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Autore: Cry_Amleto_    17/01/2017    1 recensioni
/Seguito di "Lost Time"/
[Stony!]
Tratto dalla fanfiction:
"Forse avrebbe vinto. O forse no.
Forse sarebbe sopravvissuto. O forse no.
Forse lo avrebbe salvato. O forse no.
L'unica cosa certa, è che aveva bisogno di rivedere colui che aveva perso in quel dannato disastro."
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lost'
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Your touch used to be so kind
Your touch used to give me life
I've waited all this time, I've wasted so much time
(Il tuo tocco era così gentile
Il tuo tocco per me era vita
Ho aspettato per tutto questo tempo, ho sprecato troppo tempo)

Dalle sue labbra sfuggì un rantolo, mentre indietreggiava fino a sbattere rumorosamente e dolorosamente contro il muro, svegliando così il Capitano.

Steve aprì lentamente gli occhi, la fronte aggrottata di chi è stato appena destato controvoglia.
Quando mise a fuoco il profilo di Tony, quando ne riconobbe i grandi scuri occhi, lucidi, alzò di scatto il busto, puntellandosi sui gomiti, e sgranò gli occhi, iniziando a muovere le labbra cercando inutilmente di articolare qualche parola.

«T-Tony...» riuscì infine a sussurrare.

Era lui. Era davvero lui. Era... Tony, il suo Tony, identico all'ultima volta che l'aveva visto. 
La pura gioia che provò in quel momento, gli fece nascere spontaneo un largo sorriso.
Poi però si accorse dello sguardo ferito, distrutto, dell'altro e ripiombò dolorosamente coi piedi per terra. Il suo sguardo si fece via via più dolorosamente colpevole, consapevole di essere egli stesso la causa di quell'inesprimibile dolore che traspariva dagli occhi ambrati dell'altro. Le guance gli si colorarono velocemente di rosso.

Ma Tony... Benché la scena che si era trovato davanti fosse stata un'a dir poco spiacevole sorpresa, non era stata quella a farlo sprofondare in un baratro da cui – ne era convinto – non sarebbe più riuscito a risalire. 
Erano passati tre anni, poteva ben capire che l'altro 'passasse il tempo' con qualcuno: nei suoi panni era improbabile che non avrebbe fatto lo stesso, quindi non poteva certo biasimarlo per quello. 
Ma, oh, quello che lo colpì improvviso e doloroso come un fulmine a ciel sereno, fu lo sguardo di Steve.
Sotto la gioia iniziale e il seguente imbarazzo, di fatto, non aveva scorto quella luce che caratterizzava ogni sguardo che il Capitano a lui solo rivolgeva. Una luce che faceva risplendere le sue iridi come le più affascinanti cave marine, una luce che dava a Tony la speranza che il mondo non fosse così piatto, grigio e prevedibile come sempre aveva creduto.
E lo seppe in quel momento, con assoluta certezza: lo aveva perso.
Lo aveva fatto aspettare troppo a lungo, e Steve lo aveva dimenticato.

Sgusciò via dalla stanza veloce così com'era entrato, richiudendosi delicatamente la porta alle spalle, quasi come se temesse che il minimo rumore potesse spazzar via tutto ciò che rimaneva di lui. 
L'ultima cosa che giunse alle sue orecchie, prima di iniziare a correre il più lontano possibile da lì, furono le parole assonnate, trasudanti affetto, che il Soldato rivolse a quel Capitano che oramai non era più suo.

~o~

Chiamò il barista con un cenno e quello in risposta fece scivolare sul lungo bancone il suo ennesimo Whisky che afferrò prontamente, tracannandolo tutto d'un fiato.

Dopo la fuga frettolosa dalla Tower, aveva vagato per le strade di Manhattan senza alcun obiettivo, lo sguardo vuoto di chi ha perso tutto. Si era fermato solo quando era calata la notte, di fronte ad uno dei tanti bar notturni. Si era lasciato cadere ad uno dei tanti sgabelli di cuoio nero davanti al bancone e aveva iniziato ad ordinare bicchieri su bicchieri di Scotch, senza riuscire a togliersi dalla testa quello sguardo che valeva più di mille parole.
Non c'era più spazio per lui.
Era questa la semplice e crudele verità che Steve gli aveva sbattuto in faccia. 
E si sentì perso, fuori luogo, peggio che morto.

Fece passare lentamente il dito sul bordo doppio del proprio bicchiere di scotch, gli occhi fissi su di esso, con la concentrazione di chi sta compiendo qualche atto d'importanza vitale. La sua mente e il suo sguardo si persero in quel bicchiere, superandone la superficie e sprofondando nel riflesso dei propri occhi lucidi e arrossati. E gli restituì attraverso quello specchio - che rappresentava al tempo stesso la sua unica certezza e il suo più grande peccato - lo sguardo supplicante e devastato di un uomo che chiede aiuto, che chiede una spiegazione, che chiede un risarcimento. Un risarcimento per tutto ciò che quel Portale gli aveva portato via, ossia l'unico futuro a cui avesse mai aspirato, al fianco dell'unica persona che avesse mai amato.  
La sua mano si strinse con vigore quel bicchiere di scotch, concentrando tutta la sua forza in quel piccolo atto, cercando di mettere a tacere quella rabbia che improvvisa prese a scorrergli nelle vene. Solo quando il bicchiere cedette alla sua presa, rompendosi e ferendolo, questa rabbia scivolò via, lasciando dietro di sé un'arida desolazione mai aveva sperimentato con eguale intensità.  
Senza un commento, si tolse lentamente e meticolosamente le schegge di vetro che erano rimaste conficcate nella sua mano. Non badò al barista che, borbottando, gli aveva porto dei fazzoletti, rimanendo per qualche attimo a seguire con lo sguardo le scie vermiglie che avevano preso a solcargli il palmo, come se stesse assistendo al componimento di un quadro dalle buone premesse. 
Poi, lentamente, abbassò la mano e si avviò barcollando verso l'uscita del locale. 
Non fece che pochi passi, oltre l'uscio di quel bar di periferia, che si dovette appoggiare pesantemente contro il lercio muro che dava sull'altrettanto lurido vicolo, per poi riversare tutto il pessimo l'alcool che aveva ingerito. 
Alzando lo sguardo, scorse il luccichio della propria armatura che, ferma davanti a lui, sembrava essere lì pronta per proteggerlo. 
Le sue labbra si aprirono in un largo, mesto sorriso.

«Grazie, F.R.I.D.A.Y.» disse all'AI tramite l'auricolare che indossava continuamente.

«Di nulla, Mr. Stark.» rispose educatamente l'altra.

F.R.I.D.A.Y. , l'AI che aveva sostituito a Jarvis quando quest'ultimo era diventato Visione, era l'unica amica che gli era rimasta, e il fatto che Tony stesso l'avesse costruita con lo scopo di compiacerlo, non migliorava di certo la situazione.

Si fece velocemente avvolgere da questa e in breve si ritrovò a sorvolare Manhattan.
Atterrò poco dopo, difronte alla sua villa a Malibu. Si rifugiò velocemente nel proprio laboratorio, mentre la puzza di chiuso gli aggrediva le narici.
Da quanto tempo non tornava lì... Era dalla separazione con la signorina Potts che non ci metteva più piede, avendo preferito trasferirsi alla Tower.

"E adesso sono di nuovo qui, come all'inizio, al principio di ogni cosa. Come prima di Iron Man, degli Avengers, di Loki, di Ultron, di... Steve."

Con un sorriso mesto dedicato a se stesso, aprì la dispensa di liquori della villa ed iniziò a scolarsi alcune bottiglie senza dar peso alla data di scadenza. 
Terminò solo quando si ritrovò per terra, le tempie che gli martellavano e il volto verdognolo per la nausea. 
Strisciò facendo leva con le braccia fino a raggiungere il bagno. Si arrampicò su per la tazza del water, quasi fosse quella l'unica ancora cui aggrapparsi mentre con il resto del corpo penzolava al di là di un nero baratro.

"Ti ho fatto aspettare troppo
Ho perso troppo tempo. 
O forse il tuo amore era semplicemente troppo per me".

Troppo. Troppo. Troppo.
Troppo tempo.
Troppo amore.
Troppo dolore.
Prima, avrebbe tranquillamente detto che, in un certo senso, se lo meritava, poiché era impossibile trovare in natura qualcuno che fosse sia ricco che felice. 
Prima, avrebbe riso sopra a quella relazione e al mondo in cui era finita, magari, e avrebbe scrollato le spalle indifferente verso chi gli avrebbe chiesto "come stava".
Così era stato con Pepper e con tutti quelli che dicevano di provare affetto per lui, e poi se ne andavano, scomparendo nel nulla, dimenticandosi di lui. Se ne era ormai assuefatto.
O almeno, così era convito fino a quel momento.
Mai, MAI prima di allora si era sentito così Perso, così Vuoto.
Aveva lasciato entrare Steve dove nessuno sapeva neanche l'esistenza di una porta.
Aveva lasciato che Steve gli accarezzasse le Ferite, richiudendole con pochi semplici gesti.
Aveva lasciato che Steve lo pugnalasse alle spalle, che lo uccidesse, che lo dimenticasse.
Era lui stesso la causa del proprio male.

~o~

Erano passati sette giorni. Forse di più.
Aveva telefonato alla Tower ogni giorno, chiedendo che gli fosse affidata qualche missione, qualunque missione, l'importante e che lo traesse in salvo dalla spirale autodistruttiva in cui era scivolato.
Ma niente.
Con vaghe risposte, tutti gli dicevano che era un periodo piatto, che aveva bisogno di riposare "dopo tutto quello che aveva passato" – come se qualcuno ne avesse avuto anche solo una vaga idea –, che all'occorrenza si sarebbero fatti sentire loro... Modi 'gentili' per evitarlo che non fecero che accrescere la sua disperazione e i litri di alcool giù per la propria gola.

Fu infine Fury a rispondere al telefono quel giorno, dopo una lunga attesa, e a dirgli chiaro e tondo che per il momento era meglio che Tony Stark - e con lui Iron Man - restasse morto, che il mondo non era pronto a venire a sapere della sua 'resurrezione' e che, anzi, era meglio che se ne restasse nascosto per un po', avendo meno contatti possibili con gli altri Avengers e con gli altri civili che conosceva. Ed era meglio che per un po' non mettesse più piede nella Tower o fuori dalla villa.

E quello fu il colpo di grazia.

Tony capì di essere morto.
Era morto, perché non era più nessuno.
Non era più Tony Stark, il miliardario filantropo dalla mente geniale.
Non era più Iron Man, l'Avenger che aveva un proprio posto in una vera squadra.
Non era più Tony, in quanto quest'ultimo era morto assassinato da un singolo sguardo.

Guardò il proprio riflesso nel bicchiere di Whisky - suo unico costante compagno in quei solitari giorni – ed incontrò uno sguardo spento, morto, vitreo. Lo sguardo di un cadavere. 
Con esausta lentezza, si alzò dal divano in cui era sprofondato. Si diresse, con lo sguardo ipnotizzato e muovendosi come in sogno, verso il vecchio giradischi nascosto in un angolo del largo salone, costantemente presente ma il più lontano possibile dai suoi occhi.
Rimase per qualche istante immobile, lo sguardo perso oltre la superficie trasparente del coperchio. Con mano tremante lo sollevò. Accarezzò con la punta delle dita la superficie del disco in vinile già al suo posto. Attivò il giradischi e abbassò il braccio metallico.
Restò fermo ad ascoltare il brano blues che la macchina riproduceva per una manciata di minuti, la testa leggermente chinata di lato.
Le note sembrarono avvolgerlo in una mistica spirale, per poi raggiungere ogni remoto angolo della vuota villa, riempiendola.

Quel disco e quel grammofono erano tutto ciò che gli rimaneva dei propri genitori, della propria infanzia.
Il sabato sera, sul tardi, quando il piccolo Anthony – come lo chiamava suo padre – doveva essere già a letto da un pezzo, nel silenzio della loro grande e per lo più vuota casa, rimbombavano le note di quella stessa canzone. Si sentivano i bicchieri di cristallo tintinnare in un brindisi, poi il rumore dei passi del signore e della signora Stark, mentre ballavano al ritmo di quell'avvolgente musica, e in fine la dolce risata della donna e l'altrettanto dolce mormorio dell'uomo. E il piccolo Anthony rimaneva nel suo lettino, ad ascoltare tutti quei singoli rumori, a imprimerseli nella memoria, riuscendo poi a riconoscerli ovunque.

Chiuse brevemente gli occhi, Tony Stark, riuscendo quasi a sentire l'eco lontano di quei suoni. 
Poi li riaprì e un'innata calma mosse i suoi gesti. 
S'inginocchiò davanti al giradischi e mise le mani sotto il mobiletto che lo reggeva, fino a far scontrare le dita contro del duro metallo freddo.
Prese l'oggetto nascosto, e il suo sguardo calmo, vuoto, morto, vitreo, lo percorse da cima a fondo, studiandone ogni dettaglio.
Una piccola pistola semiautomatica.
Controllò che fosse carica, poi tolse la sicura.
Mentre le note del brano sfumavano, chiuse nuovamente gli occhi, sigillando le palpebre.

E vide lo sguardo di Steve, mentre quasi lo implorava di tornare da quel Portale.
Uno sguardo carico di amore, dolore, speranza. L'ultimo sguardo del SUO Capitano.
E vide lo sguardo di Steve, quando finalmente era ritornato a casa.
Uno sguardo felice, sì, ma distaccato, lo sguardo di chi è andato avanti, di chi ha dimenticato.
Sollevò lentamente la pistola, stringendola, ancorandosi a essa e alla sua muta promessa di Fine.
La portò alla tempia.
Una singola, calda lacrima gli rigò il volto immobile.
Poi fece scivolare il dito sul grilletto.

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Okay, okay, okay. È tutto okay. *lacrime copiose le rigano il volto mentre scava con il cucchiaino nel barattolo di Nutella da un chilo ormai vuoto*

Scrivere questo capitolo è stato un dolore fisico e psichico, ma ce l'ho fatta. Più o meno T.T

E con questo... Sayonara. Vado a scavarmi la fossa~~

 
   
 
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