Norbury.
E’ stata quella parola a frenare i suoi passi,
dopo che lui, nel suo stato di inquietudine e agitazione, si stava allontanando
da lei. Ora, all’alba dei suoi sessanta anni, Sherlock Holmes si
ritrova a fare i conti con i fantasmi del passato. Sembra giusto e fatalmente
appropriato che la persona che lo costringerà a farlo sia la versione in
miniatura di una vecchia amica, la più cara al suo cuore dopo Molly.
Ma quel pensiero è ingiusto, non è forse così?
Rosamund Watson non è la versione in miniatura
di nessuno. E’ una persona a tutto tondo e anche se c’è così tanto di Mary in
lei - nella piega solitamente fiera della sua bocca indignata, nella profonda
saggezza del suo sguardo mercuriale, nella personalità pungente ed estroversa ed
autoritaria, nel modo in cui sta lì, in piedi al centro del salotto ed è pronta
a dare battaglia per i valori in cui crede, postura da soldato e un cipiglio
perseverante che non lascia adito a dubbi sulla sua paternità – anche così, ci
sono isole inesplorate nel mare della sua individualità che la rendono un
essere umano unico e svincolato da ciò che i suoi genitori sono, rappresentano.
“Voglio
che mi racconti la verità e voglio che tu lo faccia adesso. So che hai mentito
a lui, a me, a tutti noi. Finalmente lo so, ma voglio sapere il perché. C’è
sempre un perché e muoio dalla voglia di sentire il tuo.”
Lui la osserva senza battere ciglio. La guarda e
i ricordi gli piombano addosso con l’ineluttabilità del masso di Sisifo.
Ricorda il giorno in cui è nata, ricorda la luce di intima felicità che
soffondeva il viso di Mary quando l’ha tenuta in braccio, la tranquilla
determinazione nei suoi occhi mentre pronunciava il suo voto silenzioso – ti proteggerò. Ti
proteggerò, piccola mia, anche a costo della vita. Ricorda la prima volta che l’ha portata al poligono di tiro e i
sentimenti contrastanti che ha provato, mettendole in mano la sua prima
pistola, insegnandole come impugnarla e poi usarla. Ricorda e ricorda e
ricorda.
Ventitré anni si dissolvono in un’esplosione di
immagini segmentate e poi si ricompongono nella giovane donna che gli sta di
fronte.
Arrabbiata. Ferita. Disperata. Pertinace. Sherlock
chiude gli occhi mentre un insostenibile peso gli grava sul petto e squarcia e
taglia tutto ciò che c’è al suo interno. “La verità non ti piacerà.”
Rosamund scrolla le spalle con pratica
convinzione. “E’ ovvio che non mi piacerà, ma la situazione corrente non è una
prospettiva migliore. Voglio cambiarla, devo.”
“Perché dovresti – oh. Naturalmente. Lo ami.”
Tutto ha senso. Non che prima non ne avesse, ma questo nuovo dettaglio è
determinante, aggiunge un’ulteriore prospettiva al contesto, influendo sulla
cornice narrativa.
“Lo amo,” lei dice con quieta risoluzione. I
suoi occhi, grandi e fragorosi e limpidi, ispirano l’enormità del sentimento
che le sue parole lasciano soltanto trapelare. “Da sempre, credo.”
Il terrore che lo attanaglia alla bocca dello
stomaco è bilioso. La rabbia, il senso di colpa sono rivolti a se stesso e sono
vecchi compagni d’avventura, familiari quasi quanto John. “Ma è tuo amico.
Hamish è il tuo migliore amico.”
“Sì, lo è. Lui è la mia famiglia e io lo amo in
tanti modi diversi che mi completano e mi rendono la persona che sono, ma negli
anni i modi diversi in cui lo amo non hanno davvero lasciato spazio a un
eventuale frammento di amore da riservare ad altri.” Il suo sguardo scivola sui
mobili del salotto in una carezza gentile, affettuosa prima di serrarsi agli
angoli, indurirsi. “Lo amo e vedere come si logora, giorno dopo giorno, in quelle sue
passeggiate infinite di vagabondaggio solitario, smarrendosi nei suoi libri
come se sperasse che basti a catapultarlo al loro interno per vivere quello che
gli sembra che gli sia stato strappato via - la sua sofferenza mi spezza il
cuore.”
Se
servisse a qualcosa, lui indulgerebbe in un gesto confortante che rassereni il
suo turbamento. Ma non servirebbe e non è neppure sicuro che lei glielo
permetterebbe, perciò… Fa una smorfia,
portando le braccia dietro la schiena e congiungendo le mani. “La verità non
sarà gentile o dolce o pietosa.”
“Non lo è
mai.”
“Se lui
sapesse cosa ho fatto per proteggerlo, quali vette sono arrivato a scalare per
farlo, la scoperta cancellerebbe tutto ciò che conosciamo di lui, lo
distruggerebbe. Distruggerebbe sua madre e sua sorella e-”
“Te. Distruggerebbe te.”
“Sì.”
Sherlock deglutisce e gli sembra di ritornare a respirare, tanto grande è il
sollievo che lei abbia capito. Se intraprenderanno questa strada, lo faranno
insieme. Quello che rimane da stabilire è in quale veste succederà: in quella
di nemici o complici? “Sei identica a lei, a tua madre. Mary.”
“Lo so.
Me lo dici spesso.”
“Non
abbastanza, forse. Anche lei lo avrebbe fatto.”
“Metterti
all’angolo?” Il sorriso di lei, per quanto piccolo e stanco possa essere in
quel frangente, rimane uno spicchio di sole nella landa di ombre in cui si sta
addentrando.
“Convincermi
ad essere migliore, costringermi a fare la cosa giusta,” lui la corregge. “Ma
come si fa a fare la cosa giusta quando le opzioni a tua disposizione non sono giuste? Come
fai a prendere una scelta impossibile, sapendo che in qualsiasi caso ferirai i
tuoi amici, le persone a te care?” La sua mano si solleva per allentare il
colletto, ma in ultimo trova posto nei suoi capelli in un equivocabile gesto di
ansia. (E lui lo sa. Del linguaggio del corpo, dopotutto, ha fatto uno dei
capisaldi del suo lavoro.)
“Come si
fa?” Rosamund chiede con una scintilla di interesse e per un attimo lui può
cullarsi in un’illusione. Fare finta che si tratti di una serata qualunque e
che le stia insegnando uno dei concetti astratti della vita, impartendole una
lezione che lei poi deciderà se far propria o rifiutare.
“Non c’è
una lista di pro e di contro. Agisci in base al senso del dovere, alle promesse
che hai fatto. Un giorno di molti anni fa, al ricevimento di un matrimonio, ho
fatto un voto. Ho giurato che avrei protetto la famiglia Watson con tutto ciò
che ero, con la mia stessa vita, se necessario. Negli anni a venire, ho fatto
una promessa molto simile a Molly, alla nascita dei nostri figli.” Sherlock si
interrompe e l’inganno svanisce in un’improvvisa e dolorosa consapevolezza. Quella
non è una serata qualunque, Rosamund non è più la bambina che lo guardava come
gli alberi guardano al sole e dopo la sua confessione tutto cambierà in modo
terribile e assoluto. Non ci sarà una via del ritorno. Dietro la schiena, serra
le mani a pugno.
Lei fa un
passo verso di lui. “Sherlock-”
Lui fa un
breve cenno di diniego e Rosamund ammutolisce, congelandosi sul posto. “All’epoca,”
lui riprende a voce bassa, pastosa, “non potevo sapere che avrei dovuto
difenderli dalle mire di un nemico portentoso e invisibile contro cui era
impossibile vincere, anche schierandogli contro tutte le armi del mio arsenale.
Non sapevo che avrei dovuto proteggerli da loro stessi.” Sospira profondamente,
strofinandosi gli occhi. Non sa come procedere e la cosa lo disturba e mette a
disagio. “La storia è molto lunga.”
Rosamund
lo scannerizza come se la sua espressione facciale fosse un puzzle. Si avvicina
e gli prende la mano. La mano di un’adulta, tiepida e salda – e che fine ha
fatto la bambina a cui Molly acconciava i capelli in trecce, codini e
pettinature complicate? Che fine ha fatto la bambina che lo sgridava se
dimenticava di dire ‘grazie’ o ‘per piacere’?
“Abbiamo
tempo,” Rosamund dice e lui ritrova quella bambina nei tratti del suo viso
serio e pallido, eppure sereno. “Abbiamo tutta la notte.”
Causa sui.
“Sapevi
che Sherlock è il secondo nome di tuo
padre? Tecnicamente parlando, s’intende.”
Sono nel
salotto - lui seduto di traverso sui braccioli della poltrona più comoda, lei a
gambe incrociate sul pavimento.
E’ un
piovoso pomeriggio di metà ottobre. Il mondo al di fuori delle finestre è una
gora d’acqua che cade scrosciante da un cielo plumbeo, riversandosi in rigagnoli
di sporco nelle strade trafficate e con un’umidità che si appiccica alle ossa,
sdiaccia nei respiri condensati dei passanti frettolosi; l’interno del 221B di
Baker Street, invece, è un camino acceso in un salotto confortevole e piacevolmente
sospeso nel silenzio, una terza edizione in condizioni mediocri della Critica della ragion pura e la migliore
cioccolata del mondo – quella della signora Hudson.
Hamish
volta una pagina senza alzare gli occhi dal libro che sta leggendo. “Non dire
assurdità.”
Anche
così, senza guardarla, lui può sentire fisicamente l’irritazione che le sta
attraversando il volto come una saetta, la parola idiota che le danza sulle
labbra piegate all’ingiù.
“Guarda,”
Rosamund insiste e con l’indice picchietta un punto a caso di un vecchio pezzo quadrato
di carta ingiallita che sembra un attestato di laurea. “È scritto qui, nero su
bianco. William Sherlock Scott Holmes, nato a –”
“Morto il
15 gennaio 2012,” lui la interrompe, allungando il collo per osservare meglio quanto
lei gli sta indicando e sbarrando gli occhi l’attimo successivo. “È un
certificato di morte. Perché mio padre dovrebbe averne uno?”
Lo sguardo
di Rosamund è eloquente, nell’inarcamento del sopracciglio destro riesce a
compendiare alla perfezione il ‘te lo avevo detto’ e ‘avevo ragione io, come al
solito’ che sono le sue frasi preferite, specie quando può indirizzarle a lui.
“La domanda più corretta è perché lo
conserva.”
No, Hamish
vorrebbe replicare quando lei glielo passa, ce n’è un’altra persino più
interessante e cioè: perché in fondo, dove è richiesta la firma del medico
dell’ufficio sanitario, è apposta la segnatura del Dottor M. Hooper?
“Oh.”
Questa
volta lei attira subito la sua completa attenzione. “Cos’altro c’è?”
Fissa
senza battere ciglio la linea della sua schiena sottile, incurvata sopra lo
scatolone in cui stava rovistando – memorie impolverate, carteggi e gingilli
raccolti nell’arco di una carriera decennale di casi criminosi -, l’accesa
tonalità di rosso del maglione lavorato a maglia che indossa, i ricci capelli
biondi che le cadono a spiovente ai lati del volto, nascondendolo al suo
sguardo.
“Ne hai
uno anche tu.”
“Ho un
certificato di morte?”
“Non
essere deliberatamente ottuso,” la sente sbuffare, come qualsiasi altra volta
che la provoca di proposito con domande stupide. “Hai un secondo nome. Due, per
la precisione.”
“Un
secondo nome?”
Scrolla le
spalle, serafica, ignara dello stato di confusione che ha appena innescato con
quella rivelazione. “Apparentemente.”
Hamish
mette da parte Kant con un sospiro interiore e si inginocchia accanto a lei sul
tappeto. Hamish A. Victor Holmes, è
scarabocchiato in un’antiquata grafia sul suo certificato di nascita. All’alba
dei suoi dodici anni sembra inverosimile scoprire di avere un secondo nome
oltre a quello di battesimo, figurarsi averne due. “Per cosa credi che stia la A.?”
“Non lo so.
Potresti sempre fare la cosa più ovvia. Domandare.”
Lui scuote
piano la testa e la frangia scura gli cade fastidiosamente sopra un occhio. Suo
padre avrebbe dovuto accompagnarlo dal barbiere, ma un caso dell’ultima ora l’ha
trattenuto a Scotland Yard.
Domandare,
pensa tra sé con un sentimento sfuggente che è un amalgama di amarezza e autoironia.
Sherlock Holmes ha sempre una risposta per i quesiti del resto del mondo, ma
tende ad ignorare con plateale frequenza ognuno dei suoi.
*
“Hugo,” è
la risposta immediata di Sherlock Holmes e suona come il messaggio registrato
di una segreteria telefonica.
“Lo
scrittore?” lui indaga, interdetto.
Suo padre
tende una mano con fare imperioso. Hamish gli passa meccanicamente il
preparato, il corpo allampanato proteso sul tavolo della cucina nell’attesa spasmodica
di una replica.
Sherlock
mormora sovrappensiero ritagli di ragionamenti mentre studia il campione
biologico sul vetrino sotto il fascio di luce del microscopio.
“Perciò mi
avete chiamato Victor per lui?”
Il vago
mormorio si spegne in un sibilo di disappunto. Senza che lo richieda, un’altra
mano, piccola e bianca come un raggio di luna, gli passa un secondo preparato. La
mano appartiene a una bambina dal viso appuntito e un naso impertinente, con
grandi occhi scuri e intelligenti, vestita d’azzurro. Pochi istanti più tardi
l’acciglio sulla fronte di suo padre si spiana e un sorriso di compiacimento
trova posto sulle sue labbra. Si alza dallo sgabello con un’esclamazione
trionfante, prende Agnes in braccio e la solleva in aria come se fosse fatta di
carta, trascinandola con sé in una giravolta che la fa scoppiare in risate
trillanti di pura delizia.
Appoggiato
con il fianco contro una delle porte scorrevoli, Hamish osserva la scena, sentendosi
un ospite indesiderato, il terzo incomodo. Sa che è stupido e obiettivamente
sbagliato provare quello che prova – cupidigia, gelosia, delusione – ma non può
farne a meno. Volta loro le spalle e torna in camera sua.
“Di cosa volevi
parlarmi?” suo padre domanda l’indomani mattina, mentre versa in una delle tazze
del servizio di porcellana con la mappa del Regno Unito il caffè per sua madre
– lo fa ogni volta che lei ha un turno di notte, una delle sue rare
dimostrazioni di affetto: preparare la colazione e portargliela a letto.
Hamish
addenta un angolo del toast, senza provare realmente lo stimolo della fame,
evitando gli occhi che sono uguali ai suoi, ma il cui spirito di osservazione è
moltiplicato all’infinito. “Di niente,” mormora, lo sguardo basso.
*
“Frankenstein,”
suo padre dice con un tono grave e coscienzioso, il tipo di voce che utilizza
per far colpo sugli insegnanti di Agnes nelle rare occasioni in cui sua madre
gli permette di partecipare agli incontri scuola-famiglia.
Alle sue
spalle, la risata di Rosamund, appollaiata sul davanzale della finestra come un
barbagianni, è così repentina e genuina che gli fa diventare rosse le orecchie.
Si volta
di scatto con un’occhiata d’astio e lei mima le parole mute ‘scienziato pazzo’,
al che lui rotea gli occhi e decide che per quella giornata il mistero che si
nasconde dietro il suo secondo nome può aspettare senza diventare il bersaglio
delle spiritosaggini di Rosamund Watson.
*
L’unica occasione
in cui prova a chiederlo a sua madre, Molly gli rivolge un triste sorriso di
scuse, gli occhi stropicciati per le troppe notti insonni di doppi turni al
Barts. “Vorrei poterti dire che è in onore di Victor Babes, ma non è così.”
Quando lui
insiste, l’espressione di lei si fa contrita e si rinchiude dietro un muro di
ombre e malinconie. La mano che gli poggia sopra la spalla è lieve e consolante,
ma la sua voce ha il sapore e il peso di vecchi segreti. “È una storia che non
tocca a me raccontarti.”
L’unico
difetto di Molly Hooper Holmes è anche uno dei suoi migliori pregi: è
impossibile serbarle alcun tipo di animosità o rancore.
*
Una notte,
dopo che un incubo particolarmente vivido l’ha fatto svegliare di soprassalto,
con brividi di sudore freddo e un martellare incipiente dietro i bulbi oculari,
Hamish scosta le lenzuola aggrovigliate e scende le scale in punta di piedi per
andare a prendere un bicchiere d’acqua.
Non
ricorda i dettagli del sogno, ma non riesce a scrollarsi di dosso il retrogusto
che gli ha lasciato sulla punta della lingua: aspro e inquietante. Sa solo che
c’era una donna bella e sinistra come la morte, dalla voce cantilenante.
Ricorda vagamente un pozzo e poi nient’altro, solo il buio di una notte senza
stelle.
Si accorge
della loro presenza quando è già sul pianerottolo. Qualcuno sta discutendo. Non
è sua intenzione ascoltare di nascosto, ma il desiderio di sapere è troppo
forte per sopraffarlo con pensieri che riguardino l’etica, il concetto di
giusto e sbagliato. Le voci appartengono a suo padre e a suo zio e dai loro
toni lui intuisce immediatamente che quella è una conversazione che non
dovrebbe origliare, soprattutto se, a giudicare dall’insolita aria di solennità,
riguarda affari di sicurezza nazionale.
“Non
riesci davvero a vedere,” Mycroft sta dicendo, annoiato, “o eviti volutamente
di affrontare la realtà?”
“Non c’è
niente da affrontare. Niente di cui discutere o che giustifichi la tua presenza
a quest’ora della notte.”
“Ho
verificato. Molly è al Barts e i bambini dormono.”
“Hanno il
sonno leggero.”
“Mi chiedo
da chi lo abbiano ereditato,” Mycroft ribatte sarcasticamente.
“Arriva al
punto.”
“Sta
accadendo quello che temevamo. Dobbiamo predisporre un piano d’azione prima che
si verifichi il peggio.”
“Che si
verifichi il peggio?” Suo padre scoppia in una risata rauca. “Questo è il peggio che potrebbe accadere,
il che mi riconduce alla dichiarazione iniziale. Non è successo niente,”
scandisce a denti stretti.
Una pausa
di silenzio. Hamish arrischia un’occhiata all’interno della stanza. Osserva suo
zio poggiare sul tavolo un plico, aprirlo e disporre in un ventaglio ordinato i
documenti che contiene. Sembrano fotografie. “Questo lo chiami niente?”
“Dove le
hai trovate?” suo padre ribatte con freddezza, ma con meno compostezza del
solito. Se Hamish non lo conoscesse, crederebbe che, malgrado ogni sforzo per
nasconderlo, lui sia agitato, quasi spaventato. Quanto orrenda deve essere la
situazione per farlo reagire in quel modo?
“Per
favore, fratello, non insultare la mia intelligenza. Hai cercato di tenermelo
nascosto. Perché?”
“Non avrò
questa conversazione con te, soprattutto dal momento che non è strettamente
indispensabile.”
“Parlerai
con me o mi troverò ad agire di conseguenza.”
“Non
oseresti.”
“Dimmi.”
La voce di suo zio diventa pericolosamente bassa, simile a un’intimidazione che
è anche una provocazione. “Molly sa
delle attività ricreative in cui indulge la vostra progenie?”
“È giovane.
Non capisce quello che fa.” La risposta frettolosa di
sua padre, il tentativo
inequivocabile con cui sta cercando di sminuire, è una pietra
che va ad addizionarsi alle altre che si sono insediate in fondo
alla sua gola. Stanno
parlando di loro, di lui e di Agnes. I battiti del suo cuore diventano
l’unica
fonte di rumore nell’appartamento.
“I bambini
raramente lo sanno. Il problema è che non rimangono a lungo bambini. Arriva un
momento in cui non si può più scusare quello che hanno fatto, indulgendo nell’attenuante
dell’ignoranza dovuta alla giovane età. Questo non adduce motivazioni valide a
particolari comportamenti e impulsi. Processo di causa ed effetto. Per adesso
si tratta di lievi increspature nell’acqua, ma tarda a prendere una posizione e
le conseguenze saranno catastrofiche.”
“Ricorda con
chi stai parlando. Di chi.”
“È esattamente
per questo che sono qui.”
“Per
minacciarmi?”
“Avvertirti.”
“Non
lascerò che la storia si ripeta. Non lo permetterò.”
“E io farò
lo stesso, se dovesse diventare necessario. Farò quello che devo, come sempre.”
*
Hamish non
ricorda il momento preciso in cui ha capito che sua sorella è diversa da
qualunque altra persona conosca. Non è come Molly – nel caos frenetico che tendenzialmente
è la vita al 221B, sua madre è un punto fermo dalle risorse preziose, con
sorrisi morbidi, orecchie sempre disposte ad ascoltare e insospettate capacità
dialettiche in grado di rimettere in riga perfino l’ego di suo zio (parole di
suo padre, non sue) – né come Sherlock – un ingegno temporalesco e poliedrico, attitudine
irascibile, una miniera che nasconde vene segrete, inesauribili al punto da
inspirare il coraggio di esplorarne gli abissi.
Non è un
intenditore di personalità, ma l’essere speciale di Agnes ha qualcosa di
difforme rispetto all’essere speciale di chiunque altro. La differenza è sottile,
ma inequivocabile. Una volta rilevata, è impossibile evitare di notarla. Il
dolore che ne consegue è acuto e scava buchi e gallerie profonde dentro di lui,
getta disagio e malessere su ogni ricordo.
Non c’è
una data a cui fare riferimento. La scoperta non è immediata, piuttosto è la
lenta consapevolizzazione di una realtà che lo diventa procedendo per gradi, assumendo
forma concreta con dettagli macabri. A undici anni, quando dopo un pomeriggio
trascorso insieme a giocare, chiuse nell’appartamento riadattato del 221C, la
compagna di banco di Agnes scoppia in singhiozzi (il giorno dopo è vittima di
un inspiegabile incidente con l’altalena, frattura all’omero); a tredici, quando
i canarini della scuola muoiono all’improvviso e la colpa viene data a
un’improvvisa gelata (il ricordo di sua sorella, in piedi davanti alle sbarre,
in mano il mangime e lo sguardo vacuo e immobile con cui considerava i piccoli corpi
morti sul fondo della gabbia). L’accettazione arriva più tardi, a diciassette
anni.
E sua
sorella, ormai, le cose che fa e le mille cose che non è, sono diventate la sua
oscura, segreta ossessione.
*
Norbury, lei ha detto senza la minima esitazione.
Lo vede fermarsi come se fosse scattata una molla, dentro di lui, si fosse
verificato una sorta di inceppamento; vede la sua schiena irrigidirsi e le sue
spalle incurvarsi impercettibilmente come sotto un peso invisibile. (Norbury. Un ricordo della sua infanzia: è seduta nella
poltrona di suo padre e Sherlock la osserva con occhi inscrutabili, come capita
ogni volta che un pensiero insidioso gli occupa la mente. No, non un pensiero,
ma un sentimento. “Promettimi che la userai, se lo riterrai opportuno.”)
Fino a un attimo prima, lui era pronto a
fiondarsi fuori dall’appartamento, immergersi nella fredda notte londinese per
correre in un luogo che altri, prima di lui, hanno definito l’inferno dei vivi,
ma che nella sua personale opinione è più vicino ad essere uno Château d’If.
Sa che Hamish è in pericolo. Lo sa da mesi, anni, se volesse essere del tutto sincera con sé stessa e ammettere il
presentimento strisciante che assedia la sua pace da tempo immemore.
Sa dove Hamish si trova, cosa sta cercando di
fare e anche se il pensiero le fa sfrigolare lo strato sottocutaneo dell’epidermide
per l’apprensione, resiste all’impulso del cuore per assecondare quello della
ragione. Non lo aiuterà in alcun modo, lasciando che Sherlock lo segua e
intralci i suoi piani.
Può aiutare Hamish. Può rendersi utile e il modo
migliore è scoperchiare il vaso di Pandora. O meglio, farlo fare a suo padre.
N/A:
Sono già
tornata. Che dire, tranne che mi sento terribilmente ispirata? Terribilmente,
in questo caso specifico, non in senso buono.
Avvertenze
del caso che reputo doverose: se l’angst non fa per voi, se pensate che dopo “Il
Problema Finale” Sherlock Holmes e Molly Hooper si siano meritati il tanto
sospirato lieto fine, forse questa non è la storia che fa per voi. O forse sì,
non sta a me dirlo, davvero. Se invece amate i drammi a carattere familiare, se
pensate che un figlio di Sherlock Holmes non potrebbe mai evitare di essere una
drama queen come il padre perché è genetico, se amate gli intrighi e almeno un
pochino il personaggio di Eurus, allora rimanete sintonizzati.
In
cantiere c’è il secondo capitolo sul quale sono già al lavoro, che dovrebbe
essere anche l’ultimo, a meno che all’ultimo minuto io non decida (o meglio, l’ispirazione
non decida per me) di aggiungere un epilogo.
Causa sui,
il titolo, è un’espressione in latino e tradotta letteralmente significa “causa
di sé stessa”. E’ un concetto filosofico per indicare una realtà oggettiva
che racchiude causa ed effetto, essenza ed esistenza,
pensiero e realtà.
Indizi nel
titolo? E chi lo sa! ;)
Età:
Rosamund
Mary Watson: ventitré anni
Hamish
A. Victor Holmes: venti anni
Agnes M. A. Holmes: quattordici anni