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Autore: MadAka    29/01/2017    1 recensioni
«Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza, «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.
«E se fosse Moriarty?»
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Emily Prince si è sempre sentita diversa. Un ombrello giallo sotto la pioggia di Londra, un puntino rosso nel cuore della notte, una mente affollata, sicura e colorata, e una visione unica del mondo intorno a sé.
La sua ambizione più grande la guiderà lontano dalla sua città, fino al più noto numero civico di Baker Street. Tuttavia, contro ogni previsione, la farà anche sprofondare in qualcosa da cui, sola, la ragazza non potrà uscire.
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La storia è ambientata dopo la fine della terza stagione.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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I primi due mesi di convivenza fra Sherlock ed Emily erano trascorsi piuttosto in fretta e calmi. In quell’arco di tempo nulla di eclatante era accaduto e la cosa aveva dato modo ai due nuovi coinquilini di approfondire la propria conoscenza, per quanto possibile. In quei giorni, infatti, il rapporto fra la studentessa e il detective non aveva preso svolte decisive. Sherlock aveva avuto fra le mani cinque diversi casi a cui lavorare, cosa che gli aveva dato la possibilità di non mostrare troppo del suo lato da sociopatico iperattivo alla ragazza. Emily, invece, aveva seguito passo passo il detective nella corretta conclusione delle indagini con entusiasmo crescente, alternando le lezioni allo studio sui libri e all’analisi sul diretto interessato per la sua tesi. In quei mesi aveva avuto modo di immergersi nel mondo di Sherlock Holmes, qualcosa in continuo bilico fra l’intrigante, il misterioso e il deduttivo, un mondo che l’aveva sorpresa e che la esaltava sempre di più. Frequentando Sherlock aveva approfondito l’amicizia con John Watson – e che si era dimostrata una persona ancora più apprezzabile rispetto alle sue più rosee aspettative – con la moglie Mary – donna capace, intelligente e pratica - e perfino con Molly e Lestrade – che le piacevano di più a ogni nuovo incontro. La nuova vita della ragazza a Baker Street si stava dimostrando entusiasmante e ogni giorno che trascorreva in quelle mura si trovava sempre più desiderosa di passare lì dentro l’eternità. Per quanto Sherlock fosse instabile nell’umore, facilmente irritabile e anestetizzasse la noia con metodi discutibili lei era felice di averlo come coinquilino. Allo scadere del suo secondo mese si sentiva parte di quella casa e aveva notato, con sua piacevole sorpresa, che anche il detective sembrava considerarla in tale maniera. Non che le dedicasse attenzioni particolari, ma rispetto ai primi giorni di convivenza, Emily si era accorta che Sherlock aveva iniziato a vivere nella consapevolezza di condividere la casa con qualcuno. Una parte della ragazza – piuttosto piccola e insicura – avrebbe giurato che il merito fosse esclusivamente di quel primo faccia a faccia vinto da lei sull’uomo, quando il motivo della loro disputa era la parete ingombra di fogli di carta, riconducibili al “loro” primo caso.

Quella parete, da cui Emily pensava fosse iniziato realmente tutto, era tornata a essere spoglia solo poche settimane dopo quella sera. La metà del muro che la studentessa aveva strenuamente difeso – incrementando in quel momento l’interesse che il detective provava per lei – si era poi svestita poco a poco delle carte e degli articoli di giornale. Tuttavia non erano stati eliminati, ma riposti con cura dalla ragazza in una valigetta – nascosta sul fondo del suo armadio – come ricordo.

Fuori dal civico 221B il clima si era irrigidito in quei due mesi; aveva dato l’avvio a quello che pareva già essere un inverno freddo, mentre la pioggia, immancabile su una Londra novembrina, bagnava la città a intervalli regolari. Quel venerdì pomeriggio, dopo le quindici, l’acqua sembrava non volerne sapere di smettere di scendere sulla città. Un vento freddo sferzava l’aria e fra il via e vai di persone lungo Baker Street, il riconoscibile ombrello giallo di Emily si faceva strada accanto a uno grigio dalla trama scozzese. Nulla sarebbe sembrato insolito, se non fosse stato che l’ombrello giallo e la sua luminosa nota di allegria, erano fra le mani di Sherlock Holmes.

L’uomo si faceva largo lungo il marciapiede, cercando nella tasca del cappotto il mazzo di chiavi per poter rientrare e togliersi dalla strada – e dalle persone – il più in fretta possibile. Accanto a lui John parlava del più e del meno, senza aspettarsi esattamente una risposta dall’altro.

Entrarono al 221B, salutarono Mrs. Hudson e percorsero la rampa di scale fino in cima. Una volta dentro John si fermò, si guardò intorno e senza riuscire a trattenersi disse: «Mi sembra difficile credere che Emily ti permetta di lasciare questo casino ovunque.»

Sherlock lo guardò, confuso. «Non dovrebbe sembrarti strano. Non è molto diverso da quando vivevi qui tu.»

«Lo vedo. È solo che lei è una ragazza e mi pare tanto ordinata. Pensavo che almeno con una donna in casa avresti smesso di lasciare le tue cose in giro. Giusto per buona educazione.»

Il detective sollevò un sopracciglio, dopodiché con l’ombrello, indicò un punto del soggiorno. Accanto al tavolino una pila di voluminosi libri, dispense e fogli era ammonticchiata malamente, in un ammasso disordinato e traballante.

«Come puoi ben vedere neanche lei è molto ordinata. I suoi libri sono sparsi ovunque, ma da leggere sono interessanti. Ora capisci come mai non è ossessionata dall’ordine?»

«Almeno il frigorifero è sgombero da resti umani?» chiese John, incerto. L’ultima scoperta su Emily lo aveva lasciato un po’ confuso, soprattutto perché non aveva fatto mai caso prima alla cosa.

Sherlock fece una smorfia, borbottò qualcosa e, incrociando l’occhiata dell’amico, rispose rassegnato: «Al momento non ho cadaveri a disposizione.»

La risposta fu sufficiente a tranquillizzare un minimo John. Il fatto che qualcuno dovesse convivere in quella casa insieme a Sherlock non lo faceva stare sereno, soprattutto perché lui sapeva bene a cosa si andava incontro nel condividere lo stesso tetto del detective. Cominciò a sfilarsi la giacca quando sentì l’ingresso di casa aprirsi. Si trattava certamente di Emily, ma la foga con cui stava salendo le scale, per un momento, lo fece dubitare del fatto che si trattasse realmente di lei. Tuttavia dalla porta, nel soggiorno, comparve proprio la ragazza, il cappotto imbevuto d’acqua, i capelli zuppi e una luce furente negli occhi. Josh rimase sconvolto appena la vide. Rivoli rossi le rigavano il volto, scendendo dalle tempie. Anche Sherlock si accorse del rosso che macchiava il viso della coinquilina, ma la sua reazione fu decisamente più controllata di quella del medico, dato che aveva perfettamente capito cos’era successo a Emily.

La ragazza raggiunse il detective con un paio di falcate decise, gli strappò di mano l’ombrello che lui ancora teneva e lo guardò dritto in faccia. «Sono certa che uno come te fosse molto comico con un ombrello giallo per strada.»

«Emi che ti è successo?» chiese finalmente John, preoccupato.

Lei lo guadò, poi tornò a dedicare la sua attenzione al detective. «Sherlock sa benissimo cosa mi è successo» disse, prendendo ad agitare l’ombrello sotto al naso dell’uomo. «Questo è il mio ombrello, Sherlock. Non a caso lo tengo sempre in camera mia, per evitare che mi succeda questo!» tuonò, indicando la sua faccia.

Improvvisamente fu chiaro anche per John. I capelli di Emily erano tinti e quel rosso che le rigava il viso non era sangue come lui, in un primo istante, aveva temuto, ma la colorazione dilavata dai capelli.

Il detective non replicò – cosa positiva, pensò John, poiché c’era il rischio che lui volesse ugualmente aver ragione nonostante fosse nel torto – ma rimase a guardare Emily, in un gioco di sguardi teso. La ragazza, alla fine, si arrese; sbuffò infastidita e si avviò verso la sua camera annunciando: «Vado ad asciugarmi.»

Appena scomparve lungo la rampa di scale John si voltò verso Sherlock e lo guardò corrucciato. «Se lo sapevi, perché le hai preso l’ombrello?»

Il detective sollevò gli occhi al cielo. «John, per favore, evita di farmi la paternale. Se Emily voleva evitare di farsi scolorire i capelli in faccia poteva benissimo chiedere un ombrello a Mrs. Hudson.»

«Potevi chiederglielo tu.»

«E deviare la perfetta traiettoria lineare che porta dalle scale alla porta? Cielo, no. Hai visto che ombrello avevo quando siamo usciti e non hai detto niente, perciò parte della colpa è anche tua» concluse con indifferenza, svestendosi finalmente del cappotto.

John si irrigidì, represse il desiderio di dare un pugno in piena faccia all’amico e ispirò a fondo, tentando di calmarsi. «Senti, Sherlock, Emi è una brava ragazza e mi piace, molto. Almeno con lei, almeno per una volta, potresti cercare di essere meno te stesso del solito?»

«È la richiesta più sbagliata che tu possa farmi» rispose immediatamente l’altro in tono ovvio. «Emi sta scrivendo un tesi su di me. Chiedermi di “essere meno me stesso del solito” significherebbe falsare il suo lavoro.» Si sistemò la camicia, con fare vittorioso. «E noi non vogliamo che ciò accada» concluse.

John rimase a guardarlo, fortemente infastidito. Alla fine sbuffo e si arrese all'evidenza che Sherlock non avrebbe mai cambiato una sola virgola di sé pur di far felice qualcuno.

«Fa' come vuoi. Ma io adesso vado a parlarle. E sappi che lo faccio nella speranza di riuscire a parare il culo a te.»

«Ammirevole.»

Il medico ignorò la provocazione di Sherlock e si avviò lungo le scale, verso la sua ex stanza. Arrivato davanti alla camera di Emily, si fermò. Sentì il suono del phon e dedusse che la ragazza si stava asciugando i capelli nella speranza che questi non macchiassero ulteriormente il suo viso o degli abiti puliti. Provò a bussare ma non ricevette risposta, così optò per infilare la testa nella camera e dare un'occhiata. Emily era seduta sul letto, il volto coperto dalla vaporosa massa di capelli rossi, non più bagnati ma solo umidi. L'aria del phon li faceva muovere come fiamme in un gioco ipnotico. Il medico si schiarì la voce un paio di volte prima di ricevere l'attenzione della ragazza. Emily lo notò, spense il phon e gli sorrise.

«Si può?» domandò lui. Attese il via libera ed entrò nella stanza con tutto il corpo. La ragazza lo invitò a sedersi accanto a lei, battendo alcuni colpi leggeri sul copriletto. John la raggiunse, si sedette e sfregò un paio di volte le mani sulla superficie dei suoi jeans, pensando a cosa dire.

«Un manicomio vivere con Sherlock, visto?» si decise a dire infine, nella speranza che scherzare sull'avvertimento che lui le aveva fatto al loro primo incontro potesse servire a qualcosa.

Emily rise e la cosa aiutò molto John a distendersi. Non aveva ancora imparato bene a consolare una giovane che ne aveva bisogno, ma gli conveniva imparare se sperava di diventare un buon padre, un giorno.

«Non sono arrabbiata con Sherlock, John. Ma è molto dolce da parte tua voler mettere una buona parola su di lui.»

L'uomo si irrigidì. Guardò Emily perplesso e disse: «Io non sono venuto qui per mettere una buona parola su Sherlock. Anzi, se tu fossi arrabbiata ti darei perfettamente ragione.»

Ripensò un momento a quello che aveva appena detto, rendendosi conto di aver mentito su tutta la linea: era proprio per sperare che Emily non si arrabbiasse con Sherlock che l'aveva raggiunta.

«Beh ma anche se fosse? È il tuo migliore amico, è comprensibile che tu voglia prendere le sue difese.»

John fece per replicare, prese fiato e si apprestò a dire la sua. Borbottò qualche parola poi si bloccò di colpo. «Aspetta un momento» disse serio. «Li hai fatti tu questi?»

Il medico teneva gli occhi fissi sulla parete di fronte a loro. Due mesi prima non era così, avrebbe potuto giurarlo. In quell'arco di tempo la carta da parati era stata lentamente sostituita da foglietti di carta, localizzati in un unico punto ma che lasciavano già intendere di essere intenzionati a invadere anche lo spazio intorno a loro. Erano disegni. Piccoli acquerelli dipinti con pochi tocchi decisi; disegni a tratteggio fatti con pennino o penna a sfera su foglietti di carta improvvisati, angoli di articoli di giornale, retro di scontrini. I soggetti erano vari, persone principalmente e fra tutti spiccava l'immagine di Sherlock Holmes. Il detective era ripreso in diverse pose: mentre suonava il violino, leggeva, o guardava da qualche parte. Su di lui c'erano bellissimi acquerelli, ma anche rapidi lavori fatti a tratto. John li guardò tutti, finché un altro non attirò totalmente la sua attenzione. Era un acquerello eseguito con sicuri gesti di pennello, le figure contornate da inchiostro nero, l'atmosfera sospesa e l'amore palpabile: erano lui, Mary e la loro bambina.

«Ti piacciono?» chiese poi Emily.

La ragazza riportò John alla realtà. Lui la guardò colpito. «Quando li hai fatti?» domandò anziché rispondere.

«Oh, quando riesco. Di solito abbozzo i ritratti dal vero e poi li coloro la mattina, prima di andare a lezione. Mi piace molto farli. Ti piace quello di te e Mary? Puoi tenerlo se vuoi, ne sarei felice.»

«Sono tutti meravigliosi, Emi. Sei bravissima.»

La ragazza sorrise, raggiante. «Grazie.»

«Hai studiato arte?»

«No, nulla del genere. Sono solo appassionata.»

«E anche molto talentuosa» rispose lui, alzandosi e staccando il ritratto della sua famiglia. Emily gli aveva permesso di portarlo a casa e lui lo avrebbe fatto, gli piaceva troppo. Diede un'occhiata anche agli altri lavori; gli acquerelli su Sherlock erano altrettanto belli. Uno dell'uomo che suonava il violino, poi, gli parve un quadro miniatura.

«Sherlock sa che lo disegni?» domandò incuriosito.

La ragazza si strinse nelle spalle. «Sicuramente» rispose tranquilla. «Mi macchio sempre le dita quando lavoro con il pennino, dubito che Sherlock non l'abbia notato. Forse non gli interessa.»

John annuì appena a quelle parole, tornò a sedersi accanto a Emily, il disegno fra le mani.

«Sai, John» prese a dire poi la ragazza. «Sono piuttosto certa che Sherlock abbia già capito tutto di me, o per lo meno quasi tutto. Eppure io, in questi due mesi, sono riuscita a capire così poco di lui.»

Puntò lo sguardo sui suoi disegni, zittendosi. John riuscì a percepire una leggera nota di amarezza nel tono della sua voce. Cercò qualcosa da dire, ma Emily pareva non aver bisogno di essere consolata.

«Credevo sarebbe stato più semplice, lo ammetto. Mi sono illusa che sarei riuscita a raccogliere sufficienti informazioni su di lui solo perché sono stata capace di fare un buon lavoro scrivendo di altri geni – geni a modo loro, erano pur sempre assassini. Forse ci sono riuscita solo perché altri avevano già parlato di Jack lo squartatore o Ted Bundy, forse questa volta ho voluto esagerare nel cercare di afferrare una psiche come quella di Sherlock, una psiche mai affrontata prima.» Sospirò, scuotendo leggermente la testa. «Ho raccolto così poco materiale. Non credevo di sentirmelo dire, ma è una delle persone che mi riesce più difficile da comprendere, nonostante sia quello che desidero capire meglio di chiunque altro.»

John si voltò appena per osservare il profilo della ragazza. Non gli parve demoralizzata, solo pensierosa.

«Non so a quanto possa servire,» le disse infine, «ma sebbene conosca Sherlock da un po’ di anni e sia, assurdamente, il mio migliore amico, sono certo di non capirlo alla perfezione il più delle volte nemmeno io. Insomma, lo hai visto anche tu: cambia idea di continuo, a volte non parla per giorni, altre tende a essere monosillabico a meno che non debba mostrare a tutti quanto è intelligente e il più delle volte, anzi, sempre, spara le sue deduzioni brillanti senza ritegno e senza essere interpellato. Io, davvero, non capisco come tu riesca a essere ancora così adorabile pur vivendo insieme a lui» esclamò.

Come ebbe concluso si rese conto di aver deviato l’argomento e preferì rimanere in silenzio. Emily gli sorrise, dolcemente.

«Sono d’accordo,» rise appena, «però ti posso garantire che nonostante tutto, Sherlock mi piace.»

John la guardò, allibito. «Ti… piace?» balbettò.

La ragazza capì immediatamente la situazione. Spalancò gli occhi e rispose subito: «No. Non in quel senso lui… no» disse, aggrottando la fronte come per accertarsi della sua risposta. «Mi piace vivere con lui, indagare insieme a lui, ascoltarlo suonare il violino, saperlo in giro per la mia stessa casa» ammise serena, dopodiché tornò a rabbuiarsi leggermente. «È solo che non lo riesco a capire ancora bene. Mi sono sempre sentita brava nel riuscire a intuire con chi ho a che fare, ma con Sherlock mi riesce così complicato e non capisco perché. Eppure, per quanto questa cosa mi infastidisca, sono contenta di avere a che fare con lui.»

«Magari è proprio perché non sei riuscita ancora ad afferrarlo appieno che ti piace» propose all’improvviso John, senza sapere bene perché lo avesse detto.

Emily lo guardò nuovamente, incuriosita. «Vuoi dire che se mai riuscissi a comprenderlo veramente allora smetterebbe di piacermi?» chiese, sollevando un sopracciglio.

John si alzò dal suo posto, il disegno ancora in mano. Si passò una mano fra i capelli e si strinse nelle spalle. «O forse potrebbe piacerti di più» concluse lui, facendole l’occhiolino e ripensando a se stesso e ai suoi trascorsi con il detective. «Ti va di tornare di sotto? Possiamo preparare un tè» propose infine.

La ragazza rimase a guardarlo un momento, poi sorrise. Anche John Watson le piaceva, decisamente. E il fatto che la sua prima impressione sull’uomo si dimostrasse via via sempre più corretta la rassicurava. Non era lei che stava perdendo la sua capacità di intuire in fretta con chi aveva a che fare, era Sherlock Holmes che ogni giorno si dimostrava la sfida più intrigante che lei avesse potuto lanciare a se stessa.

Scese le scale seguendo il medico, rinvigorita: avrebbe fatto un ottimo lavoro, avrebbe capito perfettamente Sherlock e la sua mente geniale.

In fondo alla rampa i due si trovarono davanti proprio l'oggetto della loro ultima conversazione. Il detective era fermo al centro del soggiorno, rivolto verso di loro.

«I tuoi capelli sono nuovamente asciutti, Emi. Ottimo» disse con eccessivo – e decisamente sospetto – entusiasmo. «Usciamo» annunciò poi, un gesto della mano a far intendere che erano inclusi in quella gita fuori porta tutti, anche John.

«Bene, usciamo. E dove dovremmo andare?» chiese scettico quest'ultimo, consapevole che c'era ben altro in gioco; probabilmente un cadavere dato il luccichio eccitato negli occhi dell'amico.

« Al St. Bartholomew's Hospital. Molly ha qualcosa per me.»

 

*

 

John chiuse la chiamata proprio mentre stavano per varcare la soglia dell'ospedale. Il cielo si era rischiarato sopra la città e il blu del tardo pomeriggio cominciava a virare verso toni sempre più scuri.

«Non mi fermo a lungo. Mary deve uscire più tardi e non posso certo lasciare sola la bambina» informò il medico, affiancando Sherlock. Emi, un passo dietro ai due, li seguiva osservandoli.

Di nuovo il St. Bartholomew's Hospital, un posto che lei aveva imparato a conoscere fin troppo in fretta. Doveva esservi entrata come minimo sette volte da quando frequentava Sherlock.

«Molly ha cosa per te, esattamente?» chiese all'improvviso John, destando l'interesse di Emily. «Spero non qualche pezzo umano da lasciare nel frigorifero a marcire.»

Sherlock arricciò le labbra. «Sai, ho pensato di svolgere altri studi sui legamenti delle mani. Devo tenere aggiornato il mio sito anche sotto questo punto di vista» rispose con tono ovvio.

«Veramente non sono così sicuro che esista qualcuno seriamente interessato a questi tuoi studi» gli ricordò John per l'ennesima volta.

Il detective lo guardò, radioso. « E qui ti sbagli, di nuovo. Per il lavoro che Emily sta scrivendo su di me il mio sito è molto importante.»

John si voltò verso la ragazza. Quest'ultima si strinse nelle spalle e abbozzò un mezzo sorriso. «Ha ragione.»

Il medico sbuffò davanti alla nuova vittoria di Sherlock.

«Ok, ma non ci avrai fatto venire tutti solo per recuperare delle mani, spero.»

L'altro si fermò di colpo a quelle parole. John, abituato a questo genere di sceneggiate, si arrestò in tempo ma Emily, colta di sorpresa, per poco non finì addosso a entrambi.

«Non essere stupido, John. Siamo qui per qualcosa di meglio» lo rassicurò Sherlock.

La cosa non servì a tranquillizzare molto il medico, al contrario. Fu la conferma che c'era un cadavere di mezzo – con tutta probabilità la conseguenza di un omicidio – ovvero qualcosa che, più volte, era stato sinonimo di guai per loro due.

I tre ripresero a camminare e raggiunsero il laboratorio, dentro il quale Molly li stava aspettando. Sherlock fu il primo a entrare.

«Buon pomeriggio, Molly» disse varcata la soglia.

La donna si irrigidì appena nel vederlo. Lo salutò un po' impacciata, per poi estendere il saluto anche ai due che erano con lui. Sherlock si svestì del cappotto e lo lasciò nell'attaccapanni accanto alla porta, subito imitato da Emily. John, invece, si rivolse all’anatomopatologa: «Cos'avresti per Sherlock, quindi?»

Lo chiese con un po' troppa foga. Molly, infatti, lo guardò nervosamente. «Dei campioni di sangue di Horvat.»

Emily si avvicinò all'improvviso sentendo quel nome.

«Horvat? Il presunto assassino del giudice Walker?» chiese alla donna, sinceramente incuriosita e improvvisamente interessata.

«Sherlock non ci ha detto niente» intervenne John, sempre rivolto a Molly.

Il detective lo affiancò. «Eravate troppo impegnati a parlare di me quando sono stato informato. Non mi sembrava opportuno interrompervi. Ebbene, Horvat è stato ritrovato nella sua cella privo di vita.»

Sentendo quelle parole John si voltò e lo guardò di sbieco. Venne completamente ignorato.

«Quindi Horvat è morto» mormorò Emily, sovrappensiero.

«Già. Avvelenato anche lui a quanto pare. Pensano si tratti di suicidio» disse Molly.

La notizia fece scattare molte cose nella mente di Emily, prima fra tutte il fatto che quella, per lei, era una morte fin troppo sospetta. La faccenda di Horvat le era parsa dubbia fin dall’inizio e di certo quel “suicidio” le dava modo si pensare che dietro tutto ciò si nascondesse qualcosa di ben più grande. Nella sua mente qualcosa le disse che Horvat non si era affatto ucciso e che chiunque gli avesse somministrato il veleno era, con tutta probabilità, lo stesso che aveva ucciso il giudice Walker e pagato Horvat per addossarsi la colpa. Si accorse con la coda dell’occhio che Sherlock la stava guardando. Rispose al suo sguardo e lui rimase lì, a osservarla ancora, i limpidi occhi azzurri a indagare ben più in profondità di quanto chiunque altro riuscisse a fare.

«Ti ho preparato dei campioni di sangue, Sherlock. Sono sul tavolo, accanto al microscopio e ai reagenti» dichiarò Molly.

Il detective si rivolse a lei e la ringraziò.

«Credo dovremo stare qui per diverse ore» disse poi. «John fra poco dovrà andare via, ma tu rimani, non è vero, Molly? Ho bisogno di qualcuno che ci sappia fare.»

La donna annuì e a Emily non sfuggì il sorriso lievemente imbarazzato e il gesticolare febbrile delle mani, nascoste dalle maniche del camice. Capì che i suoi sospetti – formulati nelle settimane precedenti – erano fondati. Molly era interessata a Sherlock e il fatto di conoscerlo da anni non l’aveva ugualmente aiutata a rendere ininfluente i suoi sentimenti a contatto con lui. La cosa le fece tenerezza, oltre ad aumentare ulteriormente la simpatia che lei nutriva nei confronti del medico.

Sherlock non aveva finito di parlare, si sistemò al microscopio e prese in mano una delle provette contenente il sangue di Horvat. «Cerca di non disturbarmi, però. E se hai voglia di parlare c’è Emi. È molto socievole» concluse, con la sua consueta faccia tosta.

«Vuoi renderci partecipi della cosa, di grazia?» sbuffò John in direzione dell'amico.

«C'è poco di cui rendervi partecipi» replicò asciutto Sherlock. «Horvat è morto avvelenato. Ora analizziamo il suo sangue per cercare di capire cosa, esattamente, lo ha ucciso. Una volta ottenuta questa informazione iniziamo a fare delle supposizioni.»

Mise una goccia di sangue su un vetrino da laboratorio e lo spostò sotto al microscopio, cercando poi fra i reagenti la sostanza giusta per verificare la sua prima teoria.

«Lavoro così da sempre, possibile che tu senta ancora il bisogno di pormi certe domande?»

John lo ignorò completamente e si rivolse a Molly: «Non è stato ancora analizzato questo sangue, quindi?»

La donna scosse la testa. «No, non ancora. Hanno trovato Horvat questa mattina. La prima autopsia mi ha consentito di capire che è stato avvelenato ma non so ancora con cosa. Prima che potessi svolgere altre analisi l'ispettore Lestrade mi ha detto di contattare Sherlock.»

«Anche Lestrade sospetta un omicidio, allora» propose Emily, con una lieve incertezza.

Guardò l'anatomopatologa, che annuì. «Esatto, ma non può fare molto. In centrale sono tutti propensi a credere all'ipotesi del suicidio e lui sa già che se proponesse di indagare senza prove certe glielo impedirebbero.»

Emily si voltò verso Sherlock in cerca di una qualche possibile reazione da parte dell’uomo. Quello che Molly aveva appena detto loro lasciava intuire che Lestrade non solo si fidava del detective, ma era anche consapevole che lui fosse l’unico in grado di far luce su quella situazione. Era tutto decisamente più complicato di quanto apparisse. Tuttavia Sherlock non batté ciglio, ma continuò a osservare attentamente il campione di sangue e la sua reazione sotto al microscopio. La ragazza, allora, gli si avvicinò; si posizionò al suo fianco e rimase a guardarlo lavorare, in silenzio. Osservò i suoi occhi fissare con intensità il sangue attraverso le lenti dello strumento, la matita muoversi sul taccuino mentre prendeva appunti senza guardare ciò che stava scrivendo. Il detective era di nuovo nel suo elemento, dove dimostrava di sapersi destreggiare alla perfezione. Era impassibile, fermamente risoluto ed Emily sentiva, nel più profondo di sé, che lui aveva scoperto già molte più cose di quanto non volesse dare a vedere.

Quello dell’omicidio di Horvat non era un nuovo caso, ma solo un nuovo filo di una più vasta e intricata rete in cui lei, leggendolo nello sguardò di Sherlock, capì di essere appena rimasta incastrata.

 

  
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