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Autore: Losiliel    19/12/2016    5 recensioni
Il salvataggio di Maedhros da parte di Fingon in chiave moderna.
Una Russingon modern-AU.
Genere: Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Celegorm, Curufin, Figli di Fëanor, Fingon, Maedhros
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'First Age Daydream'
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CAPITOLO 6

dove accade l'inevitabile

 

 

 

Maedhros stava tremando di freddo.

La mano non formicolava più, ora era completamente insensibile, un'estremità priva di vita attaccata a un polso dolorante. La testa, pur essendo ancora attraversata da fitte acute, stava pian piano schiarendosi, segno che il suo organismo aveva cominciato a metabolizzare la sostanza che gli era stata somministrata. 

Doveva essersi addormentato per qualche minuto e adesso si trovava sdraiato su un fianco, il viso premuto al suolo e rivolto verso la parete alla quale era incatenato.

Davanti ai suoi occhi il pavimento di mattonelle terminava contro il muro. Lì l'intonaco era umido e si scrostava in più punti, rivelando i mattoni retrostanti. Uno di essi era crepato, e quando lo raggiunse con la mano libera scoprì che riusciva a muoverlo di qualche millimetro. Forse con un po' di impegno, grattando via la calce con le unghie, avrebbe potuto sfilarlo dalla sua sede.

Ma a che scopo? Poteva servire come arma? 

Anche se fosse riuscito a colpire uno dei suoi carcerieri e a metterlo fuori gioco, rimaneva comunque incatenato e senza dubbio sorvegliato da altre persone. A quel pensiero alzò lo sguardo per controllare ancora una volta la telecamera, e si accorse solo in quel momento della presenza, sulla parete adiacente a quella alla quale era vincolato, di un finestrone basso e largo, a ribalta, a circa due metri di altezza dal suolo.

La speranza che potesse essere una possibile via di fuga si estinse appena notò che, poco sopra il vetro, era agganciato un sensore di movimento.

C'era anche un allarme, dunque.

Accantonò l'idea del mattone e si concentrò sui problemi più immediati.

La priorità era resistere al gelo della notte, il che voleva dire rannicchiarsi il più possibile per limitare il contatto col pavimento ghiacciato e, soprattutto, cercare di rimanere sveglio.

Fece ricorso a tutte le sue forze e, in qualche modo, riuscì a mettersi a sedere. Tirò le ginocchia al petto e le circondò col braccio libero. Stava chiedendosi come avrebbe fatto a non addormentarsi, considerato che ogni fibra del suo corpo lo implorava di lasciarsi andare al sonno, quando, tutto a un tratto, la luce si spense e la stanza precipitò nel buio. Restò solo un debole riverbero contro il vetro, dovuto forse alla luna o a una qualche illuminazione artificiale, che rese la finestra un rettangolo opalescente.

Nel silenzio assoluto che seguì, lontano e indistinto udì il rumore del motore di un'auto in avvicinamento.

Non ci mise molto a capire: chi lo teneva prigioniero aveva spento le luci per non farsi notare. Forse temeva una ronda notturna della polizia o di qualche agenzia di sorveglianza.

Maedhros si tenne pronto a chiamare aiuto, o a battere la manetta contro la tubatura per farsi sentire.

Il rombo si fece più vicino, come se l'auto stesse per passare proprio sotto la sua finestra. 

E fu in quel momento che lui lo riconobbe.

Non era un'auto della polizia. Era il vecchio catorcio di Caranthir, che prima era stato di Celegorm e prima ancora di Maglor. Avrebbe riconosciuto quel motore tra mille.

E così i suoi fratelli si erano messi sulle sue tracce. Il suo pensiero corse a Curufin, l'unico abbastanza scaltro da riuscire a trovarlo e abbastanza spregiudicato da mandare gli altri in mezzo al pericolo.

Il rombo cessò.

Maedhros si tese in ascolto: lo sbattere di una portiera, poi più nulla per alcuni minuti. Passi o voci, se ce n'erano, erano troppo distanti perché lui potesse udirli.

Si immobilizzò e fece estrema attenzione a non fare alcun rumore.

Non aveva idea di dove si trovasse la stanza in cui l'avevano rinchiuso. Per quanto ne sapeva, poteva anche essere in un seminterrato, e da un momento all'altro avrebbe potuto vedere uno dei suoi fratelli spuntare da dietro il vetro della finestra.

Il suo ritrovamento avrebbe scatenato l'immediata reazione degli uomini che lo avevano catturato. Una reazione che sarebbe stata tutto tranne che amichevole.

Ragazzi, andate via, implorò, in silenzio. Andate via.

Dopo un tempo interminabile, sentì di nuovo la portiera che si chiudeva, poi il motore che si accendeva, infine l'auto che si allontanava.

Maedhros riprese a respirare e pregò che i suoi fratelli avessero lasciato sani e salvi quel luogo, ovunque si trovasse.

 

La notte ricominciò ad avanzare lenta e gelida. La luce non venne più riaccesa. 

La paura provata lo tenne sveglio a lungo, ma col passare del tempo il suo corpo riniziò a tremare e lui prese a vagare nella terra di confine che separa il sonno dalla veglia.

Cercò di focalizzarsi su qualcosa, di tenere attivo il cervello facendogli ripetere una serie di numeri, o elencando vocaboli nella lingua del nonno, ma presto le cifre si confusero tra loro e le parole persero di significato, e Maedhros, al buio com'era, faticò persino a capire se avesse gli occhi aperti o chiusi.

Il sonno lo aspettava per cancellare le sofferenze, per sopprimere il dolore alla testa e quello al polso, il bruciore alla guancia, i brividi di freddo, la fame e la sete. Niente sembrava in grado di sottrarlo al suo caldo abbraccio. La determinazione e il senso del dovere, che l'avevano sostenuto per tutta una vita, erano scomparsi, svaniti tra le ombre di quella stanza fredda e umida.

Si trovò solo ad affrontare ciò che restava di sé stesso privato della sua armatura.

Restavano soltanto un volto e un nome.


 

*******


 

Fingon, come previsto da Maedhros, se l'era cavata piuttosto bene agli esami ed era riuscito a ottenere un risultato superiore alle proprie aspettative. Fingolfin aveva dato una grande festa, un vero e proprio ricevimento, per festeggiare il diploma dei suoi due figli maggiori.

Per Maedhros e Celegorm, tuttavia, non era stato così scontato parteciparvi.

La tensione tra il loro padre e il padre di Fingon, che affondava le radici in dinamiche famigliari risalenti alla loro infanzia, ma che all'interno dell'azienda si era limitata a periodici scontri su quanti fondi si dovessero assegnare al reparto della Ricerca, gestito da Fëanor, e a quello della Produzione, gestito da Fingolfin, aveva di recente assunto proporzioni enormi.

In seguito all'ultima, strepitosa, invenzione di Fëanor che, a suo dire, avrebbe rivoluzionato il concetto stesso di illuminazione e avrebbe assicurato alla Tirion la fama mondiale, suo padre si era fatto più arrogante e aveva accusato il fratello di voler affossare l'azienda col suo rifiutarsi di investire ogni risorsa in questo nuovo progetto, e di voler portare il nonno, che aveva sempre fatto da intermediario tra i due, dalla sua parte.

Era arrivato a fare delle accuse pesanti, anche in pubblico.

In casa, il solo pronunciare il nome di Fingolfin o di uno dei suoi figli avrebbe scatenato un litigio.

Celegorm non se n'era preoccupato neanche un po', e aveva detto al padre che a lui non importava nulla delle beghe aziendali e che nessuno avrebbe potuto impedirgli di andare a festeggiare col suo amico.

Per Maedhros la cosa era stata più complicata. Fëanor non gli aveva chiesto niente in modo diretto, ma l'aveva guardato con quello sguardo sono-certo-che-farai-la-cosa-giusta, che non mancava mai di raggiungere il risultato voluto.

Eppure quel giorno, una parte di sé che fino a due mesi prima non sapeva neppure di possedere era insorta per ricordargli che la vita era sua, e che non poteva passarla a fare soltanto ciò che gli altri si aspettavano da lui. A quanto pareva, l'incontro con quel giovane cugino, insicuro a modo suo, ma senza dubbio audace, lo aveva cambiato più di quanto volesse ammettere. 

Così, per la prima volta, non aveva fatto proprio un consiglio del padre, ed era andato alla festa consapevole che con tutta probabilità l'avrebbe trascorsa assalito dai sensi di colpa.

Ma quella sera, seduto accanto a Fingon mentre Fingolfin teneva un discorso in cui tesseva le lodi di entrambi i suoi figli, quello incoronato come migliore della scuola e quello che aveva raggiunto la meta con un anno di ritardo dando prova di una tenacia che fino ad allora non aveva mai dimostrato, Maedhros aveva guardato il suo amico rifulgere di gioia e non si era pentito nemmeno per un istante della sua scelta.

 

La domenica successiva, come aveva proposto Fingon, i due erano partiti per passare una giornata in montagna, dove Maedhros avrebbe affrontato la sua prima arrampicata.

Entrambi sapevano che erano arrivati al momento della svolta. D'ora in avanti non avrebbero più avuto una scusa ufficiale per vedersi, e se il loro rapporto fosse continuato, e in quale forma, spettava solo a loro deciderlo.

Maedhros aveva cercato di analizzare la situazione con razionalità.

Uscire con un ragazzo non era una cosa che gli avrebbe creato problemi in famiglia. Anche se lui era sempre stato molto riservato sulla sua vita sentimentale, tutti sapevano quali fossero le sue preferenze e nessuno aveva mai avuto niente da obiettare.

Il problema era che il ragazzo in questione era suo cugino, e questo cambiava le cose drasticamente. Non era un esperto in materia, ma sapeva che c'erano tradizioni che andavano rispettate a regolare i rapporti di quel genere, c'era un nome, che evocava tabù ancestrali, per definire il sentimento che lo faceva arrossire quando si concedeva di pensare a Fingon in certi termini.

O forse tutto questo, in fondo, non era che un alibi colossale, e l'unica cosa che davvero lo terrorizzava era l'idea di guardare in faccia suo padre e ammettere che il rapporto che aveva stretto con il figlio del suo rivale non era un peso di cui era felice di liberarsi, ora che aveva compiuto il suo dovere, ma era la cosa più bella che gli fosse capitata da che aveva memoria, e che avrebbe voluto, nel profondo del suo cuore, dare a quell’amicizia la possibilità di diventare qualcosa di più.

Mentre percorreva in moto le strade di montagna che li avrebbero condotti alla loro meta, con le braccia strette attorno alla vita del cugino per il solo piacere di sentire il suo corpo aderire al proprio (aveva imparato da tempo a fidarsi della guida disinvolta di Fingon), Maedhros non era del tutto certo di ciò che sarebbe accaduto quel giorno, né di ciò che avrebbe voluto accadesse.

 

Lasciarono la moto in un parcheggio a bordo strada, nei pressi di una baita, e imboccarono un sentiero dapprima ripido e fiancheggiato da abeti, poi più pianeggiante quando cominciò a inoltrarsi in un vasto prato tappezzato da fiori gialli a perdita d'occhio.

Il cielo era limpido e l'aria frizzante, il sole non scaldava ancora come avrebbe fatto nelle ore più tarde della mattinata. Loro camminavano in silenzio, guardando fisso davanti a sé, come se entrambi sapessero che non era ancora arrivato il momento di parlare.

Proseguirono per circa un'ora, attraversando il campo fino salire su un terreno spoglio e impervio, che li condusse alla base della parete scelta da Fingon: grigia roccia chiara che si innalzava verticale dal terrapieno per un'altezza che Maedhros, tra sé e sé, giudicò eccessiva.

Il cugino, che spesso praticava l'arrampicata libera, questa volta aveva portato con sé corda, imbragatura, moschettoni e ancoraggi, tutto l'occorrente, insomma, per rendere sicura la sua prima scalata.

– So che puoi farcela, ho piena fiducia nelle tue capacità – gli disse Fingon, ripetendo le stesse parole che lui gli aveva rivolto la mattina dell'esame, quando avevano fatto colazione insieme appena fuori da scuola. 

Poi lo precedette nell'ascesa, per preparargli la via.

Come sempre, l'impresa richiese a Maedhros tutte le sue risorse mentali. Ormai aveva imparato che se la forza fisica era fondamentale, ciò che rendeva l'arrampicata possibile era la concentrazione. Riuscire a incanalare tutta la volontà in una presa, in un singolo gesto da cui dipendeva il successo o la caduta.

Quello che non aveva ancora imparato, però, era come tutto questo si trasformasse quando invece di trovarsi al chiuso di una palestra ad afferrare pietre in fibra di vetro, si era immersi nella natura, col vento che ti accarezzava il viso, la roccia imperfetta sotto le dita, il calore del sole sulla pelle, circondato da montagne immutate da millenni.

Ci furono momenti in cui Maedhros si sentì parte della roccia, del vento, del sole, della montagna stessa, come se il pianeta intero infondesse energia in ogni suo nervo teso, in ogni muscolo che si contraeva e rilasciava, in ogni respiro che scendeva nei polmoni. Una sensazione esaltante e spaventosa insieme, che lo rendeva partecipe di qualcosa di più grande, che andava ben oltre la sua minuscola esistenza.

Forse, se fosse stato solo, questo sentimento l’avrebbe schiacciato, ma non era mai stato così distante dall'essere solo in tutta la sua vita. C'era Fingon con lui, che condivideva la stessa esperienza, che afferrava gli stessi appigli pochi secondi prima di lui, che metteva i piedi nelle stesse scanalature, che respirava la stessa aria. Lo sentiva vicino come mai erano stati.

La conquista della cima lo fece uscire da questa specie di trance, per rientrare in un mondo che ora percepiva diverso, più vasto, più selvaggio, più spaventoso, e molto, molto più bello.

Fianco a fianco, i due amici rivolsero lo sguardo al panorama sotto di loro. Una vallata carica dei colori accesi dell'estate in piena esplosione, tagliata da un corso d'acqua che scintillava come cristallo. Un anello di monti tutto intorno, cime aguzze di roccia pallida le cui vette brillavano di nevi perenni. Sopra di loro l'immensità celeste, talmente limpida da ferire gli occhi. Nessun segno della presenza dell'uomo, case e strade troppo distanti o relegate sull'altro versante. Un mondo incontaminato in cui non esistevano altri che loro e, in lontananza, un'aquila che solcava il cielo come se ne fosse il custode.

Le loro mani si cercarono da sole, senza nessuna volontà che le guidasse. Scivolarono l'una nell'altra come quel primo giorno nel pub affollato. E la perfezione arrivò a compimento.

Dopo un tempo infinito, Maedhros si impose di parlare. Tutti i dubbi, le incertezze, le paure che cercavano di emergere si scontrarono contro la concretezza di quella mano che stringeva la sua come se fosse la cosa più giusta al mondo, e lui riuscì a dire solo tre parole.

– Fin, è complicato.

Allora Fingon, che era più giovane e aveva meno esperienza, ma certe cose forse le capiva meglio e prima, rispose: – No, non lo è.

E, giratosi verso di lui, lo baciò a lungo e con passione.

 

 

 

 

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Note

A venerdì con il prossimo capitolo!

  
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