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Autore: Helena Hufflepuff    02/01/2017    1 recensioni
Tutti la conoscono semplicemente come Irma Pince, la bibliotecaria di Hogwarts; un personaggio apparentemente secondario e defilato, ma che proprio per questo può nascondere più vite di quante si possa immaginare...
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Irma Pince
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Tutte le vite di Irma

Il silenzio mi avvolgeva. Amavo quel momento particolare della sera, quando i ragazzi si ritiravano nei loro dormitori e il castello scivolava dolcemente in uno stato di vigile torpore.

Sistemai le schede dei prestiti con tutta la calma, e con un movimento della bacchetta presi alcuni libri e li portai davanti a me mentre mi recavo nel mio appartamento, riponendoli a dimora man mano che raggiungevo il loro scaffale.

La porta d’ingresso, abilmente camuffata dietro uno scaffale in fondo al Reparto Proibito, si aprì senza fare il minimo rumore, quasi per non intaccare quel precario equilibrio di silenzi che interagivano attorno a me.

Come se fosse la prima volta, guardai la mia stanza, dove avevo raccolto tutti i pezzi della mia vita… i pezzi di tutte le mie vite.

 

La mia prima vita arrivò in un nebbioso giorno d’inizio autunno. Le foglie ingiallivano come le pagine di questo libretto di ninnananne, l’aria lattiginosa si increspava sotto il tocco dei fumi che cominciavano a uscire dai comignoli del mio paese natale. Mia madre non s’aspettava una figlia; voleva un maschio, come era successo per i quattro figli precedenti, che erano arrivati e volati via in un soffio. Lei continuava a sperare che li seguissi, ma mi ostinavo a vivere. Mio padre mi amava, e mi condusse alla mia seconda vita.

 

Lui era bibliotecario, in una struttura come quella in questa foto, austera e dalle grandi vetrate istoriate. Dame e cavalieri danzavano tutti attorno a me, nel pulviscolo frizzante della primavera. Lessi prima ancora di parlare. Ecco Orlando, che corre dalla sua Angelica; ecco Artù che sposa Ginevra; e là in fondo, quasi dimenticata, la mia storia preferita: una ragazzina apriva un libro, che diventava grande come un’aquila, lei vi saliva e assieme si avviavano verso il tramonto. Lei ero io, quella era la mia vita. Forse.

 

La mia terza vita cominciò a undici anni, quando mi arrivò una strana missiva che mi ammetteva ad Hogwarts. Mio padre sapeva che poteva succedere: lui era un Magonò, mi disse, ma tutti nella sua famiglia erano come me. Mi mostrò tutti i libri di magia, profumati e intonsi, che sua madre aveva passato a lui, pieni di fiori preziosamente essiccati. Fiori di ogni tipo, come quelli incisi in questo pettinino di osso che mi regalò il mio primo 1° settembre, perché anche lontana non dimenticassi le mie radici.

 

La mia quarta vita iniziò in una terribile, torrida notte d’estate. La siccità aveva colpito la regione con violenza, facendo soffrire i campi, gli animali, le persone; persino i libri soffrivano, scricchiolando e gemendo sotto le mie dita secche. Chi poteva sapere che il fulmine, tra tutte le case, avrebbe scelto proprio la biblioteca? Io scappai, con solo questo manuale da bibliotecario scritto da mio padre; ciò che era la mia famiglia volò via insieme ai libri, trasportati lontano dal fuoco, come la bambina che volava su un libro verso il calore del sole morente. Il paese era illuminato a giorno, presto ricostruirono un’altra biblioteca pubblica, ma la mia vita s’era irrimediabilmente infranta, come le vetrate che mi fecero da abbecedario.

 

La mia quinta vita fu un unico pellegrinaggio: non sapevo dove volevo andare, ma sapevo esattamente dove non volevo stare: da mia madre, che s’era risposata, che aveva due figli maschi sani e forti, che non aveva mai avuto una figlia femmina. Passai tutti gli inverni ad Hogwarts, cercando tra gli scaffali silenziosi i passi di mio padre, e d’estate trovai un lavoro nella biblioteca di un paese delle Lowlands. Dovevo mangiare, e non solo pane: questi nastri segnalibro chiedevano un briciolo di quell’amore che avevo visto sulle vetrate della mia seconda vita, ma in fondo nei libri ne trovavano a sufficienza.

 

Ma nella mia sesta vita scoprii che i libri non mi bastavano più. Questa vita profumava di carta buona, di inchiostro e fatica. Lui si chiamava Johannes, era scappato da poco dalla Germania in guerra. Conosceva poco l’inglese, ma era gentile. Stampava e vendeva libri alle biblioteche, e la sera passava sempre da quella in cui lavoravo. Passeggiavamo a lungo, in mezzo a distese infinite e districandoci tra i vialetti del paese, ridendo nelle corse sotto la pioggia, abbracciandoci quando raccontavamo le nostre vite di sopravvissuti. Hogwarts era lontana in quei giorni radiosi, la biblioteca soltanto un luogo in cui rifugiarsi in attesa di lui. Poi un giorno semplicemente non arrivò. Incidente d’auto, mi dissero. E quegli scaffali che profumavano di lui, quei libri col suo nome impresso nel colophon, quell’aria che avevamo riempito di risate e dolci sussurri nascosti nella notte… non potevo restare lì. Il giorno del suo funerale, il suo unico amico mi diede ciò che aveva con sé quando si schiantò: questo anello d’argento e una rosa rossa,i cui petali ormai secchi e scuri riposano tra queste pagine, protetti all’interno del mio diario dei giorni felici.

 

Per la mia settima vita cercai una casa, un luogo dove rifugiarmi, e andai nell’unico posto che non mi aveva mai tradita: Hogwarts era lì, lontana da tutto, sempre uguale a se stessa. Dopo Johannes, dopo i fugaci sorrisi e la profonda sofferenza, decisi che era lì che volevo stare: dove non avevo conosciuto l’amore se non sui libri, dove la magia era teorica e i sentimenti erano simboli scritti in mezzo ad altri simboli, dove l’amarezza e la solitudine si stemperava nei tramonti sul parco. Il mio cartellino identificativo, che indossai per qualche tempo, mi diede la maschera che portai per tutta la vita: “Madama I. Pince, bibliotecaria”.

 

Mi sfilai gli occhiali, accomodandomi sulla poltrona. Quei libri e quegli oggetti che mi accoglievano all’ingresso rappresentavano non la mia vita, ma tutte loro. Perché nella mia esistenza ho avuto una sola costante: i libri. Lunghi, corti, noiosi o divertenti. Da allora vedo la vita con occhi diversi, perché semplicemente so che la chiusura di una fase della mia esistenza non è la fine di tutto, così come la fine di un libro non è la fine della conoscenza del mondo. Prendi un altro libro, cominci nuovamente a leggere; prendi la tua vita in braccio, la ricostruisci su un terreno più fertile del precedente.

Perché in fondo, chi vive coi libri lo sa: non si legge per non avere una vita, ma perché si sceglie di averne più di una.

   
 
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