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Autore: Elphie94    29/01/2017    3 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxxv.
Imperatrice
(e il mio cuore le restò sulle labbra)1


 

 

 

Fu una notte travagliata. Quando mi destai, ero fremente: avevo le cosce umide di voglia e la voce di mia madre nelle orecchie. Scossi la testa e mi affrettai a prepararmi per una nuova giornata di esercizi. In quelle ore cercai di dimenticare quanto accaduto la sera prima nell'appartamento sul lago, e anche Erik non dava segno alcuno della sua presenza. Parodiai il marmo nella mia cieca – e finta – indifferenza. Alla felicità, preferivamo entrambi l'orgoglio.
«Stai bene? Ti vedo un po' stralunata» mi disse Juliette mentre ci riscaldavamo i muscoli nella sala della danza. Altro che stralunata. Con un'occhiata ad uno dei grandi specchi che ricoprivano la parete, mi resi conto di quanto il mio volto fosse emaciato, frutto di una notte tempestosa. Sospirai e guardai la mia amica.
«Credo di aver commesso un grave sbaglio, Juliette.» Chinai il capo, massaggiandomi le tempie doloranti.
«Riguarda l'uomo di cui mi hai parlato?»
«Sì. È il mio migliore amico ed io… spero proprio di non aver fatto una sciocchezza.»
«Dovete solo chiarirvi» mi pose una mano sulla spalla in segno di conforto. «Non preoccuparti.»
Annuii e tornai ai miei esercizi. Erik era stato il mio primo pensiero al mattino, e aveva popolato la mia notte come pochi incubi sapevano fare. Solo che non si trattava di un incubo, ma di un sogno che mi avrebbe costretta alla pazzia per la sua assurdità… E io ero ancora più assurda.

Tornata nel mio camerino, notai un biglietto sul comodino dalla grafia rossa e incredibile che avrei riconosciuto ovunque. 

Devo parlarti. Dopo la prima di stasera, sul tetto, vicino alla statua di Apollo. Mi troverai lì.

E.

Sospirai. Aspettavo quel momento da parecchio tempo. Un confronto era inevitabile, e io non mi sarei tirata indietro – mai. Semplicemente, non era nel mio carattere, ed Erik lo sapeva.


La prima di Coppélia andò meglio del previsto. Il mio camerino fu nuovamente invaso da fiori e ammiratori, ma io non diedi udienza a nessuno, fingendo di soffrire di un lieve mal di testa. Quando il buio divenne totale, sgattaiolai con indosso una cappa a coprirmi la testa e le spalle e raggiunsi per vie indirette e più sicure il tetto dell'Opera Garnier. I miei passi risuonavano sul pavimento come coppe di vetro infranto, e sperai con tutte le mie forze che nessuno mi stesse seguendo. Ma non avrei dovuto preoccuparmi: Erik doveva già essersi assicurato della segretezza del nostro incontro. Non dovevo dubitare di lui, non in questo.
Cominciava a cadere un lieve spolverio di neve: i bioccoli candidi mi solleticavano il naso sotto il cappuccio, e il tetto dell'Opera, paesaggio vestito di bianco, appariva simile a un letto morbido, ma anche gelido. Seduto sotto la statua di Apollo, vi era Erik. Anche lui indossava una cappa nera, oltre che la solita maschera, e mi aspettava.
Deglutii pesantemente, sapendo che si era accorto del mio arrivo dal suono dei miei passi, che eppure la neve attutiva.
Non ci salutammo. Ci limitammo a guardarci per qualche attimo, gonfi di vergogna, e a distogliere infine lo sguardo. Io lo tenni fermo sul panorama parigino su cui affacciava il tetto, sentendo il suo sguardo dorato bruciare sulla mia nuca incappucciata. Non avevo indossato quel mantello solo per ripararmi dal freddo, d'altronde.

«Perché?» mi chiese di nuovo, e questa volta scandì le sillabe, lento e razionale, senza lasciar trasparire il minimo tremito nella voce. Non c'era bisogno di chiedere a cosa si riferisse. Il nostro bacio – un bocciolo di rosa nelle tenebre – sembrava perseguitarmi come un vero fantasma.

«Lo sai, il perché.»

Lo udii deglutire. Mi voltai appena per vederlo massaggiarsi le tempie con la coda dell'occhio.

«Da quanto?»

Anche qui, era vano domandargli cosa intendesse dire con quelle parole.

«Da mesi, ormai» risposi in un soffio. «Forse da prima della partenza di Christine.»

Lui affondò il volto tra le mani. «Oh, Signore.»

Mi accigliai. «Mi trovi così ributtante?»

Lui sgranò gli occhi e scosse il capo, come colpito da un fulmine. «Ma come ti viene in…?»

«Non c'è bisogno che tu dica niente. È ridicolo – io sono ridicola. È la situazione più patetica in cui mi sia mai trovata. Ho sempre temuto di fare la fine di mio padre, e ora eccomi qui: a confessarmi come da un prete all'uomo più impossibile sulla faccia della Terra.»

Lui non interruppe il flusso. Rimase in silenzio ad ascoltare, le mani strette a pugno sulle ginocchia, quasi avesse voluto stringere in egual maniera il suo cuore. Dio solo sapeva quanto mi sarebbe piaciuto poter fare lo stesso.

Scoppiai a ridere – una risata che sapeva di isteria. «Non è risibile? Tu sei tu e io sono ancora più pazza di te!» Mi passai una mano sugli occhi, sorprendendomi nel notare che erano umidi. Pensavo di non possedere più la forza di piangere.

«Ho provato a dire a me stessa che era una follia – ti giuro, ci ho provato con tutta l'anima. Ma il mio cuore… mi ha tradito. Che verme, non è vero?» distorsi le labbra in una smorfia irritata. Ancora non lo guardavo negli occhi.

«Come…?» gli mancavano le parole.

«Non lo so. È proprio questo il punto: non c'è un solo filo logico al quale possa aggrapparmi. Ho cercato di spiegarmelo con il mito di Platone sulle anime separate dagli dei che una volta erano integre, un corpo solo, e che nel nostro tempo vanno alla ricerca della propria metà costantemente – ma no, non suonava giusto, perché io non sono la metà di nessuno. Finché non ho capito di non desiderare altro compagno che te.» Diedi in un brivido glaciale – quelle parole mi raschiavano la gola fino a farla bruciare – e chinai il capo.

«Quando l'ho capito, quando l'ho accettato, ho pensato di essere impazzita definitivamente. Quel che rimaneva della mia sanità mentale è andata a farsi fottere.»

Erik era talmente sconvolto che non riuscì neanche a rimproverarmi per il turpiloquio.

«Per settimane ho relegato… questo… in un angolo della mia mente, sperando che se non vi avessi prestato attenzione sarebbe svanito. Sciolto come neve al sole. E invece era come un tumore che, non curato, cresce sempre più. Tuttavia, non lo considero maligno. Mi sento come se mi avessero maledetta e di nuovo battezzata al medesimo tempo.»

Lui continuava ad ascoltarmi, le labbra dischiuse in un'espressione di immobile stupore.

«Credo che dovremmo separarci. Almeno per un po'.»

Negli occhi di Erik passò un baluginio pericoloso, come di una preda in trappola.

«Stai scherzando?»

«Erik, se non posso strapparmi a mani nude il cuore dal petto…»

«Non posso farlo neanche io.»

Mi umettai le labbra. Le mie dita erano attraversate da convulsi spasmi elettrici.

«Non posso costringerti ad abbandonare la tua casa, so bene che ti sarebbe difficile vivere in un altro luogo. Ma io pensavo di affittare un appartamento qui a Parigi e…»

«E cosa? Di evitarci per sempre?»

«Di evitare che si ripeta quel che è accaduto ieri, Erik!» insistetti io. Lo guardavo solo in tralice. Notai che aveva un tic alla mano sinistra, quella con cui impugnava il laccio del Punjab – segno che era nervoso, forse persino arrabbiato.

«Resta.» Il suo sussurro fu lacrime e miele per le mie orecchie. Mi costrinsi a scuotere il capo con forza.

«Per iniziare a seguirti come un cagnolino scodinzolante? Hai davvero tanta poca considerazione della mia dignità?»

«Non sei costretta a seguire proprio nessuno.»

«Credi che per me sia facile? Oh, Dio…» repressi un singhiozzo portandomi una mano all'altezza della gola, mentre i miei lineamenti si distorcevano in una smorfia di dolore. «Sei la persona più straordinaria che abbia mai conosciuto, e il solo pensiero di una separazione mi crea una tale angoscia che mi è difficile esprimerla a parole.»

«E allora resta.»

«Per vederti in pena per un'altra? Oh, no… Non se ne parla. Ho un orgoglio da proteggere.»

Questa volta era confuso. «Di cosa stai parlando?»

«Di Christine, naturalmente. Tu la ami e…»

«Aspetta un attimo…»

«Sapevo che mi avresti rifiutata fin dall'inizio, eppure ho rovinato tutto ugualmente. Non avrei dovuto svelarmi. Io non sono Christine, Erik. Sono brutta e oscura e maldestra, con un pessimo carattere e una lingua ancora peggiore. Lo so che non c'è competizione, e d'altro canto mai ho voluto mettermi alla pari con la mia più grande amica…»

«Taci.» Alzò un dito per interrompermi. Repressi un altro singhiozzo e un'imprecazione e rimasi ad ascoltare la sua controbattuta.

«Senza Christine, io non sarei l'uomo che sono adesso. Ma senza di te, non sarei nemmeno più vivo.» Si grattò la radice del naso che non aveva, contorcendo le dita come fosse in preda ad uno sforzo poderoso.

«Brutta e oscura e maldestra quale ti definisci… Come puoi pensare che…?»

Si arrestò un attimo, poi scoppiò a ridere. Una vera risata, roboante e melodica. Rimasi a fissarlo a bocca spalancata.

«Ti pare il momento giusto?» Mi venne voglia di prenderlo a schiaffi. Raccolsi un pugno di neve da terra e glielo scagliai contro, ma lui non cessò di ridere.

«Razza di bastardo, smettila!»

Lui si fermò appena prima che gli gettassi addosso un'altra palla di neve. Si scosse la gelida sostanza biancastra dal mantello.

«Se pensi di dovertene andare perché non sopporti la mia vista, fai pure. Non è mai stato un gran bello spettacolo, comunque. Ma se credi invece che fuggire e far finta che io non esista – e viceversa – sia la soluzione a un sentimento non ricambiato… Dio, mi sento strano solo a dirlo.» Sogghignò ancora, ma brevemente. Il sorriso che ne seguì era dolce e malinconico.

«Meg, non c'è nessun altro che desideri più di te al mondo. Christine è il passato; tu sei il presente e il futuro e tutto ciò che resta della mia vita. Come credi che non possa amarti dopo quello che ci è successo? Dopo tutto ciò che abbiamo superato insieme? Hai paura di un fantasma, forse? Non devi. Erik sa che il suo cuore è con te – sempre. Come sei stata sciocca a pensare di dover competere con il ricordo di qualcuno per… per un essere come me! Non esiste alcun parametro di paragone nella mia mente. Solo tu. Meg…» strinse le dita a pugno, come per darsi coraggio, «… è la tua pelle che chiama la mia. Non so dire altro.» E proferite queste parole, tacque.

Io ero stordita. Significava forse che…?

«Quindi tu…»

«Certo che sì.»

«Da quanto?»

«Dal nostro viaggio in Persia, credo. Mi sono maledetto mille e mille volte – non credevo di essere così ottuso da commettere lo stesso sbaglio, ancora. Tendo ad avere pochi amici, lo sai, e tu sei stata la prima e l'unica, per me. Imparai ad osservarti, notai la tua forza, la tua ironia – tutto di te mi attraeva, come un naufrago alla terra, o un vagabondo al calore di un focolare in inverno. Era come se fossi già un'impronta sulla mia anima, e cancellarti sarebbe significato morire nel tentativo. Speravo che passasse, col tempo, proprio come lo speravi tu. Ma così non è stato. E ora mi trovo qui, dinanzi a te per dirti: resta. Soffriremmo entrambi invano.»

Notando che ero troppo sconvolta per proferire parola, si contorse le dita in una stretta nervosa e proseguì: «Spesso ti ho invitata ad uscire maggiormente coi tuoi amici, perché avevo la certezza che ti avrei persa per qualcun altro più giovane, più… normale di me. E non avevo torto: che vita posso mai offrirti? Non ho nulla se non questa.» Indicò la maschera che gli copriva il volto.

«Non voglio una vita normale. Non potrò mai averla, non dopo mio padre, non dopo la Persia, e a questo punto preferisco viverla al fianco di qualcuno che…» quasi dissi la parolina magica, ma mi morsi la lingua. Aveva comunque compreso quale fosse il messaggio.

Lui si alzò, ancora il viso tra le mani. Io mi avvicinai, cauta.

«Meg, non posso condannarti a vivere in una tomba con me…»

«Decido io cosa fare della mia vita. E credimi, non ci sarà nessuna tomba.»

Lui mi guardò dal basso verso l'alto. Non osava accostarsi maggiormente: le parole gli tremavano in bocca come denti rotti, si incollavano sotto la lingua e diventavano polvere, come in un sogno dimenticato.

«Concediti di essere felice, per una volta. E lo stesso vale per me.»

Mi accostai lentamente, come a una fiera appena liberata dalla gabbia. Un passo, due passi. Gli sfiorai il volto mascherato con le mani e il cuore tremanti. Non provavo la benché minima paura, non più. Lui, d'altro canto, appariva terrorizzato. Fremeva sotto il mio tocco come una bestiolina ferita, quasi si aspettasse che lo uccidessi con una singola carezza. Scostai leggermente i lembi della maschera perché scoprisse di più le labbra: erano sottilissime, due cicatrici nella pelle livida, i denti dal vago colorito giallastro. Le sfiorai con le mie, e vi posai il bacio più delicato di cui fossi capace; stretto a me, lo avvertivo tremare.

Scosse piano la testa. «Meg…» Il mio nome – un sospiro nella sua gola dorata – mi parve in quel momento, detto da lui, il suono più meraviglioso che orecchio umano avesse mai udito.

Gli posai una mano sul cuore. Esso palpitava con la forza di mille soli. «Ora e qui, tu sei vivo» gli sussurrai, il volto premuto contro il suo petto. «Sei vivo, Erik, sei vivo…»

Lui represse a stento un singhiozzo, e si appoggiò a me, stringendomi come fossi fatta di cera e dovessi sciogliermi al calore di quel contatto. «Sei vivo…» Quella notte asciugai ogni sua lacrima e ne bevvi la tristezza; ci rivolgemmo parole mai dette, che ora stento a ricordare nei dettagli ma che rimarranno per sempre impresse in me, poiché vi era l'eternità in ogni lettera, in ogni battito di suono. Ci addormentammo insieme sul letto che era diventato il nostro, stringendoci l'uno all'altra come due bambini in cerca di calore. Fu la notte in cui ritornai in vita anch'io.

 

 

Il sole del mattino non riusciva a penetrare con i suoi raggi fin nel nostro nascondiglio sotto la terra. E quale nascondiglio era. Mi stiracchiai sul letto, appena desta, e mi sorpresi nel non sentire la sua presenza accanto a me, il suo corpo freddo e strano ma da me tanto amato. Dov'era?
Mi passai una mano sugli occhi. Non ero stanca, benché fosse la vigilia di Natale e noi avessimo trascorso la notte a piangere (questo valeva per lui) e a baciarci (questo valeva invece per entrambi). Avevo scoperto che Erik era molto più timido ed esitante di quanto potessi mai immaginare, ma alla fine era riuscito a sciogliersi. Dopo un fiume di lacrime, certo.
Io ne avevo sorriso, accarezzandogli il volto mascherato – non aveva intenzione di sfilarsi la maschera, né ora né mai. Io sapevo che alla fine lo avrei convinto, ma avevo lasciato che esplorasse questo territorio a lui nuovo – l'amore – con la dovuta gradualità.
«Mi stai infradiciando i capelli di lacrime.»
«Scusa.»
Non avevo voglia di alzarmi, ma ben presto udii dei passi avvicinarsi alla porta della camera Luigi Filippo, che era divenuta ormai il nostro mondo, e il mio sorriso sornione si allargò quando, con occhi pieni di sonno, lo vidi entrare nella stanza con in mano un vassoio colmo di leccornie.
«Cioccolata. Non ci posso credere.»
«Hai bisogno di ingrassare e irrobustirti.»
«Tu mi vizi troppo.»
Poggiò il vassoio della colazione sul letto e vi si sedette con le lunghe gambe incrociate. Mentre io mi apprestavo ad ingozzarmi di croissant e marmellata, lui mi accarezzava i capelli arruffati dal sonno con indicibile tenerezza.
«Dormito bene?»
«Poco, ma bene.»
Lui arrossì – una cosa adorabile – e io ridacchiai. «Allora non sono stato un totale disastro.»
Intendeva, nel gioco dei baci. Sorrisi. «Devi solo acquisire maggiore sicurezza: è normale. Io sono soddisfatta così.»
«Buon per te, mia cara. Quanto al sottoscritto, non ho nulla di cui lamentarmi.» Mi baciò la mano, fino a poco prima impegnata a reggere una tazza di cioccolata calda fumante. «Non sono il primo uomo che…» lasciò la frase in sospeso.
Che ho baciato? No, ma sei il primo di cui mi innamoro sul serio.
«Evidentemente» risposi io. «Sei geloso?» lo punzecchiai.
«Assolutamente no. La gelosia ha rovinato tutto una volta; non voglio che accada di nuovo.»
«Non accadrà. Non devi temere.» Nessuno può paragonarsi a te nella mia mente, pensai, ma non lo dissi.
«Ho parlato col daroga, mentre dormivi.»
Annuii, assaggiando un biscotto. Sapevo che gli piaceva cucinare e che li creava lui stesso. Era bravo anche in quell'arte.
«Lo hai rassicurato sulla natura della nostra relazione.» Conoscevamo fin troppo bene i trascorsi poco felici di Erik con le donne – e con una in particolare.
«Sì, ma lui sospettava già da tempo. Già altre volte mi aveva indotto a confessargli i miei sentimenti per te, però sapeva che fino ad ora non ho mai avuto alcuna intenzione di agire al riguardo. Ero sicuro di vedermi rifiutato… Ancora. E sarebbe stato più che giusto. Ma a quanto pare tu non sei normale, ed è la mia fortuna.»
Risi. «Ho dovuto accettare io per prima questo… beh, questo. Non è stato facile.»
«Il daroga dice» proseguì lui, pensoso, «che nulla vieta a una donna come te di amare… beh, uno come me.»
«Vero. Solo il freddo acume della logica, che ho dovuto lasciare da parte per unirmi a te in questa dolcissima follia.»
«”Freddo acume”? Mi stai dicendo che saresti intelligente?»
Rise quando lo colpii con il cuscino.
«Imbecille.»
«In ogni caso» disse quando si fu ripreso, «il daroga mi avverte che se ti faccio soffrire dovrò vedere di sopravvivere a un proiettile in gola. E non voglio proprio provarci.»
«Dovrai sopravvivere alla mia furia.»
«E non solo.» Si massaggiò le tempie. «I fantasmi dei tuoi genitori mi staranno maledicendo dalla tomba.»
Risi all'immagine. «Sono morti; ormai non possono più niente.»
«La loro memoria è sempre importante. Pertanto…»
«… sarò la tua imperatrice.» Mi tesi in avanti per premere le mie labbra sulle sue, al che lui divenne paonazzo e vagamente ebbro di felicità.
Mi baciò di nuovo la mano. «Fai colazione e vestiti. Io ho una sorpresa da prepararti.»
Quando si alzò e fece per andarsene, mi lamentai: «Che cavolo di sorpresa è se me lo dici adesso?» Mi beai della sua risata che mi tintinnava nelle orecchie, limpida come cristallo. Per la fretta, quasi mi strozzai con la cioccolata calda. Un bel bagno mi avrebbe fatto bene, però.


La sorpresa si rivelò essere la composizione completa di Marguerite, il brano per pianoforte che mi aveva dedicato: anche Monsieur Nadir dovette ammettere che era splendido, quando si unì a noi per la cena della vigilia, e trascorremmo insieme quello strano Natale. Era il mio primo Natale senza mia madre: un dolore sordo al petto che neanche l'amore di Erik poteva addolcire. Visitai la sua tomba e poi quella di mio padre, avvertendo più che mai la sua mancanza.
«Sono felice, adesso, Maman. Non sono sola. Ma temo che questa felicità mi sfugga dalle dita come granuli di sabbia.» Sospirai e lasciai i fiori sulla lapide, stringendomi nella mia cappa scura. Erik mi sfiorò le dita con le proprie, gelide ma piene di buone intenzioni; segno che aveva compreso il mio dolore, e non lo dimenticava malgrado la felicità che ci era piombata addosso come una benedizione. Non credevo ai miracoli, ma la devozione di Erik nei miei confronti mi riempiva di meraviglia, anche se questa mai avrebbe raggiunto il livello della sua.
«Sei consapevole che pochi giorni dopo Capodanno compio gli anni?»
«Certamente, cara.»
«Cara. Questo vezzeggiativo è quasi sospetto.»
«Preferisci piccola imbecille insolente?»
Lo colpii su un braccio, ma solo per scherzare, mentre lui fingeva di tirarmi un orecchio. «Ma no. È che sei così dolce con me. Non sono abituata. Un tempo eri così arrogante e freddo…»
«Non abituarti troppo.»
«Voglio un altro regalo per il mio compleanno.»
«Tu te la sei cavata con due baci…»
«Non vale. Ne voglio uno vero.»
«Ci penserò. Ma non fissarti troppo: non voglio viziarti.»
Cacciai la lingua e premetti la testa nell'incavo della sua spalla, mentre lui mi stringeva a sé: era freddo e scomodo, ma non m'importava. Non m'importava più, oramai.


«Ho capito cosa regalarti la prossima volta» annunciai mentre eravamo stesi sul letto, la luce spenta per far posto all'oscurità strisciante e magnifica. Lui mi stringeva a sé come fossi il tesoro più prezioso del mondo.
«Davvero?» Era esitante. Sapeva che stavo per sparare una delle mie frecciatine sarcastiche – mi conosceva troppo bene.
Io soffocai il riso. «Il naso.»
Anche con la maschera e coperto dal buio, potevo indovinare i suoi lineamenti contrarsi in una smorfia perplessa.
«Prego?»
«Il naso di Gogol2
Un attimo di silenzio. Poi scoppiai a ridere come una babbea quando lui mi colpì (ma senza farmi male davvero) con un cuscino sulla faccia.
«Oh mio Dio.»
Ero talmente satura di ilarità che quasi non avevo la forza di riprendermi dalle risate.
«Sei un demonio.»
«No, sono solo molto arguta.»
Alla fine rise anche lui, scuotendo il capo. «Così mi uccidi, piccola imbecille. Sei fortunata ad avere un naso.» Mi diede un colpetto sul nasino schiacciato.
Diedi in un ultimo scoppio ilare, poi mi limitai a sorridergli.
«Ecco» fece lui, la voce dolce e placida.
«Ecco cosa?» Gli posi quella domanda nello stesso tono in cui avrei chiesto: sei stupido?
Lui mi sfiorò la fossetta sulla guancia destra. «Voglio vedere sempre questo sorriso luminoso.»
«Nulla dura per sempre.»
«Ne sono consapevole. Pertanto, mi impegnerò nell'impossibile.»
Affondai il volto nel suo petto. In quel momento non sembrava un sogno tanto astratto e irraggiungibile.


La sera di Capodanno, al gala organizzato all'Opera, indossai l'abito migliore che avessi – non ne avevo tanti, ma con la mia promozione a prima ballerina ero diventata assai più ricca, e pertanto anche il mio guardaroba si era ampliato. Fui leggermente più brillante di quanto fossi mai stata da mesi a quella parte, e le mie amiche non mancarono di notarlo.
«Ti vedo bene, Meg» fece Louise con un sorriso sincero.
«Sorridere ti illumina il viso» aggiunse Fabienne.
«Siamo liete che tu abbia qualcosa per cui sorridere, finalmente» concluse Juliette. Sapevano tutti i miei trascorsi, e non poche delle mie compagne andavano a visitare la tomba di mia madre di tanto in tanto. Solo che non conoscevano gli avvenimenti in Persia, e il sangue sulle mie mani, e il bacio di Erik sulla mia pelle… Non potevano capire. Erano così giovani. Le invidiavo per questo.
«E per cosa dovrebbe sorridere, ora?» chiese Louise, la più maliziosa.
Juliette celò un sogghigno sotto i baffi; invece io, incapace di nascondere la mia recente gioia, chinai il capo.
«Allora è vero. Meg Giry è innamorata» continuò la mia amica, e tutte batterono le mani, mentre io – al centro di questo circolo ridente – mi aprivo in un sorriso sornione.
«Sono così felice per te, Meg cara» mi abbracciò Fabienne, entusiasta. Ma mai quanto Louise: volle sapere tutti i dettagli, pertanto ne inventai molti, e più tardi, quella notte, ne risi con Erik, che apprezzò quella nuova mascherata come fosse uno dei miei scherzi più beffardi.
«Sei una tale bugiarda.»
«Ho imparato tutto dal maestro.»
«Ah, ma davvero?»
Trascorrevamo le notti a dormire l'uno rannicchiato contro l'altra, oppure a raccontarci storie del nostro vissuto – il mio molto più breve del suo, e meno denso di avvenimenti, seppure ricco di colpi di scena poco graditi – e mi rendeva felice il fatto che si fidasse di me a tal punto da svelarmi i suoi segreti altrimenti inconoscibili. Mi raccontava i dettagli più neri e sprezzanti della sua infanzia e adolescenza, e quelli più macabri della sua giovinezza in Persia, come fossi davvero l'unica con la quale parlare del nostro mal de vivre fosse addirittura lecito. Con chiunque altro, era un non detto fremente, un cuore dai battiti nascosti. Era il respiro della nostra anima.
E io avevo capito cosa desideravo per il mio compleanno.


Non sono sicura di come iniziò. Era la notte del tre gennaio, e compievo ventidue anni. Un traguardo: un tempo, alla morte di mio padre – e a quella di mia madre, seguita come un domino macabro e terribilmente beffardo – mi sembrava che nulla mi avrebbe mai portata ai vent'anni. Eppure ero lì, viva e vegeta: forse non integra, ma non vinta; non abbattuta. Sì, ero viva e volevo la vita – la volevo in modo disperato, un ansimo fremente nel petto.
Come tutte le notti, ero acciambellata contro il corpo di Erik, il capo chino sulla sua spalla. Gli accarezzavo i capelli, sfiorando i lacci della maschera. Ripeto, non so bene come cominciò: so solo che seguii l'istinto e, dopo un rapido bacio sulle labbra, gli toccai la gola con le mia bocca vogliosa.
Ero come presa da un raptus di follia improvvisa, ma in realtà avevo ponderato per bene i miei gesti. Lo sentii divenire di ghiaccio sotto di me. Si alzò subitaneamente e si allontanò dalla sottoscritta, quasi fossi una malattia contagiosa.
«Sei impazzita?» mi chiese con un filo di voce. Fino ad allora, non si era mai permesso di baciarmi altro che non fossero le mani o il viso. 
«È il mio compleanno» dissi a mo' di spiegazione.
«E cosa vorresti, sentiamo: me infiocchettato come un pacchetto regalo?»
Sorrisi all'idea. «Non sarebbe male.»

Lui mi diede le spalle, curvo, e scosse la testa furiosamente. «No, no. Non posso.» Sospirò. «Sei così giovane, maledizione…»

Mi accostai a lui, lentamente. Gli strinsi una spalla. «Puoi» gli assicurai. Lui si voltò a guardarmi, una confusione indicibile negli occhi d'oro.
«Vuoi?» soffiai. Il debole lucore della candela disegnava sulla sua maschera ricami ambrati.
«Perché se non vuoi, non sei costretto a…»
Non feci in tempo a concludere la frase che mi baciò, disperatamente, senza la delicatezza di un tempo. Dovevo essere aria per i suoi polmoni.
Vuole.
Sorrisi sulla sua bocca. Non cessai di baciarlo neanche mentre gli sfilavo i bottoni della camicia; la mia mano scese più in basso, sul suo addome e poi...
«Ah.»
Risi quando vidi che aveva difficoltà a sciogliere i lacci del mio corsetto. Alla fine si spazientì e li strappò. Lo trascinai sul letto insieme a me, su di me. La sua pelle… oh, era una mappa di tormenti. Baciai e accarezzai con amore ogni cicatrice, mentre lui prendeva confidenza con il mio corpo nudo. Ci vollero almeno tre ore prima che si sentisse a suo agio, ma io non avevo fretta. Gli presi una mano e la posai sul mio cuore. Pulsava a un tale ritmo che pensai dovesse piroettarmi fuori dal petto. Alla fine lasciò che le sue dita fredde vagassero sulle mie membra. Cominciò lentamente: prima mi baciò le labbra, poi la mascella, infine il collo, i piccoli seni, l'addome... Quando arrivò all'interno delle cosce inarcai la schiena e diedi in un gemito di piacere. Lui alzò lo sguardo, incontrando i miei occhi. Riconobbi quell'espressione. Stai bene? Annuii e lo indussi a continuare.
In seguito furono solo carne, umori, sospiri spezzati nella sua gola dorata – e l'odio, la rabbia, il dolore, tutto aveva cessato di pulsare. Esisteva solo Erik dentro di me, e nient'altro – nulla – aveva più importanza. Non ero esattamente illibata: avevo già permesso a Luc di frugarmi sotto la gonna, ma mai fino a quel punto. Quando giunsi al culmine, mugolai qualcosa d'indefinito e affondai il viso nella sua spalla e le unghie nella sua schiena. Lui, tremante, poggiò il capo sul mio petto. «Grazie…» sussurrò con un filo di voce. Sperai che non rovinasse l'atmosfera piangendomi addosso.
Ridacchiai al pensiero. «Figurati.»


Leggermente ansanti e sudati malgrado fosse inverno e il nostro rifugio si trovasse nei freddi sotterranei dell'Opera, appoggiavo la testa sul suo petto mentre lui districava le dita tra i nodi dei miei capelli.
«Sei così bella.»
«Ecco che ora deliri. Sapevo che sarebbe arrivato questo momento.»
«Non deliro.»
«É da una vita che lo fai.»
Lui sorrise, ma non poté negare.
«Sei felice?» gli chiesi, e lui sembrò sorpreso dalla domanda. Mi guardò negli occhi con le sue iridi color oro pallido e gli angoli della sua bocca – se tale si poteva definire – si distesero.
«Ti preoccupi se io sono felice?»
«Mi preoccupo sempre per te. Sei un tale testone.»
«Lo sono.»
«Cosa? Felice o un testone?»
Lui scoppiò a ridere. «Entrambi. E tu?»
Sorrisi. Lambii il cordolo della sua cicatrice più fresca – quella sul fianco, che si era procurato nell'ultimo viaggio in Persia.
«Non ti ho…» Erik deglutì pesantemente. Lo sentii bollire sotto la maschera.
«Sì?» lo invitai gentilmente.
«Voglio dire, non è stato doloroso? So che per una donna, se non si è attenti…»
«Allora le cose le sai.»
Lui arrossì. «Guarda che sono un esperto di anatomia – sì, anche quella femminile. Non sono così ingenuo da…»
«Da credere che fossi ancora illibata? Erik, vivo in un teatro e ho ventidue anni.»
Lui rimase per qualche attimo sconcertato.
«Vuoi dire che non era la prima volta che…»
«Ma sì. Solo che non è stato il mio primo contatto con un uomo in assoluto.»
Erik ammiccò. «Ah. Capito.»
«Non cambierai opinione su di me?»
«Perché dovrei?»
Sembrava sinceramente confuso. Sorrisi della sua inesperienza. «Non fa nulla. Non preoccuparti.»
Gli posai di nuovo la testa sul petto.


Mi raccontò la storia di ogni sua cicatrice, e io le bevvi come fossi un assetato in un deserto: non credeva di ricordarle tutte, ma dal momento che mi interessava ci provò.
«Ognuna di loro ha qualcosa da dire. Ogni livido, ogni bruciatura trasformata in pelle.»
«E se ti dicessi che del passato m'importa fino a quando ha ripercussioni su di noi? Ora non ne ha. Io le trovo piene di significato, Erik.»
Lui sbuffò. «Ho sempre saputo che eri pazza, ma non dubitavo del tuo senso estetico.»
Indurii la mascella. «Sei tu. Queste cicatrici… ti rendono chi sei. Mi importa solo del presente. Nel presente ci siamo noi. Quindi alza quel culo secco e vieni a baciarmi.»
Erik soffocò una risata. «Quale volgarità.»
Sogghignai. «Tanto lo so che ti piace.»
E mi baciò.


Del nostro tempo insieme non posso dire altro che fu come un sogno dai risvolti sfocati, bellissimo e imprendibile, e destinato a durare poco: non mi sembrava di aver mai amato qualcuno con la stessa intensità con la quale amavo Erik. I mesi trascorrevano pacifici, i nostri incubi erano domati dalla presenza dell'altro. Non smisi mai di sognare i cadaveri dei miei genitori, di Senza Nome e degli altri che avevo ucciso; lui non mi mostrò mai il suo viso alla luce del sole, e non me ne stupivo. Le persone non sono medicine. Ma potevamo sorreggerci l'un l'altro, con determinazione e non poca fatica: insieme al suo, aveva fatto rinascere anche il mio desiderio di vivere. Eravamo vivi entrambi.
Ma avevamo ancora poco tempo.


Se il fantasma dell'Opera era morto, Erik non era defunto con lui. Vi pensai un mattino, appena sveglia, osservandolo dall'uscio della camera Luigi Filippo, vestita solo di una camicia, mentre lui suonava chissà quale melodia – meravigliosa all'orecchio – al pianoforte.
Lo abbracciai da dietro e lo baciai sul collo, stringendolo a me.

«Buongiorno» gli sussurrai, cominciando a divorarlo di baci.

Lui rise. «Come sei entusiasta stamattina.»

«E tu sei pigro. Torna a letto…»

«Sei piena di maliziose intenzioni, vedo.»

«Non ne hai la minima idea.»

Continuai a baciarlo, e sogghignai nel sentirlo gemere nel mio abbraccio.

«Che fervore. Tesoro, guarda che ho una certa età…»

«Sei vecchio.» Gli mordicchiai l'orecchio. «Un orribile vecchiaccio.»

«Più o meno è la descrizione adatta. Ma non ti sei lamentata tanto stanotte, quando mi hai conficcato le unghie nella schiena…»

Mi allontanai di colpo. Non credevo a cosa avevo appena udito. Di solito ero io ad uscirmene con quelle frecciatine a doppio senso – lui era sempre così pudico…
Ma ora stava ridendo. Stava ridendo di me.

«Porco. Sei un vecchio porco. Non ci posso credere.»

Lui continuò a ridere come un imbecille. Lo colpii alla nuca.

«E smettila.»

Stavo per baciarlo di nuovo, presa da un nuovo scoppio di ilarità, quando udimmo un leggero colpo di tosse. «Ehm–ehm.»

Sia io che Erik ci voltammo tanto rapidamente da farci male il collo.

Monsieur Nadir era in salotto, le braccia per metà sollevate nel tentativo di coprirsi gli occhi con le mani. «Non ho visto niente, giuro.»

Erik ed io avvampammo – eravamo stati colti in flagrante – e ci allontanammo il più possibile l'uno dall'altra.

«Oh mio Dio.»

«Ripeto, non ho visto niente.»

Nadir si coprì gli occhi con le mani mentre sgattaiolavo nella camera Luigi Filippo in cerca dei miei vestiti. Origliai la conversazione tra i due uomini che si teneva in soggiorno.

«Daroga, io…»

«Lascia perdere, Erik. Davvero, lascia perdere.»

«Che diavolo ci fai qui a quest'ora del mattino?»

«Dovevi darmi quella medicina per il raffreddore. L'amore reca gioia, ma a quanto pare fa anche dimenticare gli appuntamenti con i vecchi amici.»

Minuti di silenzio imbarazzato si dipanarono mentre io m'infilavo la sopravveste bianca.

«Strano. È stato come vedere mia figlia baciare il mio migliore amico.»

«Daroga!»

A quel punto non mi contenetti più, ed esplosi in una risata fragorosa.

Purtroppo mi restava ancora poco tempo per ridere.

  

Ero imperatrice dell'Opera e del cuore di Erik, ma la clessidra che controllava le nostre vite continuava a far cadere chicchi di sabbia… e scorreva, scorreva indomita e indomabile.
La musica e la danza facevano da cornice al nostro quadretto, che non s'interrompeva se non di domenica, quando – per un motivo che capivo bene – mi portava a passeggio per i boulevard, al calar della notte. Sembrava incredibilmente felice. Mi chiedevo quando mi avrebbe chiesto di sposarlo. Sapevo che aveva delle remore al riguardo, ma io lo avrei chiuso in valigia e portato con me nel mio viaggio intorno al mondo – ero determinata su questo punto – se fosse stato necessario. Forse dovrei chiederglielo io.
Fare l'amore con lui era come danzare in punta di piedi – quello che provavo era fisico solo in parte. Mi beavo delle gioie della carne quanto, e forse meno, di quelle dello spirito: la sua anima mi chiamava a sé, ipnotizzante quanto la sua voce – potevo sentire riecheggiare l'eco del suo battito nella conca della costola sinistra, appena sotto il cuore, fino alla punta delle dita.
Ma iniziarono a trascorrere dei giorni in cui notai che Erik era stranamente sfinito. Terminava prima del solito di suonare e leggere per me, dormiva più a lungo e, peggio ancora, era restio ai miei baci.
Non che non mi volesse. Era, mi diceva, semplicemente stanco.
Poi cominciò a tossire.
Inizialmente ne rimasi sì stupita, ma non oltremodo sconcertata. Insomma, era pur vero che Erik non aveva mai dimostrato di poter cadere preda di debolezze umane come un semplice raffreddore, ma era umano, inequivocabilmente.
«Va tutto bene?» gli chiesi una notte, guardandolo tossire anche il cuore nel fazzoletto di trina; si copriva più del solito, infreddolito, e pensai a una febbre passeggera.

«Solo un raffreddore, mia cara» mi rassicurò, baciandomi sulla fronte. Mi strinsi a lui, perplessa.

«Certo. Come vuoi. Ma curati.»

Qualche giorno dopo gli fu impossibile nascondermi i sintomi, o almeno non più. Tossì così forte da sputare sangue: quando presi nota del liquido rosso sulle sue dita, tremai.

«Erik, che sta succedendo?»

Lui si raddrizzò, passandosi una mano sulle labbra insanguinate. Le parole in bocca gli si agitavano convulsamente. «Nulla, sto…»

«Ma non dire puttanate» dissi duramente, e lui non mi rimproverò il turpiloquio. Avvertiva la mia gelida rabbia ed era improvvisamente cauto. «Che cos'hai?»

Christine aveva perduto il padre con una semplice tosse, mutatasi poi in qualcosa di molto più grave – eppure tutto era cominciato così. La storia si ripeteva.

Erik sospirò gravemente. «Non trovo le parole, Meg.»

«Provaci.»

Chinò lo sguardo. «Credo… di essere malato. Molto malato.»

Deglutii. Fu come se una fiacre mi avesse investito. «Allora curati.»

«Non posso…»

«Come sarebbe a dire non puoi? Sei un medico, no? Uno studioso, un genio. Curati.» Era logico, era… La sua mente era così grandiosa da poter risolvere tutto, era sempre stato così.

«Non c'è cura per questo.» Si trascinò su una sedia e parlò come se da ogni parola gli gocciolasse fuori del veleno. «L'ho studiato su alcuni cadaveri, tanti anni fa… Una malattia rara. Si diffonderà sempre di più tra la gente, col passare delle decadi, ne sono certo. Sta di fatto… che io ne sono affetto. Riconosco tutti i sintomi. Non volevo dirtelo subito, non finché non ne fossi stato sicuro… ma non è una semplice polmonite. È molto peggio. Non c'è via di fuga da questo.»

Lo guardai a bocca aperta. Ero senza parole.

«Mi stai… prendendo in giro?» dissi dopo un minuto di orribile silenzio. Lui scosse il capo, dolente. Non aveva la forza di parlare.

Per poco non mi accasciai a terra. Dovetti fare appello a tutta la mia determinazione per non cedere lì, davanti a lui – per non trasformarmi di nuovo in un topolino perso e spaventato e solo.

Mi massaggiai le tempie doloranti, in preda alla nausea. «Da quanto lo sai?» Eravamo in primavera, l'effluvio dei gelsomini – che tanto mi ricordava quello di Christine – si diffondeva nell'aria dorata di Parigi, ma non giungeva mai fino al sottosuolo, il regno di Erik.

«Da circa un mese, con certezza. Ma lo sospettavo da più tempo.»

«Quanto…» inspirai a fondo. Ero una cariatide di dolore. «Quanto ti resta?» Mi ci volle tutto il mio sangue freddo per formulare quella domanda. Lui respirò appena, e disse in un soffio, dopo un attimo di pausa orribile: «Sei mesi. Non di più.»

Deglutii un fiotto di nausea che mi giungeva in gola direttamente dalla bocca dello stomaco. Sei mesi. Sei mesi e poi lui…

«Pensavo che non ci fosse soluzione scientifica che la mia mente non potesse cogliere. Eppure… c'è ancora così tanto che non capisco.» Si fermò. «Forse… Forse è Dio che vuole così…»

«Non fare il fatalista, adesso. Non ti si addice.»

Mi avvidi che ero umida di sudore gelido. La mia bolla di felicità si era infranta ancora prima che mi accorgessi delle crepature sulla sua superficie di cristallo. Ero tutta un tremore, ora, e il mio viso una maschera impassibile quasi quanto quella – reale – di Erik.

«Meg…»

Lui fece per toccarmi, ma io mi scostai quasi bruscamente.

«Devo… Ho bisogno d'aria, non – non riesco a respirare…» Fuggii via, sulla riva del lago Averno, e mi portai una mano all'altezza delle costole, il cuore che minacciava di sgorgarmi dalla gola come una cataratta di tragedia. Il cuore, pensai. Non mi sento più il cuore…

Non so per quanto rimasi su quella riva tanto familiare. Minuti, forse… Non piansi. Ero troppo scioccata. Tornai da Erik traballante, e lui fece bene a lasciarmi sola – mi conosceva alla perfezione e sapeva che avevo bisogno di qualche attimo di solitudine per raccogliere i miei pensieri sanguinanti.

Lo trovai nella stessa postura in cui lo avevo lasciato: alto, immobile, con le braccia lungo i fianchi. Il solito tic alla mano sinistra – la mano del laccio del Punjab… la stessa mano con cui mi aveva sfiorato, circa un anno prima, all'altezza del diaframma durante una disastrosa lezione di canto. La tese verso di me, ed io mi precipitai tra le sue braccia.

E, finalmente, piansi. Non ero mai stata brava con le parole – ero una macchina che vomitava solo imprecazioni e umorismo becero, come mi aveva definito Erik tanto tempo prima, durante uno dei nostri numerosi battibecchi. Singhiozzai sul suo petto e scossi il capo furiosamente.

«Non lasciarmi sola… Erik, per favore…»

Anche lui pianse, silente, con il mento poggiato sul mio capo arruffato.

«Oddio…» sussurrai tra le lacrime. Perché tanto dolore? Cosa significa, Dio? Perché?

Dovevo quindi strapparmi un occhio dall'orbita, oppure tagliarmi una mano? Perché questo sarebbe significato separarmi da lui. Era un dolore intollerabile che non riuscivo ad accettare. Come potevo vivere senz'anima? La mia sarebbe finita nella tomba con lui, perché le nostre anime erano la stessa cosa. Tremavo al pensiero di perderlo... e, ahimè, mai lo avevo tanto amato.

Ci stringemmo per ore e ore, spaventati e sconvolti. Quale destino ci attendeva, adesso? Sempre e sempre solo Morte. Mi ero innamorata della Morte, avevo fatto l'amore con la sua incarnazione umana e fisica, e ora come mi ripagava? Con lacrime d'addio?

Ma l'amore è un dare e ricevere scambievole, e io ne avevo ricevuto più di quanto fosse possibile in una vita intera.

Ricordai la mia antica preghiera alla Morte. Non ancora. Non ancora.

 

 

Quegli ultimi mesi di esistenza di Erik furono i più terribili della mia vita, un lento suicidio dell'anima. E la mia anima si stava librando con la sua, diretta verso un luogo dove non l'avrei più ritrovata. Vivevo per far rimanere in forze il mio amore per quegli ultimi istanti di gioia e dolore rubati al cielo.

Giunse presto il tempo in cui non riuscì più a cantare senza tossire sangue. Quasi svenne tra le mie braccia, impossibilitato a suonare per me – per l'ultima volta – la melodia che mi aveva dedicato e che portava il mio nome.

Fu costretto a letto, nella camera Luigi Filippo, e la perdita della sua voce fu sconvolgente per lui. Io mi ritirai nei sotterranei, l'opposto di Persefone che, invece, tornava da Ade solo d'inverno. Ma io non avevo più una madre, e la primavera era già giunta, e non sentivo più il profumo dei fiori: tutto ciò che riempiva le mie narici era il lezzo infetto della malattia.

Con una lettera di scuse, lasciai momentaneamente il mio lavoro di étoile per trasferirmi stabilmente nell'appartamento sul lago, in modo da non abbandonare Erik neanche per un secondo. Mi sarei presa cura di lui come un tempo lui stesso aveva fatto con me, con la differenza che io ero terribilmente impotente, ora. Per la direzione dell'Opera, inventai che ero malata, e in fondo era vero: sì, ero malata anch'io. Con lui, moriva la parte più importante di me.

Il Persiano mi dava il cambio al capezzale di Erik quando il sonno mi coglieva impreparata. La febbre si era impossessata del corpo del mio amore in una morsa dolorosa: spesso rigettava anche il sangue dell'anima e avevo paura che mi morisse tra le braccia da un momento all'altro.

«Bruci da far paura…» mormorai un giorno. Ero pallida e sudaticcia – ormai lo ero sempre – e mi limitai a rinfrescare il suo viso smascherato con una pezzuola imbevuta d'acqua per donargli conforto. Rammentai quando eravamo ancora in Persia, e per la prima volta avevo compiuto un gesto del genere… Quanto tutto era mutato da allora. Una lacrima mi gocciolò lungo una gota livida – avevo perso il mio colorito di bistro che Erik, lo sapevo, tanto amava.

Lui si sforzò di sollevare un braccio per raccoglierla. Strinsi le sue dita gelide tra le mie, con una devozione che mi lacerava le corde del cuore.

«Meg…»

Gli intimai un dolce silenzio. «Non sforzarti. Riposa.»

«Meg, devo dirti una cosa… Un'ultima promessa…»

«Dimmi.» Gli accarezzai con amore i capelli. Il Persiano era nel salotto, e aspettava che terminasse la notte perché giungesse il momento di darmi il cambio al capezzale del moribondo.

Lui prese un respiro profondo. Dio, la sua povera voce… era a stento un gracidio, adesso. «Promettimi che vivrai.»

«Non posso vivere senza di te…»

«Devi. Puoi. Sei forte – sei la persona più forte che conosca…» Tossì e io raccolsi il suo sangue in un fazzoletto ricamato e gli detersi le labbra deturpate su cui tante volte avevo posato i miei baci vogliosi.

«Tu sei tutto per me.»

«Anche tu. Meg, mi hai dato più felicità di quanta io abbia mai meritato… Lo so che non ti merito. Dio…» Una lacrima gli corse lungo la gota cicatrizzata, tormentata, incavata come quella di un teschio. L'asciugai con una carezza.

«Ho paura. Non del dopo, no… Di lasciarti. Non voglio, non voglio lasciarti…»

«Lo so…»

«Ma non ho scelta, qui. Ho commesso tante azioni orribili nella mia esistenza… Dio, ho ucciso – ho ucciso – solo per… un perverso senso del potere, e istinto di sopravvivenza, e rabbia, tanta rabbia…» Emise un gemito di dolore. «Andrò all'inferno.»

«Non che non ci andrai. Sei diverso, ora – sei cambiato, tu… ti sei pentito di tutto… E anch'io ho commesso azioni riprovevoli.»

«Non come me. Mai come me, mio tesoro.»

Mi guardò intensamente con i suoi occhi dorati, specchi lucidi in cui si rifletteva il mio dolore, il mio senso di perdita imminente. «Potrai ritrovarmi nella musica» disse con voce fievole – la sua bella, amata voce. «Sarò nelle note, negli arpeggi, in ogni tuo passo di danza. Non dimenticarli. Promettimelo, Meg. Me lo devi giurare.»

Le mie labbra ebbero un fremito. «Te lo giuro. Sulla mia anima, sulla tua, su quella dei miei genitori, io – io te lo giuro. Vivrò.»

Lui ebbe un lieve sorriso. «Bene» gemette piano. «Bene. Scrivi a Christine. Verrà… non è vero? Se non fosse stato per lei, io…» Io non sarei riuscito ad amarti.

«Lo so.» Appariva oltremodo stremato. «Ti amo» gli sussurrai con gli occhi gonfi di lacrime. Lui mi fissò stupefatto: era la prima volta che lo ammettevo apertamente.

«Ti amo anch'io.»

«So anche questo. Ora dormi, mio caro… Dormi…»

Lui chiuse gli occhi ed espirò in un tremore improvviso. Piansi silenziosamente sul suo petto, non prima di aver baciato le sue labbra rovinate, fino ad addormentarmi anch'io.

«Non lasciarmi qui… Erik…»

Ma lui non rispose. Non rispose più.

La notte calò presto.

 

 

Erik spirò nel cuore di una notte di settembre stranamente gelida. Erano trascorsi quasi due anni dal nostro primo incontro, e uno da quando ci eravamo dichiarati a vicenda il nostro amore. Servì tutta la forza del Persiano per convincermi a staccarmi dal suo cadavere.

Spirò che era tra le mie braccia.

E il mio mondo andò in pezzi, ancora. Di nuovo, non fui mai più la stessa. 



Note dell'autrice: 1 e il mio cuore le restò sulle labbra: Verso tratto da una bellissima canzone di Fabrizio De Andrè, il cui titolo è Un malato di cuore.

2 Gogol: Nikolaij Vasil'eviĉ Gogol è considerato uno dei grandi della letteratura classica russa, Il naso è una delle sue storie più famose. Personalmente non l'ho letto, ma ho trovato il volume a casa di un'amica mentre frugavo (col suo permesso) nella sua libreria. Già conoscevo l'autore, e pensando al titolo del racconto non ho potuto resistere e prendere in giro Erik.

Ammettetelo che volete ammazzarmi. E male, anche. Insultatemi pure: sono una sadica, una… vabbè, completate voi. Probabilmente fin dal prologo avrei dovuto dire: “Ma come potete sperare che ci sia un lieto fine?” Eh. È stato uno dei capitoli più difficili per me da scrivere: la parte tutta amorosa e felice dei due ritrovati piccioncini è stato un battito di ciglia; la scena d'amore è stata particolarmente imbarazzante, perché non vi nego che per far quadrare tutto nella mia mente ho dovuto fare una ricerca su Google riguardo i contraccettivi nel tardo Ottocento, con mio padre che ha fatto irruzione per caso nella mia stanza proprio in quel momento, e… sì, imbarazzante. Ma dal momento che – non so se lo avete notato – Meg è una persona molto, ehm, fisica, era ovvio che si potesse trattenere fino a un certo punto. No, non mi dilungherò nel parlare dei contraccettivi usati in quel periodo – Meg ne avrebbe saputo qualcosa, essendo sveglia e vivendo in un teatro, e io avrei preferito non saperne niente, ma tant'è…
La parte dolorosa è stata… ardua. Non riuscivo a trovare le parole. Alla fine mi sono messa un giorno davanti al PC e ho buttato giù tutto in una volta, e ho pianto amaramente. Vi giuro, ho pianto. Far morire un personaggio che hai amato tanto e di cui hai scritto per circa tre anni è angosciante. Anche se, ripeto, era ovvio fin dal prologo che Erik sarebbe morto, prima o poi – solo che immagino vi aspettaste un po' più poi di… questo. Almeno, che so, farli vivere una decina di anni insieme e poi stroncarlo come la sadica che sono. E invece no, devo far soffrire voi e me stessa in questo modo. Sono un mostro: ho dato loro solo un anno di tempo insieme. Scusate.
Questo è l'ultimo capitolo che ho scritto: me ne manca solo uno, e infine l'epilogo, che sarà molto più corto. Non ho ancora cominciato a scrivere il prossimo… So benissimo quel che accadrà, naturalmente, e sebbene – ve lo giuro – Meg andrà avanti e avrà una vita sua, si susseguirà un'altra serie di tragedie che… cioè, mai una gioia, proprio. Naturalmente, tutto si ricollega al fatto che Meg si sente in qualche modo perseguitata dalla morte fin dall'infanzia: prima il padre, poi la madre, infine Erik… e non dimenticate ciò che è accaduto in Persia, il fatto che abbia ucciso – sì, per legittima difesa, ma non se ne pente, e il trauma che uno subisce nell'affrontare una vera e propria guerra, la vita da soldato, deve essere non indifferente.
E che poi l'amore della sua vita sia un uomo che sembra un cadavere putrefatto non è casuale. Lo dice lei stessa.
Purtroppo è un periodo in cui, anche se mi metto davanti allo schermo del PC, non riesco a scrivere. Credo di aver dimenticato come si fa (è possibile?). Se fra tre settimane il prossimo capitolo non sarà pronto, vi giuro che pubblicherò l'altra mia storia, sempre Erik/Meg – la Modern AU, praticamente. Vi assicuro che, pur non mancando del solito draMMaaaa di cui non posso fare a meno, è molto più leggera (e più breve) di questa, e non manca dei suoi momenti divertenti. È più una commedia romantica con qualche tocco, ripeto, drammatico perché sì. Vi sta bene? Spero che non mi maledirete. (Ma chi vogliamo prendere in giro, lo state facendo fin dall'inizio.)
E ora, le recensioni (esordirò chiedendo scusa a ciascuno di voi per la giostra emotiva e luttuosa che è stato questo capitolo):

ondallegra: Scusa. (Appunto.) Non ti preoccupare per non aver recensito, figurati! Grazie per l'avermi riconfermato che Erik è IC. Sì, è sicuramente Lerouxiano, con – come hai detto giustamente tu – influenze da parte del Fantasma di Webber. Tu lo trovi seducente? In qualche modo contorto, lo è… Il suo imbarazzo e la sua agitazione nel, ehm… fare cose più concrete con Meg non lo rendono un dio del sesso (come viene invece mostrato in certe fic – forse lo immaginano tutti come Gerard Butler nel film del 2004? Seh, il mio è molto più orrendo, e così deve essere, altrimenti il personaggio viene snaturato). In ogni caso, ha una personalità affascinante. Perlomeno quando si redime (e non è incazzato XD).
Come hai visto, Erik all'inizio respinge Meg – mi riferisco al primissimo bacio nel capitolo scorso – perché non solo troppo sconvolto per sapere cosa fare, ma anche per il fatto che, pur ricambiando i suoi sentimenti, non si ritiene degno, o adatto, a intraprendere una relazione con lei, consapevole di non poterle regalare una vita normale (cosa che invece lui un tempo desiderava avere con Christine. Ricordi la storia della “sposa viva”?). Niente casetta col cane e marmocchi in giro per il giardino perfettamente curato, per intenderci. Meg lo sa: non ha mai voluto una vita del genere, visto che considera il matrimonio come una “noia” e un “dovere da assolvere” più per far piacere alla madre che a lei. Poi ci sono tante cose che li separano: l'aspetto di Erik, il carattere a dir poco umorale dello stesso, l'età… beh, non è poco. Anche io, fossi in Erik, avrei dei seri dubbi.
In ogni caso, il tuo bisogno di leggere di Erik che finalmente tromba come Dio vuole è stato esaudito. Certo, non è una lemon – non le so scrivere, e poi con Erik sarebbe troppo strano… è così fesso XD – ricordiamoci che è un verginello di quarantotto anni… Mi sa che è più Meg che si è sbattuta lui, tu che dici? XD
Sei libera di odiarmi con tutta l'anima, dopo questo capitolo.
Grazie a te, un bacio! <3

Facy: Scusa. No, davvero, ho detto che avrei chiesto scusa a tutti, ed eccomi qua. Ti aspettavi un capitolo simile – un concentrato di emozioni, a dir poco? Spero che non ti sia messa a piangere sul serio. (Dio solo sa i pianti che mi sono fatta io.)
Per quanto riguarda l'errore grammaticale, grazie per avermelo segnalato. Non lo avevo notato, sono una cretina. Provvederò a correggere. Tra l'altro, sto avendo problemi con l'html da qualche settimana a questa parte, credo che dovrò contattare l'amministrazione del sito.
Tornando a noi, sì, il richiamo a Madeleine, la madre di Erik, e la triste storia dei “due baci” sono tratti dal romanzo della Kay; mi pare di aver specificato anche nelle mie primissime note d'autrice che ho preso spunto anche da lei. Solo per alcune cose, però: ho tradotto (parte de) il romanzo in italiano, da aspirante traduttrice quale sono, e devo dire che le parti che ho preferito sono state proprio quella dell'infanzia di Erik e degli accadimenti in Persia (eccetto qualche, ehm, dettaglio). Per rassicurarti, no, Christine non è la copia sputata di Madeleine. Nessun complesso di Edipo qui, santo cielo – anche se sono sicura che Erik, nel suo sogno d'amore, cercava in Christine anche il conforto che da sua madre non ha mai avuto. Poi, come hai visto, ci sono molte differenze tra la caratterizzazione della mia Christine (ingenua, sì, ma anche indipendente, determinata, assolutamente un'eroina femminista come nel romanzo di Leroux) e di quella della Kay (infantilizzata all'estremo e “punita” perché non è riuscita ad amare Erik nonostante tutti i numerosi casini che questi ha combinato).
Anche per me un personaggio femminile che si rispetti non deve essere assolutamente incentrato solo sull'amore che prova per un eventuale coprotagonista maschile. Non sarebbe né giusto né realista. Il sogno primario di Meg era diventare prima ballerina, e ci è riuscita con le sue sole forze… niente raccomandazioni da un certo F. dell'O.
Non mi chiedere, poi, come mi sia inventata la data di nascita di Erik: mi è venuta in mente così, e probabilmente è una cosa scema, ma non so… è come la beffa dopo il danno. Certo che quest'uomo è una tragedia vivente. (E ora che, come si è visto, muore dopo aver finalmente trovato l'amore e la pace mentale che cercava… Gesù.)
Erik chiede a Meg “perché lo hai fatto?” dopo che quest'ultima lo ha baciato perché è così fesso che non si è accorto dei sentimenti che quest'ultima prova per lui. Emotivamente, è come un bambino nel corpo di un uomo. È un concetto che ho approfondito anche nell'altra mia fic, che è vista dal suo punto di vista. Sì, è molto maturato dopo ciò che è successo con Christine e in Persia, ma in quanto ad emozioni romantiche/sentimentali è molto… incapace. Beh, è pure ovvio.
No, non è vero che la mia scrittura migliora di capitolo in capitolo. Secondo me è peggiorata. Lo ripeto, ultimamente mi metto davanti al PC e mi sembro una deficiente. Boh, sarà un periodo… ho scritto qualcosa riguardo qualche altro fandom, per cambiare un po' aria, ma ti assicuro che questa storia sarà conclusa. Giuro che mi metto un giorno e scrivo il capitolo a raffica. XD
Sì, Meg ha cinquant'anni nel prologo: è il 1910, sono trascorsi ventinove anni da quando, tanto tempo prima, ha incontrato Erik per la prima volta… e che incontro che è stato, ricordi? Comunque è malata, molto malata, e in fin di vita. Per questo appare più fragile – almeno fisicamente; nello spirito, è ancora una forza della natura – di quanto sia in realtà.
Per quanto riguarda la differenza di età… lasciamo perdere. Meno male che sono due adulti consenzienti (non avrei scritto nulla di diverso, figurati). Almeno è canon. Cioè, Christine nel romanzo di Leroux (e anche nel musical di Webber, ora che ci penso) quanti anni potrà avere, venti? Ed Erik… ripeto, lasciamo perdere. (Anche se, devo ammetterlo, mi piacciono gli uomini più grandi. Una volta ne parlai con due mie amiche e loro confessarono lo stesso. Sarà che sono un'anima antica… XD)
E grazie a te. Sei tu ad essere stupenda! <3

P.S. Le manette di pelo rosa non sono servite, per fortuna, ma diciamo che è stata comunque Meg a trascinarlo a letto… non che lui non volesse, mi pare che si sia visto il contrario. XD La tensione sessuale tra sti due era troppa, alla fine dovevano scoppiare,
Ah, nel prossimo post–scriptum sei liberissima di dare sfogo al tuo odio per me.

Jessica24: Scusa anche a te. Altro che angst… la storia di Meg ed Erik è una tragedia.
Per quanto riguarda Sansa, sì, anch'io preferisco decisamente i libri al telefilm. Ma in GENERALE, proprio. Non credo li perdonerò mai per il modo in cui hanno trattato i miei adorati Martell. O per lady Stoneheart. O per Stannis. E milioni di altre cose che non sto qui a dire. Probabilmente l'unico cambiamento che mi sia piaciuto sul serio è quello di aver fatto incontrare prima del solito Tyrion e Daenerys, che sono i miei personaggi preferiti. Ho letto A Dance of Dragons tutto d'un fiato aspettando con ansia che i due si incontrassero… Niente. Beh, spero che nei libri avranno un bel rapporto come nel telefilm.
Non so se nella nuova stagione – nonché ultima :( – Sansa incontrerà Sandor (lo spero perché li shippo tanto), ma Tyrion sì, probabilmente… perché sono certa che Dany incontrerà Jon, e visto che Tyrion è con lei mentre Sansa sta con Giovanni Neve (XD)… Chissà che reazione avranno.
Bei gusti in fatto di musical! Hai letto anche il romanzo di Notre Dame de Paris? Lo scrittore è Victor Hugo, lo stesso de I Miserabili… se ti piacciono le tragedie e i pianti facili, gradirai sicuramente. XD Beauty and the Beast è anche uno dei miei musical preferiti, nonché il Disney che adoro di più, insieme a Mulan e Oceania!
Il fatto che Meg nel romanzo della Kay racconti quelle storie macabre è riportato anche nella mia fic; non so se ricordi, ma ho scritto che a Meg piaceva descrivere nei dettagli le azioni orribili del fantasma alle sconcertate allieve ballerine… solo che lei non ci crede, lo fa per prenderle in giro. XD
Un bacio! <3

debbythebest: Scusa. (Eh, è dovuto.) Hai visto come è andata a finire? Spero che non ti sia venuto il groppo in gola…
Meg è molto segnata dalla morte della madre e da ciò che è accaduto in Persia, certo. In Francia ritrova una sorta di equilibrio, anche grazie ad Erik. Poi ovviamente arrivo io a rovinarle la festa… Lieta che ti sia piaciuta la scena finale dello scorso capitolo, quale hai gradito di più in quest'ultimo? Non credo la morte di Erik, eh? Poveretto. E povera anche la mia Meg. :'(
Un bacio anche a te! <3

bibliofila_mascherata: Scusa, mia fedele lettrice. Se eri sotto shock prima, non voglio immaginare adesso. Sono crudele, lo so.
Qui si sono spinti ben oltre il bacio… Almeno Erik ha conosciuto l'amore prima di morire. E a quarantotto anni, poi… Era ancora “giovane”. Beh, mezza età. Quel che è, insomma.
Nella mia AU, ti giuro che non è così tragico. Almeno ti potrai consolare con quella.
Un bacio, cara! <3

P.S. Ehm, una precisazione: quando Meg dice di non essere del tutto illibata e che ha permesso a Luc, in passato, di “frugarle sotto la gonna”… Spero che abbiate capito i sottintesi. Non c'è bisogno che vi faccia il disegnino, vero? XD Diciamo che Meg a ventidue anni è molto più esperta di Erik a quarantotto.

P.P.S. Non ho precisato che, se non si fosse capito, Erik muore di cancro ai polmoni. Non essendoci le cure di oggi, muore in fretta e dolorosamente. E sì, nel mio headcanon anche il padre di Christine è morto in questo modo – sappiamo solo che “aveva la tosse”, ma vabbè. Come ho scritto qui, la storia si ripete.

   
 
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