Tutte
le vite di Irma
Il
silenzio mi avvolgeva. Amavo quel momento particolare della sera,
quando i
ragazzi si ritiravano nei loro dormitori e il castello scivolava
dolcemente in
uno stato di vigile torpore.
Sistemai
le schede dei prestiti con tutta la calma, e con un movimento della
bacchetta
presi alcuni libri e li portai davanti a me mentre mi recavo nel mio
appartamento, riponendoli a dimora man mano che raggiungevo il loro
scaffale.
La
porta d’ingresso, abilmente camuffata dietro uno scaffale in
fondo al Reparto
Proibito, si aprì senza fare il minimo rumore, quasi per non
intaccare quel
precario equilibrio di silenzi che interagivano attorno a me.
Come
se fosse la prima volta, guardai la mia stanza, dove avevo raccolto
tutti i
pezzi della mia vita… i pezzi di tutte le mie vite.
La mia
prima
vita arrivò in un nebbioso giorno d’inizio
autunno. Le foglie ingiallivano come
le pagine di questo libretto di ninnananne, l’aria
lattiginosa si increspava
sotto il tocco dei fumi che cominciavano a uscire dai comignoli del mio
paese
natale. Mia madre non s’aspettava una figlia; voleva un
maschio, come era
successo per i quattro figli precedenti, che erano arrivati e volati
via in un
soffio. Lei continuava a sperare che li seguissi, ma mi ostinavo a
vivere. Mio
padre mi amava, e mi condusse alla mia seconda vita.
Lui era
bibliotecario, in una struttura come quella in questa foto, austera e
dalle grandi
vetrate istoriate. Dame e cavalieri danzavano tutti attorno a me, nel
pulviscolo frizzante della primavera. Lessi prima ancora di parlare.
Ecco
Orlando, che corre dalla sua Angelica; ecco Artù che sposa
Ginevra; e là in
fondo, quasi dimenticata, la mia storia preferita: una ragazzina apriva
un
libro, che diventava grande come un’aquila, lei vi saliva e
assieme si avviavano
verso il tramonto. Lei ero io, quella era la mia vita. Forse.
La mia
terza
vita cominciò a undici anni, quando mi arrivò una
strana missiva che mi
ammetteva ad Hogwarts. Mio padre sapeva che poteva succedere: lui era
un
Magonò, mi disse, ma tutti nella sua famiglia erano come me.
Mi mostrò tutti i
libri di magia, profumati e intonsi, che sua madre aveva passato a lui,
pieni
di fiori preziosamente essiccati. Fiori di ogni tipo, come quelli
incisi in
questo pettinino di osso che mi regalò il mio primo
1° settembre, perché anche
lontana non dimenticassi le mie radici.
La mia
quarta
vita iniziò in una terribile, torrida notte
d’estate. La siccità aveva colpito
la regione con violenza, facendo soffrire i campi, gli animali, le
persone;
persino i libri soffrivano, scricchiolando e gemendo sotto le mie dita
secche.
Chi poteva sapere che il fulmine, tra tutte le case, avrebbe scelto
proprio la
biblioteca? Io scappai, con solo questo manuale da bibliotecario
scritto da mio
padre; ciò che era la mia famiglia volò via
insieme ai libri, trasportati
lontano dal fuoco, come la bambina che volava su un libro verso il
calore del
sole morente. Il paese era illuminato a giorno, presto ricostruirono
un’altra
biblioteca pubblica, ma la mia vita s’era irrimediabilmente
infranta, come le
vetrate che mi fecero da abbecedario.
La mia
quinta
vita fu un unico pellegrinaggio: non sapevo dove volevo andare, ma
sapevo
esattamente dove non volevo stare: da mia madre, che s’era
risposata, che aveva
due figli maschi sani e forti, che non aveva mai avuto una figlia
femmina.
Passai tutti gli inverni ad Hogwarts, cercando tra gli scaffali
silenziosi i
passi di mio padre, e d’estate trovai un lavoro nella
biblioteca di un paese
delle Lowlands. Dovevo mangiare, e non solo pane: questi nastri
segnalibro
chiedevano un briciolo di quell’amore che avevo visto sulle
vetrate della mia
seconda vita, ma in fondo nei libri ne trovavano a sufficienza.
Ma
nella mia
sesta vita scoprii che i libri non mi bastavano più. Questa
vita profumava di
carta buona, di inchiostro e fatica. Lui si chiamava Johannes, era
scappato da
poco dalla Germania in guerra. Conosceva poco l’inglese, ma
era gentile.
Stampava e vendeva libri alle biblioteche, e la sera passava sempre da
quella
in cui lavoravo. Passeggiavamo a lungo, in mezzo a distese infinite e
districandoci tra i vialetti del paese, ridendo nelle corse sotto la
pioggia,
abbracciandoci quando raccontavamo le nostre vite di sopravvissuti.
Hogwarts
era lontana in quei giorni radiosi, la biblioteca soltanto un luogo in
cui
rifugiarsi in attesa di lui. Poi un giorno semplicemente non
arrivò. Incidente
d’auto, mi dissero. E quegli scaffali che profumavano di lui,
quei libri col
suo nome impresso nel colophon, quell’aria che avevamo
riempito di risate e
dolci sussurri nascosti nella notte… non potevo restare
lì. Il giorno del suo
funerale, il suo unico amico mi diede ciò che aveva con
sé quando si schiantò:
questo anello d’argento e una rosa rossa,i cui petali ormai
secchi e scuri
riposano tra queste pagine, protetti all’interno del mio
diario dei giorni
felici.
Per la
mia
settima vita cercai una casa, un luogo dove rifugiarmi, e andai
nell’unico
posto che non mi aveva mai tradita: Hogwarts era lì, lontana
da tutto, sempre
uguale a se stessa. Dopo Johannes, dopo i fugaci sorrisi e la profonda
sofferenza, decisi che era lì che volevo stare: dove non
avevo conosciuto
l’amore se non sui libri, dove la magia era teorica e i
sentimenti erano
simboli scritti in mezzo ad altri simboli, dove l’amarezza e
la solitudine si
stemperava nei tramonti sul parco. Il mio cartellino identificativo,
che
indossai per qualche tempo, mi diede la maschera che portai per tutta
la vita:
“Madama I. Pince, bibliotecaria”.
Mi
sfilai gli occhiali, accomodandomi sulla poltrona. Quei libri e quegli
oggetti
che mi accoglievano all’ingresso rappresentavano non la mia
vita, ma tutte
loro. Perché nella mia esistenza ho avuto una sola costante:
i libri. Lunghi,
corti, noiosi o divertenti. Da allora vedo la vita con occhi diversi,
perché
semplicemente so che la chiusura di una fase della mia esistenza non
è la fine
di tutto, così come la fine di un libro non è la
fine della conoscenza del
mondo. Prendi un altro libro, cominci nuovamente a leggere; prendi la
tua vita
in braccio, la ricostruisci su un terreno più fertile del
precedente.
Perché
in fondo, chi vive coi libri lo sa: non si legge per non avere una
vita, ma
perché si sceglie di averne più di una.