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Autore: sara_gi    08/01/2017    1 recensioni
India, 1813. Un bambina nasce durante un feroce assalto al palazzo di cui è principessa, per salvarle la vita due servitori fedeli alla sua famiglia la portano via in segreto.
Inghilterra, 1829. Il Conte Shallowford viene inviato come Governatore in India. Lì, una delle sue figlie scoprirà qualcosa che cambierà per sempre la sua vita e quella delle persone a lei care.
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Nota dell'autrice
Buon giorno a tutti! 
Perdono, perdono, perdono! Mi prostro ai
vostri piedi chiedendo venia per il ritardo!
La settimana è stata intensa e ho perso il conto dei
giorni: questa mattina mi sono resa conto che era
domenica. E che ieri non avevo postato il capitolo
di Sangue Indiano... Eccovelo ora. E' piuttosto
ricco, spero serva a fare ammenda! ;)
Buona lettura
Sara





Capitolo XIX

 

 

Ero seduta in mezzo al letto, con le braccia attorno alle gambe e il mento posato sulle ginocchia, a guardarmi intorno. Mi piaceva quella stanza, era fresca e luminosa: seta di una delicatissima tonalità d’azzurro ricopriva le pareti e un morbido tappeto era steso sul pavimento. La testiera del letto era addossata alla parete di fronte alla porta e l’alto baldacchino era ornato da leggerissimi drappi azzurri di organza trasparente. Alla mia sinistra, abbastanza vicino alle finestre, c’era un basso tavolino sul quale stava bruciando, accanto a una lampada di vetro soffiato, un bastoncino d’incenso. Il profumo di fresia e legno di sandalo si diffondeva piacevolmente in tutta la stanza.

Immobile e silenziosa assorbivo ogni particolare dell’ambiente, chiedendomi come doveva essere stato crescere lì, cercai di immaginare Cavan bambino che sdraiato a pancia in giù su quel tappeto, disegnava animali fantastici su un foglio di carta. Oppure, un po’ più grande, seduto accanto al tavolino a studiare per prepararsi a diventare il signore delle sue terre. Probabilmente aveva spesso alzato lo sguardo per osservare il cielo o ciò che succedeva nel parco, visibile dalle sue finestre.

Realizzai che molto tempo prima quella doveva essere stata la stanza di mia madre. Scossi la testa, mia madre! Non riuscivo a immaginare nessun’altra se non Maria Giuseppina Shallowford in quel ruolo, eppure avevo avuto un’altra madre, seppure per pochi minuti: la donna che mi aveva messo al mondo, la figlia del Raja Sardar Singh. Mio nonno.

Tornai a stendermi. Gli avevo voluto bene fin dalla sera in cui lo avevo incontrato a Bombay, senza sapere del legame di sangue che avevo con lui. Mio nonno. Era un pensiero dolce e triste allo stesso tempo perché rappresentava ciò che avevo appena scoperto, una vita che non avevo conosciuto e che, forse, non volevo. Mi spaventava essere Sunahra Moti, come suonava strano quel nome! Eppure lo conoscevo fin dall’infanzia, Moti era stato il nome delle serate passate accanto al caminetto con Elisa ad ascoltare Umi narrarci le leggende di principi e principesse. Il nome delle notti di temporale, quando insieme a mia sorella ci rifugiavamo nella stanza della nostra ahya per ripararci dai tuoni che scuotevano la casa. Il nome di mille dolci ricordi, il mio nome segreto… Il mio vero nome.

Si aprì la porta ed entrò un uomo che reggeva una scatola. Mi alzai di scatto e rimasi a fissarlo spaventata ma lui, fatti due passi, si fermò e si inchinò.

«Buon giorno, Principessa. Io sono Rashid, il valletto personale del Principe Cavan Marek, uno dei pochi a sapere della Vostra presenza qui. Vi prego di non avere paura: servo fedelmente il Principe dal giorno della sua nascita e non lo tradirei mai, tanto più che tradirei l'India intera nuocendovi. Sarò io a occuparmi di tutto ciò che riguarda voi e gli appartamenti che occuperete fino al Giorno Sacro, quindi se Vi serve qualcosa dovete solo chiedere.»

«Grazie, Rashid. Vorrei solo sapere come sta la mia famiglia.»

«Stanno bene, Altezza. I Vostri genitori hanno passato una buona notte così come lady Elisa. Vostra sorella verrà a trovarvi dopo pranzo, Sua Grazia e Sua Altezza chiedono se volete unirvi a loro per la colazione.»

«Ne sarei felice. Credi di potermi procurare qualcosa da indossare? Questo sari è sgualcito e vorrei apparire un po’ meglio di come mi sento.»

«Ho pensato che avreste voluto rinfrescarvi e cambiarvi, perciò ho già provveduto a portarvi un cambio d’abito.» disse posando la scatola che aveva in mano «Attenderò nell’altra stanza per accompagnarvi a colazione. Fate con comodo.» disse uscendo.

Aprii la scatola scoprendo un sari di morbido batik lilla.

Cambiandomi riflettei sulla conversazione col valletto. Che strano sentirlo chiamarmi Altezza e Principessa, eppure quelli erano titoli a cui, a quanto pareva, avevo diritto. Avrei dovuto abituarmici. Chiusi i lacci del corpetto e mi sedetti sul letto con in mano la spazzola che avevo trovato nella scatola. Districai i miei capelli e li fermai in una semplice treccia che lasciai cadere sulla schiena, una volta pronta uscii dalla camera. Rashid mi stava aspettando e mi fece strada verso gli appartamenti del Raja, mi lasciò davanti a una porta dicendo che mi stavano aspettando. Dopo aver bussato aprii titubante la porta ed entrai, mio nonno mi venne incontro sorridendo e mi abbracciò.

«Buon giorno, cara. Hai riposato bene?»

«Sì, grazie e voi?»

«Bene, ma ti prego dammi del tu: dopo tutto sei mia nipote.» concluse sorridendo.

Mi lasciò e, scusatosi, si allontanò un attimo dalla stanza.

Cavan si avvicinò e mi scostò dal viso una ciocca di capelli che si era liberata dalla treccia. Mi guardò sorridendo, restituii il sorriso e, quando mi trasse a sé, appoggiai la fronte sul suo petto.

«Nel palazzo non c’è più nessuno ora.» disse «Ma la parte più pericolosa sarà questo pomeriggio tardi, quando celebreremo il falso funerale, poiché ci saranno nuovamente degli estranei in giro. Ma, se saremo prudenti, andrà tutto bene.»

«Ho paura, sai?» gli confidai «È una sensazione sgradevole, vorrei reagire ma non ci riesco. Mi sembra tutto così assurdo e spaventoso.» lo guardai «Perché non possiamo essere semplicemente Paul e Marina? Perché deve essere così complicato?»

«Forse sarebbe più semplice ma, Marina, se io fossi stato solo Paul forse non ci saremmo mai incontrati.» sorrise tristemente «Non so tu, ma io preferisco averti conosciuta.»

«Anch’io. Perdonami,» dissi allontanandomi di un passo «mi comporto come una bambina, ma sarò coraggiosa d’ora in poi, te lo prometto.»

Sorrise e mi sfiorò una guancia.

In quel momento tornò il Raja e ci sedemmo a tavola. Mangiando parlammo di molti argomenti ma prevalentemente mi raccontò di mia madre.

«Quando ti vidi, a Bombay,» disse «non ebbi dubbi sul fatto che tu fossi mia nipote: sei identica a tua madre, al punto che dovetti più volte mordermi la lingua per non chiamarti Kamar, il nome da fanciulla di tua madre.»

«Vita. Le avevi dato un bel nome.» dissi.

La colazione terminò.

Il nonno, lasciò la stanza per dirigersi al suo studio. Cavan restò con me ancora qualche minuto, ma poi anche lui dovette mettersi al lavoro. Rimasta sola tornai negli appartamenti cedutimi da Cavan, scelsi un libro dalla sua biblioteca e mi sedetti a leggere. Il tempo passava lentamente, verso metà mattina Rashid venne a vedere se mi occorreva qualcosa e si fermò qualche minuto a parlare. Finalmente venne il pranzo che consumai da sola, quando Rashid tornò per portare via il vassoio fece entrare mia sorella. Fui felice di vederla, si sedette accanto a me raccontandomi come aveva passato la notte, mi disse che fin dalla mattina presto avevano iniziato ad arrivare biglietti di condoglianze da tutti gli europei della città e anche da alcuni dei nobili indiani presenti alla festa. Disse anche che per rendere più credibile il funerale era stato invitato a celebrarlo il cappellano del presidio: papà e il Raja avevano pensato proprio a tutto.

Furono ore piacevoli, era bello essere di nuovo in compagnia di mia sorella come era sempre stato. In quei momenti riuscii a dimenticare ciò che era successo il giorno prima e i cambiamenti che aveva portato nella mia vita. Tutto acquistava una nuova dimensione rendendo l'avvenire meno pauroso seppure ancora incerto.

Poco prima del tramonto arrivarono coloro che avrebbero presenziato alla finta cerimonia, Elisa rimase con me per le seguenti due ore. Nessuna delle due osava parlare a voce alta nonostante sapessimo che nessuno ci poteva sentire: la paura era troppa.

 

 

*****

 

 

La cerimonia sembrava non finire mai. Il cappellano del presidio si dilungò nel sermone sulle tante virtù di Marina, sebbene non l’avesse mai neppure vista, e sulle circostanze tragiche della sua scomparsa, facendo rientrare il tutto nella misteriosa volontà di Dio, unica spiegazione che era in grado di dare agli avvenimenti della sera precedente. Era ancora a metà quando smisi di ascoltare. Non avevo più visto Marina dalla colazione del mattino, ma non avevo trovato scuse plausibili per tornare in camera senza destare la curiosità verso quell'atto insolito. L’avrei vista solo dopo che tutti i presenti se ne fossero andati. Fortunatamente avevo spesso l’abitudine di cenare nelle mie stanze quando non c’erano occasioni ufficiali, perciò avrei condiviso quel pasto con Marina e forse anche con Elisa, se avesse desiderato fermarsi. Sospirai piano e guardai il prete, sembrava deciso a far piangere tutti i presenti con le sue citazioni e i suoi commenti. Tornai a isolarmi nella mia mente. Il fatto di non sapere chi fossero i misteriosi assalitori di Marina mi preoccupava non poco: è già difficile proteggere qualcuno quando conosci chi o cosa lo minaccia, ma quando non sai neppure con chi hai a che fare… Il capo di questa fantomatica setta doveva essere un uomo ricco e influente, visto il dispiego di uomini e mezzi, ma non riuscivo a immaginare chi potesse essere. Alzai lievemente gli occhi alle cime degli alberi che delimitavano il piccolo cimitero e le osservai ondeggiare lievemente nella brezza serale, scure sagome contro il cielo rosso del tramonto. Chiusi gli occhi inspirando lentamente, abbassai il capo e, inconscio di quanto mi circondava, tornai con la mente alla prima volta che avevo visto Marina: più di due anni, tanto era passato da quel giorno. Il verde della pianura inglese si affacciò alla mia mente riportandomi ai prati rugiadosi della campagna circostante Londra. Stavo cavalcando con un gruppo di compagni di College quando il mio cavallo perse un ferro, uno dei miei amici mi disse che a meno di mezz’ora di cammino sorgeva la casa di campagna dei conti Shallowford, sicuramente alle loro stalle ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe potuto ferrare il mio stallone, non poteva continuare senza un ferro: si sarebbe rovinato lo zoccolo. Dissi loro di proseguire e che li avrei raggiunti una volta fatto, così ci separammo. Avevo raggiunto la grande villa, passando dai giardini e mi ero diretto subito alle scuderie, il capo stalliere si era offerto di riparare il danno: ci sarebbe voluta mezz’ora, quarantacinque minuti al massimo poiché doveva forgiare il ferro. Mi ero diretto alla casa per presentarmi ai padroni, ma un valletto, incontrato presso i gradini posteriori, mi disse che il conte e la contessa erano a caccia con una delle figlie. Avvicinandomi alla casa avevo udito il suono di un pianoforte così gli chiesi chi fosse a suonare.

«Lady Marina,» disse «l’altra contessina.»

Quando si era allontanato mi ero avvicinato alla portafinestra che dava sulla stanza da cui proveniva la musica, ma non ero entrato.

Lei era seduta al pianoforte con gli occhi chiusi e suonava una melodia dolce e struggente. Ero rimasto incantato a guardarla: teneva il capo lievemente inclinato, le labbra piene erano socchiuse, le guance soffuse di una tenue sfumatura di rosa e i capelli, illuminati da un raggio di sole, formavano attorno al viso una nuvola mogano dalla quale si sprigionavano bagliori d’oro rosso.

L’intensità emotiva della sua esecuzione rendeva la scena irreale, quasi mistica. Ero rimasto immobile a guardarla, pregando perché non svanisse. Bella ed eterea, queste le uniche parole con cui riuscivo a descriverla, non c’erano altri termini. Quando finì di suonare, mentre l’ultima nota ancora vibrava nell’aria, aveva sollevato lo sguardo, rivelando meravigliosi occhi neri, profondi e luminosi come una notte stellata. Mi ritrassi prima che potesse vedermi ma ero riuscito a scorgerne il colore. Tornai alle scuderie dove trovai il cavallo pronto: il capo stalliere aveva impiegato meno tempo del previsto, così lo ringraziai con una moneta d'argento e mi allontanai portando con me l’immagine di lady Marina Shallowford. Nei giorni seguenti avevo indagato con discrezione sul suo conto e avevo così scoperto diverse cose: seppi che aveva compiuto da poco sedici anni, che amava cavalcare ma che non le piaceva andare a caccia e molte altre cose. Scoprii quali erano le sue abitudini, dove andava e quando, così mi trovai spesso a passare per la stessa strada nello stesso momento. In quelle occasioni notai una cosa insolita: ovunque andasse era seguita da un nerboruto indiano dalla pelle bronzea, che non la perdeva mai d’occhio. Lei lo trattava con molto affetto, così come trattava la donna indiana che spesso era con lei. Umi e Patal, allora non sapevo ancora quanta parte avrebbero avuto nella mia vita. Avevo cercato di conoscerla in ogni modo, sapevo solo che non potevo fermarla per strada e presentarmi, anche se più di una volta fui tentato di farlo. Così era passato il tempo e finalmente, quando ormai pensavo che non sarei mai riuscito a conoscerla, mi ero trovato nel posto giusto al momento giusto. A dire la verità quella sera non avevo voglia di andare al ricevimento di lady Ireton, ma i miei amici mi avevano convinto ad andare con loro. Quasi non riuscivo a credere ai miei occhi quando, dopo che furono annunciati, la vidi entrare con la sua famiglia. Vestita di rosso e oro era ancora più bella di quanto ricordassi. Era rimasta con la sorella fino a che questa aveva accettato l'invito di un giovane a ballare, quindi era uscita in terrazza. L’avevo seguita senza farmene accorgere e l’avevo raggiunta presso la nicchia dove era seduta a guardare il cielo stellato, inconsapevole di essere osservata. Desideravo parlarle ma non sapevo cosa dirle, avevo infilato le mani in tasca e avevo sentito sotto le dita il freddo metallo di un penny.

«Un penny per i vostri pensieri…»

Iniziò così, la serata più bella.

Eravamo rimasti seduti a parlare per ore. Aveva una voce dolce quanto il suo viso e gli occhi le si illuminavano come stelle quando parlava di un argomento che le interessava.

Il tempo era volato. Quando sua sorella venne a chiamarla vidi rispecchiarsi nei suoi occhi la mia delusione e incapace di trattenermi le avevo preso la mano e le avevo chiesto il nome, sebbene lo conoscessi già. Quando si era allontanata la notte era sembrata farsi più buia e fredda; mi era rimasto impresso il nome con cui l’aveva chiamata Elisa: Moti, Perla. Un nome così appropriato che racchiudeva l’affetto di chi glielo aveva dato. Avevo sorriso pensando che, anche questa volta, la profezia di Asmal si era avverata. Ricordavo di avergli detto che era impossibile trovare una ragazza con le caratteristiche che aveva descritto e che quindi questa volta non sarebbe accaduto ciò che aveva previsto. Mi ero sbagliato. E ne ero felice.

L’avevo vista altre volte, soprattutto la domenica al parco, ma non ero mai riuscito ad avvicinarla poiché con me c’era sempre qualcuno dei miei compagni di College. Questo fino al giorno in cui seppi di dover partire. Quella domenica ero uscito a cavallo col preciso scopo di incontrarla: non volevo andarmene senza averle parlato almeno un’altra volta.

Poi, più tardi, mentre venivano fatti i bagagli avevo guardato Balna e i tre cuccioli che aveva appena svezzato e avevo deciso di regalarle il maschio.

Quando, un anno dopo, appresi che era arrivata in India con la sua famiglia mi dovetti trattenere dal balzare in sella e catapultarmi a Lucknow. Il pensiero che lei mi conosceva solo come Paul bastò a frenarmi: dovevo incontrarla, volevo incontrarla, ma in modo da poterle raccontare tutta la storia, così mi ero rivolto allo zio. Era stato lui a riferirmi del suo arrivo avendola incontrata a Bombay, anche se non mi disse che Marina in realtà era sua nipote. Così era arrivato gennaio. E ora ogni mistero era svelato. Salvo il più pericoloso.

Mi riscossi dai miei pensieri e mi guardai intorno: il cimitero era deserto, la funzione era terminata. Il cielo era ormai buio e le stelle occhieggiavano dall’alto. Senza fretta tornai verso il palazzo: non avevo voglia di incontrare nuovamente coloro che avevano presenziato al funerale, così passeggiai pigramente per i vialetti del parco, prendendo la strada più lunga. Una volta rientrato, stavo per salire nei miei appartamenti, quando un valletto fece entrare Alexander, Tyler e un’enorme tigre bianca. Congedai il valletto e andai incontro al mio amico sorridendo.

«Ben tornato.» gli dissi «Questo è Silam?»

«Grazie, Cavan, sì è Silam.»

Ignorando Tyler mi avvicinai alla tigre e gli porsi una mano perché l’annusasse.

Silam mi studiò un poco poi si strusciò contro le mie gambe, mi inginocchiai e gli grattai la testa dietro alle orecchie. La tigre rotolò a pancia all’aria e mi diede una gentile zampata sulla mano.

«Sembrate piacergli parecchio.» commentò Tyler.

«Siamo vecchi amici.» dissi «L’ho visto nascere e l’ho coccolato per i primi tre mesi della sua vita.» guardai il capitano «Sono stato io a regalarlo a Marina.» conclusi sorridendo.

«Ma…» aggrottò la fronte «Silam è arrivato in India con i Shallowford. Per averglielo potuto regalare avreste dovuto conoscere Marina in Inghilterra.»

«Infatti, capitano, infatti.» mi alzai «Come vedete ho il diritto di precedenza, Tyler.» aggiunsi a bassa voce «L’ho conosciuta per primo.» conclusi sorridendo.

«Mi dispiace interrompere il vostro “c’ero prima io” ma vorrei salire di sopra.» si intromise Alex «Abbiamo un rapporto da fare e al colonnello non piace aspettare.»

«Venite.» dissi avviandomi «Andiamo, Silam, c’è qualcuno che vuole vederti. Lady Elisa sarà contenta di averti accanto.» aggiunsi a beneficio delle due cameriere che passarono in quel momento.

Salimmo di sopra e, assicuratici che non ci fosse nessuno in giro, ci dirigemmo ai miei appartamenti.

Entrati trovammo Rashid, aveva appena finito di apparecchiare in salotto e stava andando a chiamare Marina ed Elisa. Dissi che ci avrei pensato io e gli chiesi di portare delle vivande anche per i due militari e qualcosa per Silam. Quando fu uscito, bussai alla porta della camera ed entrai. Appena aprii la porta la tigre balzò nella camera e si precipitò da Marina facendola cadere per l’impeto delle sue effusioni. Lei fu felicissima di vederlo e lo abbracciò affondando il viso nel folto pelo morbido, poi si rialzò, salutò Tyler e Alexander che nel frattempo aveva abbracciato Elisa, ringraziandoli di averle portato il suo cucciolo. I due militari si scusarono e dissero che sarebbero tornati per cenare con noi, dopo aver fatto rapporto, quindi si allontanarono.

Al loro ritorno ci sedemmo a tavola. Silam aveva fatto il giro di tutte le stanze annusando ogni angolo, poi si era sdraiato accanto alla sedia di Marina e non si era più allontanato.

 

 

*****

 

 

Un altro giorno. Dopo colazione venne a trovarmi insieme a Elisa anche la mamma. Disse che il giorno prima non era riuscita a venire perché la mia cameriera, molto dispiaciuta per la mia morte, aveva passato la giornata davanti alla porta della sua camera in caso avesse avuto bisogno. Era venuta con qualcosa che aveva chiesto a Luke di portarle da Lucknow: il rotolo di seta rossa donatami da Karim Asa. Disse che se la Profezia si fosse realizzata, la sera stessa del Giorno Sacro avrei dovuto sposarmi, in quel caso l’avrei fatto indossando un abito degno del mio rango. Così lei, Elisa e Umi avrebbero passato i restanti venti e più giorni a confezionarlo: lei lo avrebbe tagliato e poi cucito insieme a Umi, ed Elisa si sarebbe occupata dei ricami, arte nella quale aveva già dimostrato una raffinata abilità. A me non sarebbe stato permesso di aiutarle poiché, disse, portava sfortuna che una sposa si cucisse l’abito per le nozze.

Così, fin da quel pomeriggio, si misero all’opera e io le vidi più raramente di quanto avessi sperato.

I giorni passavano lentamente. Con la sola compagnia di Silam mi dedicai alla lettura e al ricamo, spesso guardavo il parco attraverso le persiane intagliate, desiderando poter uscire a fare una passeggiata. Alexander e Luke venivano a trovarmi quando potevano e allora le ore volavano, ma erano sempre momenti troppo brevi. Così come lo erano quelli passati con Cavan. Spesso, seduti sul tappeto ai piedi del letto, restavamo a parlare fino a notte inoltrata, unica fonte di luce era in quei casi la luna. Nell’oscurità parlavamo del passato e del futuro raccontandoci piccoli segreti e speranze. Quanto lo amavo! Mi piaceva sentirlo raccontare della sua infanzia o parlare delle sue avventure inglesi con i compagni di College. Mi raccontò anche del giorno in cui venne a casa nostra e rimpiansi di non aver notato la sua presenza. Gli confidai che non suonavo il pianoforte dalla nostra partenza dall'Inghilterra. A volte, alla residenza, mi era capitato di sedermi al piano che si trovava nel salone da ballo, ma era tanto che non suonavo veramente. Cavan si fece promettere che appena me la fossi sentita, avrei ripreso a suonare, gli risposi che lo avrei fatto, per lui.

Una notte mentre parlavamo gli dissi del mio desiderio di uscire e lui lo rese possibile. Presami per mano mi condusse attraverso il passaggio segreto e mi portò fuori. Passeggiammo a lungo per i vialetti senza però avvicinarci troppo al palazzo e alla fine ci rifugiammo nel padiglione dove avevamo passato tante ore felici. Quando mi fui seduta sui tappeti lui tirò un cordone nascosto, il drappo che chiudeva il soffitto si ritirò, rivelando il cielo stellato perfettamente visibile attraverso la cupola di cristallo. Rimasi incantata ad ammirare il firmamento e lui si sedette accanto a me. Ci sdraiammo, appoggiai il capo sulla sua spalla continuando a guardare la cupola di cristallo e parlammo a lungo a voce bassa, quasi un sussurro. A un tratto la scia di una stella cadente attraversò la volta del cielo, seguita da un’altra, poi un’altra ancora fino a che decine di stelle cadenti illuminarono il cielo. Era uno spettacolo che mozzava il respiro. Solo un’altra volta, nella mia vita, avevo visto cadere tante stelle e in quel caso era stato il cielo di Venezia a esserne adornato. “Gioielli per un gioiello.” aveva commentato nonno Amedeo, il padre di mia madre.

Ed era proprio così, gioielli, questo era ciò che sembravano le stelle e lo spettacolo della loro caduta era qualcosa che riusciva ad ammutolire anche i più duri di cuore. Un’emozione così profonda e ancestrale, che rammentava all’uomo la sua piccolezza dinanzi al mistero del cielo e delle sue lacrime.

Rimanemmo nel padiglione a lungo, in silenzio, vicini, ascoltando il battito dei nostri cuori.

Quando tutto finì Cavan mi aiutò ad alzarmi e, tirata nuovamente la tenda, mi fece strada verso il passaggio segreto.

Quella notte feci uno strano sogno: ero seduta sulla cima di una torre e guardavo il paesaggio intorno a me, spaziando con lo sguardo fino all’orizzonte. Un uomo anziano, avvolto in lunghe vesti fluenti e dall’aspetto saggio, mi si avvicinò e si sedette accanto a me.

«Povera bambina!» mi disse prendendomi una mano «Dovrai affrontare prove molto dure, non posso evitarlo purtroppo. Dovrai essere forte, sempre. Armati del tuo coraggio come di una corazza e nei momenti in cui la disperazione si impossesserà di te, rammenta che coloro che ti amano non smetteranno mai di cercarti. Questa consapevolezza ti avvolgerà come una calda coperta, sarà il tuo rifugio e la tua forza. Non abbandonare mai la speranza e non smettere mai di credere nel loro amore per te.» sorrise «Nel suo amore per te.» e scomparve.

Mi alzai in piedi guardandomi attorno, chiamandolo, pregandolo di tornare indietro, di spiegarsi meglio, di dirmi chi era. Non tornò, ma sentii ancora una volta la sua voce:

«Ci incontreremo, piccola Principessa. Quel giorno avrai superato la prova più dura che il destino ha in serbo per te. Io non ho dubbi che la supererai poiché voglio poterti conoscere…»

Mi svegliai di soprassalto e mi guardai intorno. La luce dell’alba filtrava appena dalle persiane. Tornai a stendermi e mi voltai su un fianco ripensando a quello strano sogno: era sembrato così vero. Guardai la mano sinistra e la strinsi a pugno: la sensazione del suo tocco era stata reale, così come il profumo di erbe officinali di cui erano impregnate le sue vesti, l’avevo ancora nelle narici. Mi voltai sull’altro fianco incapace di darmi una spiegazione e, continuando a riflettere, scivolai nuovamente in un sonno profondo.

 

 

*****

 

 

Seduto sui gradini della terrazza, con la schiena appoggiata a una colonna, guardavo il tramonto. Il solstizio si stava avvicinando: mancavano solo otto giorni. Mi era giunta notizia che le quattro Principesse legate alla Profezia erano arrivate ad Agra, non le avrei incontrate fino al Giorno Sacro, né lo desideravo. Ogni giorno, ogni notte, ogni minuto, da che avevo scoperto che Marina era la quinta Principessa, pregavo perché Asmal non si fosse sbagliato. Non era mai successo, tentavo di rassicurarmi, perché avrebbe dovuto iniziare proprio adesso? Mi alzai in piedi e passeggiai per la terrazza osservando oltre gli alberi del viale le cupole delle moschee e i tetti piramidali dei templi che costellavano la città. Le ultime sfumature di viola stavano scomparendo, inghiottite dall’oscurità e in alto occhieggiavano le prime stelle. La luna era bassa sulle cime degli alberi che sembravano solleticarla con le loro fronde, Orione e Sirio si rincorrevano nel moto perpetuo del cielo, inseguiti da Draco. Raggiunsi il loggiato posteriore, che si trovava sopra le mie stanze, e immaginai Marina, al piano di sotto, intenta a prepararsi per la cena. Saremmo stati in quattro, quella sera, oltre a lei e a me sarebbero stati presenti solo Elisa ed Alex. Tyler era partito quella mattina per Lucknow per portare una missiva al presidio. “Che peccato!” pensai ironico: non sarebbe tornato prima di tre giorni. Osservai il parco e il luccichio del lago tra gli alberi. Improvvisamente il suono di un pianoforte si unì al canto melodioso degli usignoli. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare da quella dolce e indimenticata melodia. Tre giorni prima, la notte delle stelle cadenti, avevo raccontato a Marina del giorno in cui la vidi la prima volta, lei aveva promesso che avrebbe ricominciato a suonare, per me. E così aveva fatto. Sapevo che Elisa era con lei, la servitù avrebbe sicuramente pensato che era lei a suonare il pianoforte e nessuno avrebbe sospettato nulla. Quante precauzioni erano state prese in quei giorni! Vivevamo tra la gioia di sapere che avevamo una speranza di futuro insieme e il timore che qualche disattenzione ce la portasse via. Non sarebbe successo, mi ripromisi nuovamente, non lo avrei permesso. La musica continuava a fluire nella quiete della notte riempiendo l’aria della sua bellezza e armonia. Lentamente mi avviai verso la scala a chiocciola deciso a scendere, volevo vedere la mia piccola musicista, volevo osservarla suonare… E volevo tenerla con me per sempre. Al sicuro nel mio amore per lei.

Raggiunsi i miei appartamenti e mi diressi verso il salotto dal quale proveniva la musica, entrai senza fare rumore e mi appoggiai alla porta guardandola. Anche Elisa e Alexander erano lì, ascoltavano in silenzio quel concerto inatteso. Elisa sorrideva, vedendomi si avvicinò:

«Era così tanto che non suonava.» disse a bassa voce «Sono contenta che abbia ripreso. Grazie.»

«Perché mi ringrazi?»

«Perché sono certa che, in qualche modo, tu hai a che fare con ciò.»

Si avvicinò anche Alexander.

«Non avevo idea che suonasse così bene.» disse.

«Sì, credo che sia perché suona esprimendo le sue emozioni.» sorrisi «Pensare che nessuno lo crederebbe viste le sue mani: sono così piccole…»

«Già, ricordo, da bambine, la fatica che fece per imparare a suonare, proprio per quel motivo.» raccontò Elisa «L’insegnante disse più volte che non era portata, che il pianoforte non era lo strumento per lei. Ma lei volle imparare comunque e questo è il risultato.» sorrise «Il maestro dovette ricredersi quando alcuni anni dopo la incontrò a un tè: la padrona di casa le chiese di suonare e alla fine lui fu il primo a farle i complimenti.»

Marina suonò per un altro po’, sempre con gli occhi chiusi, con la stessa espressione sognante che aveva la prima volta che la vidi.

La cena si svolse in un clima allegro, Alexander e io ci impegnammo in una gara per vedere a quale dei due erano accadute le avventure più divertenti. Tutti e quattro cercavamo di ridere facendo il minor rumore possibile anche se a tratti l’ilarità prendeva il sopravvento. Era un piacere vedere Marina così allegra e fu proprio lei a vincere la gara raccontando del giorno in cui, appena arrivata alla residenza di Lucknow, era andata con Silam al torrente. Ci fece morire dalle risate raccontando dell’espressione inorridita della madre quando si era trovata davanti lei e la tigre completamente zuppi. Silam, dal suo angolo, parve accorgersi che stavamo parlando di lui, così si avvicinò andando a sdraiarsi alle spalle della sua padrona che lo usò come schienale.

 

 

*****

 

 

Il rombo potente del tuono scosse i vetri battuti dalla pioggia, mentre la luce scintillante del lampo illuminava la stanza con strani e inquietanti giochi d’ombra. La notte diveniva giorno in quei brevi istanti e gli oggetti, ormai familiari, acquistavano vita in spaventevoli pose.

Seduta in mezzo al letto, in quell’orribile notte, ascoltavo il rombo della tempesta tremando, seppur avvolta da una pesante coperta. L’ improvvisa e insolita violenza di quella pioggia, nella stagione delle secche, rendeva il tutto ancora più spaventoso.

Silam salì sul letto venendo ad accoccolarsi accanto a me e mi diede una leccata incoraggiante sul braccio. Sapeva quanto io temessi i temporali, soprattutto quando i tuoni erano così poderosi.

Piano piano il fragore della tempesta si acquietò e rimase solo il rumore picchiettante della pioggia. Mi alzai e andai alla finestra, la luce di lampi ormai lontani rischiarava a tratti il parco, mostrando le fronde degli alberi battute dall’acqua. Un ultimo potente tuono, quasi un promemoria della potenza della natura, esplose nella notte facendo tremare le solide mura del palazzo e strappandomi un involontario grido di spavento.

Poi tutto tacque. Non più lampi né tuoni o vento, perfino la pioggia si era ridotta a un leggerissimo sgocciolio, la notte ridivenne silenziosa.

Tornai a letto e mi sedetti stringendomi più forte nella coperta che mi avvolgeva, tentando di sopprimere il panico che mi aveva invasa. Sapevo che non era tutta colpa del temporale, un altro pensiero mi aveva attraversato la mente: era la penultima notte. Guardai l’orologio e vidi che segnava le tre, il sole sarebbe sorto in meno di due ore. E all’alba seguente sarei stata al Taj Mahal per il Giudizio degli Dei: il Giorno Sacro, il solstizio d’estate. E, forse, al tramonto sarei stata la sposa di Cavan.

Cullata da quel pensiero, tornai a stendermi e mi riaddormentai, senza accorgermi che fuori aveva ricominciato a piovere forte.

Quando aprii nuovamente gli occhi il sole rischiarava la stanza, filtrando dalle tende che chiudevano le finestre. Mi vestii e raggiunsi la stanza dove facevo sempre colazione insieme a Cavan e al nonno, ma la trovai deserta. Fui raggiunta da Rashid che mi disse che il Raja e Cavan erano usciti prima dell’alba, disse che sarebbero stati fuori tutto il giorno per presenziare alle cerimonie religiose e ai riti di purificazione in vista della grande cerimonia dell’indomani.

«Torneranno per cena?» chiesi.

 «Solo il Raja, Altezza. Il Principe resterà nel tempio della Trimurti per tutta la notte, pregherà insieme al grande sacerdote che la dolce sposa di Shiva, Parvati, domani indichi colei che dovrà aiutarlo nel compito che gli dei gli hanno affidato. Temo che non lo vedrete prima di domani mattina.»

«E ho quattro probabilità su cinque di non vederlo più, dopo domattina.» conclusi abbassando lo sguardo.

«Principessa…» lo guardai «In questi giorni, durante i quali vi ho servito, ho potuto osservarvi e conoscervi e voglio dirvi questo: anche io pregherò questa notte, pregherò perché siate voi la Prescelta, poiché avete cuore e siete sinceramente interessata al benessere del nostro popolo e perché voi amate il principe Cavan almeno quanto vi ama lui, e vi assicuro che il Principe vi ama immensamente.» concluse inchinandosi.

«Grazie, Rashid, per tutto.» dissi commossa mentre si allontanava.

Tornai nelle mie stanze e mi sedetti accanto al tavolino.

Dunque sarei rimasta sola fino a sera, sospirai. Essendo usciti sia il Raja che il Principe non c’erano scuse che permettessero alla mamma o a Elisa di venire a trovarmi.

Mi guardai attorno cercando di imprimermi nella memoria ogni particolare della camera che era stata mia per un mese, che era stata la mia casa e il mio rifugio in quello che ricordavo come il periodo più travagliato della mia esistenza. Avrei ricordato per sempre quegli ambienti che erano appartenuti a due persone per me così importanti: la mia vera madre e colui che amavo.

La brezza entrava dalle finestre aperte, facendo muovere le leggere cortine del letto, portando gli aromi della terra bagnata, dell’erba lavata dalla pioggia e dei fiori appena sbocciati. Inspirai profondamente quei profumi gustandoli come vivande rare e prelibate e, per questo, gradite.

Abbassai gli occhi sul tavolino e vidi accanto alla lampada un pacchetto e un biglietto ripiegato, lo presi e cominciai a leggerlo:

 

Dolce Marina,

lascio questo nella tua stanza, ancora avvolta

nelle tenebre, per rammentarti il mio amore.

Non ci vedremo fino a domani, quando i nostri

destini saranno decisi. Non so come finirà, ma

qualunque cosa accada, sappi che il mio cuore

ti appartiene. Accetta questo piccolo dono come

pegno e come augurio che domani sia l’alba della

nostra nuova vita. Insieme.

A presto, cara. Ti amo,
Cavan

 

Sorrisi sfiorando le lettere sul foglio e aprii il pacchetto.

Incastonato in un intricato intreccio di filigrana d’oro riluceva un meraviglioso diamante nel cui cuore splendeva la fiamma azzurra della purezza. Il pendente era completato da una catenina anch’essa di filigrana la cui chiusura rappresentava lo stemma della famiglia di mio padre, il mio stemma di futura Maharani.

Rimasi a guardarlo pensierosa, quello era il simbolo del mio nuovo rango, della mia nuova vita. Dal giorno seguente Marina Annabelle Shallowford sarebbe definitivamente scomparsa per lasciare posto a Sunahra Moti, Principessa del palazzo di Lakshmi, erede al trono dell’Uttar Pradesh.

La cosa mi terrorizzava. Chi era Sunahra Moti? Cosa sapevo di lei? Ero sempre stata Marina Shallowford, conoscevo i suoi gusti e i suoi sentimenti, sapevo cosa le piaceva fare, dove le piaceva andare, quali libri amava leggere… Ma a questa principessa indiana cosa piaceva? Cosa sentiva? Il nonno mi aveva parlato a lungo di mia madre, mi aveva fatto leggere le lettere che lei gli aveva spedito durante il suo matrimonio e oramai la conoscevo abbastanza da rendermi conto di essere diversa. Come contessina ero stata educata in modo tale da poter affrontare, una volta adulta, responsabilità anche molto importanti, ma nell’ambito di una società occidentale; ora improvvisamente mi resi conto che sarei diventata una principessa indiana: mai nella vita avrei pensato di ricoprire un ruolo tanto diverso.

Sarei stata in grado di occuparmi delle mie terre e di coloro che le abitavano? Avrei potuto dare loro pace e serenità in cui vivere? Quelle domande mi torturavano da giorni e ancora non avevo trovato le risposte.

Desideravo poter uscire, camminare nel parco, tra la gente e poter riflettere serenamente sul domani. In momenti come quello la camera che tanto mi piaceva prendeva le sembianze di una gabbia dalla quale desideravo scappare.

Respirai profondamente, calmandomi. Decisi di affrontare quei pensieri che mi affliggevano con il nonno, quando fosse tornato. Avevo bisogno del suo consiglio e della sua saggezza e oramai non c’era più molto tempo. Desideravo tanto avere anche l'opinione di papà: l’avevo visto solo tre volte da che ero nascosta e ne sentivo la mancanza. Fortunatamente almeno Elisa e la mamma erano riuscite a venire quasi tutti i giorni e, spesso erano venuti anche Luke e Alexander.

Ripensai al giorno precedente, quando mia sorella e mamma erano venute per mostrarmi l’abito da sposa che avevano finalmente finito di preparare con l’aiuto di Umi. La seta rossa riluceva di sfumature d’oro e i ricami la impreziosivano rendendo il sari e il velo che lo accompagnava una rara opera d’arte. Mamma aveva detto che avevano usato come modello il figurino dell’abito di mia madre, Sitara, seppure con qualche modifica. Avevo guardato estasiata quella creazione, ma non mi avevano permesso di indossarlo ora che era finito: portava sfortuna, dissero. Avrei dovuto attendere la sera dell’indomani per farlo, sempre che mi fossi rivelata la Prescelta. Elisa aveva detto che avrei lasciato Cavan a bocca aperta.

Cavan. Quel pensiero mi attraversò la mente, alzai lo sguardo verso il cielo chiedendomi dove fosse e cosa stesse facendo.

 

 

*****

 

 

Immerso nel brusio delle preghiere sedevo nel tempio di Brahma dinanzi alla sua statua. I sacerdoti attorno a me intonavano i Mantra con gli occhi chiusi, alternandoli con i canti dei RG Veda, implorando l’intervento divino nel giorno che doveva venire.

L’incenso pervadeva l’aria saturandola con il suo pungente aroma, misto a quello quasi soffocante delle migliaia di fiori che adornavano l’interno del tempio. Il canto monocorde dei sacerdoti aveva un effetto quasi ipnotico su quanti ascoltavano, vibrava dentro e attraverso coloro che erano lì, pervadendoli della presenza divina.

Immobile nella posizione del loto ascoltavo le preghiere e fissavo la statua davanti a me unta di oli profumati che brillava alla luce delle candele. Ghirlande di fiori erano posate in terra intorno a me: ognuna delle persone presenti ne aveva portata almeno una e l’aveva posata il più vicino possibile a me, senza coprire le altre, così che ora un tappeto fiorito mi circondava da ogni parte.

Non sapevo che ora fosse. Era il secondo tempio che visitavo, il primo era stato quello di Visnu, ora Brahma e presto, speravo, avrei raggiunto il tempio di Shiva, per poi ritirarmi al tramonto nel tempio che racchiudeva queste tre divinità in una sola: il grande tempio della Trimurti. Vi sarei rimasto fino al momento di recarmi al Taj per la cerimonia. Nel recinto più interno e sacro del tempio avrebbe avuto luogo il rito della mia purificazione, così come richiesto dalla nostra religione. Prima di raggiungere il Taj, mi sarei fermato nella moschea più importante di Agra, dove il capo spirituale dei mussulmani d’India mi avrebbe benedetto, poiché il mio ruolo era riconosciuto anche dagli appartenenti alle altre religioni. Sempre per questo motivo, poco prima dell’alba, avevo incontrato il rappresentante del Dalai Lama, che mi aveva portato la benedizione buddista.

Sospirai piano ripensando a tutto ciò e chiusi gli occhi, questo era senz’altro il giorno più lungo della mia vita. E quello successivo sarebbe stato il più difficile.

Il volto di Marina emerse nella mia mente come lo avevo visto la sera precedente a cena: ridente. Nonostante i timori e le preoccupazioni che la turbavano riusciva a mostrarsi allegra e ottimista, il che era più di quanto riuscissi a fare io negli ultimi tempi. Da quattro giorni infatti ero pervaso da una strana inquietudine, Alexander sosteneva che era solo agitazione per gli avvenimenti che si avvicinavano, ma io ero convinto che ci fosse di più. Erano solo nubi all’orizzonte, ancora troppo lontane e indistinte per capire la natura della minaccia, avrebbero potuto passare senza neppure sfiorarmi. Oppure travolgermi con la furia della tempesta.

Una tempesta violenta e improvvisa come quella della notte precedente. Tutti i sacerdoti e gli astrologi dell’India erano estasiati da quell’avvenimento che confermava, stando alle loro parole, l’avvento della Profezia. Infatti, a memoria d’uomo, non si era mai verificato un fenomeno atmosferico di tale portata in quella stagione che da sempre era priva di piogge.

Mi accorsi di un cambiamento nell’ambiente intorno a me e mi riscossi. Il tempio era immerso nel più assoluto silenzio: la cerimonia era terminata, ma vedendomi assorto, presumibilmente in preghiera, nessuno aveva osato disturbarmi. Lentamente mi alzai in piedi e, piegatomi profondamente dinanzi all’effigie del dio, mi volsi verso il grande sacerdote che dipinse il simbolo della mia casta sulla mia fronte, quindi uscii.

Il palanchino si mise in movimento appena fui salito, diretto verso il tempio di Shiva, verso un'altra cerimonia, verso altre preghiere, verso altre speranze…

Dei, come era lungo quel giorno.

 

 

*****

 

 

Vennero a svegliarmi che era ancora buio. Rashid si affrettò a chiudere le pesanti tende delle finestre perché da fuori non fosse visibile la luce delle candele. Umi ed Elisa, vestita con il mio sari rosa, mi aiutarono a indossare il sari di seta nero, ricamato in oro, che indicava il mio status di nobile. Umi riunì i miei capelli in una treccia che fermò con nastri anch’essi neri e fece passare il velo del sari sulla mia testa. Una volta pronta raggiungemmo il nonno e i miei genitori nel salotto. Anche mamma e papà erano abbigliati con abiti indiani, notai poi il costume nero e verde di Patal e lo guardai incuriosita.

«Questa,» mi disse «è la divisa della guardia d’onore del palazzo di Lakshmi, la vostra guardia d’onore. Io e questi quattro uomini» disse indicando quattro guardie che non avevo visto, abbigliate come lui «saremo la vostra scorta.»

«Principessa.» mi salutarono inchinandosi.

Restituii il saluto osservandoli.

Il turbante era diverso, notai. Sebbene fossero tutti dello stesso colore, verde smeraldo scuro e della stessa foggia, quello di Patal era ornato con un cordoncino d’oro e con un medaglione sul quale era inciso lo stemma della mia famiglia: il cobra reale e la tigre che si fronteggiavano con la montagna sacra che si innalzava sullo sfondo.

Le quattro guardie mi circondarono e, preceduti da Patal e seguiti dal Raja e dalla mia famiglia, ci muovemmo. Camminavamo in silenzio, cercando di fare il minor rumore possibile, raggiunto il portone principale, uscimmo e salimmo su un carro coperto privo di insegne che ci stava aspettando. Non raggiungemmo il portone principale dei giardini del Taj, ma al contrario ci fermammo presso l’entrata del lato destro. Sempre in silenzio ci accostammo all’alto plinto che sorreggeva il monumento e, fissata una scala a pioli, vi salimmo sopra.

Nella parte del plinto situata dietro alla tomba, erano state erette cinque comode tende, una per ogni principessa. La quinta, in teoria, sarebbe dovuta restare vuota ma era stata montata per rispetto alla principessa creduta morta. Entrammo, morbidi tappeti coprivano il marmo bianco del pavimento e due divani permettevano di trascorrere l’attesa comodamente. Mi sedetti con accanto Elisa che, poco dopo si appisolò. Fuori le quattro guardie in divisa avevano preso posto ai quattro angoli della tenda, così come doveva essere. Il nonno mi aveva spiegato che tutti si sarebbero comportati come se la mia tenda fosse stata occupata e quindi la vista delle guardie con indosso l’uniforme del mio palazzo non avrebbe destato nessuna meraviglia, al contrario, la loro assenza sarebbe parsa sospetta.

Dopo quasi un’ora di silenzio sentimmo dei rumori provenire dalla scalinata che dava accesso al plinto. Patal, che era rimasto fuori di guardia fino a quel momento, rientrò dicendoci che stavano arrivando le delegazioni delle altre principesse.

Il silenzio non tornò più. Subito dopo le principesse, giunsero i sacerdoti che presero posto nel padiglione coperto eretto accanto al grande arco della facciata del mausoleo. L’ultimo ad arrivare fu il grande sacerdote del tempio della Trimurti. Insieme a lui giunse Cavan.

Poi i grandi cancelli del giardino furono aperti permettendo alla folla che si era assiepata all’esterno di entrare per assistere a quello che sarebbe, entro breve, accaduto.

 

 

*****

 

 

I giardini, così silenziosi al mio ingresso, si animarono di una folla immensa e vociante. Ovunque si guardasse era visibile una marea multicolore, l’unico spazio libero era rappresentato dal lungo bacino d’acqua che correva perpendicolarmente alla facciata della tomba e nel quale si specchiava. I canti di preghiera si levavano dalla folla guidata dal salmodiare dei sacerdoti. Seduto sul cuscino riservatomi nel padiglione, osservavo tutto ciò che mi circondava, cercando di tenere a freno l’agitazione. Fuoco pareva scorrermi nel sangue e, nonostante la notte insonne, ogni mio senso era all’erta. Guardai il cielo e mi accorsi che si stava schiarendo velocemente: il momento andava avvicinandosi. Dall’altra parte del grande arco, di fronte a me, era posto un grande gong accanto al quale stavano due sacerdoti: quello strumento avrebbe scandito tutta la cerimonia, il suo primo suono mi avrebbe segnalato quando prendere il mio posto, mentre il secondo e i successivi avrebbero segnalato l’ingresso delle varie principesse. Marina sarebbe stata presentata per ultima.

Marina… Il suo volto, il suo profumo e il suono della sua voce mi avevano accompagnato in quella lunga notte di veglia. Avevo sempre seguito con fede l’Induismo ma, quella notte, avevo pregato con un fervore che non sapevo neppure di possedere. Avevo pregato che Marina fosse la Prescelta, che Asmal non si fosse sbagliato. Guardai un cuscino vuoto poco distante dal mio: avrebbe dovuto prendervi posto Asmal, ma un’ora prima era arrivato un suo messaggero con la notizia che l’anziano saggio era ancora distante dalla città e che non sarebbe giunto prima di notte inoltrata. Aveva comunque mandato, tramite il messaggero, una pergamena sigillata che conteneva la predizione per il futuro mio e della mia sposa: lui sapeva già chi era e come sarebbe stata la nostra vita. Avremmo aperto quella pergamena dopo la celebrazione del matrimonio, quella sera al tramonto.

Il primo gong mi riscosse, lentamente mi alzai e, saliti sette scalini, mi fermai accanto al portale d’argento del Taj Mahal e mi voltai verso la folla. E aspettai.

Il primo raggio di sole eruppe sull’orizzonte seguito dal secondo suono del gong che introdusse la prima principessa. Ella venne avanti, si chinò nel namaste dinanzi ai grandi sacerdoti, quindi si volse verso di me e salì i gradini. Era graziosa, aveva un volto ovale nel quale spiccavano i grandi occhi neri, la carnagione non era molto scura e i capelli lisci erano raccolti in due trecce che le scendevano sulle spalle. Quando mi fu accanto mi fece un lieve inchino, che restituii, poi si volse verso la porta, sollevando una mano e la toccò. Non accadde nulla, il portale rimase ermeticamente chiuso. Vidi la delusione nei suoi occhi, mentre si voltava per allontanarsi.

Per altre tre volte suonò il gong, per altre tre volte una principessa sfiorò quella porta e per altre tre volte la porta non si aprì. Quando la quarta principessa si fu ritirata il grande sacerdote della Trimurti si alzò, andò a fermarsi sul primo scalino e si voltò verso la folla antistante.

«Figli miei.» esordì «Figli dell’India tutta, questo giorno di speranza si è rivelato infausto. Colei che attendevamo non è giunta e la Profezia non può compiersi per intero. Oramai non v’è più speranza.»

«Una speranza c’è ancora, invece.»

La voce di mio zio risuonò distinta nel silenzio che aveva seguito le parole del gran sacerdote.

Questi si voltò per vedere chi avesse parlato mentre un brusio di stupore serpeggiava tra la folla. Il gran sacerdote vide il Raja accanto al gong e lo interpellò:

«Raja Sardar Singh, cosa significano le vostre parole?»

«Adheapak, non tutte le speranze sono perdute: ne resta ancora una. Come voi tutti sapete mia figlia era la madre della quinta principessa. Il giorno in cui sua figlia doveva nascere il Palazzo di Lakshmi fu attaccato e tutti coloro che vi abitavano furono uccisi. A lungo si è creduto che anche la mia piccola nipote avesse subito quella sorte, io stesso l’ho creduto. Ma mia figlia, consapevole dell’importanza di quella bambina, l’affidò appena nata a persone fidate che la portarono via e la crebbero in segreto. Ora lei è qui, nonostante i suoi nemici l’abbiano riconosciuta quando la riconobbi io, nonostante abbiano tentato nuovamente di ucciderla, lei è qui. È quindi mia grande gioia presentarvi Sua Altezza Reale Sunahra Moti, Principessa del Palazzo di Lakshmi, erede al trono dell’Uttar Pradesh.» ciò detto prese una delle mazze e colpì il gong.

Marina venne avanti, si fermò dinanzi al grande sacerdote e si inchinò profondamente.

Dalla folla si levarono esclamazioni di stupore quando la videro, ma il grande sacerdote impose il silenzio con un gesto e la guardò.

«Fanciulla,» disse «quali prove puoi darmi di essere davvero la quinta principessa?»

Marina, che aspettava quella domanda, fece scivolare a terra il velo del sari mostrando i suoi lineamenti e la scollatura del corpetto che rivelava i due nei. Il grande sacerdote la guardò per un attimo poi osservò i nei.

«Gli Dei siano lodati!» esclamò «Sì, è lei, è la figlia del Maharaja Sciandar Singh.» guardò la folla «È la quinta principessa!»

Grida di giubilo percorsero gli astanti. Il grande sacerdote sorrise e voltò Marina verso di me.

«Va, bambina.» disse «Prima che il sole sia sorto del tutto, tocca quella porta e che gli Dei vogliano il compiersi della Profezia.» concluse riprendendo il suo posto.

 

 

*****

 

Quando la quarta principessa si era diretta verso la parte frontale del monumento mi ero alzata in piedi. Ero riuscita a trattenere l’agitazione fino a quel momento ma ora non mi era più possibile. Il nonno si era preparato e aspettava il momento di comparire dinanzi ai sacerdoti e alla folla. Ero terrorizzata, l’ultimo quarto d’ora era stato il più orribile che riuscissi a ricordare, ogni volta che il gong aveva suonato mi ero sentita morire. Non sapevo se sperare che non suonasse più, cosa che sarebbe accaduta se una delle altre principesse si fosse rivelata essere la Prescelta, o sperare che continuasse.

Infine la porta della tenda si aprì: era giunto il momento. Patal si scostò per farmi passare quindi, circondata dalle mie guardie, mi avviai. Ci fermammo appena prima di raggiungere la parte anteriore del monumento, qui attesi che il nonno pronunciasse il mio nome. Quando lo fece proseguii da sola e raggiunsi la facciata. Salutai il grande sacerdote e gli mostrai i due nei perché potesse riconoscermi, quindi mi voltò verso il portale d’argento e mi invitò a toccarlo.

Adesso ero sola. Mi avviai, raggiunsi il primo gradino e iniziai a salire. Tremavo, il cuore mi batteva furiosamente nel petto, rendendomi difficile respirare e offuscandomi la vista. Sapevo di dovermi sbrigare ma non riuscivo ad accelerare il passo, la gradinata sembrava allungarsi all’infinito e ogni scalino era più faticoso del precedente. Alzai gli occhi e incontrai lo sguardo di Cavan. Il tempo sembrò rallentare mentre una sottile, nuova forza mi pervadeva. Potevo farcela, dovevo farcela, Cavan mi stava aspettando, presto saremmo stati insieme. Non dovevo fare altro che raggiungere il portale e così feci. Alzai la mano destra e la appoggiai lievemente sul metallo freddo chiudendo gli occhi. Li riaprii: la porta era ancora chiusa. Per un attimo che parve durare un’eternità non accadde nulla poi, lentamente, il portone iniziò a ruotare silenziosamente sui cardini. Per un istante fui in grado di vedere una piccola parte dell’interno illuminato dal sole nascente alle mie spalle, poi una luce accecante si sprigionò dal cuore del mausoleo abbagliando me e tutti coloro che si trovavano nella piana antistante il Taj Mahal.

Quindi, lentamente come si era aperto, il portale si richiuse.

 

 

*****

 

 

Sbattei le palpebre abbacinato da quella luce che per un istante aveva oscurato tutto, trattenendo a stento la gioia. Nell’istante in cui il portale si richiuse un boato di giubilo si levò dalla folla, seguito da canti di lode e ringraziamento che scaturirono da tutti coloro che si trovavano dinanzi al Taj Mahal e che si sparsero velocemente in tutta la città, portando il messaggio che la Profezia si era compiuta: la principessa della leggenda era tra noi.

Guardai Marina: era rimasta immobile la mano destra stretta sul petto e gli occhi chiusi. Lei più di ogni altro era rimasta abbagliata da quella luce improvvisa. Le andai accanto e la chiamai sottovoce, aprì gli occhi e mi guardò, pallida e bellissima sembrava sul punto di svenire a causa dell’emozione. Pregai che resistesse ancora e le porsi la mano, vi posò la sua, tremante, e insieme ridiscendemmo sul plinto marmoreo, fermandoci ai piedi della scalinata. Il grande sacerdote del tempio della Trimurti salì sul primo gradino, venne a mettersi dietro di noi e legò le nostre mani unite con una catenella d’argento a simboleggiare che eravamo promessi, quella sera sarebbe stata sostituita da una catenella d’oro che avrebbe indicato l’unione delle nostre vite e delle nostre anime nel matrimonio, quindi alzò le mani imponendo il silenzio.

«Una principessa indiana venuta da lontano ha aperto col solo tocco della sua mano la porta che non si può aprire e il sole interno del Taj Mahal ha brillato per indicare che lei è quella che attendevamo. Ora si unirà a colui che gli dei hanno designato, il principe Cavan Marek, e insieme compiranno il loro volere. La Profezia si è compiuta!» concluse.

A quelle parole tutti i sacerdoti intonarono i canti di ringraziamento e alle loro voci si unirono quelle delle persone presenti.

Dal cancello di sinistra entrò un corteo: in testa venivano i musici seguiti dalle danzatrici sacre, poi un drappello di guardie a cavallo guidate da Patal. Quindi fece il suo ingresso un grande elefante sul cui dorso era fissato un palanchino dorato e adorno di pietre preziose. Venne fatto fermare ai piedi del plinto e fatto inginocchiare. Guidai Marina giù dalle scale fino ai giardini, l’aiutai a salire sull’elefante e presi posto accanto a lei. Non era facile muoversi poiché la mia mano destra era ancora unita alla sua sinistra e così sarebbero rimaste fino all’arrivo al Forte Rosso dove al tramonto, sulla terrazza che dava sul fiume, sarebbe stato celebrato il matrimonio.

Le sue dita erano gelide, le strinsi un poco con fare incoraggiante e quando mi guardò le sorrisi lievemente. Annuì appena tornando a guardare dinanzi a sé. L’elefante si alzò e si mise in movimento, un altro drappello di guardie ci seguiva e, dietro, venivano i palanchini dei grandi sacerdoti e dei nobili.

Invece di seguire la via più breve lungo il fiume per raggiungere il Forte, la processione si addentrò nella città, facendo un ampio percorso durante il quale, dalle finestre più alte delle case, cadde su di noi una pioggia di fiori e nastri colorati accompagnati dalle esclamazioni di gioia delle persone.

Entrammo finalmente nel Forte, lasciandoci alle spalle i clamori dei festeggiamenti. Durante il tragitto avevamo distanziato i palanchini e ora ci trovammo circondati solo dalle guardie. Patal assegnò loro velocemente turni e posti di guardia poi, accompagnato dalle quattro guardie che indossavano la divisa di Lakshmi, ci scortò all’interno fino al grande atrio che separava gli appartamenti imperiali dai quartieri delle regine. Lì, per la prima volta in due giorni, fummo lasciati soli.

Marina tremava, la trassi a me e l’abbracciai.

«Poche ore ancora e sarà tutto finito.» le sussurrai consolante.

Annuì lievemente senza sollevare il volto dalla mia casacca. Sentivo il tepore del suo respiro attraverso la stoffa sottile. Baciai i suoi capelli e la scostai, mi guardò con occhi umidi sorridendo senza troppa convinzione.

«Non riesco ancora a crederci…» mormorò.

«Eppure ti avevo detto che sarebbe andato tutto bene.»

«Non ci hai mai creduto fino in fondo neppure tu.»

Sorrisi «Non ti si può nascondere nulla. Ascolta,» continuai tornando serio «tra poco giungeranno gli altri. Verrai accompagnata nelle stanze delle Regine dove potrai riposare fino al tramonto. Non ci vedremo più fino ad allora, ma non temere: io sarò a pochi metri da te e le guardie comandate da Patal ti proteggeranno a dovere.»

«Temi qualcosa?» chiese preoccupata.

«No, ma è sempre meglio essere prudenti. Ti pare?»

«Sono stanca di dovermi nascondere, stanca dei sotterfugi e di avere paura. Vorrei che fosse già domani così da aver superato questa giornata orribile.»

«Lo so, ma domani arriverà presto, vedrai.»

In quel momento arrivarono coloro che ci avevano seguito.

Il grande sacerdote sciolse la catena argentea che ancora ci univa e fummo separati.

 

 

*****

 

 

Guidata da Umi, apparsa al mio fianco, raggiunsi le stanze destinatemi dove trovai ad accogliermi mamma ed Elisa. Papà non c’era: agli uomini non era concesso l’ingresso in quegli appartamenti.

Vedendomi piuttosto pallida, mamma mi fece sedere, poi si allontanò con Umi per supervisionare la preparazione del pasto.

Rimaste sole Elisa si sedette accanto a me.

«Come ti senti?» mi chiese.

«Meglio di quanto non sembri, credo, ma non ricordo molto di ciò che è successo dopo che ho lasciato la tenda.»

«Immagino. Sai, è stato… emozionante! Quando hai toccato il portale e questo si è aperto… quella luce è stata così improvvisa! Ha abbagliato tutti. La folla era letteralmente pazza di gioia.»

«Come siete arrivati qui?» chiesi per cambiare discorso.

«Con lo stesso mezzo che abbiamo usato per raggiungere il Taj. Abbiamo preso la strada lungo il fiume per fare prima e siamo entrati da un ingresso laterale.»

«Papà dove si trova?»

«Credo si stia occupando della sicurezza assieme a Patal.»

«Perché? Voglio dire: sono tutti convinti che ora io non corra più pericoli, allora perché tutte queste precauzioni?»

«Vogliono solo essere sicuri che vada tutto bene. Sai, è sempre meglio essere…»

«…Prudenti, sì, mi è già stato detto.»

Mi alzai e mi avvicinai a una finestra che si affacciava su uno dei giardini interni del Forte.

Il verde intenso dei cespugli era qua e là ravvivato da macchie di colore. Una fontana gorgogliava allegramente all’incrocio dei sentieri di pietra che si snodavano tra le aiuole fiorite e nell’aria si spandevano i profumi delle rose e dell’onnipresente gelsomino. Una grande magnolia ombreggiava alcune panche di marmo scolpito. Mi sedetti sul basso davanzale e, appoggiata la schiena a una colonna, inspirai lentamente l’aria profumata.

Rimasi lì un poco, senza pensare a nulla, a osservare il lento moto delle ombre che si spostavano con lo scorrere del tempo. Non sapevo decidermi ad allontanarmi da quella visione rasserenante. Resasene conto, Elisa mi raggiunse e si sedette di fronte a me.

«Sono un po’ triste, sai?»

«Perché?»

«Perché mia sorella non c’è più. Da oggi Marina Shallowford non esiste più e io mi trovo sola per la prima volta in diciotto anni.»

«Elisa ma cosa stai dicendo? Io sono sempre io, ho solo cambiato nome. Sono e sarò sempre tua sorella.» mi interruppi un attimo «Le cose cambieranno un po’, è vero, ma questo non annulla il legame che ci unisce. Non devi mai pensare che ciò che è accaduto in questi giorni abbia in qualche modo cambiato ciò che siamo: siamo sorelle, lo eravamo un anno fa e lo saremo ancora fra un anno, fra dieci, come è sempre stato. Tra poco tu ti sposerai e tornerai in Inghilterra, ma neppure la distanza influirà su questo: noi siamo sorelle, Elisa, e niente e nessuno potrà mai cambiare questo fatto. Ovunque vivremo, anche se saremo separate, quello che ci lega rimarrà invariato. L’affetto reciproco che ci portiamo non svanirà solo perché non siamo più insieme, questo te lo posso assicurare. Vivi felice la tua vita e sii certa che qualunque cosa accada, qui tu hai una sorella che sarà felice di accoglierti ogni volta vorrai fuggire dal rigore inglese o prenderti un po’ di riposo. Devi credermi e continuerò a ripeterlo finché non ti sarai convinta.» conclusi sorridendo.

«Finalmente, iniziavo a pensare che avessi dimenticato come si fa.»

«A fare cosa?» chiesi stupita.

«A sorridere, Marina.»

Rimanemmo presso la finestra a lungo, a volte restando in silenzio poiché, tra noi, le parole erano spesso superflue.

«Verrai al mio matrimonio, vero?» mi chiese all’improvviso.

«Certo! Niente potrebbe impedirmi di essere presente. E poi non puoi sposarti senza damigella d’onore.»

«Già, sarebbe contro la tradizione.» sorrise «Non so perché te lo abbia chiesto. Sapevo che avresti risposto affermativamente, forse avevo solo bisogno di sentirtelo dire.»

«Verrò, non ti preoccupare. Sarà l’ultima volta che indosserò un abito inglese, l’ultima apparizione in pubblico di Marina Shallowford.»

«E di Paul McIntire.» aggiunse.

«Sì, entrambi svaniranno nel nulla…»

L’arrivo della mamma con il pranzo pose fine al silenzio che si era creato dopo il mio commento.

Sedutasi presso di noi iniziò a raccontare della prima volta che aveva visto il Forte Rosso, anni prima. Proprio nei giardini imperiali aveva incontrato colei che divenne la sua migliore amica: mia madre. Ci narrò di quell’amicizia nata per caso che era durata fino alla morte di Sitara. Parlava con vivacità di quei giorni ormai lontani, narrandoci anche i piccoli particolari che ricordava del tempo insieme trascorso. Ci narrò dell’infinita tenerezza che aveva provato nel vedermi la prima volta e della sua gioia quando Elisa venne al mondo e fece di noi due gemelle. I cinque giorni che facevano di me la maggiore non si erano mai notati e di questo era sempre stata felice. Era stato bello per lei vederci crescere assieme volendoci bene, vederci vivere come vere sorelle. Eravamo la sua più grande fonte di gioia e orgoglio, ed era fiera nonostante la paura passata, che io avessi riconquistato il mio posto e il mio lignaggio. Parlò a lungo narrandoci cose che non avevamo mai neppure immaginato dei tempi del suo primo soggiorno in India e degli anni che erano seguiti.

Fu Umi a porre fine a quel bellissimo monologo. Venne per comunicarci che mi aveva fatto preparare un bagno e che era ora che cominciassi a prepararmi: il tramonto non era lontano.

 

 

*****

 

 

«A quanto pare ne sono successe di cose durante la mia assenza.»

La voce di Parmar mi diede il benvenuto negli appartamenti imperiali.

«Parmar!» lo salutai «Quando sei arrivato?»

«Mezz’ora fa, giusto in tempo per sentire le grida di gioia spargersi per la città. Avrei voluto arrivare prima… Così lady Marina non è morta e non è lady Marina.»

«Già. Capisci, vero, che non ti dissi nulla perché così era stato deciso e non perché non mi fido di te?»

«Non ti preoccupare, al tuo posto avrei fatto lo stesso. Allora, come ci si sente a essere quasi sposato?»

«Nervoso. Sarà colpa della notte di veglia ma non vedo l’ora che sia tutto finito.»

«Ti capisco.»

Ci sedemmo accanto a un tavolino sul quale era apparecchiata una scacchiera e giocando ci mettemmo a parlare. Gli chiesi di narrarmi cosa era accaduto nel mio regno durante la mia assenza. La gestione del territorio occupò la quasi totalità della nostra conversazione. Era piacevole come sempre ritrovarsi a parlare con qualcuno che conosceva a fondo i problemi della mia terra, che dava importanti suggerimenti.

Il tempo passava velocemente, consumammo un pasto freddo e presto fu il momento di prepararsi. Con lo scorrere tranquillo di quelle ultime ore le mie ansie si erano un po’ acquietate. Ero certo che, giunti a quel punto, sarebbe andato tutto bene, nonostante questo però non mi fidavo ad abbassare la guardia.

Parmar aveva notato il mio nervosismo e per distrarmi si mise a raccontarmi alcuni aneddoti riguardanti la sua ultima battuta di caccia. Sorrisi senza convinzione al suo racconto e, poco dopo lui smise di cercare di distrarmi e si allontanò; il mio valletto mi aiutò a indossare l’abito per la cerimonia.

 

 

*****

 

 

Allontanata la cameriera, Elisa prese la spazzola e iniziò a passarla personalmente tra i miei capelli. Senza neppure accorgersene iniziò a canticchiare, la guardai attraverso il riflesso dello specchio alzando un sopracciglio. Arrossì lievemente:

«È il valzer durante il quale Alex mi ha chiesto di sposarlo…»

«Sei eccitata per il matrimonio, vero?»

«Molto. Ci pensi: oggi tu sposi il tuo Cavan e tra cinque giorni io sposerò il mio Alexander. Sono contenta che non rimarrai sola dopo le mie nozze, ma soprattutto che sposi proprio Cavan.»

«Sai,» dissi dopo un attimo di esitazione «quando lo conobbi, in Inghilterra, sentii subito che lui avrebbe avuto una parte importante nella mia vita. Più tardi compresi che ne ero innamorata, nonostante non sapessi neppure chi fosse. E quando l’ho scoperto ho creduto che tutto fosse perduto per sempre… Sapessi quanto lo amo, Elisa! Lui è tutta la mia vita.»

«Come per me Alex.»

Ci guardammo nello specchio consce di quale fortuna godessimo, fortuna che alla maggior parte delle ragazze a quei tempi era preclusa.

L’entrata di Umi con il sari da sposa non ci permise di proseguire la nostra conversazione. Raccolti i capelli in una grossa treccia ornata con file di diamanti e rubini indossai il sari di cangiante seta rossa e misi la collana col mio stemma donatami da Cavan.

Ero pronta: non restava che aspettare che venisse il momento di raggiungere la terrazza sul fiume dove si sarebbe celebrato il matrimonio.

A quel pensiero sentii le ginocchia cedermi e mi sedetti nuovamente sul davanzale a guardare il giardino.

E attesi.

 

*****

 

 

«Siamo pronti, Altezza.»

Con queste parole ebbe inizio quello che doveva essere “l’ultimo atto” di quella che era cominciata come tragedia e che tutti speravamo si concludesse con un lieto fine. Mi incamminai senza fretta verso le scale e raggiunsi la terrazza sulla quale era stato eretto un baldacchino di seta bianca sorretto da lance d’oro.

Decine di dignitari, rappresentanti della nobiltà e sacerdoti di ogni culto erano schierati nello spazio circostante in attesa della cerimonia.

Il grande sacerdote della trimurti attendeva pazientemente l’arrivo di Marina per dare inizio al rito. Anche io attendevo, con impazienza appena celata, l’arrivo della mia sposa e nell’attesa torturavo la fusciacca che mi cingeva i fianchi. Fui per un istante sconcertato dal fatto che non vi era fissato il pugnale come al solito, ma rammentai che così voleva il cerimoniale. Nessuno dei presenti era armato, per rispetto agli sposi.

Sentii un miagolio e mi voltai verso destra: legato con una catena dorata a una delle colonne del portico che circondava tre dei lati della terrazza stava Silam. Non sembrava per nulla contento di trovarsi legato e sospettai che non gli fosse mai accaduto. Il colonnello Shallowford, vestito come un nobile indiano, gli si avvicinò e lo accarezzò per calmarlo. I nostri sguardi si incrociarono e mi fece un impercettibile cenno che restituii con altrettanta circospezione. Tornai a guardare il grande sacerdote che mi sorrise con benevolenza.

E attesi.

 

 

*****

 

 

«Siamo pronti, Altezza.»

A queste parole sussultai.

Mi alzai in piedi e guardai mamma ed Elisa, mi vennero vicino e mi abbracciarono. Una cameriera le accompagnò fuori dalla stanza verso la terrazza, e io rimasi sola con Umi.

Ero spaventata e lei se ne accorse.

«È tempo, bambina, dobbiamo andare.» mi disse con dolcezza.

«Sì, vorrei solo riuscire a smettere di tremare.»

«Andiamo, il tuo sposo e il tuo futuro ti aspettano.» mi prese per mano e ci avviammo.

 

 

*****

 

 

Un lontano suono di piccoli tamburi e campanelli annunciò l’arrivo della sposa. La musica si faceva più forte con l’avvicinarsi del corteo che l’accompagnava finché apparvero. In mezzo a musici e danzatrici, splendente in un sari rosso e oro, viva e vibrante come una fiamma di pura luce, avanzava colei che occupava i miei pensieri, colei che gli dei benevoli mi avevano destinato: Marina.

Camminava lentamente con l’incedere di una vera regina, appariva serena ma chi la conosceva poteva notare il lieve tremito delle mani e gli occhi innaturalmente dilatati.

Dietro di lei, a poca distanza, veniva Umi che portava, adagiata su un cuscino rosso, una lastra d’oro circolare sulla quale era scolpito a sbalzo lo stemma del palazzo di Lakshmi, che splendeva nella luce del sole morente.

Quando mi fu accanto le presi la mano e, insieme, ci voltammo verso il grande sacerdote e la cerimonia ebbe inizio.

 

 

*****

 

 

Ogni mia paura, ogni mio tremito ebbe fine nel momento stesso in cui Cavan prese la mia mano. Mentre il grande sacerdote intonava le formule della cerimonia mi lasciai cullare dall’atmosfera che pervadeva la terrazza. Le acque dello Yamuna erano come rame liquido, tanto brillanti da non potersi guardare senza che gli occhi ne risultassero feriti. Il profumo dei fiori e dell’incenso aveva un che di ipnotico e stordente. La terrazza era immersa nel silenzio sul quale era chiaramente udibile la voce dell’anziano sacerdote. Un altro suono giunse al mio orecchio in quella quiete: il gorgoglio tipico che emetteva Silam nei momenti di soddisfazione.

Ma quella pace era destinata a durare poco. Fu proprio Silam a dare l’allarme scattando in piedi con un ruggito un attimo prima che l’orribile fragore degli spari ci raggiungesse. Cavan si pose tra me e qualunque pericolo stesse arrivando, e io strinsi la mano che ancora imprigionava dolcemente la mia.

 

 

*****

 

 

La mia mano corse istintivamente alla fusciacca tristemente vuota all’inutile ricerca del pugnale, nel momento in cui un gruppo di uomini a cavallo irrompeva sulla terrazza.

Udii il gemito spaventato di Marina e la spinsi gentilmente verso il grande sacerdote, preparandomi a sostenere l’attacco.

Il ruggito indignato di Silam echeggiava sopra le grida degli assalitori, ma la tigre era incatenata e non poteva fare nulla.

Vidi uno dei cavalieri galoppare verso di me e quando fu a distanza utile, usando una pesante fioriera di marmo come trampolino, mi slanciai su di lui travolgendolo e facendolo cadere. Prima che potesse riprendersi lo tramortii con un pugno e mi voltai per affrontare il nemico successivo che non tardò a giungere.

La lotta divenne presto frenetica, impugnando la spada tolta al primo nemico, ingaggiai furiosamente battaglia con tutti coloro che tentavano di superarmi per raggiungere Marina. Malgrado il mio furore però, mi trovai presto in inferiorità, soverchiato dal numero dei nemici. A tratti riuscivo a scorgere nella mischia il colonnello, Alex o Patal che si battevano con coraggio contro quell’orda urlante. Capivo che non avrei potuto resistere a lungo ma ero deciso a non cedere.

Il grido di Marina giunse repentino e inaspettato. Ero convinto di essere riuscito a bloccare tutti gli uomini venuti verso il baldacchino, ma evidentemente avevo torto. Respinsi velocemente l’ultimo nemico e mi voltai: un uomo a cavallo si era slanciato verso la mia sposa e l’aveva presa in sella. Ella tese entrambe le braccia verso di me con sguardo supplice:

«Cavan!» gridò.

Mi slanciai verso di lei pronto a balzare alla gola dell’incauto che aveva osato toccarla ma non riuscii a raggiungerla: qualcuno mi colpii violentemente alla testa da dietro e caddi. Stordito dal colpo mi voltai sul dorso per guardare il mio aggressore e spalancai gli occhi.

«Pa… Parmar!» esclamai.

Si abbassò verso di me e mi guardò tristemente.

«Mi dispiace, amico mio, ma non posso permetterti di fermarli. Vedi il mio popolo aspetta da molto tempo di incontrare la Prescelta, non sarebbe bello deludere tutte quelle persone.»

«Tu… Bastardo! Eri il mio migliore amico, ti consideravo come un fratello.»

«Lo so, anche io ti considero come un fratello e mi dispiace che ora tu ti senta tradito. A dire il vero quando da bambino mi dissero che ero stato scelto come tuo Custode non mi sarei aspettato di provare per te un’amicizia così profonda. Credimi: mi dispiace davvero di averti ingannato, ma il dovere verso il mio popolo viene prima dell’amicizia verso un impuro.»

«Dove la stanno portando?»

«Spiacente, amico, ma non posso dirtelo.» si guardò intorno poi si volse nuovamente verso di me «È tempo che io vada.» si alzò in piedi «Non preoccuparti troppo per la principessa, se sarà intelligente te la restituiremo presto.» sorrise «Appena sarà pronta…»

«Pronta per cosa?» gli gridai dietro alzandomi «Pronta per cosa?» ripetei cercando di rincorrerlo.

Non mi rispose.

La vista mi si annebbiò; ancora stordito dal colpo alla testa, caddi sulle ginocchia in preda alla nausea e, con mia grande rabbia, svenni.

 

 

*****

 

 

Erano giunti all’improvviso irrompendo sulla terrazza come visioni di un incubo. Accanto al grande sacerdote osservai atterrita uno dei cavalieri venire verso di noi, ma Cavan lo sbalzò di sella prima che potesse raggiungerci. Sospirai lievemente sollevata quando vidi il mio sposo impugnare la spada del nemico: ora non era più disarmato. Ma il mio sollievo fu di breve durata poiché diversi nemici si avventarono su di lui. Avrei voluto fare qualcosa per aiutarlo ma non mi mossi, sapendo che gli sarei stata solo di impaccio. Mi sentivo morire ogni volta che una spada assalitrice si abbatteva su di lui, ma miracolosamente Cavan riusciva sempre a parare i fendenti nemici. A un certo punto vidi un uomo a cavallo dirigersi verso di noi con la scimitarra sguainata. Compresi che voleva me e temetti che potesse fare del male al grande sacerdote pur di prendermi, così mi allontanai da lui e mi diressi correndo verso Silam: se fossi riuscita a raggiungerlo chi avesse voluto toccarmi avrebbe prima dovuto vedersela con i suoi artigli e con i suoi denti. Ma non riuscii nel mio intento: fatti pochi passi il cavaliere mi fu addosso e mi sollevò di peso sulla sella. Sentivo i ruggiti inferociti della mia tigre e gridai. Cavan si volse verso di me e io lo chiamai, fece l’atto di slanciarsi verso il mio rapitore ma qualcuno lo colpì alla testa da dietro un attimo prima che il cavallo partisse al galoppo. Chiamai nuovamente senza ottenere risposta cercando invano di divincolarmi dalla presa dell’assalitore. Questi mi tenne ferma e mi pose davanti al volto una pezza di stoffa intrisa di una sostanza che esalava un aroma dolciastro. Pochi istanti dopo tutto si fece confuso davanti ai miei occhi e precipitai nell’oscurità.

  
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