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Autore: Damnatio_memoriae    08/01/2017    0 recensioni
«Quando il pericolo incombe, gli uomini appartenenti alla stessa tribù o alla stessa famiglia tengono in minimo conto la vita dei propri simili; ma un gruppo che si è consolidato con l'amicizia radicata nell'amore non si scioglie mai ed è invincibile, poiché gli amanti, per paura di apparire meschini agli occhi dei propri amati, e gli amati per lo stesso motivo, affronteranno volentieri il pericolo per soccorrersi a vicenda.» Plutarco, "Vita di Pelopida, 18"
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
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Capitolo 16
 
Non è una mossa, anche la migliore, che tu devi ricercare,
ma un piano realizzabile.
Znsko-Borovsky
 


Se qualcuno, fra le tante persone che erano passate per quella via isolata - chi con in mano un giornale, chi con la spesa della settimana, chi di ritorno dal lavoro -, si fosse fermato per domandarle che cosa stesse aspettando, così ferma, immobile sotto la pioggia, lei avrebbe risposto: «Il coraggio. Aspetto il coraggio». O forse era tutta quell’acqua che cadeva dal cielo, e sembrava volesse allagare la città, a lavarle via la forza che le rimaneva per affrontarla. Trovava quasi ironico quel tempo, ora che aveva deciso di scrivere da sé il finale di una storia che si era trascinata per troppo tempo dietro stupidi castelli di carta e infantili fantasie.
Adorava la pioggia. Aveva adorato la pioggia quando aveva costretto Rebecca ad avvicinarsi a lei per ripararsi sotto un unico ombrello; aveva adorato la pioggia quando le aveva colte di sorpresa durante un temporale estivo e a nessuna delle due era importato bagnarsi; aveva adorato la pioggia quando, specchiandosi in una pozzanghera e vedendo il loro riflesso, aveva pensato che forse ce l’avrebbero fatta a trovarsi e a riconoscersi per quello che erano. E aveva creduto che finchè fosse rimasta anche solo una piccola possibilità per stare insieme, lei non si sarebbe arresa. Sembrava non ci fosse nulla di più lontano ed estraneo di quel pensiero, ormai. La verità era che se avesse avuto il coraggio di soffrire, il coraggio di voltarle le spalle senza morirci, il coraggio per smettere di vederla nel proprio futuro, allora le avrebbe detto addio molto tempo fa. E invece, pensando che rimanere sarebbe stato meno doloroso, le aveva detto addio centinaia di volte, rimanendole però legata. E da quel momento avrebbe odiato la pioggia, perché qualcosa avrebbe pur dovuto odiare nel giorno più triste della sua vita. Avrebbe odiato l’acqua e i temporali e quei dannatissimi fulmini, le pozzanghere, gli ombrelli e il cielo coperto. Se non poteva odiare Rebecca, si sarebbe limitata ad odiare tutto il resto.
Capiva solo in quel momento che l’unica maniera per poter sperare di andare avanti era quella di lasciar andare tutto ciò che fino ad allora aveva cercato di salvare. Ma non è vero che le persone vogliono essere salvate. Probabilmente vogliono solo essere guardate mentre affondano.
Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? si domandò.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase a fissare il campanello di quella casa che conosceva fin troppo bene. Le gocce scivolavano fra le lettere dei due cognomi incisi sulla cassetta della posta e la grondaia faceva scivolare a terra un fiume in piena. Avvicinò le dita al campanello una, due, forse tre volte, e provò a suonarlo altrettante, prima di riuscirci davvero. Aspettò la risposta al citofono per un tempo che le parve eterno, ma più di ogni altra cosa aspettò che il suo corpo le desse un segno, un cenno di agitazione, di trepidazione, le mani sudate, il respiro corto, le guance arrossate o il battito accelerato. Quasi sperò di sentire qualcosa di diverso dal nulla, qualcosa che le facesse capire che, a dispetto di tutto, voleva ancora impegnarsi per salvare quello che era rimasto. Ma evidentemente Rebecca era riuscita a portarle via anche la voglia di provarci e l’unica cosa che percepiva era un immenso vuoto, la consapevolezza che non sarebbe successo più nulla, perché tutto quello che poteva farle glielo aveva già fatto.
«Sì, chi è?» domandò Rebecca, il citofono che le faceva la voce meccanica.
Rachele prese un respiro. «Sono io» disse solo, dando per scontato che l’avrebbe riconosciuta.
Silenzio.
«Rebecca, apri».
«Che cosa ci fai qui?».
«Non ho intenzione di dirtelo dall’altra parte del cancello» replicò dura.
Attese per qualche secondo, poi Rebecca attaccò. Per un attimo Rachele temette che l’avrebbe lasciata lì fuori, da sola con i suoi bei progetti e i bei discorsi che si era costruita.
Quando il cancelletto si aprì con un sonoro click, non potè fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Attraversò lo stretto viale acciottolato con calma, un po’ perché non aveva nessuna fretta di chiudere quel capitolo della sua vita (che più che un capitolo somigliava ad un volume), un po’ perché i suoi vestiti erano già fradici e correndo non li avrebbe di certo asciugati. Si pulì le scarpe sul tappetino di ingresso, riparata dal tettuccio, ed entrò, spingendo la porta. Si voltò e se la richiuse alle spalle.
Rachele rimase con le dita strette attorno alla maniglia d’ottone, gli occhi bassi, fino a quando non sentì Rebecca dietro di lei schiarirsi la voce con impazienza. Lentamente si girò, la fronte corrugata, le spalle tese, la bocca serrata, ma quando incontrò il viso di Rebecca vide che la sua espressione era ancora più impenetrabile della sua e che, con le braccia conserte strette al petto, la osservava con freddezza.
Alla fine è questo quello che è rimasto, pensò con rammarico guardando quegli occhi, nulla.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma si rese subito conto di non avere più parole o discorsi da fare, e la richiuse. Rebecca continuava a guardarla, ma nulla lasciava intendere che cosa stesse pensando. Sarebbe stato così semplice, per Rachele, raggiungerla e abbracciarla; così semplice muovere due o tre passi, allungare le dita e credere davvero che un gesto potesse spiegare più di mille parole; così semplice fare finta che tutto andasse bene, solo per poterla stringere ancora una volta e sentirne il profumo. Già, fare finta. Scacciò in fretta quell’immagine dalla mente. Non l’avrebbe fatto, non si sarebbe mai esposta così tanto.
Rebecca distolse lo sguardo «Vado a prenderti un asciugamano» disse, voltandole le spalle.
«No» la fermò l’altra, torturandosi le mani «Non ha importanza. Non ho intenzione di rimanere qui a lungo».
«Ha importanza per me» ribattè «Stai gocciolando sul pavimento e io l’ho appena pulito».
Rachele si morse le labbra e imbarazzata si guardò i piedi. «Certo…» sussurrò, ma Rebecca si era già allontanata con passi pesanti. Tornò stringendo fra le mani un rettangolo di stoffa scura, sottile, forse di microfibra, tutto stropicciato, come se fosse stato piegato e riaperto più volte, oppure già utilizzato.
«Ecco» borbottò Rebecca «E’ l’unica cosa che ho a portata di mano. L’avevo messo via per...» si bloccò. Scosse la testa «Non ha importanza. Tieni, è pulito». Fece per avvicinarsi e porgerglielo, ma qualcosa sembrò trattenerla. Spostò il peso da un piede all’altro, come faceva sempre quando era turbata, poi si risolse ad appallottolare l’asciugamano e a lanciarglielo, aspettandosi che Rachele l’avrebbe afferrato. Invece la ragazza si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre lo lasciava cadere a terra, a pochi centimetri di distanza dalle sue scarpe.
Spostò gli occhi dall’asciugamano a Rebecca un paio di volte. «Non mordo mica» disse risentita, piegando la bocca in una smorfia.
«Scusa» si grattò la fronte con un certo impaccio «Scusa, io non…».
«No» la interruppe sicura «No, non ti scuso» ma si chinò ugualmente per raccogliere la pezzuola.
«E quando mai l’hai fatto?» borbottò tra sé l’altra, distogliendo lo sguardo.
Rachele spalancò gli occhi «Che cosa hai detto?».
Rebecca fece un profondo respiro prima di liquidarla con un gesto della mano «Nulla».
«Ti ho sentita».
«E allora la tua domanda è inutile».
«Oh, no, affatto. Mi dimostra ancora una volta che non riesci a dirmi le cose in faccia. Ma tranquilla, mi ci sono abituata ormai».
«Era esattamente questo» la indicò con un dito «esattamente questo quello che volevo evitare. Ma evidentemente con te non esiste modo di lasciar correre».
Lei si passò l’asciugamano sui capelli «O la colpa è la mia perché presto troppa attenzione, oppure è la tua che non ti curi abbastanza di nascondere le cose».
«Sei un macigno, Rachele. Un carro armato quando vuoi farmi venire i sensi di colpa».
«Non è un tuo problema: per provare rimorso avresti bisogno di una coscienza».
«E allora che cosa ci fai qui?» scosse la testa con fare esasperato, stringendosi nelle spalle.
Rachele rimase in silenzio per qualche secondo, poi prese respiro «Ho parlato con Serena» disse ostentando indifferenza.
L’espressione di Rebecca si fece dura «Non credo solo parlato».
Fece finta di non sentirla, ma le riservò un’occhiataccia «So che vi siete viste».
«Se sai già tutto allora io a cosa ti servo?».
«Io non so tutto, Rebecca».
«Di sicuro sai quello che ti ha detto lei e qualsiasi cosa ti decessi io comunque non mi crederesti».
«Provaci, magari riesci a stupirmi».
«A me non interessa stupirti».
«D’altronde non sono molte le cose che ti interessano, a parte te stessa».
Sorrise «Hai ragione. In effetti l’unica cosa che mi interessa ora è sapere che cosa ci fai tu nel mio salotto, quando è evidente che preferiresti essere da qualsiasi altra parte. E già che ci sei potresti spiegarmi che cosa vuoi da me, visto che sono ormai parecchie settimane che non ho tue notizie. Sono stupita che ti ricordi ancora dove abito, ma qualsiasi cosa tu dovessi dirmi sono sicura che avresti anche potuto scrivermela in un messaggio. O forse hai cancellato il mio numero?».
«Forse lo hai cancellato tu, perché non ricordo di aver ricevuto tue chiamate».
«Pensavo che presentarti alla festa di mia sorella con la tua nuova fidanzata fosse un gesto sufficientemente eloquente per farmi capire che non volevi più saperne nulla di me».
«Non è la mia fidanzata».
«Come hai detto tu sono poche le cose che mi interessano e Serena non rientra certo tra queste. Grazie, ma non mi importano i dettagli della vostra relazione».
«Ma si può sapere qual è il tuo problema?» sbottò Rachele, smettendo di asciugarsi i capelli «Prima fai di tutto per tenermi lontana, mi eviti come eviteresti un cane con la rogna, mi tratti come se avermi vicina fosse un peso a cui rinunceresti volentieri e ora…» la indicò con la mano, poi la fece ricadere lungo il corpo «Ora ti metti anche a fare la gelosa? Credi ancora di potermi prendere per il culo in questa maniera?».
«Oh no, io non ho nulla, nulla, per cui essere gelosa. Con chi vai a letto o meno non è affar mio, ma lo diventa se mi piombi in casa senza preavviso riempiendomi le orecchie di stronzate! Io ero venuta per te, Rachele! In quel bagno, dopo che non ti sentivo da giorni, ero venuta per cercare di aggiustare le cose e tu mi hai respinta!».
«Mi hai mentito Rebecca!».
«Lo so, non ne vado certo fiera! Ho provato a spiegarti, non hai la più pallida idea di quanto possa essere stato difficile espormi a quel modo, ma tu non hai nemmeno voluto ascoltarmi!».
«Che cosa c’era da ascoltare? Che cosa, di tutte le cose che mi hai detto, non avevo già sentito? E’ sempre la stessa storia Rebecca, sono sempre le stesse parole, ripetute ancora e ancora e ancora…io che mi sforzo di crederti e tu che puntualmente mi deludi. Sono stanca! Guardami, sono stanca!» si portò una mano davanti agli occhi «Perché tutto quello che tocchi va a pezzi?».
L’altra arricciò le labbra in un broncio pronunciato «Se sono così sbagliata allora perché sei ancora qui?».
«Perché ne ho bisogno!» ammise «Ho bisogno di parlarti, ho bisogno di vederti e dannazione Rebecca, non te lo meriti! Dopo tutto quello che mi hai fatto passare non te lo meriti!».
Lei aprì la bocca di getto per ribattere, ma quando ebbe metabolizzato quelle affermazioni la richiuse, scuotendo la testa. Erano parole dolci, erano parole per lei, ma erano anche parole pronunciate con una tale rabbia e una tale frustrazione in corpo che, anche volendo, non sarebbe riuscita ad interpretarle come un gesto di pace.
Dopo qualche secondo di pesante silenzio, si risolse a dire: «Forse semplicemente non siamo fatte per stare vicine. Siamo sbagliate da sole, ma quando stiamo insieme diventiamo ancora più sbagliate».
Rachele tremò nel sentir pronunciare una verità che fino all’ultimo aveva cercato di nascondere anche a sé stessa. Sperò ardentemente che il suo corpo non la tradisse in un momento come quello, in un momento in cui si era ripromessa di essere forte, di non piegarsi, di non cedere. Per una volta aveva deciso di sembrare più forte di Rebecca, ma non avrebbe potuto farlo se la voce le fosse venuta meno. Prese un profondo respiro. «Allora dovevamo cercare un modo, dovevamo cercare un incastro. Dovevamo provare ad aggiustarci».
«Non c’era nulla da aggiustare, Rachele. Imbarchiamo più acqua di quanta ne riusciamo a ributtare in mare. Non ha senso».
«Aveva senso per me! Per me aveva senso provarci, prima che fosse troppo tardi…».
Ma è già troppo tardi… pensò subito, bloccandosi e quel pensiero le pesò come un macigno sul petto al punto che quando sentì gli occhi bruciarle, non se ne curò più, mandando al diavolo i suoi bei propositi.
Rebecca si morse le labbra. «Ci sono alcune cose che non possono essere riparate. Alcune cose che devono rimanere rotte».
«Dovevi lottare per me. Dovevi lottare per tenermi».
«No, non dovevo».
«Sì» insistette, scacciando in fretta le lacrime che le stavano per uscire dagli occhi «Dovevi».
Rebecca assunse un’aria interrogativa.
«Io ho lottato per te» spiegò in un soffio «Anche se sapevo che non avrei vinto, ho lottato per te».
«Oh, Rachele…».
«Perché? Perché non sei venuta a prendermi? Perché quando Serena ti ha proposto di tornare insieme a me, tu mi hai lasciata perdere così?».
«Non sono tenuta a fare quello che una mezza donna mi ordina» ringhiò risentita «Non era una cosa in cui doveva intromettersi, non dovevi lasciare che mettesse le mani su questo» indicò sé stessa e poi Rachele «Su di noi. Quali che siano i nostri problemi, non le competono, non accetto che una sconosciuta venga a consigliarmi come comportarmi, conoscendo solo la metà delle cose che dovrebbe sapere prima di potermi giudicare. Che sia chiaro Rachele, non ho mai avuto bisogno del suo permesso per poterti venire a riprendere: se l’avessi voluto fare l’avrei già fatto, con il suo benestare, di cui francamente me ne sbatto, o meno. L’unico merito che le compete è quello di avermi fatto perdere un pomeriggio fingendosi la Dea dell’amore, che accoppia le persone come le pare. Sinceramente, fossi in te, me la prenderei per essere stata trattata come un oggetto da scambiare».
«Intendi come hai fatto tu fino ad ora?».
Rebecca la squadrò «Lo sai che questo non è vero ed è ingiusto che tu lo dica. Non sono una santa, ma non ti ho mai usata come un oggetto. Non è mai stato un gioco per me».
«Se non è un gioco, allora perché tu vinci sempre e io perdo?».
«Non sta vincendo nessuno Rachele. Avanti! Ti sembro una che è felice di questa situazione?».
«Non lo so. Lo sei?».
Rebecca scosse la testa «Se non conosci da te la risposta, allora non ho davvero più nulla da dire».
Rachele stese le labbra in un finto sorriso «Già. E’ proprio questo il punto».
«Cosa vuol dire?».
«Non c’è più nulla da dire. Non c’è più nulla che si possa dire, ormai, per cambiare le cose. Noi…» la guardò e le labbra le tremarono «Noi siamo finite qui. In mezzo a un sacco di parole e a niente fatti».
«Rachele…» fece per avvicinarsi ma lei la trattenne.
«No» fece un passo indietro. Si strinse nelle spalle «Tu non mi ami. Ma io sì, Rebecca. Io ti amo. E non c’è futuro a questo, non conosco nessun rimedio per questo. Potrei continuare a girarti intorno, a fare di tutto per farmi notare da te, ma tu continueresti a fare quello che hai sempre fatto: darmi per scontata. Non voglio dover elemosinare le tue attenzioni, non è così che funziona, non è così che dovrebbe essere. Tu non sai quello che mi succede quando non ci sei, ma io lo so, lo so bene. Mi stai uccidendo. Mi uccidi e l’unico modo che mi hai lasciato per dimostrarti che ti amo è resistere. Ed io resisto ogni volta, per te, ma ancora non ti basta, ancora non sei convinta. Che cos’altro vuoi? Cos’altro devo dimostrarti? Non ho più nulla da darti Rebecca, ti sei presa tutto quello che avevo e il tutto ancora non ti basta. Mi hai lasciata vuota…per cosa? Che cosa avevi intenzione di farci con me, dopo? Vantartene? Aggiungermi alla lista?».
«Assolutamente no! Rachele, io non…».
«Mi hai rovinata!» pianse «Tu mi hai rovinata. Ero l’unica persona a cui non dovevi fare male. Lo sai che cosa si prova a vederti andare via sempre…?» chiese, ma in realtà non aveva bisogno di una risposta «Non mi hai dato nemmeno una possibilità».
Rebecca abbassò gli occhi. «Non potevo. Ma non volevo farti male, almeno non così».
Rachele stropicciò l’asciugamano che teneva ancora fra le mani. «Non ha più molta importanza adesso». Si avvicinò con passi lenti a Rebecca e le sporse la stoffa «Tieni».
«No, aspetta…» la fermò.
«Ho aspettato abbastanza» la interruppe «Non posso più restare qui». Fece per girarsi e andare via, ma Rebecca la afferrò per un polso.
«No, non ancora» disse duramente, trattenendola «Io non ho ancora finito con te».
Lei fece resistenza, provando a ritirarsi «Lasciami, non voglio che mi tocchi».
«Smettila di fare così».
«No, smettila tu!».
«Sei venuta per parlare, ma devi anche ascoltare!».
«Rebecca, ti ho detto di lasciarmi!».
«No!» strinse di più.
«Dannazione, lasciami! Lasciami o giuro che ti prendo a calci!».
«Allora fallo!» sbottò, buttando a terra l’asciugamano e prendendola con entrambe le mani. Quando provò ad abbracciarla, Rachele la respinse come se bruciasse, ma Rebecca non desistette. Le circondò la schiena e la strinse a sé, nonostante l’altra continuasse a dimenarsi.
«Non puoi fare così, non puoi fare così!» continuò a ripetere Rachele cercando di allontanarsi, perché sapeva che se fosse rimasta ancora fra le sue braccia le sarebbe scivolato di dosso il coraggio di dirle addio.
«Stai ferma» le ordinò decisa, insinuando le dita fra i suoi capelli.
«No. Per favore, basta».
Rebecca emise un profondo sospiro e Rachele sentì il suo fiato sul collo e non potè fare a meno di rabbrividire. «Me ne vado» disse poi con semplicità e lo ripetè quando la ragazza non diede segno di aver capito «Rachele, sto per andare via. Parto fra due settimane».
Fu come se delle catene le si avvolgessero intorno al cuore. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e per una frazione di secondo il tempo sembrò fermarsi e insieme a lui i pensieri, il respiro, le lacrime. Rimase in silenzio fino a quando non ebbe metabolizzato le sue parole.
«Ho fatto domanda per andare a studiare in Germania» spiegò Rebecca, poggiando le labbra sulla sua fronte «Sinceramente non pensavo che la commissione avrebbe preso in esame la mia candidatura, però così è stato. Quando ho visto Serena era già stato tutto deciso e non potevo tirarmi più indietro. Ho pensato di venirti a riprendere, Rachele, davvero. L’ho pensato anche prima che quella zotica me lo suggerisse! Ma non aveva più senso ormai. Rachele…Rachele, per favore non piangere» sussurrò, sentendola tremare fra le sue braccia.
«Perché?» chiese lei, aggrappandosi alla sua schiena con tutte le forze che le restavano per trattenerla.
«Perché devo andare via» continuò a spiegare, sentendola piangere contro la sua spalla «Non c’è nulla che funziona qui. Non è per te» aggiunse subito, per non essere fraintesa «Non è per te…Ma ti amerei sempre un po’ meno di quanto mi ameresti tu. E hai ragione, a questo non c’è rimedio».
«Perché?» riuscì a chiederle ancora prima che la voce la abbandonasse, prima che le lacrime le impedissero di vederla chiaramente.  
«Io non lo so» bisbigliò a malincuore «Non lo so, davvero». Rise, di una breve risata amara «E’ proprio vero che sono tutta sbagliata…ma sono felice che quello che provi lo provi per me».
Rachele tremò al pensiero che quella potesse essere la loro ultima occasione, il loro ultimo abbraccio. «Non andare» disse di getto, senza pensarci «Non andare via».
«Lo sai che non è una cosa che puoi chiedermi» le rispose, ma non si allontanò «Non c’è nulla per me qui».
Ci sono io! Ci sono io! Urlò la sua mente, ma non glielo disse. «Non andare…» ripetè a stento, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo e stringendosi di più a lei, come si fa in un ultimo disperato tentativo «Non costringermi a stare senza di te, non voglio abituarmi alla tua assenza, non voglio dimenticarti, alzarmi la mattina e obbligarmi a non pensarti. Non lo voglio un futuro in cui non ci sei. Ti prego non lasciarmi…non farlo di nuovo. E’ vero che tutto quello che tocchi va in pezzi, ma io cado già a pezzi quando tu non ci sei!».
«Non abbiamo scelta diversa da questa, Rachele…».
«No, no, non è vero! Non ci credo che siamo finite qua, non ci credo che ti ho incontrata solo per doverti lasciare a qualcun altro. Sono io, Rebecca! Sono io, sono io quella giusta, sono io quella giusta! Ti prego, credimi!».
Rebecca scosse la testa con rassegnazione «Mi dispiace».
«Scegli me! Questa volta scegli me! Voglio amarti, lasciamelo fare! Lasciati amare o se non puoi allora aiutami ad uscirne, aiutami ad uscire da te, perché così mi fai male Rebecca, fai così tanto male…».
«Piccola» bisbigliò come se non ci fosse altra cosa più perfetta sulla sua bocca e si sentì morire quando lei ricominciò a piangere, perché in fondo l’aveva capito, l’aveva già capito che qualsiasi cosa avesse detto, non sarebbe bastata a farla rimanere. «Non sai quanto mi dispiace…non dovevamo arrivare a questo. Anche se non puoi credermi, mi sei mancata così tanto…Ma non posso darti quello che mi chiedi». Si staccò dolcemente da lei per poterla guardare negli occhi e le passò i pollici sulle guance per asciugarle le lacrime. «Non voglio vederti piangere, non voglio ricordarti in questo modo».
Rachele tirò su col naso e rimase immobile quando Rebecca le baciò la fronte, il naso, il mento. Trattenne il respiro quando avvicinò il viso al suo, le labbra alle sue, e le disse: «Chiudi gli occhi. Chiudi gli occhi per me». E Rachele obbedì, perché non poteva fare altro, o non voleva. Schiuse la bocca sentendo vicina la sua e quando la baciò si ricordò perché con nessun’altra sarebbe mai stata la stessa cosa, perché in fondo nessuna poteva avere il suo odore, il suo modo di fare, il suo modo di guardare, il suo modo di essere, così contorto e perverso, eppure bellissimo. Nessuna sarebbe stata lei e nessuna avrebbe mai avuto lo stesso gusto sulle labbra. Perché forse un po’ è vero che i baci d’addio hanno tutto un altro sapore.  
E intanto fuori continuava a piovere e dentro quella casa entrambe iniziavano ad odiare la pioggia. 
   
 
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