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Autore: Vale_q    15/01/2017    5 recensioni
Redvale deve fare i conti con il freddo e la morte portati da un lungo, interminabile inverno.
Re Godfrey, però, nutre una speranza. Speranza di vita che si incarna in una radura; essa, unico luogo scampato al gelo, sorge nel mezzo di una distesa innevata. Spetterà ad un eroe, Rowland, recarvisi e scoprire quali segreti magici la rendano immune all'inverno.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Breve racconto che ho scritto per un contest, dopo un lunghissimo periodo di inattività.
C'è di positivo che mi ha ridato la voglia di tornare a scrivere, e, in questo, costituisce un piccolo banco di prova per me. Proprio per tale motivo sentivo che era giusto renderlo pubblico.
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Il vento soffiava forte, sferzante sui suoi occhi azzurri.
Sir Rowland avanzava nella neve, lentamente, passo dopo passo, arrancando, affondandovi e sperando che all’orizzonte di quell’immensa distesa bianca ci fosse una fine.
Era in cammino da due giorni, anche se non sapeva esattamente in quale punto si trovasse; né alcuna mappa poteva essergli d’aiuto: esse riportavano la collocazione di sentieri, roccaforti, fiumi. Ma lì, intorno a lui, non vi era che neve. Né un’abitazione, né vecchi ruderi di antichi castelli, e nemmeno l’ombra di un cespuglio.
L’inverno, che per secoli era stato una stagione, una fase del tempo, era diventato, da pochi mesi a quella parte, una piaga per gli abitanti di Redvale e di tutta la regione: si era insinuato come al solito, con il freddo, il vento gelido, gli alberi e i campi spogli, e la popolazione al riparo nelle abitazioni. Ma qualcosa, poi, era cambiato, poiché, giunto il tempo della primavera, l’inverno non era ancora andato via, e con esso la vegetazione non era rinvigorita, le radici dei grandi pini che circondavano le mura erano state sopraffatte dal freddo, e il bestiame, non avendo di che nutrirsi, non aveva trovato sostentamento. Le riserve di grano e vino erano apparse la sola speranza in quel frangente, ma, come ogni altra cosa che appartenesse alla vita terrena, si erano esaurite in breve tempo. Pochi mesi in cui reali, mercanti e cavalieri come lui, si erano inchinati alla povertà e allo stento, mettendosi alla pari di mendicanti e contadini.
Re Godfrey, resosi conto della situazione verso cui lui ed il suo popolo si stavano involontariamente dirigendo, aveva compiuto l’unica azione che avrebbe potuto dare una speranza alla sua città: era stato quello il momento in cui Sir Rowland era asceso alla carica di eroe; egli aveva viaggiato, lungo città e villaggi, aveva condotto l’esercito reale contro armate nemiche. E aveva vinto, ripetutamente, sommerso dalla gloria. Non vi sarebbe stata persona più meritevole o adatta per quel compito.
E quando Rowland si era diretto nelle camere private del re per sapere quale fosse il motivo della sua chiamata, aveva avuto il sospetto che riguardasse la situazione in cui militava la città. Non vi erano guerre in atto, né minacce all’orizzonte. La ragione poteva essere soltanto una.
Fermo, davanti alla porta di mogano che apriva la vista sulle stanze del re e della sua regina, il cavaliere era stato scosso da un brivido di freddo, quasi fosse un presagio di ciò che gli avrebbero annunciato le parole del sovrano.
Aveva bussato e atteso, a testa china, che egli gli consentisse di entrare. E la risposta non si era fatta attendere: Rowland aveva potuto ammirare, per la prima volta, la magnificenza di quelle stanze.
Drappi rossi e dorati ricoprivano le ampie finestre che mostravano una veduta dei giardini, una volta in fiore e popolati dalle più rare specie di piante, portate da dignitari, ambasciatori e principi del Sud; la stessa stoffa, pregiata e degna solo di una figura importante come un re, ricopriva il pavimento su cui, in quell’istante, poggiavano gli stivali del sovrano. Una cassapanca, ancora in mogano, come tutto il resto del mobilio, intarsiata dei più fini ornamenti: foglie, grappoli d’uva e ramoscelli. Su di essa sedeva la regina, Ninon, intenta a ricamare. Le sue mani si muovevano freneticamente, quasi avesse fretta di completare in pochi minuti l’ornamento della veste.
Così tanta fretta che non appena Rowland era entrato, lei gli aveva rivolto solo un flebile e rapido sorriso.
Lui aveva risposto con un profondo inchino, ma in realtà la sua attenzione era stata richiamata solo dall’addome della donna: da mesi, ormai, portava in grembo colui che sarebbe stato il primogenito dei reali.
‘Saranno giorni tristi e desolanti quelli in cui nascerà’, aveva pensato mentre rialzava il capo per rivolgere lo sguardo al suo re.
“Maestà, il vostro messaggero mi ha annunciato che desideravate vedermi qui nelle vostre stanze,” aveva esordito il cavaliere.
“È così, Sir Rowland. Potete immaginare il motivo per cui vi ho convocato,” aveva confermato il sovrano mentre volgeva il suo sguardo aggrottato altrove.
“Ha a che vedere con tutto questo, mio re. L’inverno, la neve, la fame e la morte.”
“Tutto questo, sì”, gli aveva risposto il re, mentre si dirigeva, poi, alla finestra. Con un gesto lieve si era fatto spazio fra la seta delle tende e aveva preso a studiare il tetro spettacolo che la natura aveva destinato ai suoi giardini.
L’uomo aveva guardato il sovrano in attesa di una risposta, ma egli sembrava essersi completamente perso nei suoi pensieri.
Era stata, allora, la regina a spezzare l’attesa del cavaliere: ella, alzato il capo, aveva richiamato il marito all’attenzione con la sua voce mielosa.
“Marito mio, Sir Rowland attende una tua parola. Spiegagli cosa intendi fare.”
Il re si era voltato, non senza un sospiro di rassegnazione, e, schiuse le labbra, aveva preso a parlare. Lentamente, in maniera scandita, quasi avesse imparato a memoria quel discorso, e lo avesse ripetuto più e più volte.
“Sir Rowland, siete qui perché in voi ho deciso di riporre tutte le mie speranze, le speranze di questo popolo. Come avrete notato, voi, o qualunque soldato abbia percorso almeno una volta il cammino di ronda, vi è una radura oltre questa desolata e mortale coltre di neve, visibile da ogni punto del castello. Essa è viva, rigogliosa. Un’illusione di primavera… sembra quasi che un dio, a noi sconosciuto, abbia deciso di punirci così facendo.”
Nel terminare la frase, il re aveva accennato un sorriso triste, come a compatire la sua sorte, quella di sua moglie e di tutta la loro gente.
E a Rowland, nel frattempo, erano state sufficienti le poche ed introduttive parole del suo re per intuire quale sarebbe stata la sua sorte. Nonostante questo, non aveva ritenuto giusto interrompere il discorso del sovrano.
“È mio desiderio che vi rechiate in quel luogo per scoprire quale segreta o arcana magia vi si nasconda. Essa potrebbe essere la sola salvezza di Redvale, per ciò che sappiamo di questa orrenda situazione…”
Il cavaliere aveva finto impassibilità di fronte agli ordini del re, accogliendoli, poi, con un profondo inchino al termine del discorso.
“Un uomo del mio rango non potrebbe essere più onorato di portare a termine ciò che gli ordina il proprio re,” aveva detto a Godfrey.
Ma egli non si era impressionato, non più del solito. Al contrario, quasi non fosse in sé, di nuovo assorto in qualche pensiero, aveva replicato con poco coinvolgimento.
“Non vi è nulla di nobile od onorevole in ciò che vi chiedo di fare, Sir Rowland. Pregate che la fortuna vi sia favorevole, così faremo io e mia moglie.”
Quella notte si era ritrovato a consolare i pianti di sua moglie Mylla: aveva posato dei baci sulle sue chiome corvine e poi giurato che in breve tempo sarebbe tornato alla sua casa, per darle ancora un altro bacio e per donare gloria ed onore non solo a loro figlio, ma a tutto il popolo di Redvale.
Mylla aveva lasciato che partisse, allora, con tutta la sua benedizione; imbracciato il suo arco, affilata la sua lama e raccolte provviste per i giorni di cammino, Rowland aveva lasciato le mura per avventurarsi in quella valle di neve.
Durante i primi passi e le prime interminabili ore in cui i suoi stivali bordati di pelliccia avevano scavato nel candore mortale della neve, una sensazione di invincibilità aveva pervaso il cavaliere: forte della fiducia che il re aveva riposto in lui, e consapevole di aver compiuto imprese di difficoltà maggiore e in condizioni più impervie, aveva affrontato velocemente le prime miglia di cammino. E nel farlo, il pensiero di sua moglie e del suo piccolo bambino lo avevano accompagnato ogni attimo: anche in quei momenti, in cui la radura era diventata non uno scopo, ma un miraggio, si era aggrappato alla voce di Mylla e alla promessa che le aveva fatto, di tornare sano e salvo, con una risposta e una soluzione al problema che affliggeva il suo popolo e la sua stessa famiglia.
Eppure, ora, a scalfire ulteriormente quell’illusione, vi erano le folate di vento, divenute, di attimo in attimo sempre più taglienti.
Con uno sforzo aveva saldato i piedi nella coltre e, intenzionato a trovare un po’ di calore, un minimo di ristoro, aveva inserito la mano guantata nella tasca. Lì conservava una piccola otre, contenente del vino.
Ma in una situazione simile anche articolare le dita della mano era diventato difficile: intorpidite dal freddo, quasi gli erano dolute nell’afferrare la boccetta. Nonostante lo sforzo, aveva comunque beneficiato di un breve attimo di riposo e di rinvigorimento, dovuto non solo all’effetto del vino nel suo sangue, ma anche all’accorgersi del frutto dei suoi passi: aveva, infatti, la consapevolezza di essere giunto in punto in cui sarebbe stato difficile volgere lo sguardo indietro e marciare verso casa.
Non negava di averci pensato in quei due giorni, anche più di quanto avesse voluto, ma la prospettiva di deludere chiunque stesse aspettando il suo ritorno, lo costringeva ad avanzare.
Lo avrebbe indotto anche a lasciare lì la sua vita se fosse stato necessario.
Con questi pensieri riprese a camminare: poteva sentire il vento bruciare sulla pelle del suo viso, lasciarvi segni.
‘A Mylla verrà un colpo quando sarò a casa’, pensò in un sorriso.
Percorse qualche altro miglio, e per un breve istante gli sembrò di scorgere qualcosa all’orizzonte; una strizzata di occhi lo portò alla realtà, vuota e senza certezze.
Il vento, però, non aveva stremato solo le sue guance, ma anche tutte le sue forze: a nulla sarebbero servite le provviste di carne essiccata, o gli ultimi tranci di pane che le cucine reali gli avevano donato; né lo avrebbero rinvigorito le due rimanenti otri di vino. Rowland era stanco, le sue gambe ed ossa lo erano, e ogni passo pesava come un macigno.
Cadde sulle ginocchia e il contatto con la neve gli procurò un brivido. Tentò di rialzarsi, ma qualsiasi sforzo sembrava vano: le gambe non rispondevano al suo comando, erano diventate anch’esse di ghiaccio, fredde sin dentro le vene.
Rowland capì che qualsiasi tentativo di dimenarsi dalla presa del gelo era inutile; così, per la prima volta nella sua vita si abbandonò al volere della natura. Lasciò che il suo corpo si adagiasse alla superficie e lì giacque per pochi altri secondi, ad occhi aperti.
Poi venne il buio.
 
 
 
 
Un suono, flebile, sottile. Una lama di luce, e poi di calore.
Le mani di Rowland si mossero, afferrarono qualcosa. Era morbido, ma non freddo: non era neve.
Riscoprire questa sensazione che credeva di non poter più provare, lo portò ad aprire le palpebre, di scatto.
La luce del sole, calda ed invitante, lo accecò, ma dopo brevi istanti fu in grado di mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava.
Ciò che le sue mani avevano afferrato era erba, e una lunga, immensa distesa di essa si mostrava davanti ai suoi occhi. Timidamente, dai suoi fili, spuntavano delle margherite; a Rowland sembrò che si beassero di tutti i raggi che il sole poteva donargli: essi filtravano attraverso le fronde e i rami degli alberi, come un soffitto bucherellato.
Il cavaliere si guardò intorno, tastò il suo corpo e vide che la sua lama era lì, custodita nel fodero; faretra e arco anche, illese. Gettò poi lo sguardo alle spalle e poté realizzare che non vi era una via, un angolo dove non vi regnasse il verde: file di castagni e betulle si ergevano a difesa di quella foresta, ai loro piedi crescevano cespugli e rovi pieni di more, lamponi e mirtilli; il letto di margherite si estendeva oltre l’orizzonte, fin dove il suo sguardo non poteva scorgere altro.
Così come niente altro era scolpito nella sua mente.
Portò una mano alla tempia, come per sforzarsi di tornare agli attimi prima di quel risveglio, ma ricordava solo di essere caduto nella neve, il freddo, le ossa congelate e il buio. Niente più.
Anche se quella fosse stata la radura a cui il suo re anelava da mesi, lui non rammentava il momento in cui si era rialzato e aveva ripreso il cammino; il momento in cui aveva scorto il verde, e quello in cui la speranza si era fatta di nuovo strada nella sua mente.
Nulla di tutto questo era presente nei suoi ricordi.
Erano ancora chiari e lucidi, invece, gli ordini del suo re. Era stato categorico quando lo aveva incaricato  di capire cosa ci fosse dietro a tutto quel verde, quale segreto rendesse la radura immune dall’inverno.
E così che fosse davvero il luogo che stava cercando o meno, Rowland decise di proseguire il cammino e vedere a cosa portassero tutte quelle margherite.
Non vi era una strada, o un sentiero tracciato da un’anima che si fosse avventurata in quel posto prima di lui, ma l’uomo non trovò comunque difficoltà ad avanzare: ora le sue gambe erano libere dalla morsa del gelo, leggere e non gli dolevano. Poteva procedere a passo svelto senza nemmeno stancarsi.
La sua marcia fu fermata solo da un suono. Di nuovo, lo stesso.
Rowland rivolse tutta la sua attenzione a quella leggera melodia: era una voce di donna, dal timbro dolce e pastoso; essa si destreggiava in un canto che il cavaliere non aveva mai sentito. Né conosceva o poteva indovinare la lingua in cui ella cantava. Era solo sicuro che le sue orecchie non avevano mai udito qualcosa di una tale bellezza, mai da nessun bardo o fanciulla.
Decise che quel canto sarebbe stata la sua guida, doveva scoprire a chi appartenesse quella voce da usignolo.
Accelerò il passo e si fece strada tra cespugli e fiori. Man mano che avanzava, il campo di margherite diveniva più stretto e gli alberi meno fitti. Sembrava che tutto dovesse convergere verso un punto, e che proprio da quella direzione provenisse la voce di donna. Essa, infatti, diveniva più forte ad ogni passo, cominciava a penetrare nella mente di Rowland.
Il suo cuore aveva iniziato a battere più forte, ma non avrebbe saputo dire se fosse per la paura, l’ansia di non sapere cosa lo aspettasse, o se per l’attesa di scoprire la fonte di tanta bellezza.
Il sole lo accecò al limitare del sentiero, e il cavaliere dovette pararsi il viso con una mano per riuscire a scrutare ciò che quella strada aveva aperto ai suoi occhi.
Inspirò l’aria fresca, profumata, primaverile e studiò l’ambiente.
Un campo, ancora più disteso del precedente, ornato da un tappeto di gigli bianchi. Esso era diviso in due parti, due sponde, da un ruscello: Rowland seguì con lo sguardo il suo letto, ma non ve ne ricavò la fonte, poiché sembrava nascondersi fra cespugli e arbusti di piccola taglia.
Non vi erano alberi di specie grossa, né pini, betulle o castagni, e il cielo sembrava potersi riflettere liberamente in quelle acque del ruscello.
Assetato, decise di approfittarne: avanzò fra i gigli, attento a non rovinarne l’aspetto, e poi si chinò sulla sponda del ruscello. Mentre univa le mani a mo’ di coppa e tentava di raccogliere un sorso di quell’acqua, Rowland poteva udire ancora la melodia.
Portò le mani alle labbra e si dissetò. Acqua limpida e fresca. Si sentì rinato, quasi che tutta quella purezza avesse pervaso anche il suo corpo.
Un fruscio, uno scuotere di foglie richiamò la sua attenzione, costringendolo a sollevare il capo; la mano si rivolse in automatico al pomolo della spada.
Il canto cessò all’improvviso, mentre il rumore divenne sempre più intenso.
Eppure, dal fondo del campo non emerse un nemico, né una creatura da temere.
Un corpo di donna, nudo, dalla pelle candida come la neve avanzava a piccoli passi. E più la sua figura si inoltrava alla luce del sole, più Rowland ne scorgeva i dettagli: all’altezza delle sue ginocchia cadeva una lunga chioma di capelli rossi; su di essi sembrava che vi si fossero posati quegli stessi raggi di sole che illuminavano la radura. E il cavaliere avrebbe potuto capire perché essi avessero preferito risplendere fra le sue chiome piuttosto che nel cielo: ella, chiunque fosse, era la creatura più bella che una mente umana avesse potuto immaginare. Il suo corpo, il suo viso, quei sottili occhi azzurri, e le labbra rosee, dischiuse per la curiosità con cui aveva cominciato a guardare tutti i gigli che la circondavano; tutto sembrava racchiudere un equilibrio e una purezza che nessuna creazione della natura poteva raggiungere.
Rowland aveva letto o udito racconti riguardanti simile creature: vi era chi le chiamava ninfe, chi driadi, ma non avrebbe mai sperato o immaginato di poterne incontrare una un giorno.
Non solo bellezza, ma anche spontaneità e delicatezza erano racchiuse nei suoi gesti mentre raccoglieva uno, due, tre gigli e li utilizzava per adornare i suoi capelli.
Egli la osservava, piegato sulle sue ginocchia, incantato, rapito. E quando la creatura si chinò a guardare gli steli ai quali un attimo prima aveva sottratto i petali, la sua attenzione si fece ancora più grande: con un gesto della mano ella fece riapparire dal nulla esattamente tre fiori di giglio.
Questa magia, questo gesto divino, Rowland non seppe spiegarlo, ma gli ricordò che aveva una missione da compiere, e forse ne aveva trovato la soluzione: così come la creatura aveva ridato la vita ai tre fiori, avrebbe potuto darla agli alberi, alle coltivazioni, ai ruscelli. Avrebbe potuto ridare la vita a Redvale.
Gli sarebbe bastato avvicinarla e portarla con sé. Di nuovo lì fuori, nel gelo della stagione fredda.
Si voltò, per istinto, come se alle sue spalle ci fosse ancora la distesa di neve, e pensò che ella non sarebbe mai sopravvissuta alla presa mortale dell’inverno.
La creatura diede nuovamente inizio al suo canto in quell’attimo e, apparentemente felice per aver ridato la vita a fiori, prese a danzare e muovere le sue braccia, quasi assecondando la melodia articolata dalla sua voce.
E Rowland la guardò, ancora, pensando che uccidere tanta bellezza non avrebbe salvato nessuno. Né l’inverno sarebbe scomparso, né lui, né il suo re avrebbero trovato giovamento da quel dono che qualche divinità aveva voluto concedere al genere umano.
E forse, pensò l’uomo, avrebbe preferito trascorrere l’eternità ricoperto di vergogna e disonore, piuttosto che togliere lo sguardo da quel miracolo di purezza e primavera.
 
   
 
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