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Autore: Sabriel    01/06/2009    4 recensioni
Cosa succederebbe se il destino di una ragazza orfana si intrecciasse a quello di Near, Matt e Mello?. E se lei possedesse un intelligenza fuori dal comune? E se, celato nel suo passato, di cui lei non ricorda nulla, ci fossero dei collegamenti utili a comprendere e risolvere il caso Kira? E se ci si mettesse di mezzo l'amore a complicare le cose? Leggete e commentate :)
Genere: Generale, Mistero, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, Matt, Mello, Near
Note: Lemon, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Eccovi una nuova storia! In questi giorni sono davvero depressa, e così faccio l’unica cosa che mi fa stare meglio oltre cantare; scrivo!
La protagonista della storia si chiama Ambra, non perché sia me, anche se viste le situazioni in cui la sbatacchierò mi piacerebbe molto *.*
L’ho chiamata così, perché non mi veniva in mente un altro nome che mi piacesse, e dato che credo di essere una delle poche persone che ama il suo nome, ho deciso di chiamarla come me, tutto qui.
E’ una storia un po’ particolare, ambientata dopo la morte di L. I fatti sono pressoché gli stessi della storia originale, ma ovviamente li modificherò un pochino. Spero vi piaccia, fatemi pensare che ne pensate!
Un bacio :*

UN INCONTRO PUO’ CAMBIARTI LA VITA

Camminavo assorta, a testa bassa. Ero nei guai, e parecchio! Ero scappata ma non sarebbe servito a niente, lui mi avrebbe trovata, anche fossi stata dall’altra parte del mondo.
E infatti sentii un braccio afferrarmi, crudelmente violento “Tu, razza di puttana, cosa ti sei messa in testa eh? Stavi forse cercando di andartene?”
“Io…” farfugliai, mentre inutilmente tentavo di sgusciare dalla sua dolorosa morsa. L’indomani avrei avuto un bel livido violaceo.
“Ti ho fatto una domanda, rispondi!” tuonò, strattonandomi con una forza tale da farmi cadere a terra, in ginocchio.
“Lasciala stare” una voce totalmente inespressiva si intromise, serafica.
“Ehi moccioso fatti i fatti tuoi se non vuoi finire male” minacciò Marcus, scocciato.
Alzai lo sguardo incontrando due occhi d’onice che mi fissavano, profondi e calmi. Era un ragazzo strano, dall’aria apatica. I capelli gli incorniciavano scarmigliati il viso chiaro, bianchi e candidi come il latte. Lo fissai stupita e affascinata, finché un ulteriore strattone non mi costrinse a voltarmi.
“Sei mia, hai capito? E’ solo merito mio se non sei in mezzo ad una strada, quindi mi devi obbedire!”
“Lasciami…” gemei flebilmente, spaventata.
Uno schiaffo mi colpì la bocca, violento. Trattenni il respiro, mentre qualcosa di caldo e denso mi calava lungo il mento.
“Devi stare zitta, parlerai solo quando ti…”
Un calcio colpì Marcus in pieno volto, facendolo stramazzare al suolo. Spalancai gli occhi scioccata, mentre lui boccheggiando si portava carponi, imprecando.
“Forse non sono stato chiaro, ti ho detto di lasciarla stare” la sua voce non era affatto mutata, così come la sua espressione.
Marcus si alzò, tentando di colpirlo, ma lui si scansò, lanciandogli un pugno nello stomaco.
Mi alzai per intimargli di smettere, perché sapevo che sarei stata io a pagare quell’affronto, ma l’arrivo di una coppia ci interruppe. Erano vestiti di nero, e l’uomo, che a occhio e croce avrebbe dovuto avere 35 anni, impugnava una pistola.
“Fermo o sparo” intimò, puntando l’arma sul mio aguzzino, serio. “Near, ti senti bene?” chiese poi osservando il ragazzo.
Ancora una volta posai il mio sguardo su di lui, leggermente in soggezione. Chi cavolo era? Sperai con tutto il cuore che non fosse un altro folle.
“Si, non è di me che ci si deve preoccupare” e, così dicendo mi porse la mano, osservandomi indifferente.
La afferrai, seppur titubante. Ero intimidita dalla sua pacata compostezza, da quella serietà che emanava, lo sguardo troppo grande per quel corpo da ragazzino.
“Come ti chiami?” chiese inespressivo.
“Ambra” sussurrai, abbassando lo sguardo.
“Non avere paura Ambra, non ti verrà fatto alcun male”non c’era sentore di dolcezza o calore in quelle parole, erano totalmente atone, quasi sterili.
Annuii, asciugandomi il sangue con la manica della giacca. Bruciava e pulsava terribilmente ma ero troppo angosciata per preoccuparmene.
Cosa avrei fatto adesso? Avrebbero arrestato Marcus oppure lo avrebbero lasciato libero?
‘Se riuscirà ad acciuffarmi nuovamente posso considerarmi morta’ pensai, mentre il cuore scalpitava preoccupato.
“Hai un posto dove andare?” mi chiese la donna di fianco all’uomo con la pistola, dolcemente.
La risata di Marcus aleggiò nell’aria, cattiva ed irridente. “Chi? Quella puttanella? Ma se l’ho trovata in un edificio abbandonato che era ancora una mocciosa!”
L’uomo con la pistola, gli si avvicinò pericolosamente, conficcandogli l’arma nella pancia “Chiariamo una cosa… la ragazza ha un nome, per tanto usalo”
“Non importa…” intervenni piano, insicura.
“Si invece” disse la donna, afferrandomi per le spalle, come a farmi coraggio. “E’ vero quello che ha detto?” chiese poi gentilmente, in un lieve sorriso.
Annuii, senza aggiungere altro, non mi piaceva parlare del mio passato.
“E i tuoi genitori?” domandò cauta.
“Non li ho mai avuti, almeno credo…”
“Halle, la porteremo con noi all’SPK”
“S che?” chiesi corrugando la fronte.
La donna mi sorrise “Non importa, vieni. Ci prenderemo cura noi di te”
La guardai diffidente, quasi spaventata. “No grazie, posso cavarmela benissimo da sola”
Che diamine era l’SPK?!, sapeva molto di circolo ambiguo.
E poi le pistole erano illegali, com’è che quel tizio la sventolava ai quattro venti con noncuranza? Gli abiti neri, e quel ragazzo misterioso, tutto vestito in bianco, quasi come fosse uscito fresco fresco da un ospedale psichiatrico.
E Near non era un nome, non poteva esserlo… sapeva molto di nome in codice.
Non mi fidavo.
“E’ comprensibile che tu non ti fidi di noi” ancora una volta la sua voce mi sorprese, neutra come il bianco che dominava su di lui. “specialmente date le circostanze” il suo sguardo si posò su Marcus, che adesso se ne stava li in silenzio, quasi fosse stato una statua di marmo.
Poi i suoi occhi inquietanti tornarono a posarsi su di me “Credo che dovresti correre il rischio, ti pare? Vivere per le strade di New York non è una cosa molto saggia se tieni alla vita”
Mio malgrado, dovetti concordare con il suo ragionamento. Infondo se fosse stato un delinquente non mi avrebbe certo aiutata no?
Annuii debolmente, chiedendomi preoccupata che ne sarebbe stato di me.
“Lei non va da nessuna parte” la voce di Marcus s’intromise, autoritaria.
“Mi sembra di aver capito che tu non sia legalmente il suo tutore, e… anche se lo fossi, credo che un giudice troverebbe facilmente valide motivazioni per sottrarti la patria potestà” la voce di Near era strascicata, quasi annoiata.
“Maledetto…” la pistola infilzata nelle costole gli impedì di continuare.
Avevo paura, lo sguardo del mio ‘patrigno’ non prometteva nulla di buono. “Non potete portarla via, non rinuncerò a lei così facilmente. E’ un investimento per me”
A quelle parole la donna che credo si chiamasse Halle, si accigliò, gelida. “E dimmi… quattro milioni di dollari sono sufficienti come rimborso?” chiese allettante.
Io spalancai la bocca, scioccata.
Quattro milioni di dollari? Ma erano un enormità! Da dove li avrebbero presi, dalla pentola magica?
Anche Marcus trattenne il fiato, mentre un malsano luccichio gli illuminava gli occhi. “Si, ma li voglio in contanti, adesso”
“Domani. Se preferisci, possiamo chiamare la polizia e indagare sul tuo conto, ma sarebbe una scocciatura e sono sicura che non ne caveresti nulla di buono”
Lui digrignò i denti, contrariato “E sia, ci incontreremo proprio qui. Ma state attenti, se si tratta di un bluff, qualcuno potrebbe finire per farsi male”
Nessuno parve intimorirsi per quella minaccia, nessuno tranne me.
“Coraggio” la donna mi afferrò una spalla con fare materno “andiamo”
Non risposi, seguendola in silenzio. Con la coda dell’occhio vidi l’uomo moro dire qualcosa a Marcus per poi scrollarlo malamente, mettendo via la pistola.
Poi, dopo un ultimo sguardo gelido rivolto al mio aguzzino, si diresse nella direzione mia e di Halle, seguito silenziosamente da Near.
A pochi passi dal parco era parcheggiata una lussuosa limousine. La fissai criptica. Era la loro?
Infatti come volevasi dimostrare, la donna mi sorrise dicendo “Ecco la macchina, quando arriveremo potrai farti una bella doccia e toglierti questi stracci di dosso”
La guardai sbalordita. Io non l’avrei definita semplicemente macchina, ma d’altronde era questione di punti di vista. Mi voltai notando che anche Near ci aveva raggiunto, scortato dall’uomo moro.
“Grazie per avermi difesa” bofonchiai imbarazzata. Non mi ero nemmeno presa la briga di dire un grazie.
“Non devi ringraziarmi” rispose semplicemente lui, puntando lo sguardo su di me, imperscrutabile.
Io arrossi scioccamente, distogliendo lo sguardo. Perché mi faceva quell’effetto?
Stavo facendo la figura dell’idiota, come sempre.
Salimmo in macchina e con imbarazzo mi accorsi che sarei dovuta stare dietro con lui. Il davanti della limousine era diviso da un vetro nero e spesso, praticamente era come se fossimo stati soli.
Iniziai a torturarmi i capelli, a disagio, cosa che non gli sfuggì. Era seduto con un ginocchio al petto, gli occhi disturbati dalla frangia che birichina ricadeva sul viso. Sembrava concentrato… a cosa pensava?
Improvvisamente volse il viso, beccandomi in pieno. Arrossii furiosamente, incapace di distogliere lo sguardo.
Ma che bellezza, stavo dando prova di somma maturità.
“Ti stai chiedendo dove stiamo andando, e chi io sia” non era una domanda, ma un affermazione pacata.
Annuii, ancora imbarazzata “Faccio parte di una squadra investigativa, il mio compito è aiutare la polizia o chiunque lo necessiti a risolvere casi particolarmente problematici”
Spalancai gli occhi, ammirata “Deve essere un lavoro molto stimolante” commentai.
Per la prima volta, vidi un sorriso affiorare sul suo volto, seppur lieve. “E’ difficile trovare qualcosa che mi stimoli, ma è comunque un lavoro interessante”
“Sei molto giovane e fai già un lavoro di tale responsabilità? Devi essere in gamba” sorrisi.
Lui tirò la testa indietro, meditabondo, senza contestare. “E dimmi, Ambra, come hai fatto a finire nelle mani di quell’individuo” domandò poi improvvisamente.
Sussultai, adombrandomi. “Non sapevo dove andare, avevo fame e freddo, lui non sembrava malvagio”
“Capisco” disse semplicemente, indifferente.
Uno schermo davanti a noi si accese, mostrando il viso dell’uomo moro.
“Near, torniamo direttamente all’SPK?”
“Si, Jevanni.”
Così si chiamava Jevanni… che nomi strani che avevano.
L’uomo fece un lieve cenno del capo, interrompendo la comunicazione.
“Near… è un nome strano” osservai pensierosa.
“Anche Ambra non è un nome comune” mi fece presente lui, pacato.
Abbassai lo sguardo, sfilandomi il ciondolo che portavo al collo “E’ un nome italiano. La ho al collo da sempre, non so neanche se sia il mio nome… ma è l’unica cosa che mi resta del mio passato”
“Anche io non ho mai conosciuto i miei genitori” mi informò lui, lo sguardo fisso davanti a se.
“Mi dispiace” dissi intristendomi.
“Ad essere sincero non me ne importa molto” spiegò lui imperscrutabile.
“Nemmeno a me, solo avrei voluto qualcuno che si fosse preso cura di me, giusto per sapere cosa si prova a non essere soli”
Ecco che partivo con i miei monologhi patetici, ero davvero penosa.
Lui sembrò colpito da quelle parole, divenendo pensieroso. La limousine si fermò e lui guardandomi mi informò che eravamo arrivati.
Scesi dalla macchina, le gambe mi tremavano un poco per lo spavento preso poco prima, ma non ci feci caso, seguendo Halle per le scale, che sorridente e inorgoglita mi spiegava che il palazzo era dotato di un sistema di sicurezza inoppugnabile.
Entrai in una stanza piena zeppa di monitor, sobria e silenziosa. Il pavimento era costellato di giocattoli, mi chiesi se in quel posto ci fosse un bambino.
La donna mi rivolse uno sguardo intenso “Credo che i miei vestiti non siano molto comodi, posseggo solo abiti da lavoro… domani andremo a comprarti qualcosa di decente.” Disse, osservando con astio i jeans consunti e sporchi e il top rosa shocking che indossavo.
“Near, ti dispiace imprestargli una tua camicia?” chiese la donna gentilmente.
Il ragazzo alzò lo sguardo su di noi, per poi annuire e dirigersi fuori dalla stanza “Non c’è nessun problema, vado a prenderla”
La donna lo fissò esterrefatta, quasi avesse avuto le orecchie e la coda. “N-non occore, vado io…” balbettò titubante, ma Near era già sparito oltre la soglia.
“Che c’è?” chiesi confusa, non capendo il motivo di tanto stupore.
“Near non si interessa mai degli altri, e non fa mai niente di propria iniziativa” disse, assumendo un aria pensierosa.
Mi sentii lusingata, ma non lo diedi a vedere. Tornò poco dopo con una camicia, bianca ovviamente.
“Grazie” gli sorrisi ampiamente, felice di quel trattamento privilegiato.
Lui mi osservò nuovamente, inespressivo. “Di nulla”
Halle mi trascinò letteralmente in bagno, smaniosa di farmi togliere quei vestiti logori e sporchi. Era bellissimo poter restare nella doccia per più di due minuti, con l’acqua calda e senza nessuno che ti inveisse contro.
Uscii che mi sentivo totalmente rigenerata. Mi avvolsi nell’accappatoio e rimasi a fissare la camicia, inebetita.
Non avevo il cambio di biancheria, tanto meno dei pantaloni, ed Halle si era affrettata a far sparire i miei indumenti.
“Halle…” chiamai piano, imbarazzata.
Lei comparve da dietro la porta, celata da una nuvola di vapore spumoso. “Si?” cinguettò raggiante.
“Ehm… non ho biancheria” bofonchiai
“Eccola” disse in un sorriso, porgendomi un completo nero.
Nero…
Con sopra una camicia bianca…
Arrossii.
Presi la biancheria senza protestare, vestendomi in silenzio. Quando mi infilai la camicia, l’odore di Near, buono ed avvolgente mi ghermì le narici.
Arrossii appena, abbottonandomi.
“E i pantaloni?” chiesi preoccupata.
“Quelli sono un problema” confessò, portandosi una mano al mento, pensierosa. “Se ti accontenti di un paio di boxer come pantaloncini vado a prenderli”
Divenni cremisi. “B-boxer?” balbettai
“Si, credo che quelli di Near non ti stiano troppo larghi, vado a prenderne un paio”
Non feci in tempo a controbattere che si era già volatilizzata.
Mi guardai allo specchio, sgomenta. Sembravo una di quelle ragazze delle soap opera, che dopo una notte di passione, si infilano la roba del proprio compagno, dirigendosi sorridenti a preparare la colazione.
“Halle, mi vergogno a girare così” ammisi a disagio.
“Ma cosa dici, sei così graziosa con addosso le cose di Near” mi guardava con puro affetto materno, e un piacevole calore mi invase, colorandomi le guance.
Infondo non era così tragica la cosa, dovevo solo controllare ogni secondo che i boxer non mi scivolassero di dosso, lasciandomi impietosamente in mutande, ma la camicia, per quanto larga fosse mi donava.
Sospirai, conscia di non poter fare la schizzinosa.
Insistette per asciugarmi i capelli ed io la lasciai fare volentieri, estranea a quelle gentilezze.
“Che bei capelli che hai, scuri e lucenti”
Arrossii “Grazie Halle, ma non sono certo belli come i tuoi”
“Questione di gusti, io pagherei per averli scuri”
Ci volle un po’ di tempo, perché avevo i capelli parecchio lunghi. Quando finalmente furono asciutti mi feci condurre nuovamente nel salone, seppur non molto entusiasta all’idea che Near mi vedesse così concia.
Arrivai che lui era di spalle, mentre distrattamente giocava con un robot. Mi stupii di constatare che i giochi fossero suoi, e, cercando di non fare rumore mi sedetti su un divanetto alla sinistra della stanza, rannicchiandomi come a voler dare meno nell’occhio possibile.
Non ci volle molto prima che si accorgesse della mia presenza, puntando lo sguardo su di me. Io avvampai sotto quello sguardo, penetrante ed interessato.
Risi “Sembro una bambina con indosso i vestiti di papà!” dissi, cercando di allentare l’imbarazzo.
“Io trovo che ti stiano bene” lo disse con indifferenza ma mi accaldai lo stesso.
Portai le ginocchia al petto, e i capelli mi caddero davanti al viso, infastidendomi. Li portai da una parte, attorcigliandoli a mo di coda. Il suo sguardo era come una pressione sulla mia pelle, mi metteva in soggezione.
“Near…” chiamai, più che altro per esorcizzare quel silenzio imbarazzante.
“Dimmi”
“Niente”
Lui incrinò il capo, osservandomi curioso. Credo che notò solo in quel momento che indossavo i suoi boxer perché spalancò impercettibilmente gli occhi, per poi incrinare appena le labbra.
“Cosa fai?” domandai scioccamente.
Stava giocando con un robot, non ci voleva un genio per saperlo…
“Penso, giocare mi aiuta a concentrarmi”
Senza riflettere, quasi inconsciamente mi avvicinai a lui, sedendomi sul pavimento al suo fianco.
“Davvero?” chiesi curiosa.
Lui annuì, porgendomi il robot che aveva fra le mani. Lo afferrai, osservandolo scrupolosamente, come se celasse un particolare che non riuscivo a cogliere.
L’arrivo di Jevanni mi distolse dal mio esame. Notando me e Near intenti a giocare sul pavimento sorrise, sinceramente felice.
Non potevo sapere che Near non aveva mai ceduto alcun gioco, ne tanto meno che non avesse mai socializzato con nessuno.
Era un mistero per me, esattamente come io lo ero per lui.
Se l’avessi saputo mi sarei spiegata quella sincera ospitalità che mi era stata concessa.
Improvvisamente sullo schermo di un portatile adagiato sul pavimento comparve un L in stile gotico e Near fu subito al fianco del PC.
Si mise un paio di cuffie e fece un cenno a Jevanni che annuì serio.
“Si, L?” chiese pacato.
“Abbiamo convenuto che la cosa migliore sia collaborare, Kira è troppo scaltro, e dividerci servirebbe solo a facilitargli le cose”
Avevo sentito di questo Kira, ma credevo fosse solo un invenzione, qualche copertura di un’organizzazione terroristica o mafiosa…
Near ghignò, soddisfatto, mentre una mano saliva pigramente ad arricciare una ciocca di capelli chiari. “Bene, lavoreremo insieme d’ora in poi” la sua voce non tradiva alcun sentimento.
“E’ tutto, non appena avremo nuovi elementi te lo faremo sapere”
La comunicazione si interruppe e Near si sfilò le cuffie, in silenzio. Come se nulla fosse, tornò al mio fianco chiedendomi “Perché lo fissavi con tanto interesse?”
Esitai. Già, perché?
‘Perché sono una povera deficiente’ pensai critica.
“Beh, cercavo di vedere se magari riusciva a rendermi un po’ più intelligente. La concentrazione non è mai stata il mio forte” dissi, sorridendo.
Patetico, semplicemente…
Lui stiracchiò un sorriso. “Te lo regalo, se lo vuoi”
Lo guardai stupita. Mi stava regalando un robot… Gli sorrisi calorosamente “Grazie Near, nessuno mi aveva mai fatto un regalo, prima”
Era la triste ma pura verità. Non avevo mai ricevuto un regalo.
“C’è sempre una prima volta” disse placido, privo d’espressione. Io tornai nuovamente a scrutarlo concentrata, poi venni interrotta dall’entrata di Halle, che disse allegra.
“E’ pronta la cena, coraggio venite!”
Storsi il naso, non avevo per nulla fame. Near lo notò, e si incuriosì, riservandomi il suo sguardo intenso.
C’era un tavolo tipo buffet, pieno zeppo di roba. La osservai scoraggiata.
“Che ti prende?” chiese il ragazzo, facendosi vicino.
“Non ho molta fame” confessai stancamente.
“Povera Halle, immagino la sua faccia quando saprà che adesso ha due persone da persuadere” la frase era ironica, ma la disse completamente privo di inflessione.
Infatti non appena Halle notò la mia poca simpatia per il cibo, ne fece una tragedia.
“Insomma, alla vostra età è importante nutrirsi correttamente e con costanza, guardatevi, siete due acciughe!”
E partì con una manfrina che non sentii minimamente, troppo concentrata ad osservare Near che con pigrizia mangiucchiava dei biscotti.
Perché mi sentivo così quando lo avevo vicino?
“Ambra stai ascoltandomi?” chiese la donna sbuffando “Mangia almeno qualcosina” mi supplicò incalzante.
Near, senza alzare lo sguardo mi porse un biscotto. Mi sedetti di fronte a lui, allungandomi sul tavolo per afferrarlo.
Halle era esterrefatta di questo cambiamento di Near, e non lo celava di certo. Io cercavo di figurarmi un Near più apatico di così, confusa.
Dopo cena mi venne mostrata la mia camera, e, senza aspettare oltre mi buttai sotto le coperte, distrutta.
Osservavo il soffitto apatica, mentre lentamente scivolavo nel sonno. Improvvisamente sussultai, tirandomi a sedere.
Non avevo dato la buonanotte a Near!
Scesi dal letto, infilandomi i boxer e la camicia, allacciandola ogni due bottoni per risparmiare tempo.
Aprii piano la porta, il corridoio era immerso nel buio. Mi chiesi se non fosse troppo tardi, magari era già andato a dormire…
Decisi di tentare comunque. Entrai nel salone, trovandolo intento a costruire un edificio con dei dadi, assorto.
Lui si accorse subito di me e mi rivolse uno sguardo criptico. “Che succede, non riesci a dormire?” chiese pacato.
Scossi il capo, sollevata che fosse sveglio. Mi stropicciai gli occhi, sbadigliando.
“Mi sono dimenticata una cosa” sussurrai, timorosa di disturbare Jevanni che ronfava stravaccato sulla scrivania.
“Cosa?” chiese lui, curioso.
“Buonanotte” sussurrai dolcemente.
Lui rimase in silenzio, pensieroso.
“E ti sei alzata solo per questo?” per un secondo mi parve di notare una nota di stupore nelle sue parole.
Annuii, sbadigliando ancora.
Lui incrinò appena le labbra “Buonanotte Ambra”
Fu un sussurro spento, ma mi riempì di calore. “Non vai a dormire?” chiesi apprensiva.
“Fra poco” disse piano, mentre concentrato posizionava un dado all’estremità della costruzione.
“Allora ti faccio compagnia” dissi, decisa a scacciare il sonno.
“Non occorre. Si vede che sei stanca, hai avuto una giornata impegnativa”
Lo ignorai, sedendomi al suo fianco, per terra. Lui senza parlare, mi porse il cuscino che aveva sotto la sedia, intimandomi silenziosamente di sedermici sopra.
Obbedii, felice di quella premura. Rimanemmo così, in silenzio, lui a costruire il suo edificio di dadi, ed io ad osservarlo assorta.
  
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