gli ricadeva sulla fronte: esso, assieme ai suoi occhi piccoli e scuri e ai suoi vestiti laceri e sudici, lo faceva sembrare incredibilmente somigliante ad uno dei frequentatori medi del posto. Jude avrebbe ribattuto più che volentieri all’offesa - gli sembrava più che giusto - ma decise di evitare di attaccare briga, visto che era solo il suo primo giorno di lavoro e probabilmente insultare un collega gli avrebbe fatto rischiare il posto.
Giusto mentre la persona che aveva davanti stava per dire qualcosa che suonava come un “Toh, è pure muto”, lo sguardo del castano fu attirato dall’enorme pianoforte a coda che occupava almeno un quarto del palco.
E alla persona che vi era seduta accanto.

Di primo impatto, Jude pensò che quell’uomo fosse semplicemente troppo vecchio.
Doveva avere all’incirca quarant’anni, se non di più, e stonava in maniera ben decisa con il resto della clientela del bar, la cui età massima si aggirava sui venti, massimo venticinque anni. Inoltre era alto e massiccio, aveva le spalle ampie e squadrate nascoste dietro un abito nero moderatamente elegante, che ben si abbinava con i suoi capelli castani e lisci, probabilmente ricoperti da uno o due strati di lucida brillantina.
Non era particolarmente di bell’aspetto - il naso aquilino era forse fin troppo lungo e anche il resto del viso portava segni evidenti dello scorrere del tempo - ma aveva un’aria affascinante e autoritaria, che catturò subito l’attenzione del castano.
« Caleb, evita d’insultare il nuovo arrivato, per favore » quelle ultime due parole sembrarono più una minaccia che un’educata aggiunta a fine frase. Aveva un tono di voce calmo e fermo, leggermente roco, a cui aggiungeva una postura elegante e composta « E tu come ti chiami, ragazzo? »
« Jude » il diciassettenne cercò di scandire bene le lettere che componevano il suo appellativo, anche se il risultato fu ben scarso « Jude Sharp »
L’uomo che aveva davanti sembrò compiaciuto, come se il nome che aveva appena sentito gli fosse particolarmente piaciuto - in effetti, qualche giorno dopo gli disse che l’aveva trovato particolarmente melodico - poi, con la solita flemma, gli disse il proprio, che Jude capì essere Ray Dark.
« In ogni caso, non hai una bella cera. Togliti quel sangue dalla guancia, o quelli che sono qui per ascoltarci penseranno che tu ti sia azzuffato con qualcuno »
Detto questo, frugò nella tasca destra della sua giacca e ne tirò fuori un ruvido fazzoletto di lino, che utilizzò per pulire la ferita del giovane sassofonista, il quale sembrò vagamente turbato dal gesto, fin troppo familiare per due persone conosciutesi da pochi minuti. Non ebbe, tuttavia, molto tempo per replicare, visto che il signor Travis apparve magicamente sul palco, annunciando che il “concerto” stava per iniziare. Con lui, c’era un'affascinante ragazza bionda vestita da dea greca che Jude scoprì chiamarsi Aphrodite ed essere la cantante di quella strana jazz band.
Esattamente venti secondi dopo, al castano venne portato uno spartito, che gli dissero essere ciò che avrebbe dovuto suonare quella sera: fortunatamente non sembrava un pezzo di grande virtuosismo.
Dopodiché, Ray si sedette al pianoforte e cominciò a suonare.
Fu come se non ci fosse stato nessun’altro, in quel luogo. Le sue dita scorrevano sui tasti come l’acqua di un ruscello, e producevano un suono dolce e struggente, che sembrava fondersi armonicamente con gli altri strumenti, pur riuscendo a sovrastarli: suonava note delicate e intense, rapide e lente, ma che parevano avere la capacità di toccare nel profondo l'anima delle persone che ascoltavano. Il pubblico aveva smesso di parlare ed era rimasto in silenzio tombale, le orecchie tese, che cercavano di catturare ogni singola sfumatura di quel così piacevole suono.
A Jude qualcuno - forse Caleb, ora che ci pensava - disse che un giorno, un uomo aveva provato ad appoggiare un sigaro sulle corde del pianoforte, dopo l’esibizione. E che si era acceso. Il ragazzo non ne fu affatto sorpreso.
In effetti, ancora non riesce a capire come quell’uomo riuscisse a produrre qualcosa di così meraviglioso, una melodia che lo colpì così profondamente che le sue dita rimasero completamente intorpidite, incapaci di muoversi.
Jude si ricorda perfettamente di quel momento.
Fu la prima volta nella sua vita in cui non riuscì a suonare.

Jude immaginava che dopo il concerto qualcuno l’avrebbe pesantemente rimproverato. Era il momento in cui avrebbe dovuto dimostrare ciò di cui era capace, per guadagnarsi quel lavoro di cui, dannazione, aveva un disperato bisogno… ed era rimasto completamente immobile ad ascoltare Ray suonare, senza muovere un muscolo. Insomma, non è che avesse fatto un gran lavoro.
Invece, ebbe la vaga impressione che ciò che successe fosse esattamente il contrario di ciò che aveva immaginato.
Finito il concerto, Caleb aveva sogghignato ed era sceso dal palco, assieme ad Aphrodite e al ragazzo che suonava il trombone, di cui Jude non capì mai il nome. Travis invece gli si era avvicinato velocemente, con aria più comprensiva che irata.
« Succede sempre così a tutti quelli che lo sentono la prima volta, non preoccuparti » gli disse, come se non fosse successo niente di strano « Ma alla prossima esibizione sappi che ho tutta l’intenzione di vederti suonare, non ti ho chiamato per fare presenza scenica »
Nel momento in cui Percival si allontanò, fu Ray a venire verso di lui.
« Signor Dark, mi disp… » iniziò, venendo fermato dalla mano dell’uomo, che si posò sulla sua spalla.
« Mi aspetto grandi cose da te, ragazzo » annunciò. E quella fu l’ultima cosa che Jude gli sentì dire, quel giorno.
Si limitò ad osservarlo mentre camminava verso l’uscita, tra gli applausi delle persone ormai non più completamente sobrie, i bicchieri di alcol ancora mezzi pieni nelle mani, mentre le sue parole gli risuonavano nelle orecchie, imprimendosi a fuoco nella sua mente.
Jude si sarebbe chiesto a lungo il perché di quella frase, considerato che l’uomo non lo aveva mai sentito, al sassofono. E quando lo chiese, tempo dopo, a Ray, lui gli rispose semplicemente che c’era qualcosa nei suoi occhi che l’aveva colpito.
Come se avesse avuto la capacità di leggergli l’anima.

« Non sei così malaccio, tu »
Era la ventisettesima volta che ripeteva lo stesso brano e in effetti, quelle parole non erano poi così incoraggianti. Tuttavia, Jude le trovò una grandissima soddisfazione, visto che il signor Dar... Ray (non si sarebbe mai abituato a come gli aveva chiesto di chiamarlo, diamine) non aveva detto niente da quella mattina.
Era passata meno di una settimana, da quando lui aveva iniziato a frequentare l'Underwater come musicista e per tutto quel tempo Ray aveva seguito minuziosamente ogni suo minimo progresso. Era sempre presente ogni qualvolta il castano prendeva lo strumento in mano e se ne andava solo quando era completamente sicuro che non avrebbe più suonato nemmeno una nota; nel lasso di tempo in cui Jude “usufruiva” del suo sassofono, stava fermo in silenzio ad ascoltarlo, senza emettere un suono e, il più delle volte, chiedeva a tutti gli altri che stavano provando - Caleb e Aphrodite, per dirla tutta, perché il “ragazzo-del-trombone” non li degnava quasi mai della sua presenza - di zittirsi completamente, per evitare che disturbassero la sua esibizione. Capitò anche, una volta, che chiedesse all'intero pubblico che si era formato nella sala di smetterla di parlare. Incredibilmente, gli diedero retta.
La verità è che Ray era semplicemente fantastico: aveva un carisma tale da riuscire a far fare a tutti quello che desiderava, senza neanche il bisogno d'imporsi troppo. Forse erano la sua statura e il suo fisico possente, ma Jude aveva iniziato a dubitarne il giorno dopo che lo aveva conosciuto. Aveva decisamente la stoffa del leader: era praticamente impossibile non notarlo subito e lo faceva apparire così... autoritario, affascinante? Il castano non trovò mai una risposta a questa domanda.
« A cosa stai pensando? »
La voce di Ray interruppe i suoi pensieri, facendo rendere conto a Jude che, tra l'altro, il suo sax gli stava pericolosamente scivolando dalle mani.
« A niente » l'altro cercò di essere minimamente convincente, mentre mentiva. Non pensò di esserci riuscito molto.
« A una donna? » provò a domandare nuovamente l'uomo, mentre dietro Caleb ripeteva in falsetto “una donna!” e Aphrodite ribatteva che sicuramente doveva essere lei. Ray gli ignorò entrambi.
« Ieri ti ho visto mentre guardavi la foto di una ragazza » continuò imperterrito « è la tua fidanzata, per caso? » Jude parve sbiancare, mentre si chiedeva come Ray avesse fatto a notarlo. « Eh? No, no. è mia sorella, in realtà, si chiama Celia. I nostri genitori sono morti in un incidente e da allora la sua vita è completamente sulle mie spalle. Lei lavora come cameriera, ma dannazione, i soldi non bastano mai, così mi sono dovuto trovare in fretta un lavoro e... »
« Mio padre era un musicista »
« Hm? » Jude cercò di capire perché Ray lo avesse interrotto, ma non riuscì a chiederglielo, notando che nel suo racconto era quasi arrivato sull'orlo delle lacrime.
« Lavorava anche in un bel posto. Uno di quei bei bar di Manhattan, hai presente? Ed era bravo. Probabilmente non un grande talento, ma piaceva al pubblico » Ray proseguì il suo discorso senza variare minimamente il tono della sua voce « Un giorno però un novellino - un certo David qualcosa, se non erro - riuscì a soffiargli il posto. Da allora perdemmo tutto e mio padre sbatté me e mia madre fuori dalla porta di casa. Lei morì di fame qualche giorno dopo e io riuscii a trovarmi questo lavoro, grazie a Dio »
Jude alzò la testa, sconvolto dal discorso appena udito. Per un po' le sue labbra non riuscirono ad emettere alcun suono. Poi Ray gli appoggiò una mano sulla spalla - esattamente come la prima volta che si erano conosciuti - e gli rivolse un sorriso caldo, quasi compassionevole.
« Dev'essere stata dura, ragazzo, mi dispiace »
Se ne andò. E come ogni volta, Jude lo rivide solo la sera dopo.
Il giorno seguente Ray arrivò con un pacchetto nero in mano; il castano non fece in tempo a chiedersi per chi fosse, che già gli era finito in mano. Lo aprì e ci trovò dentro un paio di occhiali da aviatore, dipinti di una deliziosa tonalità di blu; li soppesò con attenzione tra le mani, chiedendosi il perché di un tale dono, ma Ray anticipò qualsiasi domanda che lui avrebbe potuto porgli, mettendosi a parlare per primo.
« Erano miei, di quando per qualche anno ho dovuto fare carriera militare. Li ho fatti ridipingere » la Prima Guerra Mondiale, immaginò Jude, o forse un conflitto precedente e di minore entità « Ho pensato che ti sarebbero stati bene »
Il diciassettenne sorrise imbarazzato mentre li indossava: dopodiché, si guardò in una delle piccole specchiere che, per qualche ragione, erano appese dietro al palco. Gli calzavano a pennello.
« Grazie » disse semplicemente, mentre se li sistemava sul naso. Le lenti erano leggermente rigate, ma non gli diede troppo fastidio. Dietro di lui Caleb stava ridendo, commentando con un “sembri un piccolo soldatino”, ma Ray assunse un'espressione molto compiaciuta.
« Prova ad indossarli, stasera, ti calzano alla perfezione » gli suggerì, tradendo una certa soddisfazione che molto probabilmente stava provando in quel momento « è un peccato solo che ti coprano quei begli occhi rossi »
Aggiunse l'ultima frase sussurrando, come se stesse parlando tra sé e sé; tuttavia, Jude riuscì a sentirla più che bene, e per un attimo pensò di essersi sbagliato. « I miei occhi? » ripetè, abbastanza incredulo.
Ma non ottenne risposta.

Da quel momento passarono altre settimane, poi altri mesi, fino a che non si arrivò quasi alla fine dell'anno.
Jude aveva continuato a presentarsi all'Underwater ogni sera e ogni sera aveva suonato, imperterrito, fino alla chiusura del locale. Sempre con Ray, ovviamente. Ormai gli pareva quasi come se non potesse fare a meno del suono del suo pianoforte: da quando vi si era abituato non ne poteva più fare a meno. Se non c'era l'uomo nelle vicinanze non riusciva neanche a prendere il sassofono in mano. Gli sembrava che il suono fosse più vuoto, che gli mancasse qualcosa. Celia nel frattempo aveva iniziato ad uscire con un frequentatore abituale del locale dove lavorava, che si scoprì essere il figlio di un ricco imprenditore: suo padre aveva offerto a Jude un posto nella propria azienda, di sicuro ben pagato, ma lui aveva cordialmente rifiutato. Ora che non doveva più mantenere sua sorella, ciò che guadagnava gli bastava ampiamente per vivere.
In più, si era reso conto di non poter fare più a meno di andare in quello squallido bar dei bassifondi: anche quando non doveva lavorarci, infatti, gli capitava di tornarci per errore, come se ci fosse una calamita che lo attirava. E poi, anche quando il locale era chiuso, c’era sempre Ray che suonava, visto che, come diceva lui, dove viveva non c’era un pianoforte. A Jude piaceva fermarsi ad ascoltarlo, per sentire i suoi nuovi brani in anteprima: Ray era un fantastico compositore: quando creava musica sembrava quasi che ti stesse raccontando una storia.
Una volta aveva anche composto un brano solo per Jude, a cui aveva dato il breve ma significativo titolo di soulmates. Quando il castano gli aveva chiesto il perché di quel titolo l'uomo aveva risposto che era convinto che ci fossero delle persone, nel mondo, le cui anime sembrassero quasi essere collegate dalla nascita, anime destinate a trovarsi, prima o poi. Aveva aggiunto che Jude era stato il primo che gli aveva fatto pensare che dietro quel pensiero ci fosse effettivamente qualcosa di veritiero.
Quando si accorgeva che c’era Jude ad ascoltarlo, Ray aveva preso l’abitudine di suonare spesso quel pezzo, quasi fosse un saluto, un gesto ovvio: a volte Jude gli aveva chiesto perché non lo suonasse in pubblico; come risposta aveva ottenuto un: “non penso che lo capirebbero a fondo, comunque”. Allora il diciassettenne aveva smesso di domandarglielo.
Quella sera però era la sera di Capodanno e Travis aveva esatto che si suonasse un brano nuovo, allo scoccare della mezzanotte, uno mai sentito, il più speciale di tutti. Al che Ray aveva consegnato a Jude quello spartito e gli aveva detto: “non ne esistono di più speciali di questo, per me”.
E la stavano suonando.
C’era Caleb che si sforzava di stare dietro alle note veloci del componimento, Aphrodite stava cantando come non aveva mai fatto in vita sua, con la sua bella voce calda e profonda e anche il ragazzo che suonava il trombone pareva starsi impegnando.
Eppure per Jude c’erano solo lui e Ray. Pianoforte e sax, da soli, come se il resto avesse smesso di avere un senso. E andava bene così.
Jude si sentiva come se non stesse più suonando per vivere: era come se stesse vivendo per suonare, come se in quel pezzo ci fossero ben più che qualche accordo da mettere al posto giusto, come se fare musica fosse diventata un’azione imprescindibile, un bisogno primario paragonabile al nutrirsi o al respirare. Ma che ciò succedesse ad una condizione, che Ray fosse lì da qualche parte, a suonare con lui.
Finita l’esibizione, lo sgangherato orologio a pendolo sul bancone iniziò a ticchettare annunciando la mezzanotte, e il pubblico iniziò ad applaudire e a gridare con vigore, scolandosi bottiglie di vino, birra e altri tipi di alcolici che quel giorno venivano venduti alla metà. Jude trasse un respiro profondo, poi girò lo sguardo fino a che non incrociò gli occhi scuri di Ray. L’uomo gli rivolse un sorriso, poi si alzò in piedi e si avvicinò a lui.
« Buon anno nuovo, Ray » sorrise di rimando, mentre rifiutava un bicchiere scheggiato pieno di champagne che il quarantenne gli stava offrendo.
« Buon anno nuovo, Jude »
Il castano era così occupato a riprendersi dall’esibizione, che non si accorse neanche che Ray lo aveva appena abbracciato.

Erano le sei e mezza del dieci gennaio del 1925, quando Caleb si presentò alla porta di Jude con un giornale in mano, i capelli scompigliati e un’espressione stranamente seria in viso.
« L’hai letta la notizia? Vengono a buttarci giù il locale »
L’ormai ventiduenne smise d’infilarsi la giacca di cuoio che aveva intenzione di utilizzare la sera stessa al locale e si sedette su una poltroncina nera, proprio davanti al tavolino dove aveva messo le foto del matrimonio della sorella, avvenuto l’anno prima, fissando interdetto la figura del collega - erano passati cinque anni e non riusciva ancora a considerarlo un amico - che lo stava attendendo tranquillo appoggiato allo stipite della porta, una sigaretta accesa in bocca.
« Mh? » fu tutto quello che riuscì a dire, prima che il giornale portatogli dal violoncellista gli finisse in mano. Lesse con attenzione la prima pagina, il viso che sbiancava parola dopo parola.
“è stata annunciata l’imminente demolizione di parte della zona ovest del Bronx, a causa di pericolosi cedimenti verificatisi in alcune delle costruzioni del quartiere suddetto…” i suoi occhi scorrevano rapidamente sulla carta stampata, mentre gli pareva che il suo cuore stesse lentamente perdendo battiti “Tutte le abitazioni e i locali presenti in quella zona sono stati completamente evacuati in vista delle esplosioni controllate che inizieranno a partire dalle sette in punto della serata odierna…"
Il castano corse verso Caleb con una velocità che neanche immaginava di avere. Nella sua testa aveva una sola, unica, fondamentale domanda.
« Dov’è Ray? »
« E cosa ne dovrei sapere io? » sbottò quell’altro, infastidito dalla vicinanza del ragazzo « Se non ha letto il giornale, sarà andato all’Underwater. Penso che Travis fosse ancora là, gli avrà detto di andarsene come ha fatto prima con me e Aphrodi... »
Non finì la frase. Jude era già schizzato giù dalle scale, scendendo i gradini a due a due, mettendosi a correre fino al bar. Il suo bar.
Aveva meno di mezz’ora. Ci volevano venti minuti per arrivarci, se si sbrigava.
Arrivò davanti alla porta con il fiatone, ignorando le decine di tecnici che gli “consigliavano" con tono minaccioso di andarsene, per la sua incolumità. Li ignorò completamente e schiacciò il viso contro il vetro di una finestra, appannato dal freddo, sperando di vedervi qualcosa. Qualcuno. Ray. E poi sentì il pianoforte che suonava.
Entrò nel locale con dovuta cautela, poi si diresse verso il palco, saltandoci sopra (almeno, con gli anni aveva imparato a salirci senza problemi) e si diresse verso il grande strumento, contando mentalmente i passi che lo separavano da esso.
Tre.
Due.
Uno.
«Jude» la voce del quarantacinquenne lo salutò quasi affettuosamente, mentre si alzava per venirgli incontro. Sembrava stupito, preoccupato e felice di vederlo al contempo, e Jude sperò che a prevalere fosse l’ultima delle tre cose.
« Ray » cercò di salutarlo senza tradire tutto ciò che stava provando in quel momento a causa di quella situazione. Sfortunatamente per lui, non era mai stato troppo bravo a mentire.
« Perché sei qui? Lo sai che ci faranno saltare in aria, vero? »
Il castano respirò profondamente, prima di parlare. Aveva capito benissimo che Ray aveva tutta l’intenzione di morire lì, in quel posto, con le esplosioni. E in effetti, quando Jude provò a pensare alla sua vita senza di lui e senza le prove di tutte le sere, pensò che avesse ben poco senso provare a condurre uno stile di vita diverso. Oh, andiamo, erano le sue ultime parole, non poteva sprecarle così.
« Se tu rimani qui, rimango anche io »
Pensò che avrebbe anche potuto dire qualcosa che sembrasse più intelligente, quindi decise di proseguire il discorso. « Sai quando mi hai raccontato i tuoi pensieri sulle anime gemelle? In tutto questo tempo ci ho pensato e sono finalmente giunto ad una conclusione. Non so di cosa siano fatte le anime, ma la mia e la tua sono fatte della stessa cosa » finì il discorso senza respirare neanche una volta, mentre parlava. Si sentì sfiatato, ma incredibilmente gioioso di essersi “svuotato” così. Ray non disse niente. Si risiedette calmo sulla piccola panca di pelle, davanti al suo pianoforte.
« Quindi, cosa facciamo ora? » gli domandò poi l’uomo. Probabilmente, in realtà, sapeva la risposta.
« Quello che sappiamo fare meglio » Jude guardò l’orologio a pendolo che era rimastò lì per tutti quegli anni, e sorrise mestamente « Suoniamo »
Non aveva il sax, quindi si limitò a sedersi accanto a lui. E insieme, si rimisero a suonare una canzone.
La loro canzone.

Il mattino dopo, tra le macerie del locale, vennero ritrovati i corpi di due uomini sopra i resti di un pianoforte.
Mentre li spostavano, nessuno si accorse che le loro mani si erano intrecciate.

note dell'autrice:
Non mi piace, lo ammetto. Però ci tenevo a pubblicarla lo stesso, quindi temo che vi toccherà sorbirvi quest'orrenda adorabile ff <3
Nel testo, per chi l'avesse notato, ci sono almeno millemila riferimenti all'opera Novecento ma dettagli, mi ha molto ispirata.
Per chi invece mi chiede perché mettere Afuro genderbend... boh, francamente non c'è una ragione, mi piace di più lui/lei di tutte le altre ragazze di IE, ma dettagli-
Chiudo facendo un saluto ad Aria (che mi ha tanto sostenuta per questa ff, la carah), a quelle adorabili persone di Rid e della Micchan che si sono sorbite le mie paranoie sul testo e ringrazio chiunque sia arrivato fin qui.
Un bacione,
Mari-chan <3
   
 
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