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Autore: edoardo811    05/02/2017    2 recensioni
Mentre il mondo è in rovina e Sub City è scenario di una terribile guerra tra bande e conduit, una vita si ritrova nelle medesime condizioni.
Si può davvero fuggire da sé stessi? Rabbia, odio, frustrazione, rancore, un mix letale che ci renderebbero una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, se non si riesce a trovare il modo di disinnescarla.
O qualcuno in grado di farlo.
"Sbagliata. Ecco com’era lei. La sua vita, il suo comportamento, la sua mente. Tutto era sbagliato, in lei. Era una cosa che si ripeteva in continuazione e che, ovviamente, non poteva affatto portare a nulla di concreto. Aveva perso il conto di tutti gli specchi che aveva rotto, pur di non vedere nel riflesso quel volto emaciato che aveva imparato ad odiare con ogni fibra del suo essere: perché se doveva assegnare la colpa a qualcuno per tutte le sue sventure, quel qualcuno era proprio sé stessa."
Spin-off di InFAMOUS: The Darkness' Daughter.
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Blackfire, Sorpresa
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'InFAMOUS: The Series'
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II

ALI DI CARTA

 

 

«Per caso... avete dieci dollari da prestarmi?» domandò Kori, quasi intimorita, ai suoi fratelli mentre cenavano nella spoglia cucina del loro zio di Empire.

Komand’r non le rispose nemmeno, si limitò a continuare a rimestare svogliatamente la zuppa nel suo piatto. Era felice che la sorella fosse tornata a casa dal collegio per il weekend, a trovarli? Certo che lo era. Lo dava a vedere? Assolutamente no.

«Io dovrei averceli» rispose Ryan, nel frattempo, disponibile.

Amalia soffocò un sorrisetto. No, lui non ce li aveva. Non dopo che lei era passata in camera sua, una sera, prima di uscire. Il suo caro fratellino avrebbe fatto meglio ad imparare a nascondere meglio le sue cose.

«Perché ti servono?»

«Per comprare il biglietto del museo. Domani abbiamo una gita laggiù. A chi paga la retta la scuola li ha già dati, però... ho perso il mio...»

Ryan sospirò pesantemente, per poi scuotere la testa. «Ti pareva...»

«Per favore, Ryan! La scuola non effettua rimborsi, ma sono solo venti dollari, e dieci ce li ho già! Ti prometto che te li restituisco!»

«Ma devi andare per forza? Insomma... è solo un museo, cos’ha di così entusiasmante?»

Kori si strinse nelle spalle. «Beh, nulla a dire il vero, però... verrà anche Richard, e mi piacerebbe passare un po’ di tempo con lui anche fuori dalla scuola...»

«Adesso capisco tutto...» Il ragazzino sghignazzò. «Vuoi un po’ di intimità con il tuo fidanzatino...»

Stella arrossì violentemente e distolse lo sguardo da lui. «Dai, smettila...» mormorò appena, facendo ridacchiare il fratello.

Dall’altro lato del tavolo, Amalia strinse con forza il cucchiaio, fino a farsi male alla mano. Richard. Da qualche mese a quella parte non si sentiva parlare d’altro, in quella casa. Anche perché le uniche volte in cui si parlava era quando tornava Kori, circa una volta a settimana. 

«Te li do dopo cena, ok? Ma vedi di non esagerare con Richard...»

«Ryan!»

Il rosso ridacchiò di nuovo. Amalia, intanto, si rabbuiò ulteriormente. Sentì una profonda rabbia montarle dentro. Ma che aveva di così speciale quel Richard? Lei non lo conosceva, nemmeno lo aveva mai visto, ma era pronta a scommettere tutto quello che aveva che era solo l’ennesimo bamboccio che si era lasciato incantare da Kori.

Qual è il problema, Amalia? Sei gelosa?

Komand’r si alzò di scatto dalla sedia, sopprimendo un urlo, portandosi una mano sulla tempia. Nel farlo urtò con le ginocchia il tavolo, facendo tintinnare posate e bicchieri.

«Komi, tutto bene?» domandò Kori, con tono sorpreso, guardandola quasi preoccupata. Un’espressione molto differente da quella che aveva invece Ryan.

Amalia distolse lo sguardo dalla sorella, imbarazzata. «Sto bene. Vado in bagno.» E senza dire altro si diresse verso il corridoio, cercando in tutti i modi di ignorare lo sguardo di Stella.

Seduta sul gabinetto, la mora si torturò i capelli con le mani. «Ma perché?! Perché questa storia non vuole finire?!» sussurrò a denti stretti, per poi grugnire infastidita.

Per quanto ancora sarebbe dovuta andare avanti in quel modo? Perché non riusciva a togliersi dalla testa quel maledetto problema che aveva? Quante altre ragazze avrebbe dovuto portarsi a letto per cancellarsi dalla mente quella trappola dai capelli rossi?

Se qualcuno avesse scoperto che cosa nascondeva dentro di lei... rabbrividì al solo pensiero. Riusciva perfettamente ad immaginare la reazione dei suoi genitori. Sicuramente l’avrebbero cacciata di casa, gridandole che lei era solamente stata un errore. E mentre le indicavano la porta, lei avrebbe visto la delusione e il risentimento che nutrivano nei suoi confronti nei loro occhi.

Come biasimarli.

Quando erano ancora vivi lei non aveva fatto altro che causare loro problemi. Problemi su problemi. Scoprire la sua deviazione mentale probabilmente sarebbe stata la batosta decisiva, per loro.

Komand’r si abbracciò le spalle e singhiozzò contro il proprio volere. Era troppo chiedere una vita normale? Perché quando si trattava di lei tutto doveva essere così incasinato? Che cosa aveva di diverso rispetto a tutte le ragazze della sua età? 

Amalia si prese il volto tra le mani, per poi scuotere con forza la testa. «Cazzo...»

Qualcuno bussò alla porta, facendola trasalire. «Komi, sei ancora dentro?» domandò la voce squillante di Kori dall’esterno.

«S-Sì, un attimo...» biascicò Amalia, per poi alzarsi. Chissà quanto tempo era rimasta dentro il bagno. E la cosa migliore era che nemmeno lo aveva usato per davvero. Si avviò verso la porta e la spalancò, per poi ritrovarsi di fronte il volto sorridente di sua sorella.

«Tutto bene?» le domandò.

Komi distolse subito lo sguardo da lei. «Certo, perché non dovrebbe?» chiese a sua volta, con tono molto più brusco di quello che avrebbe voluto utilizzare.

Stella si strinse nelle spalle, mentre il suo sorriso vacillava. «Non saprei... volevo... volevo solo...»

«Sto bene.» Amalia uscì dal bagno con prepotenza, costringendo Kori a spostarsi, dopodiché tirò dritto verso camera sua, senza nemmeno voltarsi.

La sentì sospirare profondamente, abbattuta, e di conseguenza percepì una forte fitta di dolore allo stomaco. Odiava fare così, odiava trattarla in quel modo, ma non poteva farci nulla; o quello, o cedere ai sentimenti. E per quanto stronza potesse apparire agli occhi degli altri, tutto era preferibile a come avrebbero reagito se avessero scoperto cosa teneva nascosto dentro di lei.

Raggiunse la sua camera e si chiuse la porta alle spalle, per poi abbandonarsi contro di essa inspirando profondamente, esausta. I poster delle sue band metal preferite appesi al muro sopra il letto le infusero un po’ di coraggio. Pensò che probabilmente sarebbe rimasta in camera a spararsi musica ad alto volume nelle orecchie per il resto della sera, ma mentre adocchiava la propria scrivania per vedere dove aveva lasciato l’mp3, notò il suo portafoglio posato vicino al vecchio computer fisso. Si morse il labbro, mentre sentiva il proprio stomaco annodarsi nuovamente.

Kori aveva chiesto dieci dollari, ma Ryan non poteva darglieli, perché quei soldi se li era presi lei, ed ora erano lì, proprio in quel portafoglio. Non le bastava solo essere scortese con sua sorella, ora doveva perfino impedirle di poter andare in quel museo ed essere felice per un paio d’ore con quel ragazzo. Come se lei potesse davvero impedire di frequentare chi voleva, con o senza gita al museo. Una volta finito con Richard, ne sarebbe arrivato un altro. E poi un altro. E poi un altro ancora.

Era così, Kori. Era sempre stata così. Era una calamita per ragazzi, e probabilmente anche per ragazze. E lei avrebbe dovuto imparare a conviverci, o non sarebbe più riuscita ad andare avanti.

Sospirò profondamente ed afferrò il portafoglio, per poi uscire dalla sua stanza. Sentì le voci dei suoi fratelli provenire ancora dalla cucina, quindi dedusse che Ryan ancora non le aveva dato niente. Con passo leggero si diresse verso la camera di suo fratello, per poi sgattaiolarci dentro. Prese i soldi che aveva fregato al minore giorni prima, tra cui anche i dieci dollari che tanto servivano a Kori, e li rimise dove li aveva trovati, nel portafoglio nascosto sotto al cuscino. Poi, silenziosa com’era entrata, uscì e ritornò a barricarsi in camera sua, rasserenata dal fatto che, forse, per una volta nella sua patetica vita era riuscita a fare qualcosa di buono per sua sorella.

Sperò, un giorno, di trovare il coraggio per potersi riappacificare con lei. Di sicuro, avrebbe provato a comportarsi in maniera migliore. Era sua sorella, la sua famiglia, e lei, anche se tendeva a nasconderlo, le voleva bene. Forse anche troppo, ma non era quello il punto. Avevano sofferto troppo, in passato, era stupido ed inutile continuare a vivere in quel modo. Sicuramente non sarebbe cambiata da un giorno all’altro, ma si ripromise a sé stessa che ci avrebbe provato. Lo avrebbe fatto per Kori, per Ryan e anche per sé stessa.

Un piccolo sorriso si accese sul suo volto. Sì, sarebbe cambiata. Per un futuro migliore, per poter essere, un giorno, davvero felice assieme alle persone che amava con tutto il cuore, ma che spesso faticava a dimostrare.

Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il triste paesaggio del Dedalo si estendeva di fronte a lei per chilometri e chilometri, ma quella vista non la turbò. D’altronde, il peggio ormai era passato. Erano in una nuova città, in buona salute, Kori andava al college, Ryan aveva trovato un lavoro e anche lei dava il suo contributo, di tanto in tanto. Per quanto barcollante fosse la loro situazione, se la cavavano abbastanza bene.

Per una volta, pensare ad un futuro migliore non le parve più un’assurdità colossale.

 

***

 

Komand’r riaprì gli occhi di scatto. Una parete bianca e sporca come la neve accatastata sul bordo della strada apparve di fronte a lei. Si sollevò lentamente a sedere, rendendosi conto di trovarsi sotto alle lenzuola di un letto. Mugugnò, portandosi una mano sulla tempia, poi si guardò attorno. Un armadio di legno ed una finestra da cui filtrava la luce del giorno decoravano la stanza. Nient’altro.

Dove sono?

L’ultima cosa che ricordava era la strada di periferia sulla quale si era accasciata, più una figura oscura accovacciata su di lei. Che collegamento c’era tra quello e la camera da letto in cui si trovava? Quei tizi che la stavano inseguendo non l’avevano uccisa? O forse l’avevano catturata e portata in quel luogo come loro prigioniera?

Si accorse ben presto che il dolore al fianco si era affievolito. Si sollevò la maglietta strappata e con sua enorme sorpresa trovò la parte di corpo dapprima ferita ora fasciata con delle garze bianche e pulite. Inarcò un sopracciglio. Decisamente, a prelevarla dalla strada e a portarla lì non erano stati i suoi inseguitori. Ma allora chi?

Scese lentamente dal letto, intenta a scoprirlo. Si sforzò con tutta sé stessa a non pensare al suo sogno, se così poteva chiamarlo. Doveva solo concentrarsi sulla situazione attuale e non lasciarsi tormentare dai fantasmi del passato per almeno cinque minuti, tempo di capire che cosa fosse successo, e dopo avrebbe potuto benissimo ricominciare a compiangersi per come aveva pensato che tutto potesse andare per il meglio proprio il giorno prima dell’esplosione di Empire City.

Il giorno in cui Kori era morta. Il giorno in cui tutto era di nuovo finito dritto nel cesso.

Amalia strinse i pugni e serrò la mascella. No, non doveva cedere a quei pensieri. Non in quel momento. Afferrò il giaccone nero che era rimasto sul fondo del materasso, poi aprì la porta della camera da letto ed uscì, ritrovandosi in un piccolo corridoio buio che conduceva solamente a tre porte, di cui solamente una con un po’ di luce che filtrava tra i vetri. Decise di seguire il corridoio ed andare proprio verso di questa, con passo felpato, per non allarmare chiunque l’avesse portata fino a lì. Anche se le avevano fasciato la ferita, non poteva fidarsi al cento percento. Era vulnerabile, e anche disarmata.

Appoggiò la mano alla maniglia e la abbassò lentamente. Non appena il primo spiraglio di luce comparve dalla porta, un odore molto più gradevole ai quali si era tristemente abituata invase le sue narici, accompagnato da un canticchiare sommesso, ma comunque melodioso, di una voce femminile.

La ragazza sollevò un sopracciglio, poi decise di aprire la porta con un unico, secco gesto. Il canticchiare cessò immediatamente, nel momento in cui la mora fece la sua comparsa in quella stanza e la donna di fronte a lei, dapprima girata di spalle e china su un fornello elettrico, si voltò per guardarla. Dopo un attimo di stupore iniziale, questa sorrise. «Oh, sei sveglia. Entra pure, stavo preparando qualcosa da mangiare.» Sollevò il cucchiaio di legno che aveva in mano come a conferma di questa affermazione, anche se l’odore di uova strapazzate e carne era una prova più che convincente.

Komi avanzò di qualche passo, rimanendo in silenzio mentre osservava meglio il volto dell’interlocutrice. Aveva i capelli lisci e ben pettinati, di un colore argenteo, che arrivavano appena all’altezza del collo. Sul volto portava i segni di una bellezza ormai estinta dal tempo, ma comunque ancora percepibile alla vista, a causa di alcune rughe sotto gli occhi scuri e le guancie scavate.

«Come ti senti? La ferita fa male? Ho cercato di rattopparla come ho potuto, ma forse faresti meglio a farti controllare da qualche esperto... sempre se riesci a trovarne uno» disse, con una punta di macabra ironia nella voce.

«Sto bene» borbottò Amalia, secca, osservando quella donna, il cibo sul fornello e il tavolo apparecchiato con piatti e posate per due persone come se tutto quello fosse la cosa più anormale del mondo. Cosa vera, tra l’altro. Chi era quella donna? Perché l’aveva aiutata? Perché le stava preparando... cos’era, pranzo, colazione? Non sapeva che fuori dalle mura di quella casa il mondo era caduto a pezzi? No, lo sapeva, altrimenti non avrebbe fatto quel commento di poco prima. Ma allora perché?

Forse avrebbe fatto meglio a chiederglielo direttamente, ora che ci pensava. Ma prima che potesse aprire bocca, quella la anticipò. «Mi chiamo Ursula» disse, tornando a girarsi sul fornello. «Tu invece?»

La ragazza esitò. Le pareva azzardato rivelare il suo nome in quel modo, ma vista la naturalezza con cui lei, Ursula, le si era rivolta, forse era giusto ricambiare. E poi, pensandoci meglio, era solo un nome. Mica le aveva chiesto la sua sessualità.

«Amalia» rispose, optando per rivelarle direttamente il suo nome tradotto, piuttosto che quello originale.

«Amalia» ripeté Ursula, facendosi pensierosa per un momento, per poi guardarla di nuovo con la coda dell’occhio. «Che bel nome. Mi ricorda "camelia". Sai, no, il fiore. Hai presente?»

«Sì...» Komi annuì lentamente, anche se non aveva idea di cosa stesse parlando.

«No, non è vero» ribatté la donna, ridendo. «Sei una pessima bugiarda.»

Komand’r sentì le guancie andare in fiamme. La cosa peggiore era che il suono di quella risata era tanto bello quanto innaturale. Non aveva mai sentito nulla di simile, non in quei mesi, perlomeno. Era una risata così... spontanea, sincera, non qualche risata forzata o da psicopatico come quelle a cui lei si era abituata, tipo quella di Dreamer.

Era... così strano sentirla. Le ricordava quella di Kori. Quella dei tempi in cui le cose andavano meglio, i tempi prima della morte dei suoi genitori. E per certi versi... assomigliava anche a quella di Tara, probabilmente l’unica ragazza che avesse conosciuto che ancora sembrava possedere un pizzico di fiducia e bontà in quel mondo in cui erano stati costretti a vivere.

Non appena ripensò all’amica, Amalia sgranò gli occhi. Chissà come stava. Non era passato molto da quando l’aveva salutata, eppure era un po’ preoccupata. Con tutta la storia dei suoi poteri ed eccetera, temeva per la sua salute. Sperò che se la cavasse, che Rachel e Rosso la aiutassero. Perché se lo meritava. Non aveva mai fatto nulla di male a nessuno e tutte le volte che l’aveva vista, in passato, le era parso di vedere un fiore in mezzo ad un campo di erbacce.

Perché per quanto Rachel e Rosso potessero cercare di sembrare i buoni della situazione, non erano molto diversi da Amalia. Anche loro nutrivano rabbia, odio, rancore, anche se tendevano a nasconderlo, proprio come lei. Tara invece no. Non era l’odio ciò che la alimentava. Non agiva per vendetta, o per egoismo. Certo, provava tristezza, nostalgia, era molto più tormentata di quanto desse a vedere, ma non era come loro. Era come Kori, come Ryan e come pochi altri. Lei era... "pura". Non sapeva come altro descriverla. Le sarebbe piaciuto un sacco assomigliarle.

«Ehi, ci sei?» La voce di Ursula la riportò alla realtà. Amalia trasalì. «Ehm... sì, scusa. Stavo... pensando.»

La donna la osservò per un momento, probabilmente domandandosi se stesse avendo a che fare con una qualche disagiata mentale, poi annuì, rimettendosi ai fornelli. «Mh, va bene. Comunque, la camelia è il fiore degli innamorati, secondo la tradizione. Dovresti essere felice del fatto che il tuo nome ricordi così tanto una cosa stupenda come...»

«Senti, perché mi hai salvata?» tagliò corto Amalia, con tono molto più duro di quanto avrebbe voluto usare.

Così duro che per poco Ursula parve quasi offesa, facendo sentire di conseguenza Amalia una stupida di prima categoria. La donna si voltò di nuovo verso di lei, posò il cucchiaio e si strinse nelle spalle. «Ti ho vista sul bordo della strada, sembravi piuttosto malmessa e bisognosa di aiuto, io ho solamente... voluto dartelo. Tutto qui.»

Le due si osservarono a vicenda dritto negli occhi. Ursula sembrava nascondere qualcosa, Amalia se n’era resa benissimo conto, ma di qualunque cosa si trattasse, non era malvagia. Non era la malvagità a spingere una persona a cercare di aiutarne un’altra. Certo, esisteva la possibilità che Ursula avesse un secondo fine, ma probabilmente nemmeno quello era malvagio. Ora che la osservava meglio... Komi notava una sorta di malinconia dello sguardo dell’albina. Forse quella di Ursula era solamente stata compassione, magari aveva voluto aiutarla perché nessuno in passato aveva aiutato lei.

Amalia abbassò lo sguardo, sentendosi di nuovo in imbarazzo. «Ti chiedo scusa... non avrei dovuto risponderti in quel modo...»

«Non preoccuparti.» La donna abbozzò un sorriso. «Ho capito che tipo sei. È difficile guadagnarsi la tua fiducia. E francamente, non ti posso biasimare.» Con gesto della mano, le indicò il tavolo. «Vuoi sederti? Tanto qui è quasi pronto. Nel frattempo possiamo chiacchierare ancora un po’. Vuoi?»

La ragazza annuì. «Va bene. Grazie.»

Si accomodò, mentre Ursula continuava a controllare il cibo sul fornello. In parte, Komand’r non era ancora molto convinta da quella situazione. L’albina sembrava riuscire a leggere dentro di lei come se fosse un libro aperto. Non riusciva davvero a spiegarsi tutto ciò. Forse in passato era stata una specie di psicologa, magari era anche per quello che aveva deciso di aiutarla.

«Che ti è successo ieri sera?» domandò ancora Ursula. «Chi ti ha ferita?»

Amalia fece una smorfia, ripensando a quanto accaduto con quei quattro tizi. «Un conduit...» borbottò, incrociando le braccia ed osservando con aria assente il piatto di ceramica di fronte a lei. «Avevo camminato per qualche chilometro nella zona industriale e mi ero fermata a riprendere fiato, quando questi quattro ragazzi hanno accostato vicino a me e sono scesi. Non sapevo cosa volessero, ma a giudicare dalle parole del loro capo, credo che stessero solo cercando un po’ di compagnia, se capisci cosa intendo... peccato che io non ero affatto in vena.»

Ursula fece schioccare la lingua, scuotendo la testa in segno di disappunto. «Sì, capisco. Che schifo. E ti hanno aggredita perché non hai voluto accontentarli?»

Komi piegò la testa. «Sì e no. Diciamo che la prima ad estrarre la pistola sono stata io, anche se non avrei mai potuto immaginare che due di loro fossero conduit. Mi hanno attaccata, poi uno di loro mi ha aggredita e ha cercato di farmi perdere i sensi. Ho capito che se glielo avessi permesso le cose non sarebbero affatto finite bene, per me. Sono riuscita a liberarmi e sono scappata, e loro mi hanno inseguita.»

«Io non ti giudico di certo. Forse sei stata un po’ avventata, ma anche tu hai solo cercato di difenderti. E comunque bisogna essere proprio dei vigliacchi per aggredire in quattro una ragazza sola.»

«Si, beh... ora sono solo più in tre» commentò Amalia, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia. Sorriso che svanì non appena si accorse dell’espressione basita di Ursula.

«Hai... hai ucciso uno di loro?» domandò la donna, a bocca aperta.

Improvvisamente, Komi si sentì minuscola sotto il suo sguardo. Non aveva la più pallida idea del perché, ma si sentiva parecchio condizionata dal pensiero che l’albina potesse avere di lei.

«Avevano preso la mia roba» cercò di giustificarsi la giovane. «Dovevo riprendermela, ma c’era questo stronzo di guardia e io...»

«L’hai ammazzato come il peggiore dei criminali. Ho capito» la anticipò Ursula con tono incolore. Spense il gas e prese la padella con dentro le uova, per poi versarsene un po’ nel suo piatto.

«Loro avrebbero ucciso me in ogni caso! Che altro avrei dovuto fare?!» domandò a Amalia, irritata.

«Potevi lasciare perdere. Tanto non mi pare che tu abbia riavuto la tua roba. Avevi solo quel giaccone quando ti ho trovata.» L’albina prese il piatto della mora, poi cominciò a riempire anche il suo.

Amalia la osservò, sempre più accigliata. «Che ne sapevo io che gli altri tre mi avrebbero beccata?!»

«Non urlare.»

«Non sto urland...» Komand’r sgranò gli occhi, interrompendosi di colpo. Si, lo stava facendo. Con le guancie in fiamme si portò entrambe le mani di fronte alla bocca, imbarazzata.

Ursula, nel frattempo, andò a prendere la padella con dentro la carne. «Non voglio che ti giustifichi con me per le tue azioni. Io non sono tua madre, non mi interessa ciò che fai. Certo, mi da fastidio sapere di avere aiutato un’assassina, ma sei comunque una persona. E in ogni caso non avrei mai potuto abbandonare una ragazza ferita sul bordo della strada, alla mercé di chissà quanti malintenzionati.» La donna posò la padella sul tavolo, sopra ad uno straccio per non bruciare la tovaglia, poi puntò l’indice dritto verso la ragazza. «Ma voglio che tu sappia che c’è tanta rabbia dentro di te, e tu stai cercando di tirarla fuori nel modo sbagliato. E non credere che io non sappia di cosa sto parlando, perché io stessa un tempo ero come te. La rabbia ti consuma, ti senti bloccata in un vicolo cieco, senza vie di fuga e l’unica cosa che ti resta da fare è urlare, mandare tutto a quel paese, ho ragione?»

Amalia non rispose, si limitò a chinare il capo. Quello fu silenzio assenso, per la donna.

«Non si può fuggire da sé stessi. Non da soli, almeno. Cercare di farlo... è come volare troppo vicini al sole con delle ali di carta. Certo, per un po’ riesci ad andare avanti, ma prima o poi il calore te le brucerà. E a quel punto precipitare sarà inevitabile. E la caduta sarà dolorosa.»

Komand’r si strinse nelle spalle. Quella metafora era esattamente ciò di cui non aveva bisogno, ma preferì tenere quell’osservazione per sé. E comunque, era esattamente così che si sentiva. Stava precipitando, lo stava facendo già da un pezzo.

«E come ci si può salvare?» domandò invece, quasi con tono implorante. Raramente si era rivolta in quel modo a qualcuno, ma quella volta ne aveva bisogno. Aveva bisogno di uscire da quel tunnel di dolore e sofferenza in cui da troppo tempo era entrata, aveva bisogno di liberarsi dalle sue angosce e dai suoi tormenti. Aveva bisogno di aiuto.

D’altronde, era quello il motivo principale per cui aveva deciso di staccarsi dal suo gruppo di compagni di viaggio. Il suo obiettivo era riuscire a capire che cosa voleva veramente, doveva pensare, riflettere, trovare la sua vera sé. Ed Ursula, forse, avrebbe potuto aiutarla.

«Qualcuno deve afferrarti al volo» rispose la donna, indicandole con il mento la finestra dietro di loro dove, sul davanzale accanto ad un vaso per i fiori, si trovava una fotografia.

Raffigurava due giovani donne sorridenti e strette in un abbraccio, e per Amalia non fu affatto difficile riconoscere Ursula. Nell’immagine aveva i capelli a caschetto neri e lucenti, mentre le righe del volto erano completamente assenti per lasciar spazio ad una pelle abbronzata e priva di imperfezioni. L’altra donna, invece, aveva i capelli biondi raccolti in una coda e un paio di occhiali da vista di fronte agli occhi azzurri. Era più pallida, ma non per questo meno avvenente della prima. Entrambe sorridevano in maniera serena, rilassata, come se al momento della fotografia nulla avesse importanza eccetto quel momento.

Un piccolo sorriso nacque sul volto di Amalia mentre osservava la fotografia in ogni suo piccolo dettaglio. «Chi è lei?» domandò, quasi senza rendersene conto. «Una tua amica?»

Una tenue risatina nacque dalla gola della donna. «No, non proprio.» Ursula sospirò quasi nostalgica, mentre Komand’r spostava lo sguardo su di lei inarcando un sopracciglio.

«Era... la mia compagna.»

La faccia che fece Amalia subito dopo aver sentito questa affermazione dovette essere davvero sorpresa, perché non appena la donna se ne accorse ridacchiò. «Perché mi guardi così? Non dirmi che sei omofoba...»

La ragazza trasalì. «C-Cosa? N-No, io... no, non lo sono. È solo che... non me lo sarei aspettato...»

Ursula annuì. «Sì, capisco. Beh, vedi, quando ero giovane io... diciamo che essere omosessuali era quasi l’equivalente di essere degli alieni. Non era per niente facile convivere con questa cosa, per me. Mi sentivo esclusa, incompresa, non accettata dagli altri. Ero arrabbiata, scontrosa, ce l’avevo con tutto e tutti e per sfogarmi frequentavo locali e persone non molto raccomandabili.»

Komand’r abbassò lo sguardo sentendo quelle parole. Mi ricorda qualcuno..., pensò amareggiata.

«Ma in cuor mio sapevo che quello era il modo sbagliato di comportarsi. Un giorno, poi, ebbi un incidente. Un pirata della strada mi lasciò in fin di vita su un marciapiede. Credevo di essere spacciata, ma mi risvegliai qualche giorno dopo in ospedale. E qui conobbi un infermiera. Lei.» Ed indicò la fotografia. «Gretchen, che mi spiegò che erano stati degli omofobi a farmi questo. Cosa di cui non mi sorpresi, visto che gli episodi di violenza su di noi erano all’ordine del giorno. Qualunque omosessuale che avesse avuto il coraggio di dichiararsi tale apertamente, come me, non faceva quasi mai una bella fine. Ma avrei preferito morire, piuttosto che non essere libera di essere me stessa. E Gretchen la pensava esattamente come me. Ed è stato allora che ho capito di non essere davvero sola. Lei mi ha afferrata, e mi ha salvato la vita. Il resto... beh, suppongo che tu possa ben immaginarlo. Quindi...»

Ursula riportò l’attenzione su di lei. «... credimi, quando ti dico che so bene cosa si prova ad essere arrabbiati. Non sei la prima e non sarai neanche l’ultima ad avercela con il mondo per chissà quale ragione. Tutto quello che ti serve è qualcuno che sia disposto ad afferrarti. Qualcuno che possa ascoltarti, capirti, amarti.»

Amalia soffocò una smorfia sentendo quelle parole. Se davvero fosse stato così facile risolvere i suoi problemi, probabilmente non si sarebbe trovata lì. Nessuno poteva capirla veramente. Lei stessa non riusciva ad accettarsi, come potevano farlo gli altri?

Scosse lentamente la testa, sospirando. «Nessuno può capirmi, tantomeno amarmi.»

«Io pensavo lo stesso di me.»

«Ma questa volta è vero!» protestò Amalia, sollevando lo sguardo ed inchiodandolo sugli occhi neri di Ursula. «Io... non sono normale. Le persone normali non... non avrebbero i pensieri che ho io.»

«Quali pensieri?» domandò allora l’albina, con voce più morbida.

Komand’r si strinse nelle spalle. «Non... non voglio parlarne...»

«Perché non vuoi?»

«Perché non voglio vedere... quello sguardo.»

Ursula sollevò un sopracciglio. «Quale sguardo?»

«La commiserazione!» esclamò Amalia, con voce incrinata. «Non intendo essere guardata dall’alto verso il basso da nessuno! Non intendo essere giudicata dagli altri, io stessa mi giudico già abbastanza! Io so chi sono, so quello che ho fatto e so che è un qualcosa che non potrà essere cambiato in alcun modo, e tutto questo altro non è che un problema mio! Non mi serve qualcuno con cui confidarmi, un’altra persona pronta a liquidarmi con un "oh, mi dispiace", per poi guardarmi schifata non appena rivolgo lei le spalle!»

«Se qualcuno farà così con te allora significa che non è chi cerchi» rispose Ursula, calma di fronte al repentino cambio di umore di Komi. «Anche io all’inizio pensavo che Gretchen fosse un’altra di quei bigotti omofobi, ma mi sono sbagliata. Lei mi ha capita, mi ha aiutata, mi ha regalato emozioni indescrivibili ed indimenticabili. L’ho amata come lei ha amato me, ed insieme eravamo felici. Quando c’era lei, io non pensavo ad altro che a noi. Mi ha salvato la vita. Mi ha salvata da me stessa. Ma se tu non riesci a capirlo, allora forse meriti davvero di rimanere sola e chiusa nel tuo odio.»

L’albina le si avvicinò, per poi posarle una mano sul ginocchio. «Io forse non posso capirti come tu vorresti, ma rifletti... c’è qualcuno, la fuori, che forse potrebbe farlo? Qualcuno che possa aiutarti a dimenticare ciò che hai fatto, che ti aiuti a voltare pagina? Perché, credimi, non è affatto facile riuscirci. Soprattutto se si è soli.»

Amalia si mordicchiò un labbro. Non voleva davvero rimanere sola. Ma non voleva neanche essere giudicata. Aveva paura di cosa gli altri avrebbero potuto pensare di lei. Rachel, l’unica persona con cui si era confidata, e neanche in maniera troppo chiara, non era stata davvero in grado di aiutarla. Certo, la sua reazione era stata probabilmente la migliore che avrebbe potuto aspettarsi, ma alla fine non aveva cambiato davvero le cose.

Poi chi altro c’era? Rosso? Probabilmente nemmeno lui l’avrebbe giudicata, ma l’ultima cosa che desiderava era apparire debole dinnanzi ai suoi occhi. Piuttosto che quello, avrebbe preferito tirare le cuoia direttamente.

A quel punto restava lei. Tara. L’avrebbe capita? Probabilmente sì. L’avrebbe giudicata? Probabilmente no. Ma non voleva comunque coinvolgerla nei suoi casini. Non era giusto nei suoi confronti, nei confronti di quella ragazza che non aveva fatto del male a nessuno e che aveva perso comunque tutto ciò che amava. Il suo ragazzo, la sua famiglia, la sua vita. Rivolgersi a lei sarebbe stato un atto tremendamente egoista, e lei non voleva più comportarsi in quel modo.

La ragazza sospirò. «Io...»

Un suono stridulo proveniente da fuori dalla finestra la costrinse ad interrompersi di scatto. Sia lei che Ursula drizzarono il capo, sorprese. «Ma cosa...?» domandò la donna, per poi alzarsi ed andare ad affacciarsi. Non appena lo fece, spalancò gli occhi. «Oh no...»

Quella reazione non piacque per niente ad Amalia. «Che succede?» domandò, allarmata, alzandosi subito in piedi e affiancandola. Non appena anche lei vide cosa c’era fuori casa, rimase sorpresa tanto quanto Ursula.

Proprio sotto di loro, in strada, un pick-up si era fermato sul ciglio della carreggiata. Di fianco a lui, probabilmente scesi da poco, si trovavano i suoi passeggeri, e tutti e tre stavano guardando proprio verso le finestre sopra le loro teste, con l’aria alquanto corrucciata.

Amalia non poté credere alla propria sfortuna. Proprio sotto di lei... si trovavano i conduit che l’avevano aggredita.











Sì, ho pubblicato in fretta, ma è solo perché volevo subito togliermi dalle scatole questi primi due capitoli che tanto ormai conscete bene (mi riferisco a chi ha già letto Sbagliata), se invece siete nuovi su questa storia, beh, vi è andata di fortuna. In genere io non aggiorno così presto. Finalmente, il prossimo capitolo sarà quello che nessuno aveva ancora avuto l'onore di leggere, perciò urrà! 

Vabbene, alla prossima!

Paper Wings


   
 
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