-LoVe Is ThE AnSwEr-
Confuso.
Da quanto
riusciva a ricordare si era sempre sentito così, con la sensazione che il mondo
gli stesse giocando uno scherzo che non era in grado di capire .
Ricordava perfettamente cosa sentiva da bambino, quello strano vuoto all’altezza
del cuore, come se qualcosa gli fosse stato portato via, senza lui che potesse
dare un nome a quella mancanza.
Chiederlo a Temari o Kankuro
era fuori discussione, lo guardavano sempre un po’ spaventati, un po’ confusi,
prima di scappare di corsa fuori con la
scusa che qualcuno li stava chiamando.
Era troppo piccolo per capire di essere stato rifiutato, ma grande
abbastanza per soffrire.
Non capiva perché gli altri bambini lo evitassero e perché i loro
genitori mormorassero al suo passaggio.
Era per i capelli? Per i vestiti?
Per cosa?
Se lo chiedeva nel buio della sua stanza, mentre guardava il soffitto in
quelle lunghe notti senza sonno.
Già.
Lui non dormiva, mai, nemmeno quando era stanco dopo una lunga giornata
di allenamento.
Lui non aveva diritto al beneficio del sonno, ma questo gli altri non
potevano saperlo.
O no?
Si faceva di continuo tante domande che non trovavano risposta, ad
esempio perché i suoi fratelli lo guardassero come se fosse un mostro.
Lui era come tutti gli altri, aveva due braccia, due gambe e un cuore
pulsante come tutti, solo con un dono in più che lo rendeva diverso:la sabbia
La sabbia era un’amica, con la
sabbia si potevano fare tante cose buone come giocare tutti insieme e
all’occorrenza usarla come scudo.
Lui poteva farlo e da piccolo credeva che tutti lo potessero fare allo
stesso modo, ma si era accorto presto che si stava sbagliando.
Non tutti potevano padroneggiarla, se fosse un bene o un male non sapeva
ancora dirlo.
Poi un giorno aveva capito tutto, la verità l’aveva colpito come un fulmine
lasciandolo stordito e senza forze.
La conoscenza non era sempre un dono, a volte era più una maledizione,
che rovinava una vita che avrebbe potuto essere più spensierata ed
inconsapevole.
Una maledizione che gli aveva rubato l’infanzia, troncandola
prematuramente, costruendo un muro intorno ai suoi sentimenti più intimi.
La sabbia non era un’amica, era il segno tangibile che lui era malvagio, un
essere ignobile talmente sbagliato che
sua madre era morta nel darlo alla luce.
Era stata la prima volta che nel suo cervello sua madre si era fatta
sentire con un urlo terribile e prolungato, quello del parto che lo shukaku aveva richiamato dai suoi ricordi per tormentarlo,
come un evocatore di incubi sapiente.
Sua madre era morta maledicendolo perché aveva un demone dentro di sé.
La stessa Suna era colpevole di quel abominio, ma lui
portava la croce più pesante: quella di essere nato.
Era scoppiato a piangere.
Era un demone, ma anche solo un bambino bisognoso di affetto.
Di amore.
Ci aveva provato tante volte a dimostrare che non era cattivo, ma nessuno gli
aveva creduto.
La fiducia non era per i demoni.
Nemmeno Yashamaru gliel’aveva concessa, aveva finto
abilmente per anni aspettando il momento buono per dare sfogo al suo odio.
Se Gaara aveva perso una madre, lui aveva
perso una sorella e con lei se stesso, eppure le sue parole ciclicamente si
ripresentavano nella sua mente quando stava male.
Oh atroce tortura!
-Gaara ricordati che l’unica medicina è l’amore..-
^E allora perché in quindici anni di vita non l’ho
mai assaggiata?^
Tutti lo temevano, anche i suoi fratelli.
Forse l’avevano salvato da Sasori solo perché il paese sarebbe precipitato nel caos
con la sua scomparsa.
Come kazekage.
Di Gaara non importava niente a nessuno, per
lui sarebbe stato meglio non nascere affatto.
Yashamaru non l’aveva ucciso fisicamente, ma era riuscito a ucciderlo nell’anima.
Niente sangue a testimoniarlo, eppure era stato così.
Gaara aveva sanguinato lo stesso e nessuna sabbia avrebbe potuto rimarginare
quella ferita.
Lei odiava il suo nome. Hikaru.
Lo odiava perché l’aveva scelto sua madre e rappresentava un legame con lei, un
legame indesiderato, non voluto, odiato.
Ma poteva chiamare madre una donna che l’aveva abbandonata appena nata, in un
cassonetto insieme ad Hazuki la sua gemella?
Non l’aveva voluta, l’aveva rifiutata come se fosse uno scarto eppure aveva
avuto la sfacciataggine di imporle un
nome. Lei l’aveva semplicemente rifiutato, cancellandolo dalla sua vita come il
marchio di un passato ingombrante, che tuttavia non riusciva ad abbandonarla.
Poteva negarlo quanto voleva, ma era comunque
lì,testimoniato sulla carta d’identità
Da molto tempo si era autobattezzata
con il nome di Meg. Meg Mimichi.
Fingeva di sentirsi una persona nuova, forte, potente ma ogni volta che
guardava indietro al passato poteva sentire sulla pelle ancora adesso lo schifo
di quel cassonetto e l’odore dolciastro e sgradevole dei rifiuti.
A volte si sentiva lei stessa un rifiuto, che nessuno
voleva.
In quella nascita, rifiuto tra i rifiuti, vedeva il suo
destino.
Passato, presente e futuro uniti in un'unica linea.
Hazuki era stata adottata subito da una famiglia di
brave persone, i Fujima, che l’avevano subito
adorata.
Lei aveva aspettato anni in istituto
prima che qualcuno la prendesse con sé, come se fosse un pacco di cui non si
sapesse cosa fare.
Lei era strana anche da piccola, gracile, esangue, con quei capelli neri e
lisci come la notte e gli occhi color miele da vampiro o licantropo.
Anche adesso faceva cose che nessuno riusciva a spiegarsi,
ma era diventata brava a nasconderle, ma da piccola no.
Era qualcosa al di fuori del suo controllo, non riusciva a
impedirsi di far esplodere oggetti e di farli levitare o di sentire i pensieri
degli altri bambini del istituto.
Bambini che avevano
paura di lei e la trattavano come se
fosse un mostro da evitare.
Aveva sempre finto che non gliene importasse nulla, ma
sangue era uscito da tutte quelle ferite e continuava ad uscirne.
Coltelli invisibili piantati nella schiena e il
cartello”deridetemi”appeso al collo
Feriva anche adesso ogni volta che i ricordi bussavano nelle sere nere, quelle
dove la luna non brillava e non la rincuorava.
Era stato il
secondo rifiuto dopo quello di sua madre.
Era stato quello che l’aveva uccisa del tutto.
Poi erano arrivati i Mimichi, ricchi, potenti e con
già una figlia, Emiko di un anno più piccola di lei,
una strana ragazzina che presentava tutte le paturnie dell’adulto.
A volte si chiedeva
se i Mimichi
non l’avessero adottata solo per fare un regalo a Emiko
o per farle avere una guardia del corpo.
La guardia del corpo più affidabile e antica del mondo: la
sorella
A volte odiava pensare, avrebbe solo voluto che per una volta ci fosse solo il
silenzio attorno a lei e il canto antico del vento, che guardava senza
giudicare nessuno.
Gaara odiava tutti, dalla morte di Yashamaru aveva
deciso che se per il mondo era un demone, lo sarebbe diventato davvero.
A volte non si riesce ad opporsi a quello che gli altri vogliono che tu
sia, nemmeno se questo ti uccide dentro.
A volte non si poteva combattere il destino, bisognava solo arrendersi e
morire dentro.
Nessuno aveva mai avuto il coraggio di guardare dentro di lui e vedere
il deserto che si era formato.
Lui era morto.
Respirava, mangiava, sentiva il sole sulla pelle, ma dentro di lui la
sua anima era morta a sette anni in una notte di luna piena.
Uccideva senza pietà per sentirsi vivo nella morte degli altri, di quelli che
l’avevano rifiutato.
Uccideva per vedere quel sangue rosso e caldo che non poteva veder
sgorgare dal suo corpo.
Nessuno osava avvicinarsi a lui,
l’alone di morte lo precedeva.
Kankuro, suo fratello lo evitava come la peste, ma non poteva biasimarlo, il
marionettista era solo un vigliacco come tutti. L’ideogramma che aveva tatuato
in fronte da quella notte, l’unica volta che qualcosa di rosso e vivo era
uscito da lui era la più crudele delle
beffe:significava “amore”.
Era il marchio del suo desiderio, destinato a rimanere per sempre
insoddisfatto.
Si poteva amare un mostro?
E cosa significava “amore”?
Una parola che per lui era rimasta senza senso fino a quel giorno, a quel
combattimento in cui aveva fronteggiato tutto ciò che non era e che non aveva potuto
essere.
Lo schiavo incatenato aveva visto lo schiavo libero.
Naruto Uzumaki era come lui
e, allo stesso tempo, era il suo opposto.
Il sole e la luna si era incontrati nell’eclisse per annunciare
disgrazie, un futuro che avrebbe portato solo dolore.
Gaara aveva sempre usato il demone per uccidere e
vendicarsi,Naruto per proteggere le persone a cui
voleva bene: Sasuke e Sakura.
Gaara era stato sconvolto dal esito di quello
scontro.
L’amore aveva vinto sull’odio.
Lui aveva perso per la prima volta.
Da quel giorno trattò meglio i suoi fratelli, non che avesse vinto la sua
diffidenza verso il mondo,la nascondeva solo meglio.
Ne era stato obbligato.
Un kazekage non doveva essere misantropo, altre catene lo avevano
imprigionato e ancora una volta non si era opposto.
Tuttavia la luna era ancora dentro di lui e nelle notte più nere si faceva
sentire con visioni, incubi ed allucinazioni che lo lasciavano tremante e
spaventato.
Sua madre attendeva ancora la sua vendetta, in una angolo della sua anima
tormentata, sogghignando e deridendolo crudelmente.
Ma come poteva un kazekage distruggere il suo stesso
villaggio?
^Mamma, cerca di riposare in pace. Per favore!^
Supplicava invano quella voce dentro di lui.
Il pensiero l’avrebbe portato alla morte o alla completa pazzia.
Lui avrebbe voluto ascoltare solo il silenzio almeno una volta nella sua
vita.
L’assenza liberatoria e consolatrice di qualsiasi rumore.
Ma l’unica amara certezza che aveva era che l’avrebbe provato solo nella
morte.
L’altra parte dell’esistenza, quella buia e silenziosa che lui aveva
generosamente elargito a chiunque lo avesse disturbato.
Camminava sulla
spiaggia, a piedi nudi, con le scarpe in mano godendo del contatto con la
sabbia fredda e umida.
Amava sentire la sabbia morbida sotto di se, era come una di quella carezze che
non aveva mai ricevuto.
La confortava e al
momento Meg ne aveva bisogno, un fottuto bisogno.
Era a pezzi, tanto per cambiare, con il
cuore infranto.
Morta
Neji
Hyuga l’aveva distrutta, uccidendola un'altra volta,
privandola di altro sangue, di altra vita.
Le aveva rubato l’anima e non voleva più restituirgliela, o forse no, quando
l’aveva tradita gliel’aveva ridata.
In fondo a nessuno serviva l’anima di una come lei, un’
anima lacerata che non conosceva la felicità solo dolore.
Fottuto dolore.
Senza anima non sentirebbe tanto dolore.
Era come se l’avessero pugnalata al cuore, il cuore che credeva di non avere più.
Quello che non gioiva mai, ma che il dolore lo conosceva come un vecchio amico
Aveva subito un altro rifiuto, uno della lunga seria che aveva contraddistinto
la sua vita, come se davvero nessuno fosse interessato a una piccola orfana che
sembrava un vampiro.
Come se lei non fosse altro che un inutile e patetico
tentativo di essere umano che nessuno voleva accollarsi, forse lei era davvero
solo un mostro…
-Sei solo un mostro Mimichi. Stare con te era come
stare con un frigorifero!-
Le parole di Neji le rimbalzavano in testa, come una
palla impazzita, distruggendo anni di illusioni.
Anni passati a cercare di convincersi che lei era come
tutti, che avrebbe avuto una vita piena d’amore.
Mostro...
Come lo era in istituto quando i bicchieri esplodevano o i
lampadari lampeggiavano al suo passaggio, ma lei non voleva che accadesse!
Lei non voleva ferire nessuno, eppure quanti bambini erano
finiti in infermeria per quel dono sgradito che aveva?
Troppi e lei non aveva finito per perdere la credibilità,
le sue scuse non avevano valso più nulla per nessuno.
Erano aria e lei era il fantasma che le produceva.
Perché esisteva?
A volte invidiava da morire Hazuki, lei era più
povera, non aveva una grande villa, ma aveva una grande famiglia che l’amava,
la proteggeva e l’accettava per quello che era.
I suoi genitori adottivi conoscevano i suoi pregi e ne
gioivano, ma allo stesso modo non la crocifiggevano per i suoi difetti.
Aveva un luogo a cui appartiene, cui tornare ogni
qualvolta ne avesse avuto bisogno e in
cui si sarebbe sentita al sicuro perché quel luogo era casa sua.
Era il luogo pieno d’amore a cui l’altra metà di sé aveva
avuto diritto.
Lei aveva solo un grande vuoto dentro di sé, che minacciava di inghiottirla da
sempre.
E in quella notte , sotto quella luna grande e bianca che la guardava come un
enorme occhio forse ce l’aveva fatta.
Meg era morta, ma nessuno era invitato al suo funerale
perché tutti avevano contribuito a
piantare un coltello dentro di lei e la pietà le aveva risparmiato l’ultima
umiliazione.
Non sarebbe riuscita a sopportare di vedere i suoi carnefici
piangere sul suo cadavere.
Gaara amava guardare la luna, era una delle poche cose che aveva sempre amato
fin da piccolo, il demone dentro di sé lo esigeva e anche sua madre.
Era paradossale, ma lui desiderava avere un rapporto con quella che non
era altro che una parte di se stesso, che gli parlava sotto le mentite spoglie
della madre defunta, desiderava sentirsi amato.
Si illudeva che se un’allucinazione l’avesse amato e approvato tutto
sarebbe andato bene e non aveva il coraggio per ammettere che era per quel
desiderio perverso che tutto era andato a rotoli.
Puoi davvero soddisfare un demone senza perdere la tua anima?
Come si può desiderare di amare qualcuno quando si ha metà dell’anima
corrotta da un’allucinazione talmente potente da essere viva pur non esistendo?
Si può amare?
Erano le domande senza risposta che gli si ponevano da sempre e che da
sempre rimanevano insolute.
Non aveva nessuno a cui porle solo la luna sembrava parlargli ogni tanto e
condividere con lui un’esistenza passata a guardare senza poter intervenire in
nessun caso.
Erano due condannati che si parlavano in silenzio in una lingua che
nessuno poteva capire tranne loro.
Quella sera era alta nel cielo, piena e luminosa.
Soddisfatta di sé come una donna dopo un appuntamento,si rifletteva nel
mare irradiando la sua felicità attraverso quella luce chiara e cristallina che
lo accarezzava compassionevole.
Era arrivato in spiaggia senza neanche accorgersene, trascinato dai suoi
demoni che si risvegliavano crudeli la notte per corroderlo lentamente con le
loro risate stridule e i loro quesiti.
Lui la notte camminava per ore, non avendo
diritto nemmeno al beneficio del riposo per il timore che il demone prenda possesso di lui.
Niente premi per Gaara, li avrebbe avuti tutti
a fine corsa, che sarebbe arrivata presto perché quelli che lui non vivevano a
lungo, erano come meteore violente che incendiavano tutto.
Q uella sera si sentiva più giù
del solito. Temari aveva preso il sole tutto il giorno e poi le sera
era andata a ballare decisa a godersi fino in fondo quella breve vacanza
lontano dal deserto di Sunagakure. Kankuro invece si era divertito tutto il giorno a insidiare
le ragazze in bikini , per crollare stanco morto la notte.
Lui si era sentito invisibile, ma quella era la sua famiglia, non poteva
cambiarla, solo sopportarla.
Insh’allah Baby.
Il vecchio dolore al cuore era tornato a
fargli visita quella notte, forte, continuato come un principio di infarto.
-Fammi morire- aveva supplicato quel dio che non l’aveva ascoltato per
una vita intera -Da pace a me e al mio demone. Ti supplico.-
-L’unica medicina è l’ amore-era tutto ciò che gli era stato risposto da un
ricordo beffardo , di quando ancora credeva che avrebbe potuto essere felice.
^Yashamaru sei un bugiardo!^
Avrebbe voluto gridarlo, avrebbe voluto scuotere quel ennesimo fantasma
infingardo, ma non aveva potuto.
Non era prevista pace per lui.
Sentì dei deboli singhiozzi all’improvviso, come quelli di un animale ferito,
ma così tenui da sembrare la voce del vento.
Gaara si guardò attorno spaesato, non c’era nessuno,
si era sbagliato…
Poco dopo li sentì di nuovo, inarcò un sopracciglio e decise di salire su una
duna per avere una visuale migliore e capire da dove provenissero e se ci
fossero davvero.
La vide, era una ragazza che stava
piangendo di fronte al mare, completamente sola.
I lunghi capelli neri le cadevano disordinati sulla schiena scossa dai
singhiozzi,rannicchiata a terra in posizione fetale, inerme coma una bambina o
come una persona che era stanca di essere presa a calci dalla vita e di dover
sempre trovare la forza di rialzarsi.
Avrebbe voluto andarsene,il dolore lo metteva a disagio ma non ci riuscì, era
come trattenuta da una forza invisibile e potente che lo portava a scrutarla in
ogni minimo dettaglio, dai capelli serici, alla pelle eburnea che contrastava
con il rosso del vestito.
Quella ragazza in qualche modo gli sembrò così simile a lui da
spaventarlo, era come aver ritrovato una parte di sé che non sapeva nemmeno di
avere perso.
Non seppe mia dire perché lo fece, ma si avvicinò lentamente a lei, pregando il
solito dio crudele che non lo respingesse.
Non sarebbe sopravvissuto .
Non questa volta
Meg piangeva, le lacrime scendevano piano come serpenti
neri dai suoi occhi, lasciando tracce sulle sue guance pallide per poi cadere
sulla sabbia che le accoglieva materna nel suo ventre.
Non ricordava quando era stata l’ultima volta che l’avesse
fatto, il pianto era per i deboli e lei non lo era, ma quella sera non era riuscita a resistere, la maschera si era
scollata per mostrare almeno una volta il suo vero volto e ora giaceva in parte
da lei.
Avrebbe potuto rimettersela o almeno guardarla, ma non ne
aveva la forza, i suoi fantasmi esigevano il loro tributo di dolore .
Si era accasciata a
terra e si sfogata, tanto non c’era nessuno che avrebbe potuto compatirla o
testimoniare che fosse accaduto.
Si sorride in compagnia e si piange da soli, così va il
mondo.
Non si accorse nemmeno che qualcuno si stava avvicinando lentamente come se
temesse di veder svanire quello spettacolo raro.
“Tutto bene?”
Alzò la testa sorpresa, avrebbe potuto allungare la mano e rimettersi la
maschera della donna forte,ma ora quella corazza le sembrava troppo lontana e
difficile da raggiungere.
Un ragazzo la stava
guardando: aveva i capelli rossi e gli occhi chiari cerchiati di nero, sembrava
non dormisse da secoli.
Pensò per un attimo al suo trucco, il mascara doveva essere colato
completamente nel diluvio di poco prima, ma non le importava, il dolore
anestetizzava.
Il ragazzo si chinò e la guardò dritta nei suoi occhi dorati, cerchiati di nero
come quelli di Pierrot.
Non seppe cosa la spinse a farlo, ma gli buttò le braccia al collo e
l’abbracciò, forte, come se lui avesse potuto salvarla da tutti i suoi incubi
semplicemente rimanendo lì a sorreggerla.
Lui esitò,forse sorpreso,
ma alla fine ricambiò l’abbraccio
seppellendo la sua testa rossa nel nero dei suoi capelli.
Con lui Meg si sentì al sicuro, per un motivo indefinito lo sentì stranamente
simile a lei, molto più simile di quanto non fosse Hazuki,
la persone più importante della sua vita.
Era una bella sensazione trovare un anima così simile alla sua, se avesse
potuto non si sarebbe mai staccata da lui e l’avrebbe tenuto a sé per sempre.
Gaara si era avvicinato alla ragazza per vedere come stava.
Non si sarebbe mai aspettato un
abbraccio, ma stranamente la cosa non gli dispiacque, vista la sua riluttanza al contatto fisico.
Un’infanzia senza affetto era una maledizione che non perdonava.
Lui ricambiò e si rese conto che
ci sarebbe rimasto per sempre seppellito in quei capelli neri che lo
proteggevano dal modo esterno ed erano stati in grado di far tacere sua madre.
Lei doveva essere disperata, in quegli occhi di miele ipnotici lesse il suo stesso dolore, lo stesso desiderio di
avere qualcuno accanto.
Grandi occhi dorati colmi di lacrime antiche che avrebbe voluto
asciugare fin dall’inizio e di cui avrebbe voluto estirpare la causa.
Si sentì bene, in pace con sé stesso, mentre godeva con lei la melodia del
silenzio, interrotta solo a tratti dal rumore della risacca, fino
a che non arrivò lui. Il solito dolore al petto.
La sua maledizione da sempre, quel vuoto che non si colmava mai.
Doveva farle una domanda se voleva calmarlo, quella che lo
tormentava da una vita.
“Sono un demone non ti faccio paura?”
Lei si sciolse dal abbraccio e sorrise, un lampo di luce su quella faccia
bianca.
“Forse i demoni sono meglio degli uomini..”
Si tirò in piedi e sorrise di nuovo.
“Grazie ragazzo –demone!”
Fece qualche passo, poi si girò.
“Io mi chiamo Meg Mimichi…”.
Gaara sorrise.
-L’unica medicina è l’amore-
E per la prima volta, mentre Meg lo baciava pensò che forse Yashamaru
non aveva avuto tutti i torti.
Passarono anni da quel incontro, da quel bacio.
Anni scanditi da guerre.
Da lutti.
Da battaglie per farsi accettare, perché loro erano i pazzi.
Quelli che si amavano follemente pur avendo due demoni in corpo.
Quelli che non riuscivano a stare lontani, nemmeno se si mollavano.
Ma dopo anni, in un’altra notte di luna piena, su quella stessa spiaggia,
con Naruto e Hinata come
testimoni i pazzi si sposarono, facendo trovare pace ai loro demoni.
L’indomani sarebbe stato l’inferno, ma quella notte, come quella del
loro primo incontro era solo loro e di nessun altro.
Perché li avevano trovato la loro medicina e quel anello ne sarebbe
stato il simbolo.
Fino alla fine.
ANGOLO
DI LAYLA
Per il compleanno
della mia socia J, spero ti piaccia e che Meg sia…soddisfacente
XD.
Alla prossima^_^.