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Autore: axSalem    28/12/2016    2 recensioni
La melodia che sente è triste, tristissima.
L’ha percepita non appena ha aperto gli occhi su questo incubo, ma senza sentirla davvero. Ora no, ora è diverso.
Un uomo - o forse uno spettro- è immerso fino alle ginocchia nell'acqua che stagna in sé e nei vapori purpurei, fra le sue braccia un violino dall'aspetto consunto, logorato dal tempo e dall'uso; il legno pare marcito ma il suono che emette è dolcissimo e mite ed ammaliante.
[...]
Lo sconosciuto alza gli occhi su di lui, sono occhi bellissimi e gemme inestimabili, non scorge difformità fra iride e pupilla, e nemmeno la sclera si differenzia dal resto: sono completamente blu e liquidi e tremendamente profondi.
Ed immergendosi in essi, Aske comprende di aver perso tutto.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Mi  spendo in una piccola introduzione per specificare che ho messo questa storia del genere Fantasy perché, principalmente, è questo quello che è; non è una caratteristica fortemente accentuata ma è comunque quella dominante.
Il resto degli avvertimenti sono, per lo più, sempre per caratteristiche più velate che altro, ma penso sia comunque opportuno aggiungerglieli. Inoltre, siccome il prologo è molto breve, ho deciso di unire tutto in un unico capitolo.
Ho speso letteralmente MESI per concludere questo lavoro dopo aver passato altrettanto tempo senza scrivere alcunché, è stato faticoso e spesso ho dovuto interrompere perché sentivo che mancava qualcosa alla narrazione, in ogni caso, eccoci qui. Non considero questa One-shoot conclusa, ma molto vicina ad un lavoro che mi soddisfi.
Per il resto saluto la mia diletta Nesp-, cioè, la cara GirlWithChakram che si è divertita ad ipotizzare i più disparati titoli per questa storia (specifico, comunque migliori di quello attuale), e come promesso sono stata braverrima ed ho pubblicato prima della fine dell'anno.
Buona lettura!




Di melodie e malie: Nacken
 
 
 
 
 
 The evening is festooned with golden clouds
the fairies dance in the meadow
and the leaf-crowned Nacken
plays his fiddle in the silvery brook.

Little boy in the brush on the bank
resting in the violet vapor
hears the noise from the chilly water
calls out in the still night.

"Poor old fellow, why do you play?
will it take the pain away?
you bring the woods and the fields to life
but you'll never be a child of God.

Paradise's moonlit nights
eden's flower-crowned plains
angels of the light on high—
never to be beheld by your eye."

Tears stream down the old man's face
down he dives into the rapids
the fiddle silences.
And the Nacken will never 
play again in the silvery brook.
 Nacken - Erik Johan Stagnelius

 
I'm the fury in your head
I'm the fury in your bed
I'm the ghost in the back of your head
Foals - Spanish Sahara





Prologo:
La luce danza con le chiome degli alberi creando giochi d’ombra irrequieti, è un ballo di mite bellezza sulle note rapide del vento. È un ballo che gli bacia la pelle dolcemente e gli riempie lo spirito di pace infinita.
L’erba del bosco è fresca di pioggia, una pioggia fine che è scesa come un leggero e chiaro mantello nella mattina tiepida; ora che il giorno è avanzato, all’orizzonte non ci sono più nubi, ma solo un cielo di cerulea vividezza.
Non molto lontano da lui, il fiume sussurra parole arcane, incantesimi e malie oscure e seducenti. Un’armonia perfetta lo circonda come una bolla, nient’altro raggiunge la sua anima, tutto è ovattato ed ogni altro suono gli arriva soffocato, come se giungesse da lontano.
Un sonno ipnotico lo coglie e lo accompagna lentamente negli antri della notte.
 






Capitolo unico:
Si sveglia al suono di una melodia completamente diversa, completamente estranea.
Si solleva, la schiena conserva l’impronta umida del prato, e la camiciola leggera rimane attaccata alla sua pelle con una sensazione spiacevole. Sotto le palpebre permane il gioco di luci dell’incantevole pomeriggio, e gli occhi faticano ad adattarsi all’oscurità che lo circonda e lo abbraccia, creando un legame opprimente.
Una nebbia bizzarra e violacea avanza lentamente per la foresta evitando tutto ciò che il suo cammino incontra, sembra un piccolo branco di nubi di tempesta, e tale è l’energia che emette, la percepisce sulla pelle accapponata. Non c’è vento a sospingerla, l’aria è ferma e stagnante, difficile da respirare.
Sogno? O magia?
 
La sua è un’esistenza baciata dalla fortuna.
«Tuo padre è un eremita, Aske, ma speriamo non lo sia anche tu.». Una risata piacevole, roca. Quel giorno gli è impresso nella memoria con una nitidezza sorprendente. Quel giorno è stato diverso, nuovo, è stato il primo di molti altri. Quel giorno ha scoperto di come suo padre avesse abbandonato la redditizia e mondana vita del mercante per ritirarsi in un umile casolare sperduto nella campagna con sua madre, per sua madre. «Nella missiva ha scritto che sei un ragazzo in gamba. Lo vedremo.».
 
Tutto lo entusiasma: il lavoro, la città di porto, le persone. Ogni giorno fa fronte a situazioni e a caratteri diversi, a luoghi nuovi. Ogni giorno si affaccia qualcosa di sconosciuto alla sua finestra, e nulla può incalzarlo di più a continuare, a fargli dimenticare il nido confortevole e tranquillo di casa.
Crescendo si è fatto un nome, una posizione. Crescendo, il ragazzino di campagna di cui tutti si burlavano ha ottenuto rispetto ed ammirazione.
Nulla manca nella sua vita.
Può ottenere ogni cosa lui desideri.
 
Lo sguardo corre all’ambiente circostante, febbrile, senza più riconoscere nulla.
I rigogliosi cespugli di bacche dolci sono ora grovigli intricati e dall’aspetto meschino, le lunghe e verdi fronde che lo hanno riparato dal sole paiono ora arti sottili che si tendono verso di lui ad afferrarlo, minacciosi; la pace limpida della boscaglia è svanita, e dovunque si posino i suoi occhi non sanno discernere altro se non ostilità imminenti. Le gambe gli tremano dal terrore.
La luna, piena e bellissima nelle sue perlate spoglie, inonda di luce flebile quel luogo maledetto, ed insieme alla nebbia sottile creano un circolo di energia a lui totalmente nuova, che lo stimola e lo atterrisce terribilmente mentre si trascina sulla sua pelle chiara, come attratta da lui.
La bocca si spalanca per formulare una richiesta di aiuto, ma le parole gli rimangono incastrate in gola, gli rimangono nella mente in un eco perpetuo ed allungato.
Quello non è il luogo che negli anni passati ha imparato ad amare.
Sente i pensieri incrinarsi sulla scia della follia.
 
Dal suo mentore ha imparato molto sul mestiere, moltissimo, ma più di ogni altra cosa ha imparato che tutto gli è dovuto.
Che tutto deve essere suo.
«Noi siamo persone virtuose, Aske. Capisci? Non possiamo permettere che individui come loro, tanto rozzi quanto mediocri, oscurino noi, la nostra fama ed i nostri profitti.». Lo guarda negli occhi con un misto di orrore e meraviglia, trovando in quelli del suo mentore una malsana determinazione e tanta avidità, tanta paura. Paura di cosa? Cosa può turbare un uomo a cui non manca nulla? La sua voce è bugiarda, chiara e limpida come in ogni altra situazione, è rassicurante. Il segreto risiede negli occhi. «Lo capisci?».
Suo malgrado, si trova ad accennare assenso.
 
«Forza. Non devi far altro che impartire un ordine a questi galantuomini.». Una voce bonaria. Aske lancia un'occhiata all'uomo supplicandolo tacitamente, non vuole farlo. Non vuole commissionare un omicidio. Cogliendo la preghiera celata dagli occhi, il suo mentore ha un moto iracondo di stizza e lo afferra per i suoi lunghi e fiammeggianti capelli, strattonandolo malamente verso l'altro, verso il proprio viso. Dalla bocca del ragazzo fugge un gemito di dolore acuto, mentre, a pochi millimetri dalle sue labbra, l'uomo ringhia, teso e con i denti scoperti come una tremenda bestia in cattività. «Fallo, moccioso ingrato.» Della pace atona che prima gli si rifletteva nella voce non c'è più traccia.
Ubbidisce a capo chino sotto lo sguardo divertito dei sicari, non vuole che notino le copiose lacrime che si riversano sulle sue gote.
Non è questo quello che desidera.
 
Non appena quegli uomini nauseabondi sono stati congedati, è scappato dalla città con il suo cuore da bambino infranto.
Non c’è più spazio per l’ingenuità, la vede chiaramente disperdersi fra i frammenti del suo Io malamente intatto, la vede disperdersi a macchia d’olio, lentamente. Il senso di realtà che lo sta cogliendo gli secca la gola e gli fa attaccare la lingua al palato in un impasto sabbioso ed orribilmente amaro, gli rende pesanti le gambe nella fuga; i suoi movimenti gli paiono impacciati, il tempo che usa per percorrere la città si dilata nella sua mente all’infinito e all’infinito torna a lui, crudele.
Bastano così poche parole per uccidere.
Correndo all’impazzata raggiunge il bosco, ed i suoi pensieri vacillano: non comprende se lo disgusta di più la sua azione o l’appagante potere che sente fra le dita ancora esili.
 
A fatica si alza, il corpo è intorpidito dal sonno che così bonariamente lo aveva abbracciato. I brividi si rincorrono sul suo corpo sulla traccia del sudore gelido, il bruciore malsano della febbre si anima sotto la cute.
Il panico lo confonde, non ricorda più da quale direzione è giunto; muove il capo ansiosamente in ogni direzione senza che i suoi occhi incontrino realmente ciò che lo circonda. In un lampo di cupa lucidità, gli pare di scorgere una sottile figura che si staglia nel centro del corso del fiume emettendo un bagliore lattiginoso; e mentre tutti i sensi che possiede si allarmano e gli intimano di non essere tanto stolto da avvicinarsi, Aske muove il primo incerto ed inconscio passo proprio in quella direzione, e così il secondo ed il terzo ed il quarto, finché non ritrova, stregato, sulla sponda del torrente. Prigioniero di un mellifluo ed osceno incanto.
È sempre più convinto di risiedere in un sogno, e la nebbia che pare nascere proprio dall'acqua innaturalmente immobile come un vapore denso e velenoso gli sussurra una conferma dal peso schiacciante.
Risiede in un bellissimo e terribile sogno.
Eppure non riesce a destarsi.
 
È stato più semplice dopo quella volta?
No, non lo è mai stato.
La coscienza di Aske si divide in due percorsi netti e distinti, che non si incrociano mai. Percorsi che lo piegano in capricci mutevoli, in azioni spregevoli ed infantili e malamente umane.
E mentre alla sua destra si estende una via di lungimiranti promesse, di intenzioni buone e di speranze ingenue, una via acciottolata che brilla della luce aranciata e dolce del tramonto, alla sua sinistra si dirama un percorso infimo e privilegiato, un percorso che gli è stato impartito con forza e violenza, e che gli dona un potere ed una sicurezza assoluti che lo appagano e lo cullano rendendolo egoista e cieco, che gli fanno dimenticare l'esistenza di una strada alternativa.
 
Uno sguardo diretto, una domanda: «Perché fuggi nel bosco?».
Aske distoglie velocemente lo sguardo, imbarazzato. Terrorizzato. Scappa nel bosco per seminare il senso di colpa che ogni volta lo divora dall'interno con i suoi denti aguzzi e velenosi, ghiotto ed infimo e terribile. La città è la gabbia delle sue azioni, rimbalzano da lato a lato emettendo suoni sordi ogni volta che incontrano le sbarre alte e resistenti che Aske ha creato per difendersi. La città è la gabbia della sua follia.
Ed ammetterlo al suo mentore è una sconfitta.
Ammetterlo al suo mentore farà spalancare la porta della gabbia.
«Per quel che mi riguarda,» L'uomo gli da una pacca sulla spalla, stranamente gentile, stranamente pacato. «Non è nei miei interessi saperne il motivo, non fare quella faccia.» Una risata tenue, si anima dolcemente ed è subito smorzata in maniera brusca, violenta. «Solo, è pericoloso girare nel bosco dopo il calar delle tenebre.»
Non ha importanza, la città è molto più pericolosa. Aske lo sa, ma il suo mentore non ne è a conoscenza.
In città si aggira il senso di colpa.
In città si aggira la follia.
 
Cavalcando la soglia del tempo, Aske ha imparato a fasciarsi la testa e a chiudere gli occhi dinnanzi sé stesso.
Lunatico oscilla fra l'Io che è e l'Io che desidera essere, mai sazio della realtà cruda ed avida che gli mostrano il suo mentore e la città, affonda ancora le radici nei suoi sentimenti infantili, incapace di dimenticarli del tutto. Li tratta come visioni oniriche, ed ha alleggerito il loro peso riconoscendoli come trappole pronte a minare il suo cammino, non ha bisogno di loro.
Può recidere le sue radici.
Ma le fughe nel bosco sono necessarie, sono di conforto.
 
La melodia che sente è triste, tristissima.
L’ha percepita non appena ha aperto gli occhi su questo incubo, ma senza sentirla davvero. Ora no, ora è diverso.
Un uomo - o forse uno spettro- è immerso fino alle ginocchia nell'acqua che stagna in sé e nei vapori purpurei, fra le sue braccia un violino dall'aspetto consunto, logorato dal tempo e dall'uso; il legno pare marcito ma il suono che emette è dolcissimo e mite ed ammaliante. È sicuro di non aver mai udito un suono come quello: pare una supplica triste, una richiesta disperata d'aiuto, ma al contempo è sussurro seducente e malia irresistibile.
Lo sconosciuto alza gli occhi su di lui, sono occhi bellissimi e gemme inestimabili, non scorge difformità fra iride e pupilla, e nemmeno la sclera si differenzia dal resto: sono completamente blu e liquidi e tremendamente profondi.
Ed immergendosi in essi, Aske comprende di aver perso tutto.
 
La sua è un'esistenza baciata dalla fortuna.
«Cosa credi di ottenere in questo modo?» Magnifico. Magnifico come la voce del suo mentore rimanga piatta e salda e monocorde, nessuna inflessione tende alla paura. Il segreto risiede negli occhi. Aske sorride amaramente e con la bocca serrata, piegando il suo viso in una smorfia d'orrore e di malsana gioia che male si addice al suo volto sottile e spigoloso.
«Io sono una persona virtuosa, Maestro. Capite? Non posso permettere che un individuo come voi, tanto rozzo quanto mediocre, oscuri me, la mia fama ed i miei profitti.».
E ride, Aske, ride tossendo, graffiando la gola. Ride sul baratro della follia e dell'egoismo e della smania di avere di più.
Di più.
Cala la lama come cala un drappo di rubiconda sorte sulla scena.
 
La paura ha stretto le sue fauci sulla bocca dello stomaco in una morsa che non da segno di volersi allentare.
Aske non riesce a distogliere gli occhi dalla creatura, il respiro cristallizzato in gola come i pensieri che faticosamente gli si affannano nella mente. Gli pare di essere in apnea, e mentre orrore e meraviglia si destreggiano in un ballo ai limiti sconosciuti della follia, un ghigno di spietata tristezza si disegna su quel volto fintamente umano. Lo colgono sorpresa e compassione, ma senza toccarlo davvero. Non sono emozioni che gli appartengono.
Il suono del violino non accenna alcuna resa, e continua a bisbigliare sguagliatamente  la sua musica dolcissima.
 
Si lascia toccare inseguendo un piacere che conosce bene, oramai, un piacere che non è gentile, no, un piacere irruento ed inquieto come l'infrangersi continuo e cantilenante dell'oceano sugli scogli, si lascia mordere e graffiare e strattonare furiosamente.
Non si è mai lasciato baciare, invece, non ha mai lasciato che gli sguardi si cercassero per rispecchiarsi l'uno nell'altro. Sono segni di dolcezza che non gli appartengono, come non gli appartiene più l'amore, lo ha lasciato fra i detriti del bambino che ora non esiste più.
L'ha soffocato fra le proprie falangi lunghe ed affusolate.
E sussurra nella notte il suo amante mentre dona ad Aske quello che desidera, sussurra preghiere e suppliche e docili dichiarazioni in una lingua che le orecchie dell'altro non riconoscono, ma riconoscono lo spezzarsi delle parole ed i sospiri estatici che rendono la litania sfuggevole e a singhiozzi. Ciò che ha importanza, per Aske, è godere di un altro corpo, sentire i muscoli che guizzano sotto le mani, cercare il calore altrui come una falena attirata dal sole, accecarsi, annullarsi nell'orgasmo e poca importanza hanno le parole, che l'altro continui a bisbigliarle boccheggiando, poca importanza ha tutto. Vuole sfinirsi, vuole la sensazione destabilizzante dell'essere esausto, vuole soffocare i pensieri e cullarsi nel tepore di un corpo vivo che reagisce con passione e con dolore alla sua foga nella totalità opprimente del buio della notte.
Vuole portare come un marchio quella stanchezza appagante e violenta su di sé.
Vuole riconoscere sé stesso come umano.
 
«Elsker.». Gira il capo verso Aske, gli occhi si incontrano carichi di segreti e di aspettativa, iridi cobalto sfociano nel verde smeraldo con un fragore erroneo e sbagliato, è un contatto intimo, non necessario, futile. Distoglie lo sguardo.
"Qual è il tuo nome?", "Da dove vieni?", "Cosa significano quelle tue preghiere incessanti?". Silenzio, il silenzio è l'unica risposta che gli concede, un silenzio lungo e carico di attesa e di menzogne e di profonde verità. Elsker è soltanto un nomignolo, perché Aske sa che per possedere ciò che non si conosce, è necessario dargli un nome.
«Otterrò mai una risposta dalle tue labbra?». Silenzio. Un sorriso mesto attraversa le labbra del suo amante, Aske non conosce nulla di lui, il giorno in cui si sono incontrati non fa capolino frai i suoi ricordi. Nessun  legame li unisce, ma l'amante bussa alla sua porta nel cuore della notte, per poi scomparire silenziosamente nell'oscurità che lo avviluppa e lo fa sembrare ancora più sottile, ancora più aggraziato, silenzioso come un gatto.
«Vieni qui.». E si avvicina lentamente, Elsker, sedendosi a cavalcioni su di lui. Vuole baciargli la bocca, gli occhi profondamente blu socchiusi contornati dalle lunghe ciglia bionde, ma Aske si sottrae irruente al bacio e gli tira i capelli facendogli sollevare il capo e affonda poi dolorosamente i denti nella carne morbida del collo.
 
Con un movimento mellifluo, la creatura si lascia cadere dalle mani lo strumento e l'arco.
La musica si spezza, e con essa anche l'incantesimo che lo aveva attirato fino al corso d'acqua. Aske sente i muscoli irrigidirsi dallo sconforto e dal terrore, si risvegliano con violenza i pensieri dormienti e la testa gli duole di crude consapevolezze fin'ora celate dall'ammaliante melodia. Il silenzio che li circonda pare rarefatto, e quando il violino si scontra con l'acqua, emette un tonfo oscenamente grave, oscenamente spiacevole. Anche la nebbia pare imitarlo nella sua caduta, e scompare con un risucchio fulmineo e grottesco, l'irresistibile magia perduta.
"Aske.". Aske sbarra gli occhi, nonostante la figura dinnanzi a lui non abbia aperto bocca, riconosce la voce che gli rimbomba nella mente, l'ha udita milioni di volte nella sua monocorde litania spezzata dai sospiri e dai gemiti. Le prime lacrime gli si riversano copiose sulle guance subito seguite da altre, lo sconforto  è una stilettata che gli spezza il cuore, insieme alla speranza di fuggire ed insieme alla follia che spesso lo accompagna, insieme all'arroganza di poter possedere oltre ogni misura, senza lasciare nulla in pegno. Crolla sconfitto a terra, in ginocchio sull'erba umida.
La vista offuscata dal pianto non gli impedisce di scorgere la creatura avvicinarsi muovendosi con infinita e perfetta eleganza, e tanto più è vicina, tanto più Aske sente la fine calargli inesorabile sul capo.
Non è un incubo quello che vive, ma una realtà crudele e meschina.
Come lui.
«Elsker.». Lo dice sibilando appena, con un sussurro rotto e carico di peso, come se fosse un segreto da non far udire a nessuno, come se le sillabe fossero scappate disobbedendo fra i denti serrati strettamente, le labbra livide tremano. L'interpellato allarga il sorriso malinconico in una smorfia tremenda, emettendo uno sbuffo impercettibile, i suoi occhi sono specchio di tristezza e di dolore infinito, di solitudine amara e scottante, di un destino che è tale da secoli. "Nacken.".
 
«Starai bene. Ti piacerà.». Le rassicurazioni di suo padre gli colmano il suo piccolo cuore da bambino di gioia, dimentico che da quel momento in poi abbandonerà i suoi genitori e la sua casa, tutte le cose a lui fin'ora familiari: l'oro del grano e la vastità della valle, il vento che accarezza amabilmente i capelli ed il fruscio delle fronde degli alberi, la fatica nei campi, il calore del fieno. Andrà in città, nella grande città piena di meraviglie. «Se sentirai nostalgia rifugiati nel bosco, è incantato e ci vivono molte creature ravvivate dai miti, sai.». Aske sospira dall'incanto, non sa quali creature siano, non è necessario saperlo, i suoi occhi smeraldini sono comunque traboccanti di sogni.
Sogni che verranno spezzati.
 
Nacken lo fronteggia, ad un soffio da lui, i corpi sono pericolosamente vicini ed al contempo maledettamente lontani, nessun calore confortante proviene dalla pelle lattea della creatura, c'è solo il freddo denso della notte ad accarezzarlo viscidamente.
Aske non desidera più scappare, rimane immobile, sormontato dalla frenesia del terrore, consapevole che oramai tutto è inutile. Non c'è salvezza per lui, non c'è speranza: si sono spezzate sotto un peso che non sapevano sostenere, che non potevano sostenere. Un peso opprimente che lo sta lentamente schiacciando.
Singhiozza penosamente a capo chino, umiliato ed affranto. È una pace sommessa quella che lo sta inondando, una pace infima carica di rimorso amaro e paura cieca ed insaziabile. Il suo misero Io è finalmente spoglio da tutto ciò che la città gli ha impartito e dalla lurida corazza di cui l'aveva vestito, il suo misero Io trema mortificato alla ricerca disperata di un perdono che mai più gli sarà garantito.
Mai più gli sarà mostrata la via di lungimiranti promesse.
Il tocco gelido della creatura lo riscuote dal pianto facendogli sollevare il capo, non ha più la forza di distogliere lo sguardo dai suoi occhi carichi di magia e di fame e di profonda ed iraconda tristezza, e lascia che Nacken si chini su di lui scostandogli impalpabilmente i capelli rossissimi ed umidicci dal viso, lascia che Nacken posi un bacio che è un battito d'ali di farfalla sulle labbra violacee di freddo di Aske, tanto è leggero ed etereo ed immensamente desiderato e delicato.
Non appena quel contatto finisce - così intimo, così strano-, gli pare di percepire un eco di vetri infranti nella mente, e mentre quest'ultimo pensiero sfuma nell'incoscienza totale della catatonia, Aske segue docilmente colui che chiama Elsker, colui che i miti chiamano Nacken, nelle profondità del fiume; le acque gelide gli attanagliano la pelle in una morsa tremenda, ma non gli recano danno alcuno.
Si lascia cullare dolcemente fra le braccia di colui che mai ha amato.
Per non riemergerne mai più.
Dopo tutto, la sua esistenza non è mai stata baciata dalla fortuna.




 


 
  
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