Cinque
giorni. Tanto erano durate le ricerche di Sherlock nella speranza di riuscire a
ottenere informazioni sul possibile assassino del giudice Walker. Sebbene
avesse raccolto una moltitudine di informazioni, nonostante il suo cervello
avesse srotolato quantità impensabili di possibilità, dopo cinque giorni si era
trovato ad avere fra le mani un nulla di fatto. L’omicidio del giudice gli era
parso fin da subito qualcosa di comprensibile; era convinto sarebbe giunto alla
soluzione corretta in breve tempo, eppure così non era stato. Il suo primo
sospettato, ovvero qualcuno vicino a Darrell Scott
era stato un sonoro buco nell’acqua. Scott era praticamente solo al mondo e
benché Sherlock avesse fatto il possibile per trovare dei legami fra lui e
altre persone al di fuori della prigione, non aveva ottenuto nulla. Perfino la
sua infallibile rete di senzatetto non gli aveva fornito risposte, il che diede
all’uomo la sicurezza sufficiente per convincersi del fatto che, con tutta
probabilità, il nome di Scott poteva venir depennato.
Eliminato
il più probabile degli indiziati il detective aveva quindi spostato le sue
ricerche sugli altri nomi che aveva a disposizione. Tuttavia anche gli altri
sei indiziati avevano smontato le sue teorie come ghiaccio al sole. Pareva che
nessuno di loro potesse essere adeguatamente sospettabile, molti, oltretutto,
avevano alibi così di ferro da rendere intoccabili
se stessi e i famigliari dei gradi più lontani pensabili.
Nel
pomeriggio del sesto giorno di indagini inconcludenti Sherlock era seduto alla
sua poltrona, al 221B di Baker Street, come ogni pomeriggio prima di quello.
Era di umore intrattabile da ormai due giorni e quella mattina aveva sollevato
la soglia dell’indagine da uno a due cerotti alla nicotina. Per qualche motivo che sfuggiva a tutti
quelli vicini al detective, quella ricerca lo stava perseguitando. Per quanto
fosse convinto che le modalità con cui Walker era stato assassinato fossero
solamente un richiamo all’operato di Jim Moriarty,
una parte di lui non si dava pace. Voleva
sapere chi c’era dietro a quell’omicidio, a costo di perdere il sonno per altri
giorni interi.
Ricominciò
a leggere mentalmente tutte le informazioni che aveva raccolto per l’ennesima
volta, scorse ogni indizio in cerca di qualcosa che potesse essergli sfuggito,
ma nulla cambiava.
Frenò
il suo cervello di colpo appena sentì dei passi farsi strada lungo le scale.
Riconobbe lo scricchiolio tipico del settimo gradino della rampa. Puntò
istintivamente gli occhi all’ingresso dell’appartamento che, una volta aperto,
permise all’ispettore Lestrade di entrare nel soggiorno. I due uomini si
guardarono.
«Non
sei occupato, vero?» chiese l’ispettore, una leggera nota sarcastica nella
voce.
«Cosa
vuoi?» replicò Sherlock, senza scomporsi.
Lestrade
sollevò le sopracciglia con fare infastidito. «Bel modo di accogliere gli
amici.»
Sherlock
era pronto a replicare, ricordando a Lestrade che i suoi amici erano un numero
molto ridotto e che, con tutta probabilità, lui non era fra loro, quando vide
l’uomo estrarre dalla tasca del cappotto un pacchetto di sigarette. Focalizzò
la sua attenzione su quelle; l’improvvisa voglia di nicotina lo aggredì, al
punto che l’inutilità dei cerotti divenne palese come non mai.
«Posso?»
chiese Lestrade indicando la poltrona di Watson.
Sherlock
gli diede il via libera con un gesto e si mise a fissare con intensità la
sigaretta appena presa in mano dall’ispettore. Lestrade osservò il detective di
rimando, capendo che aveva il permesso – oltre alla benedizione – di portare
una ventata di fumo malsano nel piccolo soggiorno.
Per
qualche minuto nessuno disse nulla. L’ispettore inspirava ed espirava lunghe
boccate dalla sigaretta, sentendosi in pace almeno per quei brevi istanti;
Sherlock, di fronte a lui, si inebriava il più possibile dell’odore acre che
saliva lento nella stanza e si mescolava all’ossigeno presente.
«Sei
qui per darmi qualche notizia che reputi “brutta”, lo so. Perciò fossi in te mi
toglierei il dente subito» lo incalzò poi il detective, dopo essersi assuefatto
a sufficienza al fumo argenteo espirato dall’altro.
Lestrade
diede un colpetto alla sigaretta e guardò la cenere cadere.
«Lo
hai capito dalla sigaretta?» chiese, retorico. Sherlock, infatti, non gli
rispose e l’uomo riprese a parlare: «Dove hai messo Emily?» domandò, cambiando
completamente argomento.
I
muscoli facciali di Sherlock si tesero impercettibilmente, irritati. Non
sopportava che si girasse intorno all’argomento apposta, specie se per farlo si
tirava in ballo una questione di cui gli importava poco.
«È
in facoltà, ha iniziato a seguire le lezioni per il master questa settimana.
Fossi in te cercherei di sopprimere il prima possibile ogni eventuale desiderio
di approfondire la conoscenza con quella ragazza, se capisci a cosa mi sto
riferendo.»
Lestrade
aggrottò la fronte a quelle parole. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma
prima di farlo scosse la testa con fare incredulo.
«Sherlock,
ha venticinque anni. Non mi passerebbe neanche per la mente di “approfondire la
conoscenza”» disse, facendo segno di virgolette in aria. «Ti ho chiesto dov’è
semplicemente perché mi è simpatica e perché non sarebbe stato male avere davanti
qualcuno di socievole almeno per una volta, visto che non c’è neanche John.
Credevo fossi più intelligente.»
Sherlock
ignorò completamente le parole dell’ispettore. Si limitò a fissarlo
infastidito, senza replicare. Lestrade, allora, prese l’ultima boccata dalla
sua sigaretta e decise di accontentare il detective.
«Non
hai scoperto nulla su Walker?» domandò.
Sherlock
si sentì ulteriormente irritato da quelle parole. C’era della provocazione
nella voce di Lestrade, non molta, ma sufficiente per farlo sentire
improvvisamente un incapace. Non aveva scoperto molto, era vero, ma con che
coraggio quell’uomo si presentava in casa sua per metterlo all’angolo a quel
modo? Lo guardò per un lungo momento, austero. Lestrade, però, non si scompose.
«Non
ho finito di indagare» disse infine Sherlock, gelido.
«Oh,
non ne dubito. Ma questa volta mi permetto di dirti che certamente potresti
impiegare ancora parecchio tempo.»
«Come
fai a dirlo?»
L’ispettore
si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe dirti che questa volta ti ho battuto,
ma non ho tutto il merito.»
«Vieni
al dunque» lo incalzò il detective, confermando a Lestrade di essere
particolarmente intrattabile.
«L’assassino
ha confessato.»
Sherlock
si bloccò di colpo, fissando Lestrade. Nella sua testa qualcosa gli diceva che
non poteva essere possibile.
«Chi
ha confessato?»
«Un
certo Erik Horvat, un croato che vive qui da un pezzo.»
Il
detective si esternò dalla conversazione. Tornò con la mente all’elenco dei
nomi raccolti in quei cinque giorni, li rilesse tutti, senza alcuna eccezione.
Fra quell’elenco di nomi, fra tutte quelle persone che lui aveva considerato
sospettabili poiché vicine a ognuno dei sette indiziati per l’omicidio di
Walker nessun Horvat figurava.
«Per
quale motivo lo avrebbe fatto?» chiese poi a Lestrade, nella speranza di capire
qualcosa di più. Non gli sembrava possibile, si rifiutava di credere che
davvero qualcuno di cui lui non conosceva neanche l’esistenza avesse commesso
un simile omicidio.
«Conti
in sospeso. Abbiamo indagato un po’ sui retroscena della vita del giudice. A
quanto pare era molto bravo a tenere nascosto a tutti che aveva un giro di
prestiti in nero. Pare che Horvat si fosse invischiato per bene in un grosso
debito e non riuscisse più a ripagarlo. Droga e gioco d’azzardo. Al nuovo
sollecito di Walker il croato ha pensato di ucciderlo» gli spiegò Lestrade.
Nuovamente
Sherlock si rifiutò di credere a quella storia. Nei suoi brevi contatti con il
giudice aveva avuto modo di capire che non era un uomo totalmente onesto, ma la
cosa non gli era mai importata più di tanto. No, in quel caso non era il
traffico illegale di soldi del giudice a innervosirlo, ma il fatto che fosse
entrato in gioco qualcuno che lui non aveva previsto nonostante, come suo
solito, avesse tenuto conto di una moltitudine di scenari.
«Sei
venuto fin qui solo per dirmi questo, quindi. Per farmi vedere che, una volta
tanto, Scotland Yard è riuscita a concludere qualcosa» disse Sherlock
all’improvviso, il fastidio palpabile nella voce.
Lestrade
lo guardò, più sorpreso del solito. «Non sei di buon umore, vedo. Non sono
venuto qui per questo, sono venuto qui per chiederti di venire con me in
centrale per interrogare Horvat.»
Il
detective sollevò un sopracciglio. «Perché dovrei? Ha confessato, no?
Sbattetelo in cella e prendetevi il merito.»
L’ispettore
sospirò, prese quanta più forza possibile preparandosi a dire una cosa che non
avrebbe voluto dover dire: «È stato troppo semplice, Sherlock. Pensala come
vuoi ma io non credo alla storia di quell’uomo. Forse trascorro troppo tempo
insieme a te, ma credo che se lo arrestiamo, sbagliamo. In centrale cominciano
già a pensare che io sia pazzo e venendo qui ti dico subito che non sto facendo
altro che alimentare le loro credenze.»
«Allora
non dovevi venire. Se quell’uomo ha confessato c’è poco che possa fare.»
«Vieni
almeno a parlare con lui. Ti basterebbe guardarlo per capire se mente o no.»
Sherlock
si alzò dalla sua poltrona, improvvisamente irritato. Non c’era niente di
positivo in quella giornata, assolutamente niente. Raggiunse la porta
dell’appartamento, l’aprì e fece segno a Lestrade di andarsene.
«Non
ho nessuna intenzione di venire con te» scandì accuratamente. «Se avete
arrestato il reo confesso, per quanto mi riguarda, il caso è chiuso» concluse,
rinnovando l’invito ad andarsene.
L’ispettore
lo guardò a lungo, senza muoversi di un millimetro. Non credeva a Sherlock. La
sua irritazione crescente mano a mano che lui gli raccontava come era evoluta
la situazione era il chiaro segnale che il detective si era lambiccato il
cervello inutilmente per giorni e che la cosa lo innervosiva.
I
due uomini rimasero a osservarsi a lungo, entrambi seri, entrambi
imperscrutabili. Fra loro si sollevò un silenzio ostinato, che venne interrotto
dalla porta d’ingresso del 221B. Sentirono la chiave girare nella serratura, la
porta venire aperta e le voci di Emily e John riempire lo spazio, un gradino
alla volta, fino al soggiorno. Sherlock teneva ancora la porta aperta quando
Emily raggiunse il pianerottolo; osservò confusa il detective e lo ringraziò,
dopodiché entrò nel soggiorno e sorrise all’ispettore, salutandolo. John entrò
dietro di lei e salutò a sua volta Lestrade.
«Che
succede?» volle informarsi John.
«L’ispettore
se ne stava andando» rispose Sherlock.
Lestrade
si alzò. «Abbiamo preso l’assassino di Walker.»
«Davvero?»
chiese Emily.
«Sì,
esatto. Ho chiesto a Sherlock di venire con me per interrogarlo, ma pare non sia
in una buona giornata.»
John
e la ragazza si voltarono verso di lui, il quale sbuffò un po’ d’aria senza
replicare.
«Perché
non vuoi interrogarlo?» domandò John.
«Perché
ha confessato. C’è veramente bisogno di porre altre domande a qualcuno che ha
già detto tutto?»
Emily
si rivolse a Lestrade: «Chi è stato?»
«Un
certo Erik Horvat.»
La
ragazza si voltò verso Sherlock; si accorse che l’uomo la stava già guardando e
lesse nei suoi occhi il suo stesso pensiero. Lei era stata accanto al detective
mentre raccoglieva informazioni e tesseva indagini; la parete alle spalle del
divano si era riempita poco a poco di indiziati e sospetti, ma nessun Erik
Horvat vi figurava. Si era confrontata con Sherlock in più occasioni nell’arco
di quei cinque giorni, scoprendo con sua grande sorpresa che, più volte, il
detective aveva considerato le sue osservazioni interessanti – benché lui ci fosse
sempre arrivato svariati minuti prima di lei – eppure, entrambi, avevano
sbagliato. C’era qualcosa di sospetto in quel risvolto e lei era certa che
fosse sospetto anche per Sherlock. Eppure non capiva per quale motivo, ora, lui
si rifiutasse di andare più a fondo nella faccenda.
«Cos’ha
detto esattamente questo Horvat
quando è venuto a confessarsi?» domandò infine, sempre rivolta all’ispettore.
Lestrade,
non aspettandosi quella domanda, rispose in modo incerto, incuriosito, e non
riuscì a notare l’improvviso bagliore d’interesse che si riaccese negli occhi
di Sherlock. Lo notò John, invece.
«Gli
ha appena chiesto quello che volevi sapere tu, vero?» gli domandò quest’ultimo,
indicando in direzione di Lestrade. «Se ti premeva tanto sapere la risposta
perché non glielo hai chiesto tu?»
Sherlock
lo guardò. Sollevò le sopracciglia con fare sorpreso. «Oh andiamo, John. Non
sono il tipo da perdere l’occasione di mettere in ridicolo per l’ennesima volta
Scotland Yard solo perché non ho voglia di porre una domanda a Gavin.»
«No,
invece sei proprio il tipo» replicò il medico, guardandolo di traverso.
L’ispettore
non si scompose per l’ennesima storpiatura del proprio nome, ma rimase fermo a
osservare gli altri uomini. Emily, invece, si sbottonò il cappotto e fece per
sfilarselo quando Sherlock la bloccò: «Non toglierlo, Emi, dobbiamo uscire.»
Lei
lo guardò, senza capire. Indicò dietro di sé con il pollice dicendo: «Sherlock
sono appena tornata a casa. Ho bisogno di andare in bagno.»
Il
detective afferrò il suo cappotto scuro e lo infilò. «Alla centrale di polizia
hanno i servizi igienici, puoi usare i loro. John, anche tu sei dei nostri,
ovviamente. Muoviamoci ispettore» concluse, facendo un cenno a Lestrade. Questi
guardò gli altri due confuso, scosse la testa e borbottò sarcastico: «Quindi
adesso viene. Grandioso.»
I
quattro scesero in strada, dove ad attenderli c’era la berlina dell’ispettore.
Montarono tutti in auto, diretti verso la stazione di polizia.
Una
volta giunti all’edificio entrarono e seguirono Lestrade lungo i corridoi più
interni. L’ispettore fece loro strada con passo sicuro e Emily non poté fare a
meno di notare le occhiate che le persone lanciavano nella loro direzione,
sicuramente per via di Sherlock. Da quando aveva scoperto dell’esistenza di
quell’uomo e da quando aveva cominciato a interessarsi a lui, la ragazza non
aveva potuto fare a meno di sospettare che per molti l’alta figura del
detective – o consulente investigativo, per usare le sue parole – non poteva
essere vista di buon occhio da tutti. Sherlock aveva la capacità di riuscire
dove gli altri fallivano e questo, con il tempo, lo aveva portato a rendersi
sgradito a molti, proprio come dimostravano le occhiate che continuavano a
lanciargli. Tuttavia per qualche curioso e apprezzabile motivo ciò non valeva
per Lestrade.
L’ispettore
aprì un’altra porta e raggiunse una donna dalla carnagione mulatta e dagli
indomabili capelli scuri.
«Non
mi dica che lo ha portato qui per interrogare Horvat. Ha confessato, non
abbiamo bisogno di lui» disse la donna, indicando irritata verso Sherlock. «E
poi, cos’è? Ti sei portato dietro la scorta, chi è la ragazzina?»
Emily
la guardò, impassibile. Non avrebbe stretto la mano a quella donna; le era
bastato veramente poco per capire che non sarebbe stata mai ben vista da lei
solo per via del suo legame con il detective.
«Donovan,
per favore. Ho le mie ragioni per averlo portato qui» replicò secco
l’ispettore. Scostò la donna e riprese a camminare lungo il corridoio,
fermandosi poco prima della fine di esso. Davanti a loro un’ampia vetrata dava su una
stanza piccola, grigia e spoglia. Dentro, seduto dietro un tavolino, un uomo li
stava osservando. Lestrade lo indicò oltre il vetro. «Vi presento Erik Horvat,
a quanto pare l’assassino di Walker.»
Sherlock,
John e Emily lo osservarono, mentre Horvat ancora rispondeva al loro sguardo.
«Se
vuoi entrare è tutto tuo. Dieci minuti dovrebbero bastarti» disse al detective
l’ispettore.
«Sono
anche troppi. John e Emi vengono con me» rispose Sherlock, senza guardare il
suo interlocutore.
«Cosa?
No. Non è un’amichevole rimpatriata, Sherlock, non possono entrare tutti.»
«Ho
bisogno che ci siano entrambi» replicò l’altro calmo.
John
guardò un momento Emily, cosa che fece immediatamente anche Lestrade. La
ragazza era certa di porsi la loro stessa domanda, ovvero cosa potesse
c’entrare lei in quella faccenda. Si sentiva lusingata di sapere che Sherlock
la voleva, ma non riusciva a spiegarsi bene perché. Il detective rimaneva
ancora un mistero, una delle persone che stava impiegando più tempo di tanti
altri per riuscire a comprendere, anche solo nei tratti più rilevanti.
Lestrade
sospirò, arreso. «D’accordo, entrate tutti, allora.»
Sherlock
aprì la porta appena ebbe il via libera ed entrò nella stanza, seguito da John
ed Emily. Dentro Horvat continuava a fissarlo, serio; lo seguì con lo sguardo
mentre prendeva posto nella sedia libera davanti a lui, dopodiché incrociò le
braccia e fece un cenno in direzione dell’unica ragazza presente.
«Lei
mi piace molto» disse.
Sherlock
lo guardò, serio. Portò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani. «Ti posso
garantire che non ha alcuna voglia di condividere dell’LSD insieme a te.»
Horvat
rise. «Sei bravo, davvero.»
«Parlando
di cose serie. Tu, quindi, avresti ucciso il giudice Walker.»
«Sì,
infatti.»
«E
hai confessato.»
Horvat
annuì semplicemente, senza staccare gli occhi dal detective.
«Perché
lo avresti fatto?» domandò poi Sherlock, abbassando la voce.
L’altro
si strinse nelle spalle. «Ero pieno di debiti con lui. Non sapevo come
restituirgli i soldi e mi aveva detto che se non li avesse rivisti entro fine
mese avrebbe chiamato la polizia.»
«Mi
riferivo al perché hai confessato di averlo ucciso.»
Le
ultime parole di Sherlock presero alla sprovvista Horvat; tuttavia si ricompose
in fretta e rispose: «Oh, beh. Non è che goda di buona fama fuori da qui.»
«E
passare un po’ di anni in prigione ti garantisce protezione, certo.»
«Finché
sono qui dentro tutti quelli con cui ho conti in sospeso non possono farmi
molto.»
«Una
logica stringente, lo ammetto. Hai avuto questa idea solo dopo aver ucciso
Walker?»
Horvat
annuì.
«Ucciso
con il botulino» mormorò Sherlock
«Proprio
così» si limitò a dire l’altro.
Sherlock
si appoggiò allo schienale della sedia, inspirando. Lanciò un’ultima occhiata
all’indagato, infine si alzò, sistemandosi il cappotto. Si voltò verso gli
altri due e sentenziò: «Abbiamo finito» dopodiché uscì dalla stanza con loro al
seguito. Una volta fuori, oltre il vetro, Horvat continuava a fissarli.
«Ci
hai messo solo due minuti» gli fece notare Lestrade appena Sherlock si fu
chiuso la porta alle spalle.
«Te
lo avevo detto che dieci erano troppi.»
L’ispettore
guardò Horvat, poi tornò a rivolgersi agli altri: «Andiamo nel mio ufficio»
disse, cominciando a fare loro strada.
L’ufficio
di Lestrade era silenzioso e cominciava a essere avvolto dalla penombra. Dentro
John ed Emily avevano preso posto sulle sedie disposte di fronte alla scrivania
dell’ispettore, alle loro spalle Sherlock camminava avanti e indietro, come un
leone in gabbia. L’ultimo a entrare fu proprio Lestrade, una tazza di caffè
fumante in mano. La porse a Emily quando le passò accanto e lei lo ringraziò
mentre l’uomo andava a sedersi al suo posto e si appoggiava allo schienale
della sedia.
«Quindi,
Sherlock, cosa mi puoi dire di Horvat?» chiese poi, di punto in bianco.
Il
detective si fermò di colpo, il cappotto lo avvolse. «Mente, ecco cosa posso
dirti.»
Lestrade
si sentì leggermente sollevato al suono di quelle parole, ma anche se avesse
voluto non lo diede a vedere.
«Bene.
Vale a dire che non ti ho fatto venire qui inutilmente.» Si grattò un momento
la testa e riprese: «Ora, però, come posso dimostrare che sta mentendo?»
Sherlock
si avvicinò alla scrivania, posò entrambe le mani sullo schienale della sedia
di Emily e si avvicinò ulteriormente. «Come?
Oh, andiamo ispettore. È palese che sta mentendo. Lo dovresti aver capito
perfino tu. John ed Emily lo hanno capito senz’altro.»
John
lo guardò. «Cosa? Come fai a dire che l’ho capito anche io?»
Sherlock
rispose alla sua occhiata. «Per favore, John. Mi rifiuto di credere che tu non
abbia imparato niente da quando stiamo insieme.»
Il
medico aggrottò la fronte su quel “da quando stiamo insieme”. Era pronto a
replicare, ma il detective prese parola prima: «A ogni modo, John può anche non
averlo capito, ma Emi sì.»
La
ragazza smise improvvisamente di sorseggiare il suo caffè. Si sentì chiamata in
causa, consapevole che tutti la stavano guardando: Lestrade davanti a sé, John
accanto, Sherlock dietro. Posò la tazza sulla scrivania e guardò l’ispettore.
«Lo
credo anche io, ispettore.»
Non
aggiunse altro. Lestrade guardò prima lei, poi il detective e chiese:
«D’accordo. Ma ho bisogno di poterlo dimostrare, perciò, come fate a dirlo?»
scandì con cura.
«Come
facciamo a dirlo? È evidente» replicò Sherlock.
«Oh,
ti prego! Non fingere che sia chiaro per chiunque se lo è solo per te.»
«Anche
per Emily.»
Calò
il silenzio, improvviso. Lestrade tornò a rivolgere la sua attenzione sulla
ragazza, che si sentì improvvisamente avvampare.
«Di’
un po’,» esordì poi, parlando con Emily, «hai voglia di dirmi tu quello che, a
quanto pare, non ha voglia di farmi sapere Sherlock?»
La
ragazza annuì. «Beh, non so se la motivazione sia la stessa di Sherlock ma, io
penso che stia mentendo per il modo in cui confessa di essere il colpevole.»
«Il
modo?» domandarono all’unisono John e Lestrade.
«Sì.
Insomma, quello che dice di aver commesso è un omicidio molto articolato, ben
studiato. Qualcosa per cui deve aver lavorato molto. A me viene difficile
pensare che possa liquidare il suo lavoro con un semplicissimo “proprio così”.»
«Ma
lui non ha inventato niente. Ha semplicemente copiato ciò che Moriarty ha fatto
a Carl Powers» disse John, voltandosi verso Emily.
«È
comunque più complicato di così» si intromise Sherlock. «Uno come Horvat non
avrebbe perso tempo a informarsi sulle abitudini di Walker, a cercare il
botulino e a fare in modo che lo ingerisse giusto in tempo per affogare alla terza
vasca a nuoto.»
Riprese
a camminare per la stanza. «Non avete notato le sue mani, o il suo naso? No,
certo che no. Deve essersi rotto il naso e più di una volta mentre le sue mani,
beh, quelle sono assuefatte a graffi, tagli e botte, il che cosa significa? Che
è un uomo rude, abituato alla violenza fisica, che la pratica spesso e,
sicuramente, dà più che ricevere. Ciò vuol dire che uno così se avesse voluto
davvero uccidere Walker affogandolo gli avrebbe semplicemente tenuto la testa
sott’acqua, non avrebbe architettato un’azione del genere.»
Si
fermò. Guardò dritto negli occhi di Lestrade e si portò l’indice alla tempia.
«Gli assassini, quelli seriali, quelli veramente pericolosi hanno bisogno di un
pubblico, lo bramano. Qualcuno in grado di commettere un simile omicidio non
avrebbe mai, mai, sminuito il proprio
lavoro a quel modo. Horvat non può averlo ucciso, sono pronto a scommettere che
qualcuno lo ha pagato per addossarsi la colpa.»
«A
che scopo, scusa? Farsi sbattere in cella non è il modo corretto per spendere
dei soldi» gli fece notare John.
«Ma
è un posto sicuro per rimanere fuori dai guai per un po’. È probabile che il
vero assassino abbia pagato Horvat per prendersi la colpa, garantendogli che
una volta uscito di prigione – ovvero abbastanza presto in caso di buona
condotta – avrebbe avuto a disposizione i soldi, oltre a essere dimenticato da
buona parte delle persone con cui lui ha attualmente dei debiti. Tutto torna,
ispettore.»
Lestrade
lo stava guardando, in silenzio. Ripensò alle sue parole e dovette ammettere a
se stesso che, anche quella volta, le cose si incastravano fin troppo bene.
Tuttavia sospirò, sconsolato. «D’accordo, Sherlock, ti credo. Ma finché non
abbiamo prove serie c’è poco che posso fare. Quell’uomo ha confessato.»
Sherlock
lo guardò, lievemente irritato. «Allora perché mi hai fatto venire fin qui?»
«Perché
speravo potessi aiutarmi.»
«E
cosa ho appena fatto?»
Lestrade
non rispose. Si strinse nelle spalle e sospirò nuovamente. «Mi spiace,
Sherlock. Ti ringrazio per il tuo tempo, ma questa volta ho le mani legate.»
L’ispettore
e il detective si guardarono a lungo, in un silenzio teso e palpabile. Alla
fine Sherlock si ricompose, si lisciò il cappotto e uscì dall’ufficio di
Lestrade senza aggiungere altro.
*
Il
taxi accostò davanti all’ingresso del 221B. Sherlock ne scese di fretta e
altrettanto in fretta girò la chiave nella serratura ed entrò in casa. Emily,
ancora seduta sul mezzo accanto a John, guardò il medico. Quest’ultimo le
sorrise. «È fatto così, lo avrai capito. Non gli piace perdere tempo e sono
certo che sia convinto che Lestrade gli abbia proprio fatto perdere tempo.»
La
ragazza lanciò un’occhiata in direzione dell’ingresso di casa aperto, ma
deserto. «Sai, John, impiego sempre poco per capire chi ho davanti, ma con
Sherlock… davvero non riesco ad afferrarlo, nemmeno nei suoi tratti più
evidenti. Non credevo fosse così complicato» ammise.
«Si
beh, è un tipo particolare. Ma tutto sommato è una brava persona. Solo un po’
arrogante, stronzo e saccente. Un po’ molto in verità.»
«Eppure
sei suo amico» gli disse lei, sorridendo.
John
rispose al suo sorriso. «Commettiamo tutti degli errori» scherzò. «Non
preoccuparti, Emi. Con Sherlock puoi stare tranquilla. E imparerai a
conoscerlo, vedrai.»
La
ragazza ci pensò su, infine annuì. Salutò il medico – anche da parte del
detective – e scese del taxi, che ripartì subito per accompagnare John a casa.
Emily
salì le scale fino all’ingresso dell’appartamento e, una volta lì, vide subito
Sherlock intento a togliere con foga tutte le carte, le foto e gli articoli di
giornale che i due avevano raccolto durante la loro ricerca sul possibile
assassino del giudice Walker. Sentì una fitta al petto a vedere l’uomo che
staccava con indifferenza e fretta i fogli, la carta che si lacerava di tanto
in tanto. Le sembrava sbagliato ciò che Sherlock stava facendo; quella era la
sua prima indagine insieme al detective, non voleva vederla sparire così,
soprattutto perché non era realmente finita. Il vero assassino di Walker era
ancora in libertà, Sherlock lo sapeva perfettamente, proprio come lei. Le
sembrava irreale che l’uomo accettasse così l’esito di quel pomeriggio da Lestrade,
che cancellasse con così tanta freddezza i dati di un caso che poteva essere
ancora risolto. Quello non era lo Sherlock Holmes che lei immaginava e c’era
qualcosa che la insospettiva. Perché non riusciva a capirlo? Perché continuava
a essere un mistero?
«Che
stai facendo?» gli chiese infine, guardandolo.
Lui
si voltò. Sollevò le sopracciglia come se non comprendesse la domanda. «Hai
sentito l’ispettore. Non possono fare niente. Horvat verrà processato e loro
avranno il loro assassino. Per quanto mi riguarda il caso è chiuso.»
Riprese
a staccare le carte dalla parete, tornando a ignorare la ragazza. Lei ebbe un
fremito. Voleva impedirgli di cancellare tutto il loro lavoro così. Era certa,
in un modo per lei incomprensibile, che anche per Sherlock quel caso non poteva
definirsi “chiuso” e che lui si stesse comportando così solo perché irritato.
«Non
te lo permetto» esclamò d’improvviso
Emily, parandosi davanti al detective e impedendogli di proseguire nelle sue
azioni.
Sherlock
si fermò di colpo, guardandola. Un lampo di curiosità attraversò i suoi occhi
mentre fissava Emily con intensità crescente. Lei fece del suo meglio per
resistere allo sguardo dell’uomo, tentando di rimanere il più ferma possibile
nella propria convinzione.
«Non
me lo permetti?» mormorò Sherlock.
La
ragazza annuì, lievemente incerta. Resistere agli sguardi di Sherlock le
riusciva difficile molte volte e quel momento era una di quelli.
«Non
voglio che tu distrugga tutto il lavoro che abbiamo fatto solo perché Lestrade
ha deciso di lasciar perdere. Insomma, ci abbiamo lavorato a lungo no?»
Sherlock
sorrise, lievemente. «Vero. Ma non ho alcuna intenzione di spendere altro tempo
inutilmente su qualcosa che Scotland Yard ha deciso di ignorare, per cui
considero questo caso chiuso.»
Emily
lo guardò, senza sapere cosa pensare. Si sentiva confusa e incerta; sapeva solo
che non voleva vedere tutto ciò sparire così, di punto in bianco, senza averle
dato le risposte che sperava di ottenere.
«Beh,
e se per me non fosse chiuso il caso?» domandò con forza, avvicinandosi di un
passo al detective. Se ne pentì subito, però, poiché l’uomo era decisamente più
alto di lei. Sherlock, infatti, dovette abbassare lo sguardo. Rimase in
silenzio per quella che a Emily parve un’eternità, infine schiuse le labbra,
respirò e disse: «Vorrei ricordarti che questa è una mia indagine. Non nego che tu mi abbia aiutato, ma se per me la
faccenda è chiusa, allora è chiusa. Oltretutto vorrei anche sottolineare che
questa è casa mia.»
La
ragazza si sentì sotto accusa, tuttavia incassò l’affondo con eleganza e
replicò subito: «Tecnicamente la casa appartiene a Mrs. Hudson. Noi due ne
siamo ugualmente affittuari, il che vale a dire che siamo coinquilini. Ciò
significa che questa casa è anche mia, così come lo è metà di questa parete…
possibilmente quella senza lo smile» disse, indicando alle sue spalle. «Perciò
ti proibisco di togliere le informazioni raccolte dalla mia metà del muro.»
Sherlock
non replicò. Si limitò a stare in silenzio, un mezzo sorriso in volto e gli
occhi fissi in quelli di Emily. Alla fine, dopo un gioco di sguardi all’apparenza
infinito, annuì con il capo. «Come vuoi» concluse.
Riprese
a staccare i fogli di giornale e gli appunti solo nella “sua” metà del muro,
facendo ricomparire lo smile giallo sulla carta da parati, il tutto davanti a
una perplessa e incredula Emily, che si sentì strana nell’aver vinto la sua
prima faida contro Holmes. Quando il detective ebbe finito si spostò in cucina
e la ragazza ebbe modo di vedere la precisione con cui la parete era stata
divisa: metà spoglia, metà sovraccarica di carte. E nella sua metà, fra tutti
gli articoli di giornale e i possibili indiziati, il nome di Darrell Scott, figurava ancora.