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Autore: Inganno    26/01/2017    0 recensioni
Cosa faresti se potessi provare una sola emozione per volta? E se questa fosse inevitabilmente negativa?
Evelyn lo sa bene, perché è proprio questa la condizione in cui vivono lei e gli abitanti della sua città.
Ogni pillola un’emozione diversa.
Ogni pillola una durata diversa.
Anche Jenny comprende cosa significhi essere una prigioniera, poiché vittima delle brutalità degli adulti senza cuore che lavorano nell’orfanotrofio in cui vive da quasi diciott’anni.
Solo l’intreccio delle loro vite sarà capace di permettere loro di affrontare un lungo e pericoloso viaggio, colmo di insidie ma anche di amore, al termine del quale poter finalmente trovare la libertà da sempre agognata…
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2

Angeli all’inferno

 

I

l redivivo custode del cadente orfanotrofio non sembrava voler proprio imparare la lezione. Dopo ben due infarti e un lungo periodo in coma, risvegliatosi per non si sa quale disgrazia, continuava con la sua perfidia gratuita. Adorava prendersi beffa di quei “mocciosi”, torturarli mentalmente e fisicamente fino a farli piangere.

“Ehi tu, sguattera, qui non hai pulito bene” sogghignò sadicamente una tiepida mattina, orgoglioso della scia di fango lasciata dai suoi stessi scarponi. La ragazza voltò immediatamente il capo, facendo incrociare i propri occhi con quelli dell’uomo. Lo sguardo fiero della giovane, per niente intimorita da chi si trovava di fronte, vinse perfettamente lo scontro psicologico con quel vecchio bastardo, che volse il capo in un’altra direzione. Nonostante non le incutesse soggezione da anni ormai, non aveva mai smesso di darle fastidio poiché sperava ancora di vederla piangere o cedere. Ma non accadeva mai. Non davanti ai suoi occhi, perlomeno.

“Ha perfettamente ragione, sono stata davvero una stupida a non accorgermene!” disse Jenny con una palese quanto fiera ironia. L’uomo così tornò a scrutarla per un breve momento, grugnì e fece per andarsene. Ma ecco che quasi finì a terra se non fosse stato sufficientemente svelto da afferrare la maniglia della porta alla sua destra.

“Mi scusi tanto, non era mia intenzione farla inciampare sulla scopa!” si mortificò falsamente lei, spacciando il tutto per un incidente. Lui si risollevò a fatica ma ancora integro, e con un grugnito più forte di quello precedente si congedò. Jenny sorrise per la piccola vittoria ottenuta, ma sul suo volto si affievolì presto quel segno di trionfo. Erano solo attimi di luce in un tunnel destinato a rimanere buio per sempre. Per quanto potesse compiacersi di quei momenti, restava pur sempre lei l’orfana. Restava lei quella sola. E Jenny sapeva perfettamente che alla solitudine piaceva la compagnia. Le piaceva festeggiare, e non mancavano mai invitati speciali come la tristezza o la disperazione. No, la solitudine non era mai sola, a differenza della povera Jenny, che rassegnata tornò a pulire per più di un’ora senza un briciolo di felicità che segnasse il proprio volto.

 

   Quando finì di svolgere i suoi incarichi, la zona assegnatale non sembrò più la stessa di prima. Era stata rimessa a nuovo, in modo che la signorina Finnegan non potesse accusarla di nulla. Fra le due donne - perché sì, Jenny era molto più vicina a essere una donna che una bambina - c’era infatti una costante rivalità. D’altronde, con i suoi diciassette anni, Jenny era la più grande degli orfani e l’unica in grado di affrontare gli adulti là dentro. Spesso e volentieri si ribellava a loro, alle ingiustizie a cui veniva sottoposta ogni giorno. Stavolta però era convinta che non avrebbero potuto trovare alcun motivo per punirla, aveva svolto il suo compito in maniera davvero eccelsa. Posò perciò gli attrezzi da lavoro in quel vecchio armadio dal precario equilibrio a cui mancava un piede da anni, e si diresse verso il dormitorio comune. Attraversò il corridoio che si affacciava sull’immenso cortile vietato agli orfani, e come sempre si voltò per osservarlo. Era un luogo assolutamente ostile, con una gran sovrabbondanza di alberi talmente cresciuti che sembravano quasi beffarsi della sua piccolezza. All’infuori di un piccolo orticello gestito con dedizione della cuoca dell’orfanotrofio, non vi era alcuna traccia di intervento umano, niente che mitigasse la furia di una natura fin troppo autonoma e ribelle. Un tempo ne era davvero terrorizzata, le sembrava costantemente di sentire voci e sussurri, come fossero gli stessi alberi a discutere misteriosamente fra di loro. Adesso invece era ben diverso, perché quel luogo rappresentava per lei l’unico legame col mondo esterno, l’unica speranza di essere un giorno libera. Voleva scoprire cosa ci fosse al di là di quella spropositata vegetazione, bramava sfidare l’ignoto. Ma sapeva molto bene che non c’era alcuna via di fuga. Quella in cui aveva sempre vissuto era una prigione vera e propria e Jenny si sentiva assolutamente disarmata.

Quel giorno, il sole che filtrava dalle finestre e che disegnava sul pavimento griglie d’ombra sembrava essere meno luminoso del solito, il che conferiva al pomeriggio un aspetto assai più deprimente. Jenny strofinò una mano sui suoi capelli scuri per spostare all’indietro la ciocca che le copriva gli occhi, mentre teneva lo sguardo basso. Camminava immersa nei suoi pensieri, cercava di trovare costantemente delle alternative alla sua prigionia, ma non faceva altro che imbattersi puntualmente in vicoli ciechi. Come sarebbe stato il suo futuro? Per quanto ancora avrebbe vissuto in quel terribile orfanotrofio? Le domande si susseguivano una dopo l’altra, le quali si arrestarono solo quando la ragazza sentì il lamento soffocato di uno dei bambini che cercava di resistere al pianto, mentre veniva brutalmente trascinato per una mano.

“Le conosci le regole, ragazzino!” rimproverò la signorina Cooper, l’infermiera dell’orfanotrofio, mentre obbligava il piccolo a seguirla contro il suo volere.

“Jenny, ti prego aiutami” sussurrò lui quando le passò vicino.

“Lo lasci andare!” esclamò perciò la giovane coraggiosa. La donna in bianco la osservò ostile, per poi fermarsi.

“Jennifer, non ti intromettere, o verrai punita anche tu. Conosci le regole. Nell’istituto della signorina Finnegan non si piange!” puntualizzò aspramente l’infermiera. Poi si voltò nuovamente e riprese il cammino obbligando il piccolo a seguirla.

“Perché lo fa? Lo sa cosa gli succederà se lo porta nel suo ufficio! Lei più di altri dovrebbe pensare alla nostra incolumità!” esclamò spinta da una momentanea follia. Sapeva chi aveva di fronte, perciò era ben consapevole che se c’era una cosa che non le importava era la salvaguardia degli orfani.

Allora la signorina Cooper si arrestò per una seconda volta, stavolta senza voltarsi.

“Jennifer, farò finta di non aver sentito, ma che non si ripeta mai più!” minacciò lei.

“Non mi chiami mai più Jennifer, io sono Jenny” sussurrò allora rabbiosa, stringendo i pugni. La crudele infermiera aprì la bocca per ribattere, ma non emise alcun suono. La richiuse, modellando subito dopo un perverso sorriso sul suo viso. Mise la mano libera in tasca, per poi uscirne un oggetto che la diciassettenne conosceva bene. La giovane distolse lo sguardo, puntandolo fuori dalla finestra. Gli occhi presto le si riempirono di lacrime, ma evitò di emettere un qualunque tipo di suono: non si sarebbe mai perdonata se avesse mostrato all’infermiera anche solo un briciolo di paura. Lasciò andare la donna mentre il piccolo, rassegnato e deluso, si fece accompagnare senza opporre più alcuna resistenza. Jenny terminò il suo pianto in bagno, in compagnia di se stessa. Impiegò parecchi minuti per riprendere il controllo di sé, ma una volta calmatasi si lavò per bene il viso e uscì dalla stanza per dirigersi finalmente al dormitorio, dove attese per tutto il pomeriggio che il piccolo orfano scontasse la sua punizione.

   “Stai bene? Cosa ti ha fatto?” domandò preoccupata la più grande dei minori dopo cena, mortificata per non aver aiutato il piccolo Jason. Questi mostrò chiaramente le mani a tutti gli orfani. Erano ancora rossi i segni della violenza che aveva subito, ma nonostante il dolore fosse ancora forte non lo dimostrò piangendo. Jenny si scusò, ma il bambino le spiegò di non dover essere rammaricata. Poi la abbracciò e lei quasi si commosse.

“Ehi, vi va se vi racconto qualcosa?” propose dopo essersi svincolata dalle piccole braccia del bimbo.

“E stavolta scegli tu la fiaba che preferisci” disse a Jason accarezzandogli la guancia.

Gli orfani mostrarono tutta la loro gioia e si misero attorno alla ragazza. Per tutti loro rappresentava un punto di riferimento essenziale, per i più piccoli quasi una madre. Ogni sera raccontava storie avventurose capaci di portarli fuori da quelle mura e renderli liberi almeno per alcuni minuti. Nessuno di loro conosceva la libertà, e tutto quel che potevano fare era crearsene una. Era la loro unica possibilità di essere vivi, perché in realtà erano molto più simili a dei morti. Erano angeli privati delle loro ali, costretti a vivere nella prigionia dell’inferno. Ma Jenny diceva no alle torture che erano costretti a subire, ed era così da molti anni ormai. Da tempo si era stancata di abbassare il capo ad ogni ingiustizia per innocenza o paura. Aveva dimostrato che anche gli angeli giocano d’azzardo, che anche i più puri riescono a combattere. Essere buoni non voleva dire affatto essere deboli. E finché il corpo glielo permetteva, era ben lieta di accogliere qualunque punizione pur di dimostrare la sua forza. Cercava di trasmettere questo con le sue narrazioni, e quando anche l’ultimo bambino si addormentava, la ragazza faceva quel che ormai da quasi sei anni era solita fare. Ogni notte, da ben sei anni ormai, saliva sempre al piano superiore e senza farsi accorgere da nessuno entrava nella stanza dell’orfanotrofio a lei più cara. Si trattava di una grande biblioteca nata molti anni prima per volere del signor Finnegan, ma che Jenny aveva scoperto solo quando era una dodicenne. Non aveva mai sviluppato preferenze precise, qualunque genere letterario le andava bene, purché leggesse: dalle fiabe inventate ai libri di storia, dai corsi di lingua alle enciclopedie scientifiche. Notte dopo notte la sua cultura cresceva e ogni volta che terminava con la sua lettura non poteva evitare di ringraziare quell’uomo che le aveva donato questa passione. Ricordava perfettamente il suo volto, nonostante fosse passato tanto tempo da quando l’aveva incontrato. Purtroppo se ne andò con la stessa velocità con cui si presentò. Solo tre settimane, ma le migliori di tutta la sua vita. Dopo averlo sentito leggere ed essere stata catapultata in quelle avventure con un lieto fine, non aveva potuto resistere alla necessità di imparare a decifrare quelle lettere che non aveva mai capito cosa significassero, per poter essere in grado di vivere quelle emozioni anche senza il suo aiuto. Imparò in pochissimo tempo e da allora non smise mai più di rifugiarsi in quei mondi. Anche quella volta non dimenticò di esprimere gratitudine per quell’uomo, seppur solo nella propria mente, ma poi, proprio mentre stava per andarsene, un prepotente rumore di passi la bloccò.

Perché il vecchio custode aveva deciso di controllare proprio quel piano a quell’ora? Sentiva il pavimento scricchiolare e i soliti grugniti che caratterizzavano il signor Foster fin dal suo primo infarto. Iniziò a canticchiare un’inquietante melodia, mentre spalancava le porte del piano che stridevano fastidiosamente. Lentamente indietreggiò nell’angolo più remoto della stanza, portando con sé la lampada che le aveva illuminato la lettura. Tenerla accesa forse era rischioso, ma se l’avesse spenta non avrebbe visto a un centimetro di distanza. La biblioteca, infatti, come tutte le stanze sul lato che non si affacciava in giardino, era senza finestre, caratteristica che però avrebbe potuto sfruttare a suo vantaggio. Si sarebbe potuta nascondere fra gli scaffali e confidare nella parziale cecità del vecchio. Pensandoci bene, però, Jenny sapeva quanto quest’ultimo avesse un orecchio sviluppato. L’età avanzata e le malattie gli avevano portato via molte cose, tra cui vista, sensibilità in alcune dita e forza, ma certamente non udito. Era in grado di sentire uno spillo cadere sul pavimento a molti metri di distanza e per la ragazza questo era davvero un problema, giacché a dividerla da lui vi era solo una sottile parete.

“Dove sei, piccolo stronzetto?” disse poi acidamente lui, ma sufficientemente forte perché anche Jenny lo sentisse. Stronzetto? Non si era mai rivolta a lei in questo modo. E poi perché utilizzare il maschile? Forse non stava cercando lei, ma allora che ci faceva là? Ad ogni modo, se l’avesse trovata in quella stanza sarebbero stati problemi seri, che stesse cercando lei o meno. A questo punto era davvero confusa e intimorita più che mai, non tanto per quel che le avrebbe fatto la signorina Finnegan, quanto di dover dire per sempre addio al suo amato rifugio. Adesso il custode era entrato nell’ultima stanza prima della biblioteca, proprio davanti a quest’ultima. Non sapendo cosa fare si nascose sotto la scrivania, per precauzione. Teneva il lume ancora acceso e pericolosamente vicino al corpo, ma in quello spazio ristretto non poteva fare di meglio. Cercò di utilizzare al massimo quei pochi secondi per trovare una soluzione alternativa a quella che aveva trovato. Forse avrebbe potuto distrarre il custode in qualche modo, ma non aveva idea di come fare. Allora ripensò alle piantine dell’edificio che aveva trovato casualmente qualche mese prima nell’ufficio della signora Finnegan, cercando di focalizzarle al meglio nella propria mente. Rapidamente sempre maggiori dettagli si delinearono, finché non ricordò un particolare fondamentale. Uscì di scatto dal nascondiglio e diresse il proprio sguardo verso l’alto. Impresse nella mente l’immagine che aveva davanti e spense il lume. Senza fare rumore salì velocemente sopra uno degli scaffali poggiati su una parete e lo utilizzò a mo’ di scala, con estrema scioltezza nonostante l’ambiente immerso nell’oscurità. Arrivata in cima, sapeva perfettamente che le restavano pochi secondi, ma ormai si sentiva stranamente calma, dominata da una risolutezza del tutto irrazionale: in qualche modo era convinta che ce l’avrebbe fatta. Spostò un pannello del vecchio controsoffitto e, cercando di distribuire nel miglior modo possibile il proprio peso, si nascose nell’incavo, chiudendo appena in tempo l’apertura dalla quale era agilmente entrata. Jenny restò immobile, non muovendo neanche un muscolo. Il custode controllò attentamente la stanza e senza dubbio aveva dato un’occhiata anche sotto la scrivania.

“Quella megera i topi ce li ha nel cervello!” disse poi tra sé e sé. Jenny allora capì finalmente cosa avesse portato il vecchio Foster in quel piano a ispezionare stanza dopo stanza, e non era a causa sua. La signorina Finnegan, donna altezzosa e severa, aveva una sola paura e questa erano i ratti. Probabilmente aveva sentito o visto chissà cosa, obbligando il suo custode a setacciare il piano in cerca del roditore sospetto. Seppur involontariamente, la sua più grande nemica era riuscita ancora una volta a crearle problemi. Ma anche in quest’occasione Jenny riuscì a non uscirne sconfitta, e quando il vecchio si allontanò dalla biblioteca ecco che di nuovo tornò la luce. Aveva vinto di nuovo e questo la rendeva felice, seppur per poco. Poi passò dalla posizione supina a quella prona, poggiandosi sul telaio del controsoffitto con molta cautela, sperando che questi reggesse il suo peso. Con molta più difficolta dell’inizio rimosse il pannello mobile, ma non scese subito. Se n’era accorta solo adesso, ma l’interno dell’intercapedine era vagamente illuminato. Non capiva da quale stanza potesse provenire l’illuminazione, nessuno nell’orfanotrofio sarebbe mai rimasto alzato fino a quell’ora. La curiosità di Jenny, unita alla sua sete di conoscenza, la spinse a gattonare fino alla verità. Ogni tanto emetteva versi di disgusto per aver toccato qualcosa di viscido o schifoso, sperando che non fosse qualche orrendo animale. Avvertiva sotto le proprie mani polveri e chissà quali altre sostanze, ma non per questo si arrestò. Proseguiva molto lentamente, nella costante paura di venir giù. D’altronde, se avesse scaricato il suo peso all’infuori della griglia di base che reggeva l’intera struttura, sarebbe certamente caduta. Realizzò solo dopo alcuni passi che stava gattonando ben oltre il muro della biblioteca, nonostante quella flebile luce non desse una chiara percezione della grandezza di quello spazio. Ma com’era possibile? Poi finalmente raggiunse l’origine del raggio luminoso e con un gran batticuore si avvicinò al foro da dove usciva quel bagliore, e ciò che vide la lasciò senza fiato.

 

 

 

  
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