Capitolo 2
Angeli all’inferno
I |
l redivivo custode del cadente
orfanotrofio non sembrava voler proprio imparare la lezione. Dopo ben due
infarti e un lungo periodo in coma, risvegliatosi per non si sa quale
disgrazia, continuava con la sua perfidia gratuita. Adorava prendersi beffa di
quei “mocciosi”, torturarli mentalmente e fisicamente fino a farli piangere.
“Ehi tu, sguattera, qui non hai pulito
bene” sogghignò sadicamente una tiepida mattina, orgoglioso della scia di fango
lasciata dai suoi stessi scarponi. La ragazza voltò immediatamente il capo,
facendo incrociare i propri occhi con quelli dell’uomo. Lo sguardo fiero della
giovane, per niente intimorita da chi si trovava di fronte, vinse perfettamente
lo scontro psicologico con quel vecchio bastardo, che volse il capo in un’altra
direzione. Nonostante non le incutesse soggezione da anni ormai, non aveva mai
smesso di darle fastidio poiché sperava ancora di vederla piangere o cedere. Ma
non accadeva mai. Non davanti ai suoi occhi, perlomeno.
“Ha perfettamente ragione, sono stata
davvero una stupida a non accorgermene!” disse Jenny con una palese quanto
fiera ironia. L’uomo così tornò a scrutarla per un breve momento, grugnì e fece
per andarsene. Ma ecco che quasi finì a terra se non fosse stato
sufficientemente svelto da afferrare la maniglia della porta alla sua destra.
“Mi scusi tanto, non era mia intenzione
farla inciampare sulla scopa!” si mortificò falsamente lei, spacciando il tutto
per un incidente. Lui si risollevò a fatica ma ancora integro, e con un
grugnito più forte di quello precedente si congedò. Jenny sorrise per la
piccola vittoria ottenuta, ma sul suo volto si affievolì presto quel segno di
trionfo. Erano solo attimi di luce in un tunnel destinato a rimanere buio per
sempre. Per quanto potesse compiacersi di quei momenti, restava pur sempre lei
l’orfana. Restava lei quella sola. E Jenny sapeva perfettamente che alla
solitudine piaceva la compagnia. Le piaceva festeggiare, e non mancavano mai
invitati speciali come la tristezza o la disperazione. No, la solitudine non
era mai sola, a differenza della povera Jenny, che rassegnata tornò a pulire
per più di un’ora senza un briciolo di felicità che segnasse il proprio volto.
Quando finì di svolgere i suoi incarichi, la zona assegnatale non sembrò
più la stessa di prima. Era stata rimessa a nuovo, in modo che la signorina
Finnegan non potesse accusarla di nulla. Fra le due donne - perché sì, Jenny
era molto più vicina a essere una donna che una bambina - c’era infatti una
costante rivalità. D’altronde, con i suoi diciassette anni, Jenny era la più
grande degli orfani e l’unica in grado di affrontare gli adulti là dentro.
Spesso e volentieri si ribellava a loro, alle ingiustizie a cui veniva
sottoposta ogni giorno. Stavolta però era convinta che non avrebbero potuto
trovare alcun motivo per punirla, aveva svolto il suo compito in maniera
davvero eccelsa. Posò perciò gli attrezzi da lavoro in quel vecchio armadio dal
precario equilibrio a cui mancava un piede da anni, e si diresse verso il
dormitorio comune. Attraversò il corridoio che si affacciava sull’immenso
cortile vietato agli orfani, e come sempre si voltò per osservarlo. Era un
luogo assolutamente ostile, con una gran sovrabbondanza di alberi talmente
cresciuti che sembravano quasi beffarsi della sua piccolezza. All’infuori di un
piccolo orticello gestito con dedizione della cuoca dell’orfanotrofio, non vi
era alcuna traccia di intervento umano, niente che mitigasse la furia di una
natura fin troppo autonoma e ribelle. Un tempo ne era davvero terrorizzata, le
sembrava costantemente di sentire voci e sussurri, come fossero gli stessi
alberi a discutere misteriosamente fra di loro. Adesso invece era ben diverso,
perché quel luogo rappresentava per lei l’unico legame col mondo esterno,
l’unica speranza di essere un giorno libera. Voleva scoprire cosa ci fosse al
di là di quella spropositata vegetazione, bramava sfidare l’ignoto. Ma sapeva
molto bene che non c’era alcuna via di fuga. Quella in cui aveva sempre vissuto
era una prigione vera e propria e Jenny si sentiva assolutamente disarmata.
Quel giorno, il sole che filtrava dalle
finestre e che disegnava sul pavimento griglie d’ombra sembrava essere meno
luminoso del solito, il che conferiva al pomeriggio un aspetto assai più
deprimente. Jenny strofinò una mano sui suoi capelli scuri per spostare
all’indietro la ciocca che le copriva gli occhi, mentre teneva lo sguardo
basso. Camminava immersa nei suoi pensieri, cercava di trovare costantemente
delle alternative alla sua prigionia, ma non faceva altro che imbattersi
puntualmente in vicoli ciechi. Come sarebbe stato il suo futuro? Per quanto
ancora avrebbe vissuto in quel terribile orfanotrofio? Le domande si
susseguivano una dopo l’altra, le quali si arrestarono solo quando la ragazza
sentì il lamento soffocato di uno dei bambini che cercava di resistere al
pianto, mentre veniva brutalmente trascinato per una mano.
“Le conosci le regole, ragazzino!”
rimproverò la signorina Cooper, l’infermiera dell’orfanotrofio, mentre
obbligava il piccolo a seguirla contro il suo volere.
“Jenny, ti prego aiutami” sussurrò lui
quando le passò vicino.
“Lo lasci andare!” esclamò perciò la
giovane coraggiosa. La donna in bianco la osservò ostile, per poi fermarsi.
“Jennifer, non ti intromettere, o verrai
punita anche tu. Conosci le regole. Nell’istituto della signorina Finnegan non
si piange!” puntualizzò aspramente l’infermiera. Poi si voltò nuovamente e
riprese il cammino obbligando il piccolo a seguirla.
“Perché lo fa? Lo sa cosa gli succederà
se lo porta nel suo ufficio! Lei più di altri dovrebbe pensare alla nostra
incolumità!” esclamò spinta da una momentanea follia. Sapeva chi aveva di
fronte, perciò era ben consapevole che se c’era una cosa che non le importava
era la salvaguardia degli orfani.
Allora la signorina Cooper si arrestò
per una seconda volta, stavolta senza voltarsi.
“Jennifer, farò finta di non aver
sentito, ma che non si ripeta mai più!” minacciò lei.
“Non mi chiami mai più Jennifer, io sono
Jenny” sussurrò allora rabbiosa, stringendo i pugni. La crudele infermiera aprì
la bocca per ribattere, ma non emise alcun suono. La richiuse, modellando
subito dopo un perverso sorriso sul suo viso. Mise la mano libera in tasca, per
poi uscirne un oggetto che la diciassettenne conosceva bene. La giovane
distolse lo sguardo, puntandolo fuori dalla finestra. Gli occhi presto le si
riempirono di lacrime, ma evitò di emettere un qualunque tipo di suono: non si
sarebbe mai perdonata se avesse mostrato all’infermiera anche solo un briciolo
di paura. Lasciò andare la donna mentre il piccolo, rassegnato e deluso, si
fece accompagnare senza opporre più alcuna resistenza. Jenny terminò il suo
pianto in bagno, in compagnia di se stessa. Impiegò parecchi minuti per
riprendere il controllo di sé, ma una volta calmatasi si lavò per bene il viso
e uscì dalla stanza per dirigersi finalmente al dormitorio, dove attese per
tutto il pomeriggio che il piccolo orfano scontasse la sua punizione.
“Stai bene? Cosa ti ha fatto?” domandò preoccupata la più grande dei
minori dopo cena, mortificata per non aver aiutato il piccolo Jason. Questi
mostrò chiaramente le mani a tutti gli orfani. Erano ancora rossi i segni della
violenza che aveva subito, ma nonostante il dolore fosse ancora forte non lo
dimostrò piangendo. Jenny si scusò, ma il bambino le spiegò di non dover essere
rammaricata. Poi la abbracciò e lei quasi si commosse.
“Ehi, vi va se vi racconto qualcosa?”
propose dopo essersi svincolata dalle piccole braccia del bimbo.
“E stavolta scegli tu la fiaba che
preferisci” disse a Jason accarezzandogli la guancia.
Gli orfani mostrarono tutta la loro
gioia e si misero attorno alla ragazza. Per tutti loro rappresentava un punto
di riferimento essenziale, per i più piccoli quasi una madre. Ogni sera
raccontava storie avventurose capaci di portarli fuori da quelle mura e
renderli liberi almeno per alcuni minuti. Nessuno di loro conosceva la libertà,
e tutto quel che potevano fare era crearsene una. Era la loro unica possibilità
di essere vivi, perché in realtà erano molto più simili a dei morti. Erano
angeli privati delle loro ali, costretti a vivere nella prigionia dell’inferno.
Ma Jenny diceva no alle torture che erano costretti a subire, ed era così da
molti anni ormai. Da tempo si era stancata di abbassare il capo ad ogni
ingiustizia per innocenza o paura. Aveva dimostrato che anche gli angeli
giocano d’azzardo, che anche i più puri riescono a combattere. Essere buoni non
voleva dire affatto essere deboli. E finché il corpo glielo permetteva, era ben
lieta di accogliere qualunque punizione pur di dimostrare la sua forza. Cercava
di trasmettere questo con le sue narrazioni, e quando anche l’ultimo bambino si
addormentava, la ragazza faceva quel che ormai da quasi sei anni era solita
fare. Ogni notte, da ben sei anni ormai, saliva sempre al piano superiore e
senza farsi accorgere da nessuno entrava nella stanza dell’orfanotrofio a lei
più cara. Si trattava di una grande biblioteca nata molti anni prima per volere
del signor Finnegan, ma che Jenny aveva scoperto solo quando era una dodicenne.
Non aveva mai sviluppato preferenze precise, qualunque genere letterario le
andava bene, purché leggesse: dalle fiabe inventate ai libri di storia, dai
corsi di lingua alle enciclopedie scientifiche. Notte dopo notte la sua cultura
cresceva e ogni volta che terminava con la sua lettura non poteva evitare di
ringraziare quell’uomo che le aveva donato questa passione. Ricordava
perfettamente il suo volto, nonostante fosse passato tanto tempo da quando
l’aveva incontrato. Purtroppo se ne andò con la stessa velocità con cui si
presentò. Solo tre settimane, ma le migliori di tutta la sua vita. Dopo averlo
sentito leggere ed essere stata catapultata in quelle avventure con un lieto
fine, non aveva potuto resistere alla necessità di imparare a decifrare quelle
lettere che non aveva mai capito cosa significassero, per poter essere in grado
di vivere quelle emozioni anche senza il suo aiuto. Imparò in pochissimo tempo
e da allora non smise mai più di rifugiarsi in quei mondi. Anche quella volta
non dimenticò di esprimere gratitudine per quell’uomo, seppur solo nella
propria mente, ma poi, proprio mentre stava per andarsene, un prepotente rumore
di passi la bloccò.
Perché il vecchio custode aveva deciso
di controllare proprio quel piano a quell’ora? Sentiva il pavimento
scricchiolare e i soliti grugniti che caratterizzavano il signor Foster fin dal
suo primo infarto. Iniziò a canticchiare un’inquietante melodia, mentre
spalancava le porte del piano che stridevano fastidiosamente. Lentamente
indietreggiò nell’angolo più remoto della stanza, portando con sé la lampada
che le aveva illuminato la lettura. Tenerla accesa forse era rischioso, ma se
l’avesse spenta non avrebbe visto a un centimetro di distanza. La biblioteca,
infatti, come tutte le stanze sul lato che non si affacciava in giardino, era
senza finestre, caratteristica che però avrebbe potuto sfruttare a suo
vantaggio. Si sarebbe potuta nascondere fra gli scaffali e confidare nella
parziale cecità del vecchio. Pensandoci bene, però, Jenny sapeva quanto
quest’ultimo avesse un orecchio sviluppato. L’età avanzata e le malattie gli
avevano portato via molte cose, tra cui vista, sensibilità in alcune dita e
forza, ma certamente non udito. Era in grado di sentire uno spillo cadere sul
pavimento a molti metri di distanza e per la ragazza questo era davvero un
problema, giacché a dividerla da lui vi era solo una sottile parete.
“Dove sei, piccolo stronzetto?” disse
poi acidamente lui, ma sufficientemente forte perché anche Jenny lo sentisse.
Stronzetto? Non si era mai rivolta a lei in questo modo. E poi perché
utilizzare il maschile? Forse non stava cercando lei, ma allora che ci faceva
là? Ad ogni modo, se l’avesse trovata in quella stanza sarebbero stati problemi
seri, che stesse cercando lei o meno. A questo punto era davvero confusa e
intimorita più che mai, non tanto per quel che le avrebbe fatto la signorina
Finnegan, quanto di dover dire per sempre addio al suo amato rifugio. Adesso il
custode era entrato nell’ultima stanza prima della biblioteca, proprio davanti
a quest’ultima. Non sapendo cosa fare si nascose sotto la scrivania, per
precauzione. Teneva il lume ancora acceso e pericolosamente vicino al corpo, ma
in quello spazio ristretto non poteva fare di meglio. Cercò di utilizzare al
massimo quei pochi secondi per trovare una soluzione alternativa a quella che
aveva trovato. Forse avrebbe potuto distrarre il custode in qualche modo, ma
non aveva idea di come fare. Allora ripensò alle piantine dell’edificio che
aveva trovato casualmente qualche mese prima nell’ufficio della signora
Finnegan, cercando di focalizzarle al meglio nella propria mente. Rapidamente
sempre maggiori dettagli si delinearono, finché non ricordò un particolare
fondamentale. Uscì di scatto dal nascondiglio e diresse il proprio sguardo
verso l’alto. Impresse nella mente l’immagine che aveva davanti e spense il
lume. Senza fare rumore salì velocemente sopra uno degli scaffali poggiati su
una parete e lo utilizzò a mo’ di scala, con estrema scioltezza nonostante
l’ambiente immerso nell’oscurità. Arrivata in cima, sapeva perfettamente che le
restavano pochi secondi, ma ormai si sentiva stranamente calma, dominata da una
risolutezza del tutto irrazionale: in qualche modo era convinta che ce
l’avrebbe fatta. Spostò un pannello del vecchio controsoffitto e, cercando di
distribuire nel miglior modo possibile il proprio peso, si nascose nell’incavo,
chiudendo appena in tempo l’apertura dalla quale era agilmente entrata. Jenny
restò immobile, non muovendo neanche un muscolo. Il custode controllò
attentamente la stanza e senza dubbio aveva dato un’occhiata anche sotto la
scrivania.
“Quella megera i topi ce li ha nel
cervello!” disse poi tra sé e sé. Jenny allora capì finalmente cosa avesse
portato il vecchio Foster in quel piano a ispezionare stanza dopo stanza, e non
era a causa sua. La signorina Finnegan, donna altezzosa e severa, aveva una
sola paura e questa erano i ratti. Probabilmente aveva sentito o visto chissà
cosa, obbligando il suo custode a setacciare il piano in cerca del roditore
sospetto. Seppur involontariamente, la sua più grande nemica era riuscita
ancora una volta a crearle problemi. Ma anche in quest’occasione Jenny riuscì a
non uscirne sconfitta, e quando il vecchio si allontanò dalla biblioteca ecco
che di nuovo tornò la luce. Aveva vinto di nuovo e questo la rendeva felice,
seppur per poco. Poi passò dalla posizione supina a quella prona, poggiandosi
sul telaio del controsoffitto con molta cautela, sperando che questi reggesse
il suo peso. Con molta più difficolta dell’inizio rimosse il pannello mobile,
ma non scese subito. Se n’era accorta solo adesso, ma l’interno
dell’intercapedine era vagamente illuminato. Non capiva da quale stanza potesse
provenire l’illuminazione, nessuno nell’orfanotrofio sarebbe mai rimasto alzato
fino a quell’ora. La curiosità di Jenny, unita alla sua sete di conoscenza, la
spinse a gattonare fino alla verità. Ogni tanto emetteva versi di disgusto per
aver toccato qualcosa di viscido o schifoso, sperando che non fosse qualche
orrendo animale. Avvertiva sotto le proprie mani polveri e chissà quali altre
sostanze, ma non per questo si arrestò. Proseguiva molto lentamente, nella
costante paura di venir giù. D’altronde, se avesse scaricato il suo peso
all’infuori della griglia di base che reggeva l’intera struttura, sarebbe
certamente caduta. Realizzò solo dopo alcuni passi che stava gattonando ben
oltre il muro della biblioteca, nonostante quella flebile luce non desse una
chiara percezione della grandezza di quello spazio. Ma com’era possibile? Poi
finalmente raggiunse l’origine del raggio luminoso e con un gran batticuore si
avvicinò al foro da dove usciva quel bagliore, e ciò che vide la lasciò senza
fiato.