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Autore: Ruta    22/01/2017    2 recensioni
La scoperta non è immediata, piuttosto è la lenta consapevolizzazione di una realtà che lo diventa procedendo per gradi, assumendo forma concreta con dettagli macabri. L’accettazione arriva più tardi, a diciassette anni.
E sua sorella, ormai, le cose che fa e le mille cose che non è, sono diventate la sua oscura, segreta ossessione.
[Parentlock Sherlolly]
Genere: Angst, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Causa sui'
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l'essenza del problema

Norbury.

E’ stata quella parola a frenare i suoi passi, dopo che lui, nel suo stato di inquietudine e agitazione, si stava allontanando da lei. Ora, all’alba dei suoi sessanta anni, Sherlock Holmes si ritrova a fare i conti con i fantasmi del passato. Sembra giusto e fatalmente appropriato che la persona che lo costringerà a farlo sia la versione in miniatura di una vecchia amica, la più cara al suo cuore dopo Molly.

Ma quel pensiero è ingiusto, non è forse così?

Rosamund Watson non è la versione in miniatura di nessuno. E’ una persona a tutto tondo e anche se c’è così tanto di Mary in lei - nella piega solitamente fiera della sua bocca indignata, nella profonda saggezza del suo sguardo mercuriale, nella personalità pungente ed estroversa ed autoritaria, nel modo in cui sta lì, in piedi al centro del salotto ed è pronta a dare battaglia per i valori in cui crede, postura da soldato e un cipiglio perseverante che non lascia adito a dubbi sulla sua paternità – anche così, ci sono isole inesplorate nel mare della sua individualità che la rendono un essere umano unico e svincolato da ciò che i suoi genitori sono, rappresentano.

“Voglio che mi racconti la verità e voglio che tu lo faccia adesso. So che hai mentito a lui, a me, a tutti noi. Finalmente lo so, ma voglio sapere il perché. C’è sempre un perché e muoio dalla voglia di sentire il tuo.”

Lui la osserva senza battere ciglio. La guarda e i ricordi gli piombano addosso con l’ineluttabilità del masso di Sisifo. Ricorda il giorno in cui è nata, ricorda la luce di intima felicità che soffondeva il viso di Mary quando l’ha tenuta in braccio, la tranquilla determinazione nei suoi occhi mentre pronunciava il suo voto silenzioso – ti proteggerò. Ti proteggerò, piccola mia, anche a costo della vita. Ricorda la prima volta che l’ha portata al poligono di tiro e i sentimenti contrastanti che ha provato, mettendole in mano la sua prima pistola, insegnandole come impugnarla e poi usarla. Ricorda e ricorda e ricorda.

Ventitré anni si dissolvono in un’esplosione di immagini segmentate e poi si ricompongono nella giovane donna che gli sta di fronte.

Arrabbiata. Ferita. Disperata. Pertinace. Sherlock chiude gli occhi mentre un insostenibile peso gli grava sul petto e squarcia e taglia tutto ciò che c’è al suo interno. “La verità non ti piacerà.”

Rosamund scrolla le spalle con pratica convinzione. “E’ ovvio che non mi piacerà, ma la situazione corrente non è una prospettiva migliore. Voglio cambiarla, devo.”

“Perché dovresti – oh. Naturalmente. Lo ami.” Tutto ha senso. Non che prima non ne avesse, ma questo nuovo dettaglio è determinante, aggiunge un’ulteriore prospettiva al contesto, influendo sulla cornice narrativa.

“Lo amo,” lei dice con quieta risoluzione. I suoi occhi, grandi e fragorosi e limpidi, ispirano l’enormità del sentimento che le sue parole lasciano soltanto trapelare. “Da sempre, credo.”

Il terrore che lo attanaglia alla bocca dello stomaco è bilioso. La rabbia, il senso di colpa sono rivolti a se stesso e sono vecchi compagni d’avventura, familiari quasi quanto John. “Ma è tuo amico. Hamish è il tuo migliore amico.”

“Sì, lo è. Lui è la mia famiglia e io lo amo in tanti modi diversi che mi completano e mi rendono la persona che sono, ma negli anni i modi diversi in cui lo amo non hanno davvero lasciato spazio a un eventuale frammento di amore da riservare ad altri.” Il suo sguardo scivola sui mobili del salotto in una carezza gentile, affettuosa prima di serrarsi agli angoli, indurirsi. “Lo amo e vedere come si logora, giorno dopo giorno, in quelle sue passeggiate infinite di vagabondaggio solitario, smarrendosi nei suoi libri come se sperasse che basti a catapultarlo al loro interno per vivere quello che gli sembra che gli sia stato strappato via - la sua sofferenza mi spezza il cuore.”

Se servisse a qualcosa, lui indulgerebbe in un gesto confortante che rassereni il suo turbamento. Ma non servirebbe e non è neppure sicuro che lei glielo permetterebbe, perciò…  Fa una smorfia, portando le braccia dietro la schiena e congiungendo le mani. “La verità non sarà gentile o dolce o pietosa.”

“Non lo è mai.”

“Se lui sapesse cosa ho fatto per proteggerlo, quali vette sono arrivato a scalare per farlo, la scoperta cancellerebbe tutto ciò che conosciamo di lui, lo distruggerebbe. Distruggerebbe sua madre e sua sorella e-”

Te. Distruggerebbe te.”

“Sì.” Sherlock deglutisce e gli sembra di ritornare a respirare, tanto grande è il sollievo che lei abbia capito. Se intraprenderanno questa strada, lo faranno insieme. Quello che rimane da stabilire è in quale veste succederà: in quella di nemici o complici? “Sei identica a lei, a tua madre. Mary.”

“Lo so. Me lo dici spesso.”

“Non abbastanza, forse. Anche lei lo avrebbe fatto.”

“Metterti all’angolo?” Il sorriso di lei, per quanto piccolo e stanco possa essere in quel frangente, rimane uno spicchio di sole nella landa di ombre in cui si sta addentrando.

“Convincermi ad essere migliore, costringermi a fare la cosa giusta,” lui la corregge. “Ma come si fa a fare la cosa giusta quando le opzioni a tua disposizione non sono giuste? Come fai a prendere una scelta impossibile, sapendo che in qualsiasi caso ferirai i tuoi amici, le persone a te care?” La sua mano si solleva per allentare il colletto, ma in ultimo trova posto nei suoi capelli in un equivocabile gesto di ansia. (E lui lo sa. Del linguaggio del corpo, dopotutto, ha fatto uno dei capisaldi del suo lavoro.)

“Come si fa?” Rosamund chiede con una scintilla di interesse e per un attimo lui può cullarsi in un’illusione. Fare finta che si tratti di una serata qualunque e che le stia insegnando uno dei concetti astratti della vita, impartendole una lezione che lei poi deciderà se far propria o rifiutare.

“Non c’è una lista di pro e di contro. Agisci in base al senso del dovere, alle promesse che hai fatto. Un giorno di molti anni fa, al ricevimento di un matrimonio, ho fatto un voto. Ho giurato che avrei protetto la famiglia Watson con tutto ciò che ero, con la mia stessa vita, se necessario. Negli anni a venire, ho fatto una promessa molto simile a Molly, alla nascita dei nostri figli.” Sherlock si interrompe e l’inganno svanisce in un’improvvisa e dolorosa consapevolezza. Quella non è una serata qualunque, Rosamund non è più la bambina che lo guardava come gli alberi guardano al sole e dopo la sua confessione tutto cambierà in modo terribile e assoluto. Non ci sarà una via del ritorno. Dietro la schiena, serra le mani a pugno.

Lei fa un passo verso di lui. “Sherlock-”

Lui fa un breve cenno di diniego e Rosamund ammutolisce, congelandosi sul posto. “All’epoca,” lui riprende a voce bassa, pastosa, “non potevo sapere che avrei dovuto difenderli dalle mire di un nemico portentoso e invisibile contro cui era impossibile vincere, anche schierandogli contro tutte le armi del mio arsenale. Non sapevo che avrei dovuto proteggerli da loro stessi.” Sospira profondamente, strofinandosi gli occhi. Non sa come procedere e la cosa lo disturba e mette a disagio. “La storia è molto lunga.”

Rosamund lo scannerizza come se la sua espressione facciale fosse un puzzle. Si avvicina e gli prende la mano. La mano di un’adulta, tiepida e salda – e che fine ha fatto la bambina a cui Molly acconciava i capelli in trecce, codini e pettinature complicate? Che fine ha fatto la bambina che lo sgridava se dimenticava di dire ‘grazie’ o ‘per piacere’?      

“Abbiamo tempo,” Rosamund dice e lui ritrova quella bambina nei tratti del suo viso serio e pallido, eppure sereno. “Abbiamo tutta la notte.”

 

 

 

Causa sui.

 

 

 

 

“Sapevi che Sherlock è il secondo nome di tuo padre? Tecnicamente parlando, s’intende.”

Sono nel salotto - lui seduto di traverso sui braccioli della poltrona più comoda, lei a gambe incrociate sul pavimento.

E’ un piovoso pomeriggio di metà ottobre. Il mondo al di fuori delle finestre è una gora d’acqua che cade scrosciante da un cielo plumbeo, riversandosi in rigagnoli di sporco nelle strade trafficate e con un’umidità che si appiccica alle ossa, sdiaccia nei respiri condensati dei passanti frettolosi; l’interno del 221B di Baker Street, invece, è un camino acceso in un salotto confortevole e piacevolmente sospeso nel silenzio, una terza edizione in condizioni mediocri della Critica della ragion pura e la migliore cioccolata del mondo – quella della signora Hudson.

Hamish volta una pagina senza alzare gli occhi dal libro che sta leggendo. “Non dire assurdità.”

Anche così, senza guardarla, lui può sentire fisicamente l’irritazione che le sta attraversando il volto come una saetta, la parola idiota che le danza sulle labbra piegate all’ingiù. 

“Guarda,” Rosamund insiste e con l’indice picchietta un punto a caso di un vecchio pezzo quadrato di carta ingiallita che sembra un attestato di laurea. “È scritto qui, nero su bianco. William Sherlock Scott Holmes, nato a –”

“Morto il 15 gennaio 2012,” lui la interrompe, allungando il collo per osservare meglio quanto lei gli sta indicando e sbarrando gli occhi l’attimo successivo. “È un certificato di morte. Perché mio padre dovrebbe averne uno?”

Lo sguardo di Rosamund è eloquente, nell’inarcamento del sopracciglio destro riesce a compendiare alla perfezione il ‘te lo avevo detto’ e ‘avevo ragione io, come al solito’ che sono le sue frasi preferite, specie quando può indirizzarle a lui. “La domanda più corretta è perché lo conserva.”

No, Hamish vorrebbe replicare quando lei glielo passa, ce n’è un’altra persino più interessante e cioè: perché in fondo, dove è richiesta la firma del medico dell’ufficio sanitario, è apposta la segnatura del Dottor M. Hooper?

“Oh.”

Questa volta lei attira subito la sua completa attenzione. “Cos’altro c’è?”

Fissa senza battere ciglio la linea della sua schiena sottile, incurvata sopra lo scatolone in cui stava rovistando – memorie impolverate, carteggi e gingilli raccolti nell’arco di una carriera decennale di casi criminosi -, l’accesa tonalità di rosso del maglione lavorato a maglia che indossa, i ricci capelli biondi che le cadono a spiovente ai lati del volto, nascondendolo al suo sguardo.

“Ne hai uno anche tu.”

“Ho un certificato di morte?”

“Non essere deliberatamente ottuso,” la sente sbuffare, come qualsiasi altra volta che la provoca di proposito con domande stupide. “Hai un secondo nome. Due, per la precisione.”

“Un secondo nome?” 

Scrolla le spalle, serafica, ignara dello stato di confusione che ha appena innescato con quella rivelazione. “Apparentemente.”

Hamish mette da parte Kant con un sospiro interiore e si inginocchia accanto a lei sul tappeto. Hamish A. Victor Holmes, è scarabocchiato in un’antiquata grafia sul suo certificato di nascita. All’alba dei suoi dodici anni sembra inverosimile scoprire di avere un secondo nome oltre a quello di battesimo, figurarsi averne due. “Per cosa credi che stia la A.?”

“Non lo so. Potresti sempre fare la cosa più ovvia. Domandare.”

Lui scuote piano la testa e la frangia scura gli cade fastidiosamente sopra un occhio. Suo padre avrebbe dovuto accompagnarlo dal barbiere, ma un caso dell’ultima ora l’ha trattenuto a Scotland Yard.

Domandare, pensa tra sé con un sentimento sfuggente che è un amalgama di amarezza e autoironia. Sherlock Holmes ha sempre una risposta per i quesiti del resto del mondo, ma tende ad ignorare con plateale frequenza ognuno dei suoi.

*

“Hugo,” è la risposta immediata di Sherlock Holmes e suona come il messaggio registrato di una segreteria telefonica.

“Lo scrittore?” lui indaga, interdetto.   

Suo padre tende una mano con fare imperioso. Hamish gli passa meccanicamente il preparato, il corpo allampanato proteso sul tavolo della cucina nell’attesa spasmodica di una replica.

Sherlock mormora sovrappensiero ritagli di ragionamenti mentre studia il campione biologico sul vetrino sotto il fascio di luce del microscopio.

“Perciò mi avete chiamato Victor per lui?”

Il vago mormorio si spegne in un sibilo di disappunto. Senza che lo richieda, un’altra mano, piccola e bianca come un raggio di luna, gli passa un secondo preparato. La mano appartiene a una bambina dal viso appuntito e un naso impertinente, con grandi occhi scuri e intelligenti, vestita d’azzurro. Pochi istanti più tardi l’acciglio sulla fronte di suo padre si spiana e un sorriso di compiacimento trova posto sulle sue labbra. Si alza dallo sgabello con un’esclamazione trionfante, prende Agnes in braccio e la solleva in aria come se fosse fatta di carta, trascinandola con sé in una giravolta che la fa scoppiare in risate trillanti di pura delizia.

Appoggiato con il fianco contro una delle porte scorrevoli, Hamish osserva la scena, sentendosi un ospite indesiderato, il terzo incomodo. Sa che è stupido e obiettivamente sbagliato provare quello che prova – cupidigia, gelosia, delusione – ma non può farne a meno. Volta loro le spalle e torna in camera sua.  

“Di cosa volevi parlarmi?” suo padre domanda l’indomani mattina, mentre versa in una delle tazze del servizio di porcellana con la mappa del Regno Unito il caffè per sua madre – lo fa ogni volta che lei ha un turno di notte, una delle sue rare dimostrazioni di affetto: preparare la colazione e portargliela a letto.

Hamish addenta un angolo del toast, senza provare realmente lo stimolo della fame, evitando gli occhi che sono uguali ai suoi, ma il cui spirito di osservazione è moltiplicato all’infinito. “Di niente,” mormora, lo sguardo basso.          

*

“Frankenstein,” suo padre dice con un tono grave e coscienzioso, il tipo di voce che utilizza per far colpo sugli insegnanti di Agnes nelle rare occasioni in cui sua madre gli permette di partecipare agli incontri scuola-famiglia.

Alle sue spalle, la risata di Rosamund, appollaiata sul davanzale della finestra come un barbagianni, è così repentina e genuina che gli fa diventare rosse le orecchie.

Si volta di scatto con un’occhiata d’astio e lei mima le parole mute ‘scienziato pazzo’, al che lui rotea gli occhi e decide che per quella giornata il mistero che si nasconde dietro il suo secondo nome può aspettare senza diventare il bersaglio delle spiritosaggini di Rosamund Watson.

*

L’unica occasione in cui prova a chiederlo a sua madre, Molly gli rivolge un triste sorriso di scuse, gli occhi stropicciati per le troppe notti insonni di doppi turni al Barts. “Vorrei poterti dire che è in onore di Victor Babes, ma non è così.”

Quando lui insiste, l’espressione di lei si fa contrita e si rinchiude dietro un muro di ombre e malinconie. La mano che gli poggia sopra la spalla è lieve e consolante, ma la sua voce ha il sapore e il peso di vecchi segreti. “È una storia che non tocca a me raccontarti.”  

L’unico difetto di Molly Hooper Holmes è anche uno dei suoi migliori pregi: è impossibile serbarle alcun tipo di animosità o rancore.

*

Una notte, dopo che un incubo particolarmente vivido l’ha fatto svegliare di soprassalto, con brividi di sudore freddo e un martellare incipiente dietro i bulbi oculari, Hamish scosta le lenzuola aggrovigliate e scende le scale in punta di piedi per andare a prendere un bicchiere d’acqua.

Non ricorda i dettagli del sogno, ma non riesce a scrollarsi di dosso il retrogusto che gli ha lasciato sulla punta della lingua: aspro e inquietante. Sa solo che c’era una donna bella e sinistra come la morte, dalla voce cantilenante. Ricorda vagamente un pozzo e poi nient’altro, solo il buio di una notte senza stelle.

Si accorge della loro presenza quando è già sul pianerottolo. Qualcuno sta discutendo. Non è sua intenzione ascoltare di nascosto, ma il desiderio di sapere è troppo forte per sopraffarlo con pensieri che riguardino l’etica, il concetto di giusto e sbagliato. Le voci appartengono a suo padre e a suo zio e dai loro toni lui intuisce immediatamente che quella è una conversazione che non dovrebbe origliare, soprattutto se, a giudicare dall’insolita aria di solennità, riguarda affari di sicurezza nazionale. 

“Non riesci davvero a vedere,” Mycroft sta dicendo, annoiato, “o eviti volutamente di affrontare la realtà?”

“Non c’è niente da affrontare. Niente di cui discutere o che giustifichi la tua presenza a quest’ora della notte.”

“Ho verificato. Molly è al Barts e i bambini dormono.”

“Hanno il sonno leggero.”

“Mi chiedo da chi lo abbiano ereditato,” Mycroft ribatte sarcasticamente.

“Arriva al punto.”

“Sta accadendo quello che temevamo. Dobbiamo predisporre un piano d’azione prima che si verifichi il peggio.”

“Che si verifichi il peggio?” Suo padre scoppia in una risata rauca. “Questo è il peggio che potrebbe accadere, il che mi riconduce alla dichiarazione iniziale. Non è successo niente,” scandisce a denti stretti.

Una pausa di silenzio. Hamish arrischia un’occhiata all’interno della stanza. Osserva suo zio poggiare sul tavolo un plico, aprirlo e disporre in un ventaglio ordinato i documenti che contiene. Sembrano fotografie. “Questo lo chiami niente?”

“Dove le hai trovate?” suo padre ribatte con freddezza, ma con meno compostezza del solito. Se Hamish non lo conoscesse, crederebbe che, malgrado ogni sforzo per nasconderlo, lui sia agitato, quasi spaventato. Quanto orrenda deve essere la situazione per farlo reagire in quel modo?  

“Per favore, fratello, non insultare la mia intelligenza. Hai cercato di tenermelo nascosto. Perché?”

“Non avrò questa conversazione con te, soprattutto dal momento che non è strettamente indispensabile.”

“Parlerai con me o mi troverò ad agire di conseguenza.”

“Non oseresti.”

“Dimmi.” La voce di suo zio diventa pericolosamente bassa, simile a un’intimidazione che è anche una provocazione. “Molly sa delle attività ricreative in cui indulge la vostra progenie?”

“È giovane. Non capisce quello che fa.” La risposta frettolosa di sua padre, il tentativo inequivocabile con cui sta cercando di sminuire, è una pietra che va ad addizionarsi  alle altre che si sono insediate in fondo alla sua gola. Stanno parlando di loro, di lui e di Agnes. I battiti del suo cuore diventano l’unica fonte di rumore nell’appartamento. 

“I bambini raramente lo sanno. Il problema è che non rimangono a lungo bambini. Arriva un momento in cui non si può più scusare quello che hanno fatto, indulgendo nell’attenuante dell’ignoranza dovuta alla giovane età. Questo non adduce motivazioni valide a particolari comportamenti e impulsi. Processo di causa ed effetto. Per adesso si tratta di lievi increspature nell’acqua, ma tarda a prendere una posizione e le conseguenze saranno catastrofiche.”

“Ricorda con chi stai parlando. Di chi.”

“È esattamente per questo che sono qui.”

“Per minacciarmi?”

“Avvertirti.”

“Non lascerò che la storia si ripeta. Non lo permetterò.”

“E io farò lo stesso, se dovesse diventare necessario. Farò quello che devo, come sempre.”

*

Hamish non ricorda il momento preciso in cui ha capito che sua sorella è diversa da qualunque altra persona conosca. Non è come Molly – nel caos frenetico che tendenzialmente è la vita al 221B, sua madre è un punto fermo dalle risorse preziose, con sorrisi morbidi, orecchie sempre disposte ad ascoltare e insospettate capacità dialettiche in grado di rimettere in riga perfino l’ego di suo zio (parole di suo padre, non sue) – né come Sherlock – un ingegno temporalesco e poliedrico, attitudine irascibile, una miniera che nasconde vene segrete, inesauribili al punto da inspirare il coraggio di esplorarne gli abissi.

Non è un intenditore di personalità, ma l’essere speciale di Agnes ha qualcosa di difforme rispetto all’essere speciale di chiunque altro. La differenza è sottile, ma inequivocabile. Una volta rilevata, è impossibile evitare di notarla. Il dolore che ne consegue è acuto e scava buchi e gallerie profonde dentro di lui, getta disagio e malessere su ogni ricordo. 

Non c’è una data a cui fare riferimento. La scoperta non è immediata, piuttosto è la lenta consapevolizzazione di una realtà che lo diventa procedendo per gradi, assumendo forma concreta con dettagli macabri. A undici anni, quando dopo un pomeriggio trascorso insieme a giocare, chiuse nell’appartamento riadattato del 221C, la compagna di banco di Agnes scoppia in singhiozzi (il giorno dopo è vittima di un inspiegabile incidente con l’altalena, frattura all’omero); a tredici, quando i canarini della scuola muoiono all’improvviso e la colpa viene data a un’improvvisa gelata (il ricordo di sua sorella, in piedi davanti alle sbarre, in mano il mangime e lo sguardo vacuo e immobile con cui considerava i piccoli corpi morti sul fondo della gabbia). L’accettazione arriva più tardi, a diciassette anni.    

E sua sorella, ormai, le cose che fa e le mille cose che non è, sono diventate la sua oscura, segreta ossessione.

*

Norbury, lei ha detto senza la minima esitazione. Lo vede fermarsi come se fosse scattata una molla, dentro di lui, si fosse verificato una sorta di inceppamento; vede la sua schiena irrigidirsi e le sue spalle incurvarsi impercettibilmente come sotto un peso invisibile. (Norbury. Un ricordo della sua infanzia: è seduta nella poltrona di suo padre e Sherlock la osserva con occhi inscrutabili, come capita ogni volta che un pensiero insidioso gli occupa la mente. No, non un pensiero, ma un sentimento. “Promettimi che la userai, se lo riterrai opportuno.”)     

Fino a un attimo prima, lui era pronto a fiondarsi fuori dall’appartamento, immergersi nella fredda notte londinese per correre in un luogo che altri, prima di lui, hanno definito l’inferno dei vivi, ma che nella sua personale opinione è più vicino ad essere uno Château d’If.

Sa che Hamish è in pericolo. Lo sa da mesi, anni, se volesse essere del tutto sincera con sé stessa e ammettere il presentimento strisciante che assedia la sua pace da tempo immemore.

Sa dove Hamish si trova, cosa sta cercando di fare e anche se il pensiero le fa sfrigolare lo strato sottocutaneo dell’epidermide per l’apprensione, resiste all’impulso del cuore per assecondare quello della ragione. Non lo aiuterà in alcun modo, lasciando che Sherlock lo segua e intralci i suoi piani.

Può aiutare Hamish. Può rendersi utile e il modo migliore è scoperchiare il vaso di Pandora. O meglio, farlo fare a suo padre.

 

 


N/A:

Sono già tornata. Che dire, tranne che mi sento terribilmente ispirata? Terribilmente, in questo caso specifico, non in senso buono.

Avvertenze del caso che reputo doverose: se l’angst non fa per voi, se pensate che dopo “Il Problema Finale” Sherlock Holmes e Molly Hooper si siano meritati il tanto sospirato lieto fine, forse questa non è la storia che fa per voi. O forse sì, non sta a me dirlo, davvero. Se invece amate i drammi a carattere familiare, se pensate che un figlio di Sherlock Holmes non potrebbe mai evitare di essere una drama queen come il padre perché è genetico, se amate gli intrighi e almeno un pochino il personaggio di Eurus, allora rimanete sintonizzati.

In cantiere c’è il secondo capitolo sul quale sono già al lavoro, che dovrebbe essere anche l’ultimo, a meno che all’ultimo minuto io non decida (o meglio, l’ispirazione non decida per me) di aggiungere un epilogo.

Causa sui, il titolo, è un’espressione in latino e tradotta letteralmente significa “causa di sé stessa”. E’ un concetto filosofico per indicare una realtà oggettiva che racchiude causa ed effetto, essenza ed esistenza, pensiero e realtà.

Indizi nel titolo? E chi lo sa! ;)

Età:

Rosamund Mary Watson: ventitré anni

Hamish A. Victor Holmes: venti anni

Agnes M. A. Holmes: quattordici anni        

  
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