6.
Q |
uando
la porta si richiuse alle sue spalle con uno sgradevole gemito causato dai
cardini usurati, Ren capì due cose. La prima, era che da qualche parte si era
aperto un portone che doveva velocemente sprangare e, grazie alle interminabili
maratone di TWD¹, era
sicuro di compiere un buon lavoro, dato che aveva perfezionato la sua tecnica
in materia; la seconda, forse la più importante, era la possibilità di essere
fottuto come mai in vita sua. I gemiti e le imprecazioni soffocate che
trapassavano il legno come se volessero colpirlo fisicamente per smentire il significato
delle minacce a vuoto, ne erano un valido esempio.
Sospirando, si appoggiò di peso sulla porta, la
schiena che premeva contro la fredda superficie consunta. Con movimenti celeri
iniziò a cercare nelle tasche della giacca il suo portasigarette. Aveva bisogno
di calmarsi, di lasciare che il fumo lo aiutasse a essere obiettivo. Doveva
rimanere concentrato prima che la situazione gli sfuggisse di mano ed essendo
circondato da idioti era solo una questione di tempo.
Aprì con uno scatto la scatola di metallo e si portò
alle labbra una sigaretta rollata. Quando alzò lo sguardo per accenderla, si
rese conto di avere tutti gli occhi puntati contro. Aveva già riavviato il
generatore situato in cucina prima di ritornare nel salotto, per cui l’intero
pianterreno era illuminato dalle lampade a muro ancora funzionanti. Purtroppo,
non poteva fare molto per migliorare il panorama. Azionò lo zippo, avvicinando
la fiamma all’estremità della sigaretta e ne prese una lunga boccata.
«Mi pare che abbiate di meglio da fare, o sbaglio?»
chiese, espirando il fumo. Dal salotto provenne un tonfo soffocato seguito da
un’imprecazione. Lo sgorbio doveva essere passato dalla fase “maledici i morti
e le future generazioni” a “prendi a calci e distruggi tutto quello che ti
capita a tiro”. Nel caso della faccia dell’irlandese forse poteva considerarsi come
un miglioramento.
«Lo sai anche tu che è una pessima idea» sentenziò
Mark, incrociando le braccia al petto.
Ren sollevò un sopracciglio. Prese un’altra boccata,
cercando di non sorridere a quell’ingenuo tentativo di tenergli testa. «Hai
forse paura di essere preso di mira da un fantasma? Forza, muovi il culo e
porta con te Sarah, prima che John decida di deliziarci con il concepimento di
un cinegro.»
«Ehi!» sbottò l’altro, impegnato fino a poco tempo
prima nel tentativo di tranquillizzare la ragazza, che arrossì a disagio
nell’udire quella constatazione. «Sei proprio uno stronzo.»
«Grazie, lo so. E ora andate. Prima ci muoviamo, prima
troveremo un’uscita da questo buco. E tu» si voltò verso Leyla, cogliendola con
la bocca a aperta mentre stava per sganciare qualche altra frase dalla dubbia
utilità. «Cerca di non lamentarti troppo. A Mark piacciono le bionde. Non è
così?»
L’amico lo fulminò con lo sguardo, ma non rispose a
quella provocazione. Dopo aver affiancato Sarah e aver preso per un braccio
Leyla che ancora traballava sui tacchi a spillo, le guidò verso le scale di
servizio più vicine. E il primo gruppo sparì così dalla lista delle cose da
fare. Ora toccava al secondo.
Fece per voltarsi verso i rimanenti, quando John lo
fronteggiò. Dalle spalle tese e il petto in fuori sembrava in cerca di rogne.
Ren sorrise languidamente. Anche se John lo superava di qualche centimetro, avrebbe
potuto stenderlo senza alcun problema e le numerose risse da bar nei loro
trascorsi ne erano una valida testimonianza. Per essere entrato nel giro da
pochi anni, Ren era riuscito a raggiungere la vetta della scala gerarchica
piuttosto in fretta grazie a una sola e semplice regola: pura violenza.
Sfidarlo apertamente poteva considerarsi come un invito all’obitorio e in quel
momento non era in vena di diplomazia.
«Non so a che gioco stai giocando, Rennis, ma abbiamo
già controllato le finestre al pianoterra» sentenziò l’amico.
«E allora ricontrollatele di nuovo» sbottò lui,
distaccandosi dalla porta. Strinse la sigaretta tra i denti e si mise le mani
in tasca, ciondolando sui talloni mentre Dakota, come al suo solito, si metteva
in mezzo. Perché le ragazze dovevano sempre stare tra i piedi?
«Avanti, non litigate» sbottò, per poi rivolgergli uno
sguardo da cucciolo bastonato. «Ren, lo sai che non è sicuro andare da soli
all’ultimo piano…»
Affondò i denti nel filtro, senza curarsi del sapore
amaro che gli penetrò la lingua. Le loro idee sulla sicurezza non coincidevano
e personalmente si sentiva più al sicuro con un serial killer che con una
ragazzina che fino a ieri aveva intasato Twitter con le sue intenzioni di
portarselo a letto. Sospirando, si pizzicò il setto nasale, sentendo crescere
in lui il principio di un’emicrania da urlo. E dire che per quella notte aveva
previsto solo di bere come una spugna.
Riportò lo sguardo su di lei e le sorrise, ma prima di
poter aprir bocca, Gregory ricomparve dall’ombra nella quale l’aveva rilegato.
Si era dimenticato di lui. Totalmente.
«Non andrà da solo. Lo accompagnerò io.»
Per poco la sigaretta non gli scivolò dalle labbra per
lo stupore. Lui e il secchione che facevano squadra? Un avvenimento del genere
era in programma nella sua agenda solo nel giorno poi dell’anno mai. Ma se
doveva scegliere tra lui e Dakota, forse non era poi una cattiva idea optare
per il male minore.
«Grazie delle tue amorevoli preoccupazioni da
mogliettina ansiosa, ma preferisco andare da solo. Se sarò fortunato morirò sul
colpo.»
«Sii serio per una volta» rimbeccò il giovane. «E poi
dubito che i tuoi amici ti permetteranno di muovere alcun passo senza qualcuno
a guardarti le spalle.»
«Forse dovresti preoccuparti delle tue.»
«Ok, basta!»
Tutti i ragazzi si voltarono verso Dakota. Per essere
un mucchietto di ossa, possedeva una spiacevole voce acuta.
Combattuta, la ragazza si morse il labbro e si diresse
verso John, prendendolo a braccetto nonostante tenesse gli occhi puntati su
Ren. «Molto bene. Io e John ricontrolleremo le finestre a questo piano e voi
due andrete al secondo. Mi sembra equo. È inutile sprecare altro tempo.»
John le lanciò un’occhiata perplessa, ma alla fine si
arrese con una scrollata di spalle. In fondo la loro massima priorità era
quella di uscire da lì; perdere tempo a discutere tra di loro era del tutto
controproducente, oltre che una pessima idea. «Ok. Ci rivediamo qui tra
mezz’ora?»
«Certo» annuì Ren, finendo la sigaretta. La gettò a
terra e la schiacciò sotto la suola di un anfibio, ormai del tutto incurante
del “rispettare” certe dimore. Attese qualche momento prima di muoversi a sua
volta, osservando i due ragazzi scomparire dietro l’angolo.
E così anche il secondo punto della lista svanì,
seppur con un membro in meno nel gruppo.
«Forza, andiamo.»
Ren camminò svelto per i corridoi, incurante se
Gregory riusciva a stare o meno al suo passo. Nella penombra, i suoi occhi si
posarono sul pavimento, ormai costellato d’impronte dissimili che proseguivano
in tutte le direzioni. L’effetto che produceva tale visione non era confortante,
nonostante fosse la prova della presenza di creature corporee a zonzo per quei
corridoi, ma appariva come un macabro sentiero che spezzava il manto di polvere
che racchiudeva la villa. La sua immobilità era stata profanata e in quel
momento, più che mai, Ren incominciò a sentirsi come un intruso. Avvertiva
qualcosa d’indefinito aleggiare sopra di loro e ciò non faceva altro che
procurargli la sgradevole sensazione di essere osservato.
Arrivato alle scale di servizio, si fermò quel che
bastava per estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans e azionare la torcia, in
modo da illuminare i vecchi gradini scricchiolanti.
«Non era necessario.»
Non si voltò nell’udire la voce del secchione alle sue
spalle e incominciò a salire.
«Ignorami pure» continuò Gregory. «Ma so perché l’hai
fatto.»
Trattenendo l’impulso di voltarsi e di spingerlo giù dalla
scalinata con un calcio nella speranza che si spezzasse l’osso del collo, Ren ingoiò
un’imprecazione. «Ah, sì?»
Gregory strinse gli occhi quando il raggio di luce
della torcia lo colpì in pieno viso, ma non si mosse. Il suo sguardo indagatore
parlava da solo, le labbra tese in una dura linea ammonitrice. Sembrava che non
approvasse la sua scelta di tenere fuori Alexander da quella storia e per un
attimo fu tentato di domandargliene il motivo. Si riscosse: da quando gli
importava della sua opinione?
«Volevi che qualcuno rimanesse a disposizione di Alex.
Vuoi proteggerla.»
Due frasi, un biglietto garantito di sola andata per Fanculonia. Fu il turno di Ren a stringere le labbra e a
voltarsi, proseguendo la scalata fino a raggiungere il primo piano. Si diresse
a passo di marcia fino all’ultima rampa di scale.
«Proteggerla?» domandò in tono sfacciato, stringendo
con forza il cellulare nella mano. «Come se ne avesse bisogno. Da quello che ho
visto finora se la cava benissimo da sola.»
«Eppure hai preferito imprigionarla in quella stanza
piuttosto che permetterle di aiutarci» continuò imperterrito il secchione. «Non
credi che sia un controsenso?»
Ren digrignò i denti. Sì, lo sapeva. Ed era proprio
per questo che non aveva potuto fare a meno di metterle i bastoni tra le ruote.
Ma era solo una questione di tempo, ne era consapevole. Alex era il tipo di
donna che otteneva sempre ciò che voleva, indipendentemente dalla situazione o
da chi osasse mettersi sulla sua strada. Forse perché era dannatamente
brillante e proveniva da una buona famiglia, o forse perché era uno schianto,
nonostante cercasse in tutti i modi di essere scambiata per una senzatetto. E,
dato che nemmeno Dio poteva essere l’autore della personificazione della
perfezione, l’aveva dotata della sfera emotiva di una medusa e il carattere di
un pittbull aizzato. E questo lo faceva impazzire. In ogni senso.
Malgrado ciò, nemmeno lei era invincibile. Lo sapeva
per certo.
Avvertì il ragazzo sospirare a causa del suo silenzio.
Prima di permettergli di nuovo di aprire bocca, Ren si voltò e con uno scatto
repentino gli fu addosso, costringendolo a indietreggiare contro il muro, che
scricchiolò sotto quella pressione.
«Mettiamo in chiaro una cosa» sibilò, gli occhi
fiammeggianti che mal celavano la sua rabbia. «Ti ho lasciato venire con me solo
per evitare di perdere tempo con discorsi inutili, esattamente come quello che
ti ostini a continuare ora. Per cui lascia perdere. Se hai qualche problema con
me sono affari tuoi; la cosa non mi tocca, puoi starne certo. Una volta usciti
da qui ognuno di noi andrà per la propria strada. Intesi?»
Gregory lo fulminò con lo sguardo. Con uno strattone
si liberò dalla sua presa. «Non mi fido di te.»
Ren gli ridiede le spalle e scoppiò a ridere, salendo
l’ultima rampa di scale, ancora più malmessa di quelle che collegavano i due piani
sottostanti. «Oh, fai bene. E, giusto per la cronaca, se dovesse capitarti
qualcosa, ti lascerò a penzolare dal soffitto. Anzi, ti scatterò una bella foto
come ricordo, per cui dovresti preoccuparti per te stesso, non per quello
sgorbio.»
Convinto di aver avuto l’ultima parola, Ren sorrise
soddisfatto, arrivando finalmente alla loro meta. Il secondo piano di
Pennington Mansion si rivelò a loro in tutto il suo
decadimento. A causa della mancanza di fondi per la manutenzione, nel corso
degli anni si era a poco a poco trasformato in un labirinto di stanze vuote con
cavi scoperti e travi traballanti, decorato da un pavimento quasi del tutto
distrutto e ricoperto da cianfrusaglie e scatoloni. Buona parte dell’ala ovest
era mancante e il resto consisteva in un’enorme trappola pronta a crollare
sotto il peso del povero malcapitato che aveva avuto la stupida idea di arrampicarsi
fin lì. Sam, uno dei barboni che bazzicavano da quelle parti, si era rotto una
gamba cadendo proprio in un buco mentre cercava di scappare da una rettata
della polizia locale.
Facendo attenzione a dove metteva i piedi, Ren
incominciò a guardarsi intorno per individuare un buon punto da utilizzare come
via di fuga, dimenticandosi di fare luce anche per Gregory.
Almeno finché non ricominciò a parlare.
«Non mi fido di te perché lei è mia amica. Ecco il
motivo. Stalle alla larga, Rennis.»
Ren s’immobilizzò. Non perse nemmeno la briga di
voltarsi nella sua direzione.
«Oh, non credo che tu debba preoccuparti di questo. Mi
piace l’ebbrezza della caccia.»
«Era
proprio necessario?» si lamentò Leyla, per quella che aveva calcolato come la
settima volta da quando si erano separati dal gruppo. Arrancava di proposito
nei corridoi bui, continuando a gemere e a lagnarsi nel tentativo di ottenere
il permesso di svignarsela da qualche parte a riposarsi. Ancora non si
capacitava di essersi lasciata trasportare da quegli scellerati e di essere
finita in quel guaio. Oltretutto, le sue povere Chanel erano in condizioni
pietose a causa di tutta la sporcizia che c’era al suolo e nessuno di loro
avrebbe potuto ricomprargliele senza finire sotto un ponte, il giusto posto che
li spettava.
«Per l’ennesima volta, sì. È una casa molto grande,
per cui abbiamo bisogno di tutti per esplorarla al meglio» gemette Mark.
Leyla scoccò al teppista uno sguardo esasperato. I
suoi capelli biondi e neri erano un insulto al buon gusto. Tanto valeva raparsi
a zero come quello zotico del suo amico, che non sarebbe stato nemmeno un bravo
domestico. Perché doveva sopportare gente del genere?
«Ma io sono ubriaca» protestò di nuovo a gran voce,
stringendo i pugni. «Vedo tutto offuscato e mi gira la testa! Non potevano
andare quegli sfigati al mio posto?»
Il ragazzo osò alzare gli occhi al soffitto e si voltò
per cercare del supporto morale da parte di Sarah. Lei ricambiò il suo sguardo,
ma si limitò ad alzare le spalle senza avere alcuna intenzione d’intervenire.
«Senti, devi solo ispezionare le finestre. Non mi
sembra un compito così difficile» sbuffò infine il ragazzo.
Leyla s’immobilizzò, lo sguardo esterrefatto. «Ma stai
scherzando? Così rischio di spezzarmi un’unghia!»
«Che ne dici allora di rimanere in silenzio a
occuparti delle tue unghie?»
«Mi stai dando dell’incapace?»
Mark si fermò non appena svoltato l’angolo per
sbattere la testa contro il muro e la ignorò. Di nuovo.
«Avanti, seguitemi. Inizieremo dalla zona più lontana
rispetto alla nostra posizione. Cercate di tenere il passo» sbuffò, scostandosi
il ciuffo dal viso con esasperazione.
Leyla rivolse una boccaccia al teppista mentre le dava
le spalle. Stizzita, rimase in disparte, tenendo le braccia contro il corpo nel
tentativo di riscaldarsi. Notando che nessuno dei due la stava degnando di uno
sguardo, ebbe un’idea. Sorrise sorniona e rallentò il passo un po’ alla volta,
continuando a sbuffare per dare un segno della sua presenza finché i due
ragazzi non girarono l’angolo. A quel punto, Leyla annuì soddisfatta e ritornò
sui propri passi, allontanandosi di soppiatto per quanto le permettevano i
tacchi.
Si arrotolò una ciocca di capelli attorno a un dito ed
estrasse l’iPhone dalla borsetta nella speranza di trovare una linea di campo,
ma finì con lo sbottare. Non era possibile che la ricezione non arrivasse fin
lì. Doveva essere un brutto scherzo.
Traballando sui tacchi, seguì a ritroso le orme che
segnavano il pavimento; la luce dello schermo brillava nei corridoi bui come un
faro. Finché non iniziò a sfarfallare.
«Ma cosa?» Leyla diede qualche colpo al telefono.
«Andiamo, stupido coso. Funzion… ahi!»
Si portò l’unghia rotta alla bocca, iniziando a
piagnucolare come una bambina. Si voltò, maledicendo ogni cosa che le veniva in
mente, per poi fermarsi a poco a poco, la voce ridotta a un sussurro inudibile.
La consapevolezza di essere sola e vulnerabile la travolse all’improvviso,
paralizzandola dalla paura.
Si guardò attorno. Un’oscurità opprimente la
circondava, soffocando qualsiasi altro dettaglio nei paraggi. La luce intermittente
emanata dal suo cellulare era troppo debole per rischiarire ciò che aveva intorno
a lei, ma non le sfuggì un fugace movimento con la coda dell’occhio.
Lanciò un urlo squillante. Irrigidendosi, si tappò la
bocca con una mano, per poi avvicinarsi lentamente al punto in cui aveva visto
qualcuno muoversi.
«Sarah?» mormorò. «Coso? Oddio, come si chiama… Mike?»
La sagoma alla fine del corridoio non rispose, né si
mosse. Rimase in silenzio a fissarla, la sua identità celata dalla fitta
oscurità che avvolgeva quel luogo.
«Non è divertente!» sbottò Leyla in tono lagnoso.
Abbassò lo sguardo verso il suo telefono, come se potesse esserle d’aiuto e
all’improvviso lo sfarfallamento scomparve. Prendendo coraggio, lo sollevò
davanti a lei e rivolse la luce verso le tenebre, illuminando il nulla.
Nell’aria avvizzita volteggiavano solo lenti ed eleganti granelli di polvere.
Leyla sussultò appena, mordendosi il labbro per non scoppiare in lacrime.
Eppure era sicura di aver visto qualcosa.
Poi lo udì. Un lieve sospiro.
Con il respiro affannato per la paura, si voltò
lentamente.
Raggelò.
Un bambino la stava osservando. Avrà avuto poco più di
una decina d’anni e indossava una semplice camicia e dei pantaloncini
nonostante l’aria frizzante. Aveva la testa inclinata leggermente da un lato,
come se la stesse contemplando con vivido interesse nonostante la sua
espressione vuota e apatica. Ma c’era qualcosa di strano in lui. La sua figura
appariva slavata, come se fosse incolore, la pelle pallida e gli occhi
cerchiati di scuro. Non disse una parola. Rimase lì, immobile, semplicemente a
guardarla.
Leyla ammutolì, ma poi gli occhi scintillanti di
lacrime persero la loro luce. Abbandonò le braccia lungo il corpo e il
cellulare le scivolò dalle dita, cadendo a terra con un leggero tonfo. E lì si
spense.
Quando lo schermo si riaccese, la sua luce fievole
illuminò un corridoio vuoto e silenzioso.
«Tu credi nei fantasmi?»
Colto alla sprovvista per quell’uscita, Ren rischiò
d’inciampare su uno degli scatoloni abbandonati alla rinfusa sul pavimento. Guardò
oltre le sue spalle e scrutò Gregory con un’espressione contrariata. Il
silenzio che era sceso tra loro era stato colto con reverenziale entusiasmo e
aveva permesso a entrambi di concentrarsi sull’obiettivo prefissato, almeno
fino a quel momento. Sospirando, Ren tornò a esaminare la grata alla finestra
sulla quale avevano deciso di soffermarsi.
«Può essere» ammise dopo una pausa. «Ma non nel senso
classico del termine. Credo piuttosto che siano degli echi di noi stessi; un
riflesso delle nostre paure. Alcune persone ne hanno qualcuno, altre devono convivere
con un’intera legione.» Diede un altro scrollone alla grata e si allontanò con
uno sbuffo, procedendo verso la prossima finestra. «Ma il più delle volte sono
loro a controllarci.»
Gregory lo seguì in silenzio, soppesando la sua
risposta. Puntò la luce del suo cellulare contro il muro in modo da aiutarlo,
anche se alla fine bofonchiò.
«Perché ho come l’impressione che mi stai prendendo in
giro?» chiese.
Un pigro sorriso si distese sulle labbra di Ren, ma
non trasmetteva alcuna allegria. «Perché, mio caro secchione, la vita è troppo
breve per comportarsi bene. E ben presto scoprirai che i demoni interiori del
genere umano sono nettamente più divertenti delle virtù che continui a
ostentare.»
Un altro sbuffo. «Aspetta che questa me la segno.»
«Tatuatela su un braccio, così non la dimentichi più»
propose, per poi imprecare, allontanandosi dalla finestra. «Ancora niente. È
impossibile che non ci sia una via d’uscita.»
Gregory lo affiancò, guardandosi in giro. «Forse con
un piede di porco…»
Non riuscì a terminare la frase. Ren si chinò e pescò
dallo scatolone accanto a loro una statuetta di ferro battuto rappresentante
una figura classica, forse anticamente posata come decorazione in uno dei
salotti. Portò indietro il braccio e la lanciò con forza contro la finestra, ma
il vetro non si ruppe. Non presentò neppure la più piccola scalfittura. La
statuetta ruzzolò sul pavimento, svanendo nelle tenebre sotto i loro sguardi
attoniti.
«Dicevi?» commentò Ren, scostandosi i capelli neri che
gli erano ricaduti davanti gli occhi.
«Ok, questo è strano» concordò Gregory, avvicinandosi
al vetro opaco per esaminarlo meglio. Lo toccò, rimanendo stupito nel trovarlo
del tutto intatto.
«E non è l’unica stranezza…»
Gregory alzò la testa e lo raggiunse, seguendo il suo
sguardo. Il raggio di luce del cellulare illuminava la coltre di polvere posata
sul pavimento nel corso degli anni, ma non era nulla di nuovo: tutta la casa verteva
nelle stesse condizioni.
«Non noto nulla di strano.»
Ren scosse il capo. «Pensaci. Questa casa è
abbandonata da decenni ma non c’è nessun segno d’infestazione.» Sollevò il
braccio e illuminò gli scatoloni attorno a loro; il cartone si era riempito di
grinze, intaccato dall’umidità e dalle infiltrazioni, ma ancora intatto.
«Nessun segno della presenza di topi o altri animali infestanti. È come se
fosse…»
«Morta» terminò Gregory per lui.
Ren annuì gravemente e continuò il suo giro. Più il
tempo passava, più sentiva che c’era qualcosa che non andava. Dubitava che gli
altri avessero avuto più fortuna di loro, ma il solo pensiero di dover rimanere
in quella casa fino al mattino lo riempiva d’inquietudine. Era rimasto lì fino
a tarda notte molte volte con la sua banda, eppure era la prima volta che si
sentiva minacciato, la prima volta che doveva vedersela con qualcosa che andava
oltre la sua comprensione. E al pensiero di aver risvegliato qualcosa…
Fece una smorfia. Che si stesse rammollendo? E dire
che era ancora sobrio.
«Andiamo» mormorò infine. «Torniamo dagli altri. È
inutile cercare oltre.»
Gregory parve sorpreso nell’udire quella resa, ma
annuì, precedendolo verso le scale.
Ren sospirò, facendo per estrarre un’altra sigaretta,
quando un fruscio alle sue spallo lo bloccò. Voltandosi, alzò il cellulare
verso le tenebre per indagare. Nei suoi occhi comparve un luccichio divertito.
«Ma tu guarda…» mormorò, dimenticando del tutto il suo
piano di andarsene.
Gregory, che nel frattempo si era allontanato di
qualche metro, girò su se stesso accorgendosi che il suo compagno di avventura
non era al suo fianco. Sbuffando, si affrettò a raggiungerlo, come se l’idea di
rimanere da solo in mezzo a un piano buio e decrepito non gli piacesse per
nulla. Che mammoletta.
«Che cosa c’è?»
Ren puntò la torcia verso il baule. Si leccò le
labbra, arricciate in un sorriso divertito.
«Questo sì che è interessante. È la prima volta che
vedo questo piccolino» ammise, avvicinandosi all’oggetto della sua curiosità.
Si chinò, cercando di aprirlo, con l’unico risultato di far tintinnare con
forza il vecchio lucchetto arrugginito che lo serrava.
Gregory s’irrigidì nell’udire quel frastuono
echeggiare nell’aria. «Forza, lascia perdere! Andiamocene.»
Ren roteò gli occhi e sbuffò. Si rimise in piedi e con
qualche colpetto deciso si pulì i jeans. Poi si voltò… per caricare meglio il
colpo. Prese a calci il lucchetto finché, dopo un paio di mosse ben assestate,
si ruppe.
«Visto? La violenza funziona sempre.»
Gregory si limitò ad osservarlo in silenzio, le
braccia incrociate e un’espressione furente dipinta sul volto.
«Fa come vuoi» sentenziò l’altro, sollevando il
coperchio con grandi aspettative. Da subito infrante.
Vestiti. Un mucchietto di vestiti antiquati appartenenti
a una bambina. Cercando di tenere a bada la delusione, continuò a rovistare
alla ricerca di qualcosa di prezioso da vendere al banco dei pegni vicino casa,
finché le sue dita non sfiorarono qualcosa di morbido. Stupito, estrasse un
piccolo orsacchiotto. Date le cuciture irregolari doveva essere fatto a mano,
ma sembrava ancora in ottime condizioni, nonostante somigliasse a un quadro di
Picasso.
Sorrise lievemente e dopo un’esitazione iniziale se lo
infilò in una delle tasche interne della giacca.
«Hai finito?» gli chiese Gregory.
Esasperato, Ren sospirò, distogliendo l’attenzione dal
contenuto del baule. Non notò nemmeno l’angolo di diario consunto seminascosto
dal cumolo di stoffa.
«Te la stai proprio facendo sotto, non è così?»
«Ma se eri tu che fino a qualche minuto
fa volevi…»
«Zitto!»
Ren si paralizzò e così fece anche Gregory.
Con i sensi in allerta, Ren richiuse lentamente il
coperchio e si raddrizzò. I suoi occhi sondavano l’oscurità alla ricerca del
rumore che l’aveva messo sull’attenti. Era stata una specie di vibrazione, come
una risata soffocata, e il fatto che fosse provenuta da uno degli angoli più
bui del piano non era certo un buon segno.
Il pavimento scricchiolò sotto il suo peso. Sollevò lo
sguardo verso Gregory, il quale lo ricambiò inquieto.
«Hai sentito qualcosa?»
Ren socchiuse gli occhi prima di sgranarli. Con uno
scatto repentino, afferrò il ragazzo per la giacca proprio nel momento in cui
il pavimento crollò sotto i suoi piedi. Gregory si agitò, mulinando gli arti in
cerca di un appoggio, non aiutandolo così a distribuire il proprio peso che
gravava ancora di più accanto alla voragine appena aperta. Con un gemito causato
dello sforzo, Ren lo aiutò a riportare i piedi per terra al suo fianco.
«Muoviti!» urlò, spostandosi di lato.
Non si voltò per assicurarsi che il secchione lo
stesse seguendo. Ren incominciò a correre verso le scale, mentre il frastuono
del legno che cedeva dietro di loro spezzava il silenzio con un gran fragore.
Si fermarono solo quando il pavimento si assestò con un funereo lamento. Ren e
Gregory si osservarono ansanti, gli occhi sgranati, riportando lo sguardo sul
baule e sulla voragine che si era aperta tutt’intorno, rendendolo
irraggiungibile.
«Fanculo» sibilò Ren. «Andiamocene.»
Fu così che proseguirono, camminando in silenzio verso
il salotto, ognuno perso nei propri pensieri.
«Ehi» mormorò Gregory a un certo punto. «Grazie… Per
prima.»
Ren si voltò, guardando il ragazzo con sufficienza.
«Non l’ho fatto per te. Tengo solo alla mia vita e poi avrei dovuto dare troppe
spiegazioni.»
«Oh, certo» sorrise l’altro. Stette per aggiungere
qualcosa, quando il suono di passi affrettati riecheggiò nel corridoio in cui erano
arrivati. Dallo sguardo sconvolto di Mark, Ren capì che avevano poco da star
sereni.
«Oddio, eccoti qui, finalmente» sbottò l’altro,
riprendendo fiato. Dietro di lui c’era solo Sarah, anch’essa ansante.
«Che cos’è successo?»
Mark scosse il capo. Si limitò a mettergli in mano un
iPhone dalla cover rosa con lo schermo crepato.
«Abbiamo un problema.»
E fu così che quella frase divenne ufficialmente il
motto della serata. Seguita sempre, per ovvi motivi, da un’imprecazione
piuttosto colorita.
¹ The Walking
Dead
Eccomi qui! Dopo un mese!
Speravate che fossi morta stecchita da qualche parte con un
cotechino in braccio, eh?
Beh, dai. Non lo considero poi un ritardo così mostruoso, dato che
prima ero abituata ad aggiornare ogni 5 mesi se tutto andava bene :D quindi
pazienza <3
Allora, gente. Come va?
Passate delle belle vacanze? Spero proprio di sì.
So che molti avranno guardato il capitolo e avranno pensato: “Ommiodio! Perché c’è Ren? Dov’è la sociopatica?”. Ebbene,
se non incasino le cose non mi diverto. E poi dai. A parlare sempre delle
stesse turbe mentali dopo un po' ci si annoia, per cui è meglio passare ad
altri disturbi clinici ^^
Come sempre ringrazio tutti quelli che hanno avuto il buon cuore di
commentare, d’inserire la storia tra le loro liste e spero che anche questo
capitolo sia stato di vostro gradimento.
Fatevi sentire ogni tanto u.u
Alla prossima ^^