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Autore: ThreeK    21/01/2017    0 recensioni
Juliet è insoddisfatta della sua vita. Sin da bambina ha vissuto solo traumi. Il padre è scomparso dopo la sua nascita e lei non sa niente di lui. La madre è morta quando lei aveva solo sei anni e da allora è costretta a vivere in un orfanotrofio. Juliet pensa che la sua esistenza sia semplicemente senza speranza. Ma la vita offre sempre delle possibilità, basta saperle sfruttare. E con la sua fuga verso il Campo Mezzosangue, Juliet ha l’opportunità di cambiare di nuovo… Questa volta in meglio.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Stoll, Leo Valdez, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VII
 
La lettera
 
“Più vicino”
Mi ridestai di colpo. La testa girava e l’eco di quelle parole non accennava a smettere. Per tutto la durata del mio svenimento, nella testa sentivo quel rimbombo diventare ogni minuto più intenso.
”Più vicino, più vicino...” parole ripetute un’infinitá di volte, apparentemente senza senso. Non sapevo cosa le provocasse, ma la cosa più preoccupante era la voce. Una voce di donna, gentile,  armoniosa, mi sussurrava senza sosta quelle due parole. Una voce che conoscevo, che avevo impressa nel cuore da un’infinitá di anni.
 La voce di mia madre.
 
Mi guardai intorno. Tutto sembrava essere tornato alla normalità. La notte stava lasciando il suo dominio all’alba. La stanza in cui mi trovavo cominciava pian piano a illuminarsi. Da fuori provenivano alcune voci, probabilmente quelle dei ragazzi più mattinieri. Una normale mattinata al Campo Mezzosangue. L’atmosfera era di calma e tranquillità, come se l’attacco della sera precedente fosse solamente un lontano ricordo. Niente sembrava poter turbare quella giornata. Per un attimo, provai a liberare la mente da ogni pensiero e tutto sembrò farsi più sereno.
Poi lo vidi. Quel maledetto tridente era ancora sul pavimento, apparentemente innocuo. Non emanava nessun bagliore, non sembrava sottrarre al mondo la luce. Non sembrava posseduto dal demonio. Per un secondo pensai di aver sognato tutto. Le voci, le luci, il dolore accecante. Sembrava non essere mai successo nulla.
Mi alzai in piedi. Con movimenti cauti e lenti, mi avvicinai al punto in cui si trovava il tridente. La distanza che ci separava era solamente di pochi metri. Nessun segno di possessione demoniaca da parte di quel dono. Forse era stato davvero tutto un sogno. Forse davvero mio padre aveva deciso di donarmi qualcosa di utile.
Mi accovacciai vicino al tridente. Con mano tremante, provai a sfiorarne la superficie blu cobalto. Un brivido si propagò per tutto il mio corpo. Il tridente rincominciò a luccicare. Dunque non era stato un sogno, era tutto vero.
Lo afferrai delicatamente.
La luce si fece più intensa.
Lo sollevai da terra.
E il dolore esplose.
La testa riprese a vorticarmi, un’esplosione di colori scaturì da quel maledetto oggetto e alcune voci iniziarono a urlarmi nelle orecchie. Ma stavolta mi imposi di non svenire. Dovevo resistere, volevo resistere. Non mi sarei fatta battere nuovamente.
Resistetti ad ogni tipo di dolore, imponendomi di restare in piedi. Ma la vista iniziò ad annebbiarsi e le orecchie bruciavano. Ero percorsa da brividi e spasmi e il tutto diventava ogni secondo più intenso.
Se non ci fosse stato quel mio solito istinto sarei impazzita.
Una parte del mio cervello riuscì a eludere luci, colori e voci per concentrarsi su come scampare a quella situazione. Seguendo l’istinto e l’orientamento, riuscii a ritrovare il punto in cui era situata la porta dalla quale Chirone aveva estratto il tridente. La aprii, cercando di non pensare a nulla. Gli occhi sbarrati, le gambe tremanti, feci affidamento al tatto. Cercai qualsiasi cosa potesse contenere il tridente. Scartando spade, scudi, lance, al limite dell’esasperazione trovai una sacca. Senza nemmeno pensare a cosa fosse e di chi fosse, vi buttai il dono maledetto di mio padre.
Appena chiusi la sacca, tutto finì. Nessuna luce, nessun suono, niente di niente. Tutto era tornato alla normalità. Afferrando la sacchetta, provai solo un lieve giramento di testa. Raggiante per essermi sottratta a quella maledizione, uscii velocemente dalla stanza, scesi le scale e tornai al pianterreno. Afferrai il mio zaino, appoggiato su una poltrona, e vi travasai il contenuto della sacca. Non vedevo l’ora di far cadere quegli eventi nel dimenticatoio. Non volevo credere a ciò che mi era appena successo. Perché mio padre aveva deciso di farmi un dono maledetto? Non poteva continuare a far finta che non esistevo? Invece no, doveva complicarmi la vita qualsiasi cosa accadesse. Grazie, papà.
 
Uscii dalla Casa Grande con l’intenzione di seppellire da qualche parte il mio zaino. Concentrata com’ero, andai a sbattere contro Leo, che mi stava passando davanti proprio in quell’istante.
-Ehi, attenta quando cammini!
Pur provando ad assumere un tono arrabbiato, non riuscì a nascondere un sorrisetto divertito. Aveva lo stesso abbigliamento della sera precedente e non sembrava aver dormito molto.
-Cosa ci fai qui, Leo? Non è ancora giunta l’ora della partenza.
-Potrei dire la stessa cosa di te.
Ci fissammo per alcuni istanti. Ovviamente, lui, come Connor, già sapeva che mi avrebbe dovuto accompagnare. Entrambi eravamo preoccupati, forse non pronti per la partenza ormai prossima. Ma sapevamo di poter contare l’uno sull’altra. E questa sarebbe stata la cosa che più ci avrebbe aiutato durante quella missione.
-Allora...- ruppi il silenzio, anche se con un certo imbarazzo.- Io andrei a trovare mio fratello in infermeria. Per te va bene?
-Oh.- sembrava disorientato, impacciato – Ovviamente, certo. Vai pure, non sarò certo io a trattenerti.
Mi incamminai verso l’infermeria, anche se non era quello il mio obiettivo principale. Mi ero inventata quella scusa solo per non suscitare la curiosità di Leo. E poi sarei dovuta andare comunque a trovare Percy prima della partenza, dovevo vedere se era migliorato.
 
Varcai la porta dell’infermeria e adocchiai subito il letto sul quale era disteso Percy. Mi avvicinai cautamente.
Dovetti impiegare tutta la mia forza di volontà per non scoppiare in lacrime. Mio fratello era lì, solo, le bende che gli avvolgevano il torace. Gli occhi chiusi, il respiro corto e irregolare, sembrava in preda alla pura agonia. Nessuna traccia di infermieri o altro personale. Neanche uno dei figli di Apollo impiegati nelle cure.
Mi chinai verso Percy e gli presi delicatamente la mano. Non reagì minimamente. Gli passai una mano tra i capelli e iniziai ad accarezzargli il volto con dolcezza. Quel silenzio, privo di ogni tipo di reazione da parte di Percy era il peggior supplizio che avrei potuto immaginare. Mio fratello era lì, davanti ai miei occhi, e io non avrei potuto parlargli, confidarmici, scherzarci... Cosa ci sarebbe potuto essere di peggio?
A quel punto non ce la feci più e piansi. Lacrime amare, di dolore, al solo pensiero che forse non avrei mai più potuto rivedere Percy. Entrambi seguivamo una via che ci avrebbe potuto portare alla morte. Ma io ero pronta a combattere qualsiasi cosa pur di rivedere mio fratello. E mi sarei imposta quell’obiettivo per tutta la durata della missione. Perché una cosa doveva essere certa.
Una certezza in quel mondo di tenebre.
-Tornerò, Percy, e tu sarai pronto ad aspettarmi. Te lo prometto.
 
Uscii dall’infermeria che ancora gli occhi mi bruciavano per via delle lacrime. Fuori  tutto sembrava tranquillo. Colsi l’occasione per poter cercare un posto in cui nascondere il tridente. Di sicuro non avrei potuto portarlo in missione: sarebbe stato troppo pericoloso per me e per i miei compagni.
E, ovviamente, nel momento in cui cercavo di allontanarmi dalle zone più brulicanti del Campo per seppellire il tridente, Chirone ci chiamò all’adunata. Imprecai contro quel centauro. Possibile che non si riuscisse a concludere una cosa fatta per bene in quel Campo?
Fui costretta a dirigermi verso l’Arena e ben presto mi mischiai con gli altri semidei accorsi al richiamo di Chirone. Quest’ultimo aveva un volto truce e corrucciato, l’aria assorta e indagatoria e una lettera stretta nella mano destra. Appena arrivarono anche i semidei più ritardatari, calò il silenzio. Per qualche istante, regnò un’atmosfera di tensione mista a curiosità, rotta solamente dal soffiare del caldo vento estivo e dal cinguettio degli uccelli sugli alberi. Una tranquilla e serena giornata estiva, che si trasformava in terribile al solo pensiero di quella missione.
Alla fine fu Chirone a rompere il silenzio.
-Stamani è arrivata una missiva dall’Olimpo.- cominciò il centauro con voce grave –Annuncia una novità per quando riguarda l’addestramento del Campo. Da oggi, infatti, tutte le attività si svolgeranno normalmente, con una sola eccezione: a causa di un divieto imposto dagli Dei, nessun semidio partirà più per una qualsiasi missione, compresa quella composta da Juliet, Connor e Leo, e non potrà lasciare il Campo durante il periodo estivo. Non possiedo informazioni più precise al riguardo, ma ogni trasgressione sarà comunque punita severamente.
Il silenzio calò sovrano. Nessuno si sarebbe potuto aspettato quel tipo di notizia. Nessuna missione? Rimanere al Campo tutta l’estate? Che razza di leggi erano? Partecipare a una missione era l’ambizione di qualsiasi semidio. Era un modo per dimostrare il proprio valore, che ora gli Dei ci toglievano.
-Scusi, Chirone, ma la profezia?- una voce si levò dalle retrovie del Campo. A porgere quella domanda era stata l’amica di Annabeth, quella ragazza troppo bella per essere reale.
-Piper, un divieto degli Dei rimane un divieto. Non posso farci davvero nulla.
Pur imponendo la volontà degli Dei, Chirone sembrava davvero contrario a quella scelta. Come tutti del resto. Un lieve chiacchiericcio si cominciò a diffondere tra i semidei. Chiacchiericcio che poi crebbe, fino a trasformarsi in urla di protesta contro quelle assurdi decisioni. Chirone restò immobile e impassibile, quasi si aspettasse quel tipo di reazione.
Anche io mi sentivo indignata. Certo, l’idea di partire verso una missione con una probabilità altissima di rimanerci secchi, non mi aveva mai allettato. Ma se l’intero pianeta era in pericolo, sarei stata pronta ad affrontare qualsiasi cosa. Non sarebbe certo stato uno stupido divieto a fermarmi.
Muovendomi a fatica tra una calca di semidei protestanti, riuscii a raggiungere Connor e, successivamente, Leo. Li condussi in una via secondaria, cercando di non farmi notare. Appena fummo sicuri che nessuno ci avesse seguito e che nessuno ci avrebbe uditi, cominciammo a protestare animatamente per conto nostro.
-È una follia! Una cosa del tutto insensata!- sbottò Connor.
-Non possono permettersi di escludere le missioni! E niente più visite a New York durante l’estate! Tra quelli lì ci sarà anche mio padre, ma farò di tutto pur di andarli contro!- continuò Leo, la rabbia che esplodeva nelle sue parole.
-Ragazzi, nemmeno io approvo questa insulsa decisione.- li interruppi io cercando di assumere un tono di voce deciso -Ma di una cosa siamo certi: non sarà di certo una stupida legge a fermarci. Noi partiremo per la nostra missione, costi quel che costi. Siete con me?
Posai la mano al centro del gruppo.
-Ovviamente.- rispose immediatamente Connor, appoggiando la sua mano sulla mia.
-Fino alla fine.- quasi urlò Leo, ripetendo il gesto di Connor.
Abbozzai un sorriso. Sottraendoci alla volontà divina, saremo divenuti dei ricercati o non so cos’altro. Ma saremo comunque partiti per salvare il mondo, per il bene di tutti.
-Ci vediamo stasera a mezzanotte, in questo preciso luogo, pronti per la partenza. D’accordo?- chiesi.
Entrambi annuirono.
 
Passarono le ore e io divenivo sempre più inquieta. Già ero preoccupata per la partenza in sè per sè, ma adesso avrei dovuto anche infrangere una legge degli Dei. Se avessimo fallito, o saremmo morti per mano del nostro nemico o per mano degli Dei. E c’erano davvero molte possibilità perché una delle due ipotesi si avverasse.
Cominciai a preparare la roba necessaria per il viaggio. Viveri, ambrosia per le emergenze, un paio di jeans e una maglietta di ricambio. D’altronde, non che io possedessi chissà quali tesori. Tutti oggetti che entravano comodamente nel mio zaino. Rimaneva un unico grande interrogativo: il tridente che mi aveva regalato mio padre. Ero partita con la convinzione di non portarlo. Ma poi, avevo cominciato a dubitare di questa ipotesi. Sapevo gli effetti di quell’oggetto, ma forse a qualcosa sarebbe dovuto servire. Non potevo credere che mio padre fosse talmente malvagio da donarmi addirittura un tridente maledetto. Gli uomini (o Dei, o quel che fossero) non potevano essere così cattivi. Mio padre mi aveva abbandonato, aveva illuso mia madre, mi aveva ignorato per quindici anni. Ma arrivare a tanto?
Lascia alla sorte il destino di quell’oggetto. Presi una dracma, unica moneta riconosciuta dai semidei, e la tirai in aria. Se fosse uscita testa avrei portato con me il tridente. Se fosse uscita croce... gli avrei detto addio.
La moneta roteò, poi cominciò a ricadere; infine, la presi al volo sul dorso della mano. Guardai attentamente la superficie dorata.
Testa.
Infilai il tridente nel mio zaino.
 
Le ventitrè e cinquantacinque. Era quasi ora del nostro appuntamento segreto. Ovviamente, Percy era ancora in infermeria ed io ero sola a Cabina Poseidone. Uscii cautamente in strada. Nessun semidio che vi si aggirava. Procedendo avvolta nell’ombra, arrivai a mezzanotte precisa nel vicolo dove mi ero lasciata con Leo e Connor. I due ragazzi erano già lì.
-Ce l’hai fatta!
Nonostante l’ora, notai il sorrisetto divertito dipingersi sulle labbra di Leo mentre pronunciava quelle parole.
-Parla piano, o ci sentiranno.- ribattemo all’unisono io e Connor, scambiandoci poi un’occhiata divertita.
-E va bene, ma andiamo ora.- concluse Leo, in preda all’impazienza.
 
Se non ci fossero stati Connor e Leo, mi sarei persa. Fortunatamente, conoscevano a memoria il Campo e non ebbero difficoltà ad orientarsi. Arrivammo in fretta al limite del bosco. Non sembrava esserci alcun tipo di sorveglianza, quasi come se Chirone volesse che partissimo. Oltrepassammo il bosco e uscimmo nello spiazzo dove, qualche giorno prima, avevo fronteggiato un iperboreo insieme a Grover. Davanti a noi, l’arco che separava il mondo semidivino da quello mortale. La barriera invisibile che avrebbe segnato il nostro futuro. Avremmo potuto arrenderci e vivere le nostre vite senza apparenti intoppi. O saremmo potuti andare avanti, infrangendo la parola degli Dei, finendo per diventare fuggiaschi, ma provando a salvare il mondo.
Camminando a testa alta, varcammo insieme l’arco, finendo per catapultarci su una collina di New York. Sotto di noi, l’immensa città si stagliava silenziosa in un trionfo di luci. La luna brillava, diffondendo una luce argentea su tutti gli edifici. Nella notte senza nuvole, si distinguevano chiaramente molte stele e costellazioni.
Cinque giorni.
Cinque giorni per preservare quel meraviglioso paesaggio. Cinque giorni per sconfiggere il “Cielo”. Cinque giorni per riportare la pace nel mondo. Ma ce l’avremmo fatta. Insieme, potevamo risolvere qualunque problema. Potevamo anche salvare il mondo.
E fu così, a mezzanotte e un quarto del sedici giugno, che partimmo verso la nostra odissea.
 
   
 
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