Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: IrethTulcakelume    05/01/2017    2 recensioni
Park Jimin, 21 anni, testa sempre tra le nuvole – sì, se le nuvole hanno i capelli neri e tre anni in meno di lui.
Jeon Jungkook, 18 anni, mente brillante versata per lo studio, un po’ meno per gli affari di cuore.
Min Yoongi, 22 anni, passione per il basket, ma qualche problemino con i blackout.
Kim Namjoon, 29 anni, uno studio di psicologia tutto suo che spesso ospita un paziente in via in guarigione.
Kim Seokjin, 31 anni, cattedra universitaria di economia e un incorreggibile complesso del salvatore.
Kim Taehyung, 18 anni, tante foto, incubi abituali e un paio di conti in sospeso con il passato.
Jung Hoseok, 21 anni, una sorella fortunatamente ficcanaso e vigliaccheria a profusione.
Non si sentono i suoni se non c’è silenzio.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo autrice:
Scusatemi. Sono imperdonabile. Se mi odiate fate bene. Spero che qualcuno segua ancora la storia... davvero, sono dispiaciutissima di avervi fatto aspettare tanto, ma a scuola c'è stato un periodo davvero orribile. Vorrei potervi dire che nelle vacanze ho scritto un sacco, ma non è così, perché ci hanno corcato di compiti (strano eh?). Però gennaio dovrebbe essere più tranquillo... farò tutto il possibile per caricare senza un ritardo madornale, ma non posso assicurarvi nulla, né darvi una data. Spero che non odiate per questo, e che non odiate la storia :(
Finito questo preambolo (davvero, scusate scusate scusate), vi lascio al nuovo capitolo.







 

Sometimes words just ain't enough















 
Fuori dal finestrino della Opel di Namjoon la Seoul notturna scorreva monotona: le luci dei lampioni, le insegne al neon dei locali, i giovani per strada, ma non tanti – no, non solo giovani, anche qualche adulto. Che ore potevano essere? Le due? Le tre?
Yoongi era seduto dietro. Ripensava a ciò che era successo quella sera, non senza un moto d’orgoglio. Alla fine si era risolto tutto per il meglio, il fatto che Jimin non l’avesse chiamato e che la sua macchina non fosse più davanti al locale ne era la conferma. Inoltre, Seokjin gli aveva detto di aver visto Taehyung e Hoseok parlare e poi salutarsi, ed entrambi stavano sorridendo. E poi, be’, lui aveva vinto, in tutti i sensi.
Quando era entrato nella stanza riservata al personale e aveva pronunciato quelle parole, “Nam... ce l’ho fatta... Li ho sconfitti, non torneranno più”, lo psicologo aveva capito subito a cosa si riferiva. Certo, dopo gli aveva fatto qualche domanda, ma Yoongi decise di non rivangare anche quella parte della serata: non voleva più pensare a quelle ombre, a quei blackout. Ormai erano un capitolo chiuso. Aveva scritto la parola fine a quel periodo oscuro della sua vita e a quelle sedute di terapia che duravano ormai da più di tre anni. L’unica cosa che l’aveva un po’ preoccupato, mentre rispondeva alle domande di Namjoon, era la prospettiva di non poter più parlare con lui, ma quello gli aveva risposto con un invito per due giorni più tardi a pranzo, “tanto è domenica”, aggiungendo davanti a un alquanto galvanizzato Seokjin che la cucina di quest’ultimo era davvero formidabile. Nonostante ciò, però, quello non era il pensiero predominante nella sua mente.
Non riusciva a mandare via l’immagine di quella ragazza che aveva visto non appena si era svegliato. Aveva un viso piccolo, grazioso, i lunghi capelli scuri facevano da perfetta cornice a quei lineamenti che gli sembravano tanto familiari. Era convinto di averla già vista, e anche di recente, forse addirittura alla festa, però i suoi ricordi poco precedenti il quasi-blackout erano un po’ confusi. Gli era dispiaciuto quando se ne era dovuta andare: aveva detto che il fratello l’aveva appena chiamata per farsi riportare a casa.
- Abiti qui, vero? – gli chiese Namjoon dal posto di guida, mentre alternava occhiate a lui e al puntino lampeggiante sul navigatore, che indicava quella in cui erano giunti come la loro destinazione. Yoongi si riscosse e, dopo aver dato un rapido sguardo alla via in cui erano, rispose affermativamente.
- Allora ci vediamo domenica – disse Seokjin, guardando l’ormai ex paziente del compagno scendere dalla macchina.
- Sì, grazie del passaggio – concluse lui, chiudendo la portiera. Namjoon rimise in moto l’auto e ripartì con un rombo, lasciando Yoongi da solo davanti alla porta di casa sua.
Tirò un sospiro. Era davvero tutto finito. Gli sembrava che, insieme all’Opel dello psicologo, se ne fosse andato un pezzo della sua vita, fatto di paura, di incomprensioni, di complessi, di perenne tensione. Si sentì molto più leggero, e privo di quel peso che si era sempre portato sulle spalle in quegli anni, azzerò la distanza fra la sua mano e il campanello. Sua madre gli aveva detto che l’avrebbe aspettato sveglia insieme alla nonna.
Già, la nonna. Probabilmente l’unica persona al mondo – insieme a Jimin – che riponeva in lui una fiducia incondizionata. Era stata lei a convincere la figlia a dargli il permesso di farlo stare fuori fino a tardi, era lei che lo aiutava a uscire nel bel mezzo della notte senza far svegliare mezzo vicinato, e sempre lei lo copriva quando non lo vedeva tornare a casa dopo le lezioni all’università. In fondo, Yoongi capiva sua madre: il divorzio dal marito in un momento decisamente delicato per lei l’aveva distrutta, e aveva perso ogni tipo di aspettativa nei confronti del mondo, suo figlio compreso. La capiva, ma ne soffriva, anche se sua nonna gli stava comunque sempre vicino, gli diceva che sarebbe andato tutto bene, alla fine. Dopo anni, Yoongi riuscì finalmente a crederle.
Non seppe mai per quale motivo, ma non appena ebbe appoggiato il dito al campanello, una specie di flash lo colpì. Era esattamente il contrario dei blackout: quelli lo gettavano nel buio, mentre in quel momento era stato colpito da un lampo di lucidità.
Cazzo, ma quella era la tipa insieme a Hoseok!
Il primo pensiero che ebbe subito dopo quell’elegante constatazione, fu di aver bisogno di un letto e di sua nonna, immediatamente. Prese a suonare più forte il campanello.
- Ehi, fai con calma! Sono vecchia, ma non ancora del tutto sorda!
 
***
 
Il Lachata non era particolarmente spazioso, però a Jimin e Jungkook era sempre piaciuto. La prima volta ci erano capitati per caso: stava piovendo a dirotto, e nessuno dei due aveva un ombrello, così si erano fiondati nel primo bar che avevano visto. La prima sensazione che avevano avuto, era stata quella di essere arrivati sul set di un film di Quentin Tarantino. A ben guardare, a trarre in inganno gli avventori era essenzialmente l’entrata a doppia anta stile far west, ma questa fu una cosa di cui si resero conto soltanto più tardi.
Jimin fu il primo a entrare. Prese posto al solito tavolo, che trovavano sempre vuoto per un qualche misterioso caso del destino. In realtà, Jungkook aveva più volte teorizzato che le cameriere lo lasciassero libero appositamente per loro, dato che erano clienti abituali. Vero o no, una volta che entrambi si furono seduti, una delle suddette cameriere andò loro incontro munita di un minuscolo block notes e di un gran sorriso in faccia. Jimin e Jungkook, dopo averla riconosciuta, si scambiarono uno sguardo d’intesa e si prepararono psicologicamente a uno dei suoi numeri.
- Allora, cosa vi porto? – esordì, ma prima che i due potessero rispondere, quella continuò: - No, aspettate, indovino io. – Detto questo, posò il block notes sul tavolino, chiuse gli occhi e iniziò ad agitare in aria le mani verso la fronte di Jungkook con fare ispirato. – Io sento... io so... che tu, sì, proprio tu, desideri ardentemente un’enorme tazza di cioccolata calda con panna, ma non è tutto qui... tu vuoi anche una fetta di torta, sì, ma quale? – A quel punto fece una pausa carica di suspense, mentre Jungkook la guardava sbalordito. Inutile negarlo, non si sarebbe mai abituato a quella cameriera un po’ fuori di testa. La ragazza aprì gli occhi. – Ce l’ho. Red Velvet. Tranquillo, Luna la sta tagliando proprio adesso, sarà subito qui.
Jungkook avrebbe tanto voluto dire che gli andava bene, e che in effetti la Red Velvet era la sua torta preferita, ma ovviamente non ne ebbe il tempo.
- E ora veniamo a te – disse, poi chiuse nuovamente gli occhi e ripeté i medesimi gesti di prima, questa volta indirizzati a Jimin, che stava trattenendo a stento le risate. – Anche tu provi un bruciante desiderio di cioccolata calda, ma tu oltre alla panna... sì, oltre alla panna vuoi anche i marshmallows, e anche qualcos’altro, però non è una torta... – La cameriera frenò i movimenti delle dita, e come prima, riaprì gli occhi. – Ecco, lo vedo! Un muffin, ai frutti di bosco, sì, proprio ai frutti di bosco. Vic li ha sfornati cinque minuti fa, sono ancora caldi.
E con quelle parole, riprese in mano il block notes, scrisse ciò che aveva predetto e si diresse a passo di marcia verso il bancone, dando ordini a destra e a manca.
Jimin e Jungkook si guardarono per un paio di secondi, poi scoppiarono a ridere tanto fragorosamente che dovettero tenersi al tavolo per non cadere. Di sfuggita, il ragazzo più grande diede un’occhiata all’altro: così, mentre rideva di gusto, avrebbe voluto fargli una foto, fermare quel momento, ma sapeva che una mera immagine bidimensionale non avrebbe saputo reggere il confronto con il vero Jungkook. No, niente al mondo avrebbe potuto.
Finalmente, riuscirono a recuperare un minimo di contegno. – Però comunque ha indovinato... io la Red Velvet la voglio davvero.
- Certo che ha indovinato, la prendi quasi sempre! – rispose Jimin.
Jungkook lo guardò pensoso. – Mh, sì, forse in effetti hai ragione.
Proprio in quel momento, un’altra cameriera venne al loro tavolo tenendo in equilibrio sulla mano destra un vassoio con le loro ordinazioni sopra – sempre che ordinazioni si potessero chiamare. Dopo aver disposto tutto sul tavolino,  rivolse loro uno sguardo di scuse.
- Perdonatela... lo sapete com’è fatta Amber, oggi si sentiva un po’ medium. Pensate che ieri sera era convinta di essere una gazzella e prendeva gli ordini correndo a balzi in giro per il bar – raccontò lei sconsolata.
- Tranquilla, almeno ci siamo fatti quattro risate – la rassicurò Jimin, accompagnando le sue parole con un sorriso. A quella vista, Jungkook percepì una sorta di fastidio, e si rese conto che avrebbe voluto che la cameriera scomparisse all’istante, perché Jimin doveva sorridere solo a lui.
Ma che ti salta in mente? Si affrettò a immergere il cucchiaino nella panna, e mentre la ragazza si allontanava con il vassoio vuoto sotto braccio, non riuscì a trattenersi dal seguirla con lo sguardo, pensieroso.
- Ah, deliziosa come sempre... tutto bene? – gli chiese Jimin dopo aver assaggiato la cioccolata. Jungkook si riprese e sorrise al ragazzo di fronte a lui.
- Sì, sì, tutto okay. – Osservò Jimin per qualche secondo: era al primo cucchiaio, ed era già riuscito a sporcarsi la bocca di panna. Notandolo, ridacchiò, cercando di nascondere la sua smorfia divertita dietro la fetta di Red Velvet. Naturalmente non riuscì nel suo intento.
- Be’, che c’è da ridere? – domandò il ragazzo più grande.
Jungkook, sempre continuando a ridacchiare, si sporse sul tavolo. Jimin, dal canto suo, era decisamente confuso, e non meno perplesso: che cosa stava facendo Jungkook? Quello intanto si avvicinava sempre di più al suo viso con la mano e, per un attimo, Jimin pensò che volesse dargli uno schiaffo. Oppure baciarlo. Nel dubbio, trattenne il respiro.
Dopo un tempo che gli sembrò interminabile, il pollice di Jungkook entrò in collisione con il suo labbro inferiore. Jimin fu percorso da un brivido.
- Eri sporco di panna – disse semplicemente il ragazzo più piccolo, per poi tornare seduto al proprio posto e continuare a bere la sua cioccolata calda.
Fu quello il primo momento in cui Jungkook prestò davvero attenzione alle labbra di Jimin, in cui le guardò per un tempo superiore ai due secondi. E fu quella la prima volta in cui si chiese come fosse baciarle. Resosi conto dei suoi pensieri non precisamente casti sul coinquilino, arrossì e riprese a bere la sua cioccolata, credendo ingenuamente che Jimin non si fosse accorto di nulla, ma perfettamente consapevole che l’altro era trasalito quando gli aveva toccato il labbro.
E invece Jimin se n’era accorto, eccome. Ma non disse né fece niente, era giusto così. Entrambi si limitarono a consumare ciò che restava delle rispettive cioccolate, della torta e del muffin, e pochi secondi dopo la stessa cameriera che aveva portato loro le ordinazioni tornò con il conto, sorridendo a Jimin.
Quello fece per tirare fuori il portafogli, quando Jungkook lo interruppe con una mano mentre con l’altra tirava fuori il suo. – Tranquillo, Minnie, pago io. – Di proposito, marcò quel nomignolo che solo lui usava, tenendo lo sguardo fisso sulla cameriera per tutto il tempo che impiegò a prendere i soldi necessari – giusti, di modo che la ragazza scomparisse il più in fretta possibile senza tornare.
In questo modo, però, non si poté godere l’espressione a metà tra l’imbarazzato e il compiaciuto di Jimin, che non si aspettava quel gesto, ma ne andava neanche troppo segretamente fiero.
Quando la cameriera si fu allontanata verso la cassa, un Jimin baldanzoso e un Jungkook altrettanto confuso uscirono dal Lachata.
- Ti va di andare a fare un giro a Jamsil? – gli chiese raggiante Jimin. E Jungkook sapeva dove voleva andare a parare. Cercò di ricomporsi per opporre una resistenza convincente.
- No, no, no, lo sai che le lame non mi piacciono...
- Dai, Kookie, sono due anni che ti chiedo di andarci! Hai o non hai diciott’anni?
Jungkook, quando gli veniva dato del ragazzino, non poteva fare a meno di reagire, e solo raramente riusciva a trattenersi dal fare qualcosa di cui puntualmente si pentiva, vedasi le sue sporadiche avventure alcoliche. Questa ristretta cerchia di casi in cui si dava una regolata si riduceva a due campi: le cose appuntite e le cose affilate. Una volta, alle medie, il suo compagno di banco si era bucato il dorso della mano con il compasso, e ci aveva preso gusto; poi aveva detto a Jungkook, ghignando, di provare anche lui. Il ragazzo, impallidito, aveva chiesto alla professoressa di andare in bagno, e il giorno dopo si era fatto cambiare di posto dal rappresentante di classe.
Questa sua sorta di fobia lo portava ad avere un’atavica paura anche dei pattini da ghiaccio. Non aveva mai imparato a pattinare, decisamente troppo spaventato dall’eventualità di tagliarsi e dalla vista di tutte quelle lame messe insieme. Jimin, d’altro canto, amava farlo, e cercava da due anni – senza successo – di trascinarlo alla pista del Lotte World di Jamsil.
- Certo che ho diciott’anni! Ma questo non vuol dire che debba rischiare la vita.
- Ma che rischiare la vita! Mi ci fai sempre andare da solo, per favore, solo per questa volta... – continuò implorante Jimin.
Jungkook incrociò le braccia al petto, lo sguardo fisso su Jimin. – No.
- E poi non è ancora dicembre, non ci sarà tanta folla.
- Sì, ma oggi è sabato, quindi ci sarà tanta folla.
- No, perché è sabato mattina, quindi non ci saranno grosse spedizioni di famiglie né di studenti delle medie e delle superiori, sono loro che poi creano folla alla pista.
Jungkook stava per aggiungere qualcosa, ma Jimin gli impedì di farlo: - E, inoltre, è ancora bassa stagione, il che fa diminuire ancora di più il quantitativo di gente.
Jungkook sospirò, continuando a sostenere lo sguardo di Jimin. Gli aveva sempre detto di no, e non vedeva perché avrebbe dovuto dirgli di sì in quel momento: le motivazioni erano più o meno sempre le stesse, venivano adattate in base al periodo dell’anno e ad altri fattori. Però... era dalla sera prima che si sentiva un po’ strano, confuso, anche. Ripensò a ciò che era successo pochi minuti prima nel bar, e un calore che non c’entrava assolutamente niente con la sciarpa che aveva al collo gli assalì le guance. Spostò lo sguardo su un lampione spento.
- Io però ho paura davvero di cadere e tagliarmi, non sono nemmeno capace a muovermi su quei cosi...
Jimin lo guardò intenerito: sarebbe sempre rimasto un po’ bambino, lo sapeva, ma questo era solo uno dei motivi che l’avevano fatto inevitabilmente innamorare di lui, giorno dopo giorno, senza possibile via d’uscita. – Ti tengo io, Kookie, pensi che ti farei cadere?
Il ragazzo sprofondò la faccia nella sciarpa, tornando a guardare Jimin. Improvvisamente, in quegli occhi scuri e lucidi per il freddo, rivide il Jimin disteso nel letto di pochi giorni prima, e la possibilità che un suo ennesimo no potesse ridurlo nuovamente in quel modo lo spiazzò. No, non sarebbe successo di nuovo. – Però ti giuro che se una di quelle lame malefiche mi fa del male, ne pagherai le conseguenze. Ti avviso.
Ma ormai Jimin non lo ascoltava più, impegnato a esultare per la vittoria. Lo afferrò per il polso e lo trascinò correndo lungo la strada per la metropolitana che, in cinque misere fermate, li avrebbe di lì a poco condotti alla pista da pattinaggio.

- Papà, guarda quel bambino! Perché non pattina da solo? Non è capace?
La voce di una ragazzina che poteva avere sui dieci anni giunse forte e chiara alle orecchie di Jungkook, che si teneva aggrappato con violenza alle mani di Jimin.
- Non. Sono. Un. Bambino – mormorò lui, rafforzando – ammesso che ciò fosse possibile – la presa. Jimin ridacchiò.
- Non sfottere, altrimenti ti faccio il solletico, e poi voglio vedere chi ride tra noi due – proseguì con malcelata irritazione, ma l’altro gli rivolse uno sguardo ironico, sollevando un sopracciglio.
- Se tu mi facessi il solletico io cadrei e di conseguenza cadresti pure tu.
- Ti sbagli, io ho sempre il parapetto, non mi sei così indispensabile – ribatté Jungkook.
Jimin, in risposta, indietreggiò rapidamente, facendo sbilanciare pericolosamente l’altro. Questi, preso alla sprovvista, si produsse in un’espressione a dir poco terrorizzata, che però a Jimin risultò solo estremamente comica.
- Prova un po’ a ripeterlo – gli disse divertito mentre si ricomponeva.
- Giuro che questa è l’ultima volta che vengo a pattinare, davvero.
Continuarono a girare intorno alla pista, Jimin procedendo all’indietro in modo da poter guidare Jungkook. Gli si stavano indolenzendo le braccia a forza di tenerlo così, ma pazienza, avrebbe sopportato. E poi c’era un altro problema ben più grave da risolvere: Jungkook era davvero troppo rigido.
- Senti, che ne dici se provi a rilassarti? C’è poca gente, quindi non c’è nemmeno il rischio di cadere addosso a qualcuno...
- Io ci sto provando, ma non è tanto facile, sai? – rispose l’altro, la voce tremula sull’ultima sillaba. Forse per istinto, mentre parlava, stritolò ancora di più le mani di Jimin. Per qualche secondo nessuno dei due disse niente, e continuarono a pattinare lentamente, Jungkook cercando di guardare il meno possibile il coinquilino. Inutile negarlo: si sentiva tremendamente in imbarazzo per il fatto di essere così spaventato e imbranato.
- Ehi, Jungkook, guardami un attimo.
Quello, però, si ostinava a tenere lo sguardo fisso sui pattini bianchi del ragazzo davanti a lui.
- Davvero, Kookie, alza la testa, altrimenti ti lascio una mano e te la alzo io.
A quella seppur bonaria minaccia, Jungkook sollevò lo sguardo con uno scatto. In realtà, però, probabilmente, quella minaccia era del tutto infondata, perché il più piccolo era aggrappato all’altro con tanta tenacia da bloccargli la circolazione, quindi sarebbe stato decisamente difficile per Jimin, se non impossibile, tradurre in azione le sue parole. Tuttavia Jungkook era evidentemente davvero terrorizzato dall’eventualità di perdere il suo appiglio, anche se solo pochi secondi prima aveva asserito di poterne fare a meno.
Ottenuta la sua attenzione, il viso di Jimin si distese in un’espressione rassicurante. – Adesso, fai un respiro profondo.
- Ti prego, ci hai già provato con questo metodo, e hai visto che n...
- Fidati di me, ti ho fatto cadere finora?
- Prima sono quasi scivolato...
- Ma sei caduto?
Jungkook ci pensò un attimo, poi sospirò, capendo di dovergliela dar vinta. – No.
- Quindi fai come ti dico: respira profondamente un paio di volte.
Intorno a loro il Lotte World si muoveva più lento del solito in quella tranquilla mattina di fine novembre. Vari pattinatori sfrecciavano più o meno velocemente di fianco a loro, facendo svolazzare la sciarpe e scricchiolare il ghiaccio.
Jungkook si concentrò sul contatto con le mani di Jimin e fece come gli era stato detto mentre alternava passetti e strisciate con i pattini.
- Bene. Adesso continua a guardare me, e parlami della fisica di base, perché io non ci ho mai capito niente e devo riprendere dall’inizio. E per inizio intendo inizio inizio, ho rimosso tutto dai tempi delle superiori, e mi serve per il corso che sto seguendo adesso.
- Che cosa? Cos’è, uno scherzo? – chiese in tono quasi stridulo Jungkook. Stavano pattinando – anche se il suo non si poteva propriamente chiamare pattinare – lui era terrorizzato e Jimin gli chiedeva una spiegazione di fisica? Ma che razza di richiesta era?
- Mai stato più serio di così – rispose però lui. Jungkook era decisamente confuso, ma, tanto per provare a capire dove volesse andare a parare l’amico, tastò un po’ il terreno.
- Ehm... per inizio intendi...
- L’inizio più inizio che ti viene in mente – replicò ancora Jimin. La confusione di Jungkook non era scemata di un millimetro, ma vedendo l’espressione mortalmente seria dell’altro, anche se ancora un po’ sospettoso, si mise a parlare.
- Dunque, da quel che mi hai detto... forse sarebbe il caso innanzi tutto di fare una premessa generale su cos’è la fisica. È la scienza della natura, la scienza che si occupa di studiarne i fenomeni. Il mezzo è il metodo sperimentale, e qui ci sarebbe tutto lo spiegone sugli esperimenti ma quelli dovresti essere capace a farli. Comunque, essenziale in fisica è sicuramente il processo di misura: la prima cosa da fare è ragionare sulla grandezza, e in base a tale ragionamento stabilire un’unità di misura. Il sistema internazionale...
Mentre Jungkook si perdeva nel suo discorso sulla fisica e sulle grandezze fondamentali imposte dal sistema internazionale, imprecando perché, come accadeva con i sette nani, gliene mancava sempre una, Jimin lo guidava, aumentando in modo quasi impercettibile la velocità mano a mano. Certo, se Jungkook non fosse stato tanto preso dalla paura di cadere e farsi male, avrebbe riflettuto maggiormente sulla strana richiesta di Jimin: a cosa poteva servire una spiegazione di fisica basilare a uno studente universitario di economia? Lo stava ascoltando, sì, ma più per il piacere di sentire la sua voce che per la reale utilità di ciò che si stava facendo dire. Il suo intento, infatti, ovviamente non era quello di costruirsi una solida base nella materia sulla quale Jungkook si stava dilungando con dovizia di particolari e digressioni dal carattere quasi filosofico, bensì quello di farlo pensare ad altro, e quale mezzo migliore che dargli uno spunto per una disquisizione su uno dei suoi argomenti preferiti?
- Secondo me dovresti mollare medicina e passare alla facoltà di fisica – commentò lui non appena Jungkook terminò di parlare del periodo di oscillazione del pendolo. Il più piccolo si bloccò di scatto, come se si fosse appena risvegliato da un sogno a occhi aperti.
- Oh, non so... i miei non sarebbero molto d’accordo, credo. Loro sono dei medici importanti, mamma è cardiologa e papà oncologo, vanno a tenere conferenze in giro per il mondo, lo sai. Non ho mai pensato seriamente a fisica: c’è quest’esame che devo dare tra un mesetto, e basta... ho sempre creduto che fosse il flusso naturale delle cose che io prendessi medicina all’università.
- Secondo me invece dovresti pensarci, ti troveresti meglio lì. Da come parli della fisica sembra che sia la tua passione.
Jungkook lo guardò interdetto: ma cosa stava dicendo? Lui doveva fare medicina, non aveva mai pensato che potesse esistere un futuro alternativo. Però... però per un attimo, in quell’attimo, prese in considerazione l’idea. Forse gli sarebbe piaciuto, ma quello che aveva detto a Jimin era vero: non ci aveva mai pensato, e certo non poteva dargli una risposta così su due piedi.
- E poi, una volta laureato in fisica, cosa potrei fare?
Jimin rimase per qualche istante in silenzio, pensando alla risposta. – Che ne diresti di insegnare?
- Insegnare? Io? – fece Jungkook stupito. Quella era davvero una proposta a cui non era preparato. – Non saprei mai gestire una classe, piena di adolescenti urlanti e senza la minima voglia di studiare. E poi un conto è spiegare fisica a te o a un paio di compagni di corso, un conto sono venti ragazzi da costringere a prendere appunti...
- Ehi, ehi, calma, non ti ho detto mica di prendere una decisione seduta stante. Solo, pensaci, perché comunque ne va del tuo futuro – lo bloccò Jimin, vedendo che stava già iniziando a preoccuparsi di ogni minimo dettaglio prima ancora di aver riflettuto.
- Mh, sì, forse hai ragione... è inutile farsi venire l’ansia adesso – convenne lui. Per un paio di secondi ognuno dei due rimase solo con i propri pensieri, poi Jimin, troppo orgoglioso del risultato che aveva raggiunto, non poté più trattenersi dal farlo notare anche a Jungkook.
- Visto che non è poi così difficile se non ci pensi?
- Se non pensi a cosa? – chiese confuso Jungkook, per poi rendersi conto, spostando lo sguardo da Jimin ai propri pattini a intermittenza, di star effettivamente pattinando. Be’ pattinare era una parola grossa, ma non si teneva più con la disperazione di prima alle povere mani di Jimin, che potevano finalmente permettere nuovamente al sangue di circolare nelle vene. Inoltre, ai passetti rigidi di prima, si erano gradualmente sostituite delle lievi spinte che potevano tranquillamente essere scambiate per tentativi di avanzare liberamente sulla superficie gelida della pista.
Jimin non poté fare a meno di sorridere. Vedere Jungkook, il suo Kookie, così stupito dei propri progressi, gli riempiva il cuore di felicità. In quel momento, come in mille altri in quei due anni, fu certo che no, nessuna parola sarebbe mai stata abbastanza per dire, per spiegare il suo stato d’animo, per descrivere quanto quel ragazzo dai capelli corvini fosse meraviglioso. Certo, c’era l’effetto collaterale dello sciame di farfalle fin troppo emozionate nel suo stomaco, ma ormai poteva quasi dire di averci fatto il callo.
- Che dici, vuoi provare senza una mano? – gli propose Jimin. Jungkook guardò pensieroso le loro mani, le dita intrecciate. Be’, superato l’impatto generale, non avrebbe dovuto essere poi così complicato, no? Eppure era restio ad acconsentire. Era piacevole stare così, poterlo guardare in viso senza difficoltà, avere la sicurezza di potersi tenere a lui. Però, pensandoci meglio, Jimin non aveva ancora avuto la possibilità di pattinare normalmente, essendo costretto a procedere in retro marcia per guidarlo. E poi una mano poteva sempre tenergliela, no?
Al fatto di non essere del tutto certo del perché volesse a tutti i costi mantenere un contatto fisico con lui, a quello cercò di non pensarci troppo, concentrandosi di più sulla voce di Jimin che continuava a parlargli della possibilità di insegnare, un giorno, a un branco di alunni scalmanati.
Jimin, d’altra parte, sperava ovviamente che il suo tentennamento non fosse dovuto unicamente all’insicurezza di essere in grado di pattinare da solo.
 
***
 
Uscire di casa di notte senza farsi notare dai propri genitori è più complesso di quanto non possa sembrare a un primo esame, e questo Taehyung lo imparò a sue spese la notte tra il ventotto e il ventinove di novembre.
Aveva provato ad addormentarsi, davvero, ma aveva miseramente fallito nel suo intento. Giunto all’una di notte senza essere riuscito a prendere sonno aveva quasi considerato l’idea di andare in bagno e prendere una pastiglia delle sue, ma si disse che non era proprio il caso. Aveva resistito senza di loro per dei mesi e in condizioni decisamente peggiori, non poteva cedere così alla prima difficoltà. Esclusa quindi quella possibilità, aveva provato con il training autogeno, ma ogni volta che cercava di rilassarsi veniva distratto da qualche inevitabile pensiero su Hoseok. Una volta però che ebbe capito che non sarebbe riuscito a chiudere gli occhi, almeno per quella notte, decise che l’unica soluzione era uscire a fare quattro passi.
Già, come se fosse facile. Si alzò dal letto e, in punta di piedi e a tentoni, cercò i vestiti che aveva usato durante il giorno, per poi infilarseli. Ma la parte più insidiosa del suo piano era un’altra: lasciare la sua abitazione senza che i suoi se ne accorgessero. C’erano solo tre porte che lo separavano dal mondo esterno: quella di camera sua, quella di casa che dava sulle scale e quella del condominio. La prima era la più semplice da superare, ma la seconda... quella era tutta un altro paio di maniche. Andando avanti un passetto alla volta – le scarpe le teneva in mano per fare meno rumore – riuscì ad arrivare alla porta, per poi rendersi di conto di non aver preso le chiavi. Una volta che fu quasi tornato in camera, però, si ricordò di averle lasciate nella giacca la sera prima.
L’altra giacca. Quella appesa di fianco alla camera dei suoi genitori.
Numi del cielo, vi prego, uccidetemi in modo rapido e indolore.
Usando sempre lo stesso metodo, scarpe in mano e cuore in gola, arrivò davanti all’appendiabiti e grazie forse a qualche estemporaneo potere magico e a una più unica che rara botta di culo fu in grado di mettersela addosso. Con quel nuovo carico, però, dovette muoversi il doppio più lentamente per tornare alla porta di casa. Superata anche tale avversità, poté finalmente uscire sul pianerottolo e chiudersi la dannata porta dietro le spalle.
Si appoggiò per qualche secondo al muro per tirare un sospiro di sollievo, poi si infilò le scarpe e scese le scale. Tremava ancora un po’ per l’adrenalina che gli era entrata in circolo, ma quando fu arrivato al pian terreno stava già sensibilmente meglio.
Dopo mille peripezie, si ritrovò solo nella via in cui abitava, pronto – forse – per schiarirsi tutte quelle idee che gli affollavano la mente, in quel momento sicuramente troppo incasinata. Per ore e ore – naturalmente senza giungere a niente di concreto – si era arrovellato sulla stessa domanda: chiamare Hoseok o no? Doveva proprio farlo? In effetti, da come l’aveva lasciato la sera prima, sarebbe dovuto essere proprio lui a contattarlo. Già, ma cosa doveva dirgli? Che parole usare? Che tono? E poi, avrebbe dovuto chiarire per telefono? No, no, certo che no, non poteva assolutamente farlo, non si può parlare di queste cose per telefono, dovevano farlo faccia a faccia. Ma allora avrebbe dovuto chiedergli di vedersi? Una specie di appuntamento? Però dopo tutti quei mesi che non solo non si frequentavano, ma si evitavano – o almeno, lui cercava di evitare Hoseok – non sarebbe forse risultato patetico?
Come sei complessato, si trovò a pensare tra sé. Passeggiava con il pilota automatico inserito, sperando di non andare a sbattere contro qualche passante – una volta era caduto addosso a una vecchietta che stava portando a casa la spesa, e per farsi perdonare era stato costretto ad accompagnarla, naturalmente portando tutte le buste.
Continuò a camminare senza posa per un po’, ma più pensava e meno riusciva a sbrogliare il filo dei suoi pensieri. Se era uscito per cercare delle risposte, tutto quello che si trovava in mano in quel momento erano domande, domande e altre domande ancora.
Vedendo una panchina libera, ci si sedette, e iniziò a fissare l’insegna al neon di un negozio di giocattoli sul lato opposto della strada. Si chiamava “Pinocchio”, e la scritta di un rosso tendente al fucsia lampeggiava regolare, anche se a volte l’ultima sillaba si accendeva un po’ dopo le altre.
Una ragazza si sedette di fianco a lui. All’inizio non ci fece caso, ma dopo qualche secondo si sentì apostrofare.
- Taehyung, sei tu?
Quello si voltò di scatto, riconoscendo la voce della ragazza. Era un po’ cambiata dall’ultima volta che l’aveva vista: si era fatta crescere ancora i capelli, e il suo viso aveva assunto un taglio più affilato.
Quante cose possono cambiare in pochi mesi, pensò un istante prima di rispondere.
- Ciao Jiwoo, quanto tempo.
- Ehm, già.
Appurato di aver davvero capito chi aveva di fianco, restava però un mistero. Cosa diamine ci faceva la sorella di Hoseok a quell’ora in giro per la città? Certo, non abitavano troppo distante, però...
- Anche tu qui?
- Sì... – rispose lei abbassando la testa. Come prevedibile, un silenzio imbarazzato interrotto solo dal traffico notturno scese su i due. Silenzio che entrambi cercarono di rompere con più che maldestri tentativi.
- Che coincidenza, eh?
- Sì, strano davvero.
- Secondo te domani piove?
- Non lo so, le previsioni danno variabile. Come va l’università?
- Mah, non c’è male, te?
- Tutto okay.
Altro silenzio imbarazzante. Taehyung odiava i silenzi imbarazzanti, tuttavia, come tutti, spesso non poteva evitarli. Non aveva mai parlato tantissimo con Jiwoo: sapeva che le piaceva leggere – passione che condivideva con il fratello –, che spesso era costretta a fare la sorella maggiore e che, fosse stato per lei, avrebbe svaligiato i tre quarti delle pasticcerie di Seoul; tutte informazioni che gli erano giunte da Hoseok, che ne parlava sempre con sguardo semi-adorante. A parte questo, non aveva mai indagato più di tanto su di lei, però dal poco che sapeva non gli era mai parsa il tipo da uscire per le strade di Seoul nel bel mezzo della notte. Chissà se sapeva come stava Hoseok.... forse avrebbe potuto chiederglielo. No, non si sentiva ancora pronto ad affrontare quell’argomento, meglio sviare il discorso prima di giungere – com’era inevitabile che accadesse – a quel momento. E poi, in fondo, era anche un po’ curioso.
- Se posso chiedere, perché sei qui?
Jiwoo infossò ancora di più la testa nelle spalle, come se stesse cercando di nascondersi. - Bisogno di pensare, credo. – Dopo aver detto quelle poche parole, iniziò a giocherellare con le maniche del cappotto, forse chiedendosi se fosse il caso o meno di rivelargli qualche dettaglio in più. – Tu invece?
- Io? Più o meno per lo stesso motivo.
Taehyung era quasi sicuro che Jiwoo si fosse fatta almeno una vaga idea del motivo per cui lui non riusciva a prendere sonno: da quel che si ricordava, Hoseok le diceva tutto quello che gli passava per la testa.
- Senti, Hobi mi ha raccontato di ieri sera... – Ecco, appunto, si congratulò con se stesso Taehyung. – Io non so cosa sia successo prima. Era dal giorno in cui vi siete lasciati che non parlavamo più davvero, ma quando ieri siamo tornati a casa, dopo la festa... mi è sembrato più felice. Anche se leggermente paranoico, si tiene sempre il telefono vicino, e a ogni squillo salta come se qualcosa l’avesse punto.
Entrambi sorrisero a quelle parole, anche se Taehyung, oltre all’ilarità, sentì anche una lieve stretta al cuore: era lui, era una sua chiamata che stava aspettando.
- Tu sei importante per lui. Sei più che importante, e lo so che probabilmente ti ha ferito, ma non ti ha mai dimenticato. Non ho idea di che cosa abbia potuto separarvi, ma sono certa che non sia passato un giorno, una sola singola ora in cui Hobi non abbia pensato a te e in cui non ti abbia rivoluto indietro.
Taehyung deglutì. Davvero era stato così male? Ma cosa cambiava, se aveva pensato a lui così spesso ma poi non l’aveva cercato? Perché? E poi era stato lui a lasciarlo, non il contrario.
- Qualunque stronzata abbia fatto, se n’è pentito davvero, io lo so. Dagli un’altra possibilità. Ne ha bisogno, e ne hai bisogno anche tu.
Seoul di notte era bella perché nessuno giudicava nessuno. Seoul di notte era bella perché le luci dei lampioni e delle insegne a volte facevano venire mal di testa, ma se si imparava a conoscerle sapevano di casa, raccontavano delle storie. Seoul di notte faceva pensare, riflettere. A Seoul di notte, tra gli ubriachi di turno e altri personaggi poco rispettabili, c’erano persone che si chiedevano cosa fosse giusto fare, come Taehyung e Jiwoo, lì, seduti su quella panchina.
Il ragazzo dai capelli lilla si alzò dalla panchina con un lieve sorriso. – Forse è meglio se torniamo a casa tutti e due. Se vuoi ti accompagno per un pezzo.
- Sì, grazie mille – rispose lei seguendolo a ruota.
Dopo pochi secondi, però, a Taehyung tornò in mente che Jiwoo gli doveva ancora una risposta.
- A cosa dovevi pensare esattamente, tu? – le chiese infatti. Lei ritirò di nuovo la testa nelle spalle, e un sorriso imbarazzato le spuntò sul volto.
- Oh, ehm... allora, devo ringraziare una persona, ma non so bene come farlo... è che io quella persona non la conosco, però devo assolutamente trovare un modo, perché dopo quello che ha fatto per Hobi non posso stare così con le mani in mano.
- Tutto quello che ha fatto per Hobi? Chi è? – chiese lui con una punta di irritazione.
Jiwoo lo guardò interrogativa, poi scoppiò a ridere. – No, dai, non dirmi che sei geloso!
Taehyung farfugliò qualcosa di incomprensibile, poi Jiwoo riprese il suo discorso.
- Non è quello che pensi. È il ragazzo che ha messo in piedi la festa, e volevo ringraziarlo perché altrimenti probabilmente mio fratello non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarti.
Adesso era il turno di Taehyung di essere in imbarazzo. Possibile che non avessero ancora chiarito alcunché, ma lui fosse già sul “chi va là?” a ogni frase? Si costrinse però a superare quella sua condizione, perché c’era ancora un dettaglio che non gli era molto chiaro.
- Ma perché la cosa ti crea tanti problemi? Voglio dire, probabilmente dovrei ringraziarlo anche io, ma... aspetta, stai diventando di nuovo rossa!
Probabilmente Jiwoo avrebbe preferito sotterrarsi piuttosto che reggere lo sguardo malizioso di Taehyung. – Oddio, ti piace!
- No! Non mi piace, non è vero!
- Ahah, ti piace, ammettilo, te lo si legge in faccia.
- Ti dico di no, non è assolutamente così.
- E allora perché sei così imbarazzata?
- È solo che non lo conosco bene, ed è un ragazzo più grande, quindi...
- Seh, seh, tutte scuse, ti piace e basta.
- Smettila! Certo che a volte tu e Hobi siete proprio uguali...
Concluse lei incrociando le braccia al petto in un moto di stizza. Taehyung sorrise: se lo immaginava proprio Hoseok che tartassava la sorella con allusioni del genere, sarebbe stato decisamente da lui.
- Va bene, la smetto, la smetto... però tu prometti che ci proverai con lui.
- Oh, basta! Rettifico, sei peggio di Hobi.
- Dai, non esagerare adesso.
Continuarono a punzecchiarsi in quel modo fino a quando non dovettero separarsi. Arrivati all’incrocio, prima di salutarsi, entrambi dissero all’unisono: - Chiamalo, d’accordo?
Impiegarono qualche istante a capire cos’era successo, ma poi scoppiarono a ridere, e rispondendosi a vicenda che sì, l’avrebbero fatto, si voltarono le spalle per tornare ognuno a casa propria, forse con un po’ di fiducia in più.










Angolo autrice (parte 2):
Allora, sono stata perdonata un pochino? Che ne pensate, Yoongi smetterà di essere solo un cupido e sarà "cupidato"? Si vedrà, si vedrà. Dunque, ormai... questo è il capitolo 8. Tolto questo, mancano solo più tre capitoli. Forse è anche per questo che ci sto mettendo tanto a finire questa storia: mi fa compagnia da più di un anno, la iniziai nel lontano ottobre 2015, adesso è gennaio 2017... Caspita, non ho mai speso così tanto tempo dietro una storia. Però, come vi ho detto, ci tengo tantissimo, quindi la finirò. Magari con ritardi madornali, ma la finirò, giuro.
  
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