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Autore: iamnotgoodwithnames    30/01/2017    1 recensioni
" -ha mai provato a farlo, ha mai provato a conoscersi, signor Holmes? Lei, che osserva tutto, ogni singolo dettaglio, ogni più piccolo indizio nell’altro, ha mai provato ad osservare se stesso?-
Ti coglie impreparato, ti sorprende e colpisce, uno schiaffo, una verità che hai evitato, una realtà che hai ignorato a lungo.
Sbatti le palpebre, distogliendo per alcuni brevi istanti lo sguardo, deglutisci a vuoto, l’effetto della morfina sta cominciando a diminuire e non aiuta
-lo faccia ora signor Holmes, si analizzi-
[...]
-ho due giorni di tempo?-
-in realtà lei ha tutto il tempo che desidera, ma se vuole potrà tornare qui e riscuotere la risposta che le spetta, come d’accordo, non dubito che impiegherà meno tempo di chiunque altro nell’analisi, infondo è la sua specialità, voi consulenti siete abili osservatori-
Sentenzia, allontanandosi da te a passo rapido."
Sherlock Holmes e le droghe, non una dipendenza, non può uno stimolo, ma un semplice bisogno di evasione dai tormenti della memoria.
Un incontro in una fabbrica dismessa, uno strano accordo, l'inizio di una nuova indagine, di un caso che non ha nemici da sconfiggere se non le inside della mente.
Sherlock contro Sherlock, dedurre se stesso.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando sei rincasato, alle sette e quarantadue di sera, Mrs Hudson ti ha elencato una sequela di lamentele su come l’appartamento sia tornato nuovamente in disordine, ricordandoti che i danni alla parete, i fori di proiettile, quei piccoli buchi tra la carta da parati e il cemento, ti verranno addebitati nell’affitto e ti ha poi avvertirti, con un sorriso vagamente inquietante, che stanno tutti aspettando te.
Non hai avuto bisogno di chiederti a chi si stesse riferendo, hai sbuffato, sfilandoti la vestaglia, appendendola all’appendi abiti all’ingresso, tra il silenzio generale.

Lestrade e quella sua incapacità di trattenere sorrisi inappropriati, non è difficile intuire cosa lo diverta, infondo ti sei presentato nella tua peggior tenuta, un paio di pantaloni grigi, sformati, macchiati da chiazze di non ben identificato composto chimico che gli innumerevoli lavaggi non sono ancora riusciti a ripulire, ed una sottile maglietta, bianca, sbiadita, anch’essa reduce da vecchi esperimenti.
Gli occhi di John invece sono troppo concentrati ad esaminare le tue braccia, coperte dalle lunghe maniche della maglietta, a scrutare quell’accenno di barba, mal curata, che ti è cresciuta a contornarti la mascella, e il tuo volto, forzatamente contratto in un’espressione di pacato stupore.

-complimenti, è tutto esattamente come prima-

è la voce di Lestrade a rompere il silenzio, intravedi lo sguardo di Mycroft posarsi su ogni singolo dettaglio presente nella stanza, non è qui per festeggiare, non è qui per congratularsi, è qui per controllare, controllarti.
Forse, forse sono tutti qui per lo stesso motivo.
Annuisci, voltando le spalle ad ognuno di loro, concentrandoti sul piccolo tavolino al centro della cucina, ancora ricolmo di giornali, vecchi di mesi, ampolle in vetro e vetrini sparsi ovunque, non ricordi neppure più che genere di esperimento stessi eseguendo.
Il chiacchiericcio in sottofondo, le voci di Lestrade e John che si confondo tra le risate di Mrs Hudson e il gorgogliare monosillabi sconnessi di Rosie, è un'allegria che non sopporti, una serenità che suona come una melodia incompleta, note disarmoniche, manca qualcosa, un suono, un rumore, manca qualcosa.
Oltrepassi il chiacchierare degli ospiti, oltrepassi il silenzio indagatorio di Mycroft, devi riempire la melodia, devi completarla, devi renderla armonica, afferri il violino, impugnando l’archetto con forza, troppa forza, tanto da far stridere le corde.
Alleggerisci il polso, socchiudendo gli occhi, voltando le spalle alla piccola platea, cercando di completare quell’inspiegabile vuoto, ma neanche le note armoniose, aggraziate, riescono a colmarlo.
Quel vuoto, quella lieve stonatura che pervade la stanza continua a rendere l’aria meno leggera, meno vera.
Ed è una melodia triste quella che risuona, che le tue dita riescono a comporre, una melodia che cattura solo altro denso ed insopportabile silenzio.
I versi di gioia, quei versi che ormai hai imparato a riconoscere, quel particolare mugugnare gioioso di Rosie t’interrompe.

-ciao-

è l’unica voce che riesci a distinguere, ora, chiare, cristallina, una suono in grado di cambiare la melodia.
Non ti volti, non rispondi.

“Non hai vinto, hai perso. Guarda cosa le hai fatto.”

Risuona come un allarme, un monito, un avvertimento e non riesci a voltarti, paralizzato dalla paura.
Battito cardiaco accelerato, scarsità d’ossigeno, tremolio alle mani, salivazione in diminuzione, costante e persistente peso alla bocca dello stomaco sono sintomi di paura, lo sono?
Non ne sei certo, non sei mai stato certo di nessun sentimento, meno che meno dei tuoi.

-Molly, non avresti dovuto-

-oh è solo un pensiero, un augurio per un nuovo inizio-

non la vedi, ma non ne hai bisogni.
Puoi immaginarla, le dita strette tra di loro in una morsa nervosa, lo sguardo impacciato che vaga da un punto all’altro della stanza e un sorriso, un sorriso gentile, cordiale, quel sorriso che solo le persone come lei, buone, forse eccessivamente buone, sanno rivolgere al prossimo

-è perfetto, è l’unico pezzo che mancava-

ridacchia John

-Sherlock-

ti richiama poi e c’è una punta di acerbo rimprovero nel tono pacato che si sforza di mantenere

-potresti anche…-

ti volti, prima che la pazienza di John vacilli ulteriormente, poggi lentamente il violino al nero piedistallo, adagiandovi affianco l’archetto, facendo attenzione a non sollevare lo sguardo ti concentri solo sul piccolo cuscino su cui è ricamata, con minuziosa cura, la bandiera dell’Inghilterra, è un opera manuale, con qualche lieve imperfezione, probabilmente le tremavano le mani mentre lavorava con ago e filo, ma resta comunque una perfetta riproduzione del cuscino che un tempo avevate, andato distrutto nell’esplosione.
Anzi, forse, questo è persino migliore.

-grazie-

è tutto ciò che dici, ignorando volutamente la figura di Molly, la intravedi, affianco a John, indossa un maglione arcobaleno, dal cui colletto emerge una vivace camicetta rossa a pois, i pantaloni in tessuto vellutato, nocciola, e i capelli raccolti in una treccia laterale, spettinati, deve aver terminato il turno al Bart’s e poi, senza passare a casa, si è recata qui.
Intravedi John sorriderle, mentre deposita la piccola Rosie tra le braccia di Molly e, in quel rapido indagare, hai potuto notare come anche lei abbia accuratamente evitato di soffermarsi ad osservarti.
Ne sei quasi sollevato.
Se lo avesse fatto si sarebbe accorta della confusione che vortica frenetica nella tua mente, di un contesto emotivo che non sai definire, a cui non riesci a dare ordine.
Se ne sarebbe accorta, più, meglio, di chiunque altro.
E non saresti stato, poi, in grado di sorreggere lo sguardo rattristato, le iridi nocciola divenire scure, che ti avrebbe rivolto, per empatico dolore.
E non avresti, poi, sopportato d’intravedere tristezza e malinconia plasmargli il volto.

Un tempo era facile, respirare, inspirare ed ignorare.
Mantenere ogni emozione a distanza, crearti un cerchio intangibile, un’area di sicurezza, da cui nessuna emozione poteva né entrare, né uscire.
Un tempo era facile convincersi che i sentimenti fossero un difetto, quasi quanto lo era considerarli irrilevanti, ininfluenti, un disturbo per una mente brillante come la tua.
Ora è tutto diverso.
La tua zona sicura è stata invasa, devastata, brutalmente distrutta.
Ed ogni emozione che a lungo hai trattenuto, chiusa in un vaso dimenticato in qualche stanza inesplorabile del tuo palazzo mentale è riemerse in superfice, Eurus ha scoperchiato il vaso di Pandora ed ora sembra esserci solo caotica confusione e non riesci a definire quanto sia insopportabile, quanto ti senta smarrito in una tempesta che non sai come affrontare.
Ogni ricordo che avevi rimosso, ogni volto che avevi dimenticato, ogni sensazione che hai provato, è tutto nel palazzo mentale.
Ci sono fantasmi che si aggirano come visioni lugubri di una felicità distrutta, che infestano le macerie di un palazzo distrutto dal vento dell’est.

-avresti anche potuto salutare-

il borbottare di John cattura la tua attenzione, sbatti le palpebre, dove sono gli altri?

-sono andati tutti via Sherlock, più di quindici minuti fa-

sbuffa, rispondendo alla tua muta domanda, raccogliendo i giocattoli di Rosie sparsi al suolo

-te ne sei rimasto lì tutto il tempo, a fissare il nulla-

scrolli il capo, sollevandoti lentamente, la piccola Rosie dorme, poggiata al soffice schienale della poltrona del padre, riesce a strapparti un lieve sorriso di tenue serenità

-so quanto possa essere difficile, dopo quanto abbiamo passato, ma vederti così…Sherlock vederti così fa male, a tutti noi-

è la verità, glielo leggi negli occhi, in quello sguardo di rimprovero che John si sforza a mantenere

-non vogliamo restarcene qui a guardarti mentre ti autodistruggi-

esclama poi, in un impeto preoccupato, posizionando la tracolla del borsone color panna alla spalla

-io non voglio e non lo vorrebbe neppure…-

deglutisce, chinando lo sguardo, fa ancora male pronunciare quel nome, fa ancora più male sentirlo

-Mary, se fosse qui ti direbbe che le colpe sono colpi da schivare, che l’unico errore che stai commettendo è martorizzarti e riuscirebbe, in un modo che solo lei conosceva, riuscirebbe a convincerti, ci riusciva sempre, era molto più brava di me anche in quello-

soffia in un sussurro mesto, inspiri, cercando di scacciare il volto pallido di Mary dalla tua memoria, me lei è l’unico fantasma che non riesci mai ad allontanare dalle macerie di ciò che resta del tuo palazzo mentale.
E non dubiti, neppure per un istante, delle parole di John.
A volte, quando il peso che grava sulle tue spalle, che ti mozza il respiro, rendendoti quasi difficile immagazzinare ossigeno nei polmoni, diventa insopportabile le parli, parli a quell’ologramma che si aggira tra le stanze distrutte del palazzo, le chiedi ancora scusa; un’eterna richiesta di perdono

-parla Sherlock, non pretendo che tu ti apra ad una specialista, come ho fatto io, ma parla, non puoi continuare a distruggerti, sei umano, sei stato tu stesso a dirmelo, e come ogni altro essere umano hai bisogno di aprirti con qualcuno e…puoi farlo con me-

usa quel tono, lo stesso che usa con Rosie quando gli tira i capelli o tocca qualcosa che non dovrebbe afferrare, quel tono di paterno ammonimento, perché forse spiegarti come funzionano le emozioni è come spiegare qualcosa di nuovo ad un bambino che non ha mai visto il mondo fuori dalla propria stanza.
Perché forse è questo che sei, un bambino cresciuto precocemente che appreso così tante cose da dimenticarsi di apprendere, prima, le basi della vita umana.
Osservi John chinarsi verso Rosie, accogliendola tra le sue braccia, ti lascia un sorriso sghembo, prima di aprire la porta

-John-

lo richiami, impedendogli di oltrepassare la soglia

-a volte, parlo con lei-

ammetti in un soffio, ti sorride, un sorriso di amare serenità, gioia e tristezza, un’unione che non credevi neppure possibile, che non avevi mai notato e che non saresti stato in grado di notare, prima

-anch’io-

sussurra, carezzando la nuca della figlia, placidamente addormentata, il capo nascosto dietro le spalle del padre

-potremmo parlarle ins…-

-grazie-

lo interrompi, replicando quello stesso sorriso che poco prima di ha rivolto, gli occhi di John vibrano, incerti, sorpresi, illuminandosi poi, seguendo la linea di un sorriso più ampio, meno amaro, annuisce impercettibilmente e non avete bisogno di aggiungere altro.
È un nuovo inizio, una brezza di caldo vento del sud che porta con sé cambiamenti migliori.
È un nuovo inizio e ora sai che puoi, devi, vuoi affidarti a John.
Insieme.
 

-se è vero, dillo-

-dillo tu, dillo tu per primo, dillo come se ci credessi-

Tic, toc. Tic, toc.

-ti amo…ti amo-

Tic, toc. Tic, toc. Tic, toc.

-Molly…-

Tic, toc.

Tempo scaduto.

Strozzi un grido, deglutendo a vuoto, scacciando quell’insopportabile sensazione, rabbia e dolore, paura e terrore.
Era solo un incubo.
Sempre lo stesso, da giorni.
La tua mente non risposa, mai, continua ad elaborare anche quando non osservi.
E nel buio del sonno il tuo subconscio riemerge con travolgente furia, soffocandoti con incubi costanti e tormenti intangibili.
La voce del Diavolo, un timer che cessa di segnare lo scorrere del tempo, un sorriso di cinica perfidia, parole spezzate, l’eco di un’esplosione, fiamme, fumo, vetro, detriti scorrono davanti ai tuoi occhi; accecandoti.
Ed una sola frase, riecheggia, in una stanza che brucia, tra la carcassa di una bara distrutta, un solo metallico oggetto si salva dalle fiamme, riluce la scritta, mentre lento il fuoco divora il legno, annerisce le pareti, infiamma la tua pelle.

Ti strofini il volto con forza, non riuscirai a dormire, non più.
Dal lieve filtrare della luce tra le persiane dischiuse intuisci che sia appena l’alba, non hai orologi con cui poter confutare la teoria perciò ti affidi all’intuito deduttivo, ti attorcigli il lenzuolo, stringendolo tra le mani, in un bozzolo che ti fa sentire un bruco in attesa di metamorfosi.
Strisci lentamente sino al salotto, scosti le sottili tende scure, Londra dorme ancora, solo il camion del panettiere sotto casa ti permette di esser certo della tua iniziale teoria, non può essere più tardi delle sei di mattina.
Ti volti, quasi istintivamente, il cellulare poggiato al tavolo, tra carte stropicciate, foto di casi irrilevanti e bozzoli di proiettili, è esattamente dove l’avevi lasciato la sera prima.
Un impulso ti spinge ad afferrarlo, scorrendo la rubrica dei tuoi pochi contatti, soffermandoti su quel nome.

Molly Hooper.

All’inizio avevi aggiunto patologa, tra parentesi, la prima volta che avevi rubato clandestinamente il suo numero di cellulare dai contatti di Lestrade.
L’avevi ritenuto importante, all’epoca, quando ancora credevi che avresti potuto dimenticarti chi fosse, quando l’unico motivo per cui avevi scelto di memorizzarlo era legato solo al tuo lavoro; otto anni fa.
Aveva ventisette anni, era stata appena assunta al Bart’s, laureata con lode, in poco meno di un mese si era già mostrata più competente di qualsiasi altro patologo che avevi incontrato in precedenza, inoltre nel vostro primo incontro giocò a suo favore quel suo lato ingenuo e disponibile, fu l’unica infatti a non storcere il naso, cacciandoti in malo modo, dall’obitorio quando ti sei presentasti chiedendo delle unghie umane, fresche.
Rise.
Lei rise.
Pensò fosse una battuta, solo dopo capisti che il suo senso dell’umorismo era grottesco, influenzato dal suo lavoro.

Malgrado l’iniziale fraintendimento lei fu l’unica ad assecondare, sempre, le tue richieste.
Nel corso degli anni la dicitura patologa è stata cancellata per lasciare posto al semplice nome, specificare la professione era diventato irrilevante, non era più una patologa, era diventata la patologa.
Ed il solo nome era sufficiente.
Poi, la logica, ti ha suggerito di rispettarla; professionalmente.
E poi, la necessità, ti ha spinto a cercarla, a riporre fiducia in lei quando avevi bisogno di un confidente.
E poi, poi era diventato meccanico, una diretta conseguenza, considerarla molto di più di un volto noto, di un nome, di una professione, un’inconsapevole processo mentale ha agito per te.

Ed un altrettanto inconsapevole processo inconscio che ti spinge, ora, a titubare, a fissare quel nome lampeggiare sullo schermo del cellulare.
Razionalmente sai che sta fisicamente bene.
Eppure senti quasi il bisogno di accertarti che sia reale, che sia davvero ancora viva.
Come se si tratti di una teoria da dover confutare, come se avessi bisogno di prove tangibili, evidenti, dell’effettiva impossibilità di quanto hai appena sognato.
Ne senti l’istinto, ogni volta che ti svegli all’improvviso, ogni volta che quel costante tormento t’impedisce di riposare.
Un impulso a cui ti imponi di non cedere.
Sai che sta bene, fisicamente.
Così come sai che, emotivamente, è distrutta.

Non è stata lei, non ne sarebbe stata in grado, è stato John a dirtelo, un giorno, mentre fuori pioveva, aveva lasciato Rosie da Molly, per poter seguire un caso, un banale omicidio camuffato in un suicidio, con te.
Al ritorno, mentre il contachilometri del taxi girava, dopo aver consegnato i responsi della vostra indagine a Lestrade, lo hai sentito chiedere all’autista di potervi condurre in una via che non era la vostra, una via che tuttavia conoscevi bene anche tu e, nel notare come testardamente tu ti sia rifiutato di scendere dall’auto, ha sbuffato, allontanandosi rapido, facendo ritorno con la piccola Rosie ed il borsone panna.
In quell’occasione ti ha rimproverato, per la prima volta dopo Sherrinford, di essere eccessivamente orgoglioso e ti ha confessato, credendo di non essere ascoltato, quanto Molly si sia premurata di porgerti le sue scuse e di quanta vergogna avesse nel dirlo e di quanta tristezza abbia notato nei suoi occhi nel ricordare.
E hai finto, dissimulando disinteresse, e per tutto il viaggio, mentre salivi le scale, mentre componevi una nuova melodia da suonare per e con Eurus, ha continuato a tormentarti il pensiero di Molly.

Perché, perché chiedere scusa?
Quale colpa può avere, in tutto questo, lei?

Ed è stato in quel momento che hai compreso.
La colpa del suo dolore sei tu, sei sempre stato tu.
Ed è stato in quel momento  che, per la prima volta, dopo Sherrinford, hai cominciato a sentire un peso insostenibile gravarti sulle spalle e i fantasmi dei tuoi errori hanno cominciato ad aleggiare tra le macerie del tuo palazzo mentale.
Ed è stato in quel momento che hai realizzato di essere sempre stato la colpa di ogni cosa.

Stringi il cellulare tra le dita.

È da quel momento che gli incubi hanno cominciato a tormentarti, è da quel giorno che ignori l’impulso, l’istinto, che cerchi di rendere muti gli echi di voci sovrapposte che infestano la tua mente.
Socchiudi gli occhi, sfiorando i cristalli liquidi dello schermo.
Digiti senza soffermarti a riflettere, se lo facessi non proseguiresti oltre.

“sei al Bart’s?”

invii, senza dare tempo alla logica di suggerirti frasi migliori, è solo quando il messaggio è ormai cestinato tra gli inviati che ti rendi conto di aver commesso un potenziale errore, l’ennesimo.
Ti avventi alla porta della camera da letto, gettando le lenzuola al materasso, afferri rapidamente i vestiti, non ti curi neppure troppo della scelta della camicia.
Il tempo di una doccia e sei già fuori, il braccio teso, a mezz’aria, gli angoli inferiori del cappotto mozzi dalla lieve brezza di fine inverno.

-dove la porto signore?-

-al 4 di Brendon Street-

rispondi, lasciandoti scivolare lungo il sedile in finta pelle del taxi, aggiustandoti la sciarpa attorno al collo. 





Spazio a fine pagina: 

Ringrazio tutti i silenziosi lettori, tutti coloro che aggiungono tra le ricordate/preferite/seguite. 
Ringrazio i recensori. 


Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento. 

Grazie a tutti, 
a presto.



 
   
 
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