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Autore: Lost In Donbass    09/02/2017    2 recensioni
Tom è un traduttore di romanzi, squattrinato, disordinato, con la memoria particolarmente corta e la mania di cacciarsi in casini molto più grandi di lui.
Bill è un giornalista, geniale, psicologicamente instabile, dotato di una memoria elefantiaca e affetto da nevrosi acuta.
Si sono visti e rivisti, questi due ragazzi, ma solo ora si decideranno a parlarsi, a riconoscersi, a entrare in un contatto che di sano non ha proprio niente. E in una Berlino misteriosa, tra amici inconcludenti, grunge degli anni 90, ricordi che vengono a galla, crisi di nervi e perle filosofiche di periferia, riuscirà Tom a salvare Bill da se stesso? O lo perderà di nuovo, forse per l'ultima volta?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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CAPITOLO DIECI: PUOI ANDARE AL CIMITERO, TOM?

In trent’anni di onorata carriera, la dottoressa Ziemann non aveva mai sperimentato un soggetto come quel ragazzo che aveva davanti, ricoperto di piercing e tatuaggi, con quell’inquietante sorriso vacuo e quei grandi occhi tristi che vedevano tutto e niente contemporaneamente. Parlava bene, con gentilezza, parlava tanto ma non diceva nulla di tangibile. Era fumo, quel ragazzo, fumo come quello della sigaretta che gli aveva dato. Aveva un modo elegante di stare rannicchiato sulla sedia, un modo aggraziato nel portarsi la sigaretta alle labbra, un modo signorile di eludere ogni domanda che lei gli porgeva. Era pazzo, forse, ma non era affatto stupido. Poteva sembrare trasognato e addormentato, ma era incredibilmente presente a se stesso, sveglio, furbo. Certo, quei grossi occhi neri truccati erano carichi di una malinconia incancellabile, vi si poteva leggere dentro tutta la depressione che quel ragazzo si trascinava dentro da quando era nato, impregnati di ragnatele che avrebbero potuto essere quelle che ricoprivano le vecchie bambole di case abbandonate secoli prima, ma brillavano, in fondo, una lucina lontanissima ma presente, qualcosa che segnalava la sua vera essenza. Sorrideva, quelle belle labbra piegate in un leggero sorriso perso e innocente, ma nulla vietava che nascondesse molto di più che una semplice mente instabile. C’era qualcosa, nell’intera sua essenza, a dare alla dottoressa la sensazione che fosse molto di più di quello che dava a vedere, che avesse una propria logica e che fosse ben lontano da essere uno di quelli incatenati ai loro mondi alternativi, slegati dalla realtà, perché quel ragazzo tinto di biondo platino che in quel momento stava parlando della salita al potere di Mao-Tse-Tung alla finestra era molto di più di quello che dava a vedere. Poteva sembrare completamente fuori, lontano da ogni situazione reale, ma lei vi leggeva dentro una sorta di presenza di spirito non da poco, pareva quasi che lo facesse apposta per proteggersi da qualcosa di sconosciuto, una sottile perfidia nascosta abilmente sotto l’innegabile dolcezza che lo permeava. Era diabolicamente presente, si disse la donna, guardando le belle mani del giovani gesticolare delicatamente nell’aria, aveva una follia inquietantemente calcolatrice e fredda, qualcosa impossibile da ingabbiare e da curare, era troppo intelligente per farsi incastrare da qualcuno. Era pericoloso, decise la dottoressa Ziemann. Bill Schadenwalt era un elemento pericoloso per la comunità, ingestibile, incomprensibile e troppo geniale per essere tenuto a freno. Anzi, si chiedeva ancora come potesse essere ancora in libertà. Un ragazzo simile avrebbe potuto come niente creare scompigli inenarrabili in città, era abbastanza lucido per farlo e per scappare se i suoi demoni glielo avessero ordinato.
-Capisco … - la donna annuì, scrutando attentamente il lampo diabolico saettare nelle iridi nere del ragazzo. – Allora, mi vorresti raccontare qualcosa di te, invece?
-Non ho nulla da raccontare su di me, dottoressa.- cinguettò pacificamente Bill, esalando un sospiro di sigaretta – Io sono un angelo, gli angeli non raccontano.
Un angelo, pensò la donna sorridendo tra sé. C’erano stati tanti giovani che le avevano rivelato di sentirsi creature celesti, ma nessuno l’aveva mai fatto con la sicurezza un po’ egocentrica del biondo.
-Certo, Bill, tu sei un angelo. E non vuoi dirmi cosa ti è successo nel centro sociale?
-Lo sa che mi sarebbe tanto piaciuto avere dei bambini?- Bill la guardò intensamente negli occhi, passandosi una mano tra i capelli, i piercing che brillavano alla luce asettica dei led dell’ospedale.
-Puoi sempre averli, Bill, sei molto giovane. Troverai sicuramente una ragazza con cui avere una famiglia.- la dottoressa Ziemann lo guardò con aria accondiscende, sentendosi fondamentalmente una bugiarda. Ma poi, aspetta, cosa c’entrava un figlio con il centro sociale?
-Io ce l’ho già un ragazzo.- Bill la guardò storto, stringendosi nelle spalle ossute –  E comunque non potrò mai avere i bambini che voglio, sono morti sette anni fa.- strinse le ginocchia al petto, dondolando la testa – Credo che l’avrei chiamati Lukas e Klaus. Sì, forse li avrei chiamati così. Però sono volati via …
La psichiatra guardò, con una certa inquietudine che in tanti anni di servizio non aveva mai sperimentato nemmeno coi soggetti più pericolosi,  Bill che si alzava e ciondolava dalla finestra, poggiando la lunga mano pallida sul vetro. Seguì con lo sguardo le lunghe unghie acuminate spennellate di rosso graffiare lentamente il vetro, mentre lui posava la fronte contro la finestra e cominciava a ridere. E, parola sua, la dottoressa Ziemann non aveva mai sentito una risata più orribile di quella. Avrebbe voluto scappare, in quel momento, il suo terrore era forte come quello di una gazzella circondata da leoni. Solo che qui sarebbe dovuta essere lei il leone, non quel ragazzo anoressico che sghignazzava in un modo così grottesco, orribile e perverso da fare paura anche al più accorto e coraggioso degli psichiatri. Lo guardò che continuava a ridere, rideva sempre di più, un suono spezzato come quello di una vetrata intera che cade a pezzi, scrosciante come una pioggia di cristalli spezzati, mentre scivolava lentamente sempre più giù, fino a inginocchiarsi per terra, le mani ancorate al vetro come quelle di una bestia in gabbia, grosse lacrime di trucco che gli rotolavano lungo le guance scavate e malaticce. Teneva gli occhi spalancati, vuoti come quelli di una bambola bruciata dalle fiamme, spalmato sulla finestra sporcata dalle gocce di pioggia che battevano sul vetro, scosso dagli spasimi di quella risata isterica che sembrava non avere fine tanto era disperata e stravolta. Sembrava il pianto di una madre che aveva il proprio figlio al fronte. Il pianto di una ragazza che ha lasciato il proprio fidanzato partire per un continente lontano. Il pianto di un lupo che viene strappato al suo branco. Piangeva e rideva contemporaneamente, forse piangeva dal ridere, forse rideva per non piangere, spezzato da milioni di schegge invisibili conficcategli nell’anima martoriata e torturata fino all’inverosimile. Sembrava il suono di una cascata scrosciante sulle rocche, come poteva essere anche il suono di lamine di ferro che schiacciano e triturano vite sotto di loro. Faceva paura a vederlo così, ucciso dalla sua stessa perversa risata, il viso nascosto tra le mani, quelle ali da demonio strappate come il loro padrone e grondanti sangue e inchiostro che si arpionavano al vetro con i grossi artigli, nel tentativo di buttarlo giù e di salvare il loro angelo da quell’inferno in cui era precipitato, graffiando e sbattendo come un gabbiano ferito sulla finestra, violente e terribili, il sangue che sprizzava dappertutto negli ultimi spasmi di vita delle povere ali del ragazzo.
La donna si alzò, lisciandosi la gonna del tailleur castigato e si avvicinò al ragazzo, posandogli delicatamente una mano sulla testa.
-Bill,- sussurrò delicatamente, accucciandosi accanto a lui – Bill, come ti senti?
Lui non la guardò nemmeno, raggomitolandosi ancora di più su se stesso, come un riccio, i singhiozzi placati e le ali chiuse a proteggerlo a guscio, avvolgendolo completamente come a cercare di portalo di nuovo dal paradiso infernale da dove era venuto. Davvero, si chiedeva la dottoressa mentre gli scompigliava i capelli come a un bambino, non aveva nulla di umano e di sensato quel ragazzo. Sbaragliava i bookmaker della psicologia e della psichiatria.
-Voglio andare via.- piagnucolò Bill, sollevando appena lo sguardo verso la donna, ma senza in realtà vederla – Non mi piace questo secolo. Voglio andarmene, Hansi, voglio tornare polvere di stelle.
-Non puoi andartene, Bill.- sospirò la dottoressa Ziemann, facendolo lentamente alzare. Era un caso difficile, quello. Come fare a dire a un ragazzo che te lo chiedeva in ginocchio che quello era l’Inferno e beh, quella non era l’uscita? – Devi restare ancora un po’ qua. Ma mi hai detto che hai un … ragazzo, vuoi parlarmi di lui?
Lo fece di nuovo accoccolare sulla sedia, accendendogli un’altra sigaretta, aspettando che smettesse di tremare convulsamente e di parlottare tra sé in una lingua che la donna era sicura di non aver mai sentito in vita sua, ma che aveva il suono più bello del mondo, eppure era anche sicura che non avesse nessuna forma di possessione demoniaca, ma che fosse solo una lingua che il biondo si era inventato per proteggersi da questo mondo che gli era completamente nemico. Oppure era forse così che parlavano gli angeli. Aspettò, fissandolo curiosamente, il viso perso in una nuvola di fumo biancastro, lo sguardo vuoto in un universo percepibile solo ai pochi eletti, le belle labbra piene piegate in un sorriso malinconico, mormorava una preghiera nella sua lingua angelica. Stava rivivendo una delle sue mille vite, in quel momento, uno dei diecimila Bill che coesistevano in un'unica mente martoriata e in un unico corpo anoressico e tatuato. Avrebbe anche voluto chiedergli come mai quel look così appariscente, il perché della sua omosessualità così portata agli estremi, il motivo della sua estroversione nel conciarsi ma nella sua assoluta introversione nel rapportarsi col mondo. Era come una farfalla: bellissimo fuori, ma non muore forse solamente dopo una giornata da imperatrice?
-Vuole che le racconti di Tom?
Bill la stava guardando, e sembrava così differente da quello scricciolo spaventato e perso che era stato fino a un secondo prima. La guardava fisso, gli occhi glacialmente incatenati dentro i suoi, le gambe signorilmente accavallate, un inquietante, vago sorriso. Faceva paura, indubbiamente. Tanta quanta ne può fare l’ignoto.
-Se ne hai voglia, potrebbe essere un buon argomento.- sorrise accondiscende la donna. Forzarlo, si doveva. Spingerlo a raccontare la realtà, e non le sue menzogne.
-Tom non si ricorda di me, in realtà.- iniziò Bill, soffiando una voluta di fumo nell’aria, il tono sensuale di una qualche diva cinematografica anni ’50 – Ci siamo visti tre volte, come la sacra Triplice Dea. Tre, come la Trinità. Tre, come gli album in studio dei Nirvana. Una, quando eravamo bambini, quando c’era Cloto a filare i nostri destini incrociati e quando c’erano ancora i mostri a popolare il mio letto. La seconda, quando avevamo sedici anni e c’era Lachesi che stava tessendo le nostre vite nell’arazzo più bello che sia mai stato tessuto, e lì volevo salvare mio fratello dal disastro che lo attendeva. La terza, quando avevamo diciannove anni, Atropo avrebbe dovuto lacerare il nostro arazzo e io mi stavo struggendo nella mia esistenza di amante non corrisposto. E poi, Tom è tornato da me. Quando meno me l’aspettavo, quando credevo che sarebbe rimasto il mio bellissimo Fante di Picche perso nell’obnubilante bellezza del ricordo eterno, è riapparso, dalle sabbie del tempo. Laggiù, sulla Sprea, sotto le luci della notte. Come in un sogno meraviglioso.
La dottoressa Ziemann lo guardò, annuendo incredula. Non sapeva se credergli oppure no, come trovare la vera chiave di quel discorso in un mezzo a quel tripudio di figure retoriche e abbellimenti atti a confondere l’ascoltatore nel loro giro di perlacei specchi riflettenti le mille verità che si occultavano nelle parole.
-E’ una bella storia, Bill.- rispose semplicemente, accondiscendo. – Molto romantica.
-No, oh no, forse non ha afferrato il punto.- il biondo rise, scuotendo la testa – Io e Tom non siamo romantici. Siamo legati a doppio filo con il passato e le continue coincidenze dei nostri incontri. Comunque, dottoressa, le volevo chiedere un favore.
Ci fu qualcosa nel repentino cambiamento nel ragazzo che mise all’erta la donna, quasi come se li le avesse tacitamente detto che basta, si era stufato di quella seduta, che voleva tornare a covare i suoi diavoli in santa pace. Sembrava essersi improvvisamente tranquillizzato, aveva raddrizzato la schiena, cominciava a guardarla negli occhi, anche la voce stessa sembrava aver perso la lagnosa e infantile cantilena. Cambiava, Bill, cambiava a seconda della situazione. E questo non faceva che renderlo un soggetto sempre più pericoloso.
-Sì, Bill? Dimmi pure quello che vuoi.- annuì, sistemandosi gli occhiali.
-Vorrei che mi aiutasse a raccogliere un po’ di materiale sulla storia di questo comprensorio ospedaliero. Ho sentito che ha una storia piuttosto interessante, legata soprattutto alla Seconda Guerra Mondiale … vede, sono un giornalista. Credo che durante la mia degenza possa intrattenermi scrivendo un nuovo, brillante, articolo sul Bach Hospital. Credo che a questo punto l’articolo sul centro sociale sia stato affidato a qualche altro collega.
Il Bill che le stava parlando in quel momento non era affatto pazzo, quello era poco ma sicuro. Era solamente qualcun altro che subentrava quando serviva che riprendesse il controllo della situazione, come una perfetta macchina raziocinante che comprendeva tranquillamente quale fosse il viso da mostrare al mondo: quello di un patetico e debole ragazzo con gravi scompensi psicologici che doveva suscitare solo compassionevole misericordia, oppure quella di un giornalista in carriera particolarmente acuto e affascinante che doveva imbambolare i suoi interlocutori. Il mistero allora era scoprire cosa nascondesse il suo tormentato passato e risalire dunque al tragico nocciolo della questione.
-Ma certamente, Bill. Farò in modo di procurarti del materiale adeguato.- disse la dottoressa Ziemann, occhieggiandolo da sopra gli occhiali – Ma, dimmi. Non hai accento berlinese … fammi indovinare, Hannover?
-Magdeburgo.- la corresse Bill, sorridendole maliziosamente. Voleva incantarla, forse? Era cosciente di quel suo atteggiamento provocatoriamente seducente? Qualcosa le diceva che fosse semplicemente il suo Altro Io ad aver preso il sopravvento. Come se dentro di lui convivessero due uomini completamente opposti uno all’altro, che quello forte lasciasse il debole a giochicchiare col loro corpo per poi affermarsi quando trovava un approccio prolifico. Erano inquietanti, i suoi occhi, realizzò la dottoressa. Quasi che uno chiamasse vendetta e l’altro si limitasse a piangere.
-Capisco. Non deve essere stata una città divertente.
-Oh, non molto. Ma sette anni fa sono venuto a Berlino, e devo dire che è davvero tutto un altro mondo.- sillabò Bill, calcando impercettibilmente sulla parola sette come sulla parola un altro.
-Posso immaginarlo, Bill. Sei venuto a Berlino con qualcuno o …
-Scusa Bill, scusa, lo so che sono in ritardo ma … oddio, mi scusi!
La dottoressa Ziemann si voltò verso la porta, che si era appena spalancata violentemente, da dove era sbucato un ragazzo sui ventisette anni piuttosto arruffato e col fiatone. Lo guardò, i grandi occhi scuri sgranati in un’espressione apologetica, i lunghi capelli unti sciolti sulle spalle, l’aria assonnata e allucinata come uno appena svegliato da una notte conciliata dalla marijuana, una borsa da postino anni ’50 appesa alla spalla e la classica aria da ragazzo no global con strani ideali comunisti in testa che crede ancora che Jim Morrison sia vivo da qualche parte e che Janis Joplin si sia reincarnata nel suo gatto.
-Tom, caro! Non disturbi affatto, la seduta stava giusto per finire!- Bill si alzò di scatto, appendendosi al collo del nuovo, disordinato, venuto – Dottoressa, lui è Tom, il mio fidanzato, gliene parlavo prima! Caro, lei è la dottoressa Ziemann, la mia psicologa.
Mentre si alzava per stringere la mano dell’impacciato, sorridente, un po’ confuso, giovane Tom, la donna non poté nascondere a sé stessa un brivido spaventato. Perché, ne era sicura, appena Tom si era palesato nella stanza, Bill, o meglio, l’uomo che sembrava possedere ogni tanto il suo corpicino da bambolina, aveva piegato il viso in una smorfia che dire terrificante era dire poco, come se non avrebbe mai voluto quella rumorosa e infantile visita. Eppure, nella frazione di un secondo, fu come se la maschera dell’Ospite fosse crollata come crolla una statua di argilla, e il vero Bill, quello innocente e splendidamente angelico, fosse sbucato di nuovo allo scoperto, felice di essere riuscito a riappropriarsi del proprio corpo prima di appendersi al suo fidanzato con un sorriso che sembrava voler solamente scongiurare un’altra presa di potere dell’altro Sé. Era cosciente di essere pazzo, allora?
-Così tu sei il suo fidanzato, piacere.
Tom le strinse la mano, presentandosi, con quel suo classico modo un po’ scanzonato e un po’ campato per aria che era solo suo. Era fantastico, come al solito. Non aveva finito la traduzione, si era dimenticato che Bill era in ospedale, e come se non bastasse aveva fatto la figura da cretino del mese: era miseramente caduto, forse vittima dello stress e della stanchezza, in quella fase di amnesia totale nel quale nulla gli sovveniva più alla mente che non fosse giusto il nome e la faccia di Julia, che aveva dovuto passare almeno mezz’ora seduta al Brecheisen con lui, in mezzo a un gruppo di turiste svedesi che erano passate dal guardarlo con la bava alla bocca a un’espressione spaventata, a raccontargli di nuovo chi era, cosa ci faceva lì e che cosa avrebbe dovuto fare quel giorno. E anche perché stava leggendo quel libro orribile.
Guardò Bill, che gli stava appeso al braccio con un sorriso vittorioso sulle labbra e sorrise tra sé e sé. Bene, ora era ufficialmente il suo fidanzato. Sembrava quasi un paradosso potersi dire fidanzato con un angelo caduto dal Paradiso e sgattaiolato via dall’Inferno come un topolino che si affacciava in ogni epoca fino a trovare lui, Tom, traduttore di romanzi che più sfigato non si può. Anzi, si era quasi chiesto se Bill non avesse avuto un uomo in ogni epoca in cui era vissuto, magari era stato l’amante di uomini come Marat, come Dostoevskij, come Chopin. Per quello che ne sapeva, Bill avrebbe potuto essere il compagno di giochi di Cleopatra, essere stato sulla Santa Maria come cartografo di Cristoforo Colombo, aver tramato nella Rivoluzione d’Ottobre contro i Romanov, essere stato parte attiva dell’omicidio di Robespierre, aver combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, o essere stato in prima linea durante la Primavera Araba, come in quella di Praga. Aveva avuto il privilegio di conoscere ogni singolo angolo oscuro della Storia, e di poterla raccontare in prima persona, di essere stato a contatto con tutti i letterati e i musicisti di tutte le epoche e di aver preso qualcosa da ognuno di loro. Bill era il mondo, era tutto, era l’angelo di cui la società aveva paura. O forse era Tom che era completamente impazzito ad aver cominciato a credere che Bill fosse davvero qualcosa di ultraterreno. Berlino stava diventato dannatamente complessa da vivere dopo che gli angeli avevano deciso di usarla come scacchiera.
-Allora, vi lascio.- la dottoressa si alzò – Bill, prendi le tue medicine, mi raccomando. E ricordati che tra poco hai una visita.
I due ragazzi guardarono la donna scomparire e chiudersi la porta alle spalle, lasciandoli soli nell’asettica e inquietante intimità di una camera di ospedale. Si guardarono negli occhi, mentre Tom gli accarezzò delicatamente il viso e gli baciasse dolcemente i capelli, come si fa coi bambini, come si fa coi vecchi. Bill era un bambino troppo vecchio, in fondo.
-Allora, Bill, come stai?
-Non lo so, Tom.- il biondo sospirò rumorosamente, sedendosi sul suo letto, malinconico, dondolando i piedi. – Mi sento … strano. Mi fanno sentire strano.
-Cosa vuol dire? Ti hanno detto qualcosa di brutto?- Tom gli sedette accanto, stringendogli le spalle ossute, guardando le ali ripiegarsi tranquille e accarezzargli impercettibilmente la pelle.
-E’ proprio quello … perché non mi insultano? Perché non mi picchiano? Perché mi trattano come uno di loro?- Bill posò il capo sulla spalla dell’altro, mordendosi pensosamente il labbro inferiore, chiudendo gli occhi sporchi di trucco.
-Perché lo sei, Bill.- Tom gli baciò di nuovo i capelli ossigenati, che sapevano di shampoo, di sigarette, di colori ad olio. Sembravano una di quelle coppie che durano indefesse da anni, che hanno vissuto sulla loro pelle i segni di un secolo che cambia, di tradimenti, amori, amicizie, di vite vissute. Eppure loro non stavano insieme da nemmeno un mese, ma sembravano sconvolgere ogni legge immateriale. Erano già consolidati, loro due, la loro pelle era già segnata dalle cicatrici della fatica. – E credi che possano anche solo insultare un angelo?
Bill sorrise, strofinandogli il viso nel collo.
-Grazie, tesoro. Sei così carino con me. Però … non so, mi inquieta questo posto, e queste persone che mi trattano bene. Sono abituato alla periferia, Tom, a vivere nel degrado dei miei incubi. Qui … è tutto troppo normale.
-Ho capito, Bill, non ti preoccupare. L’ospedale è solo una transizione, sono sicuro che quando ti avranno riaggiustato potrai tornare a casa. In periferia.- Tom rise, stringendolo a sé come la bambola delicata che in fondo era. – Piuttosto, come ti senti fisicamente?
-Bene, credo. Non so nemmeno quello.- Bill gli si accoccolò contro, quella buffa espressione infantile eppure saggia – Mi sento un po’ soffocare, e poi non mi fanno fumare. Cioè, solo la psicologa me lo permette ma capisci che io ho bisogno delle mie sigarette. E nemmeno dipingere, solo disegnare. E devo scrivere l’articolo, sono in ritardo con la consegna.
-Su, coraggio. Te l’ho detto, è questione di pochi giorni prima che la vita riprenda a scorrere normalmente … vuoi che faccia qualcosa per te?- Tom lo guardò, e pensò che era bello anche così, un po’ arruffato, ancora più pallido e macilento, gli occhioni stanchi e arrossati. – Ti porto qualcosa da casa, vado dal direttore del Flugel a dirgli che non stai bene, qualunque cosa. Fammi sentire utile, ti prego.
La buffa espressione del ragazzo fece ridere il biondo, che si limitò a stringerlo e cinguettare, come se davvero non fosse successo nulla di tragico
-Come sei tenero, Tom! A volte mi ricordi un po’ Holly, sai?
Tom aggrottò le sopracciglia. Holly. Quel nome. Lo stesso nome della ragazza che si era impiccata dopo l’incidente della morte di Hansi. Dunque, il mistero tornava a fargli macabramente visita sotto forma di un sorriso smielato, un bacio un po’ più approfondito e tanti punti interrogativi che ballavano nella sua mente confusa dal sonno e dalle patatine fritte. Uh, giusto, avrebbe anche dovuto lavarsi i capelli.
Aspettò giusto un attimo dopo che si furono baciati sostanziosamente e che Bill si fosse raggomitolato sul suo letto per arrischiarsi a partire con la domanda
-Ma … dimmi, posso sapere chi è Holly?
Stranamente, Bill non ebbe la tragica reazione che si era aspettato, ma si limitò a scuotere la testa e a ridere, ridere di cuore.
-Holly? È la fidanzata di mio fratello! O meglio, lui veramente diceva che era la sua … com’è che la chiamava? La sua …
-Troia?- lo aiutò Tom, vergognandosi della sua volgarità che sembrava essere lontana anni luce dalla purezza argentina di Bill.
-Ecco! Esatto!- il biondo batté le mani, entusiasta. Bene, era in versione pacifica. Poteva raccontargli. Snodare la matassa. Svelare parte dell’oscurità perversa che adombrava il suo passato. – Ma per me era una ragazza così speciale, così diversa. Non so perché non mi volesse male, perché si sforzasse di proteggermi dalle grinfie di Hansi, perché mi comprasse i pastelli, a volte. Ma lo faceva. Era così diversa da lui, così innocente. Forse era davvero più pazza di me, non trovi, Tom? Pazza come lo siamo tu ed io.
Tom non aveva ancora capito bene i parametri che Bill dava alla sua follia, ma in fondo non era importante capire come un angelo considerasse i terreni. Non erano altro che polvere sotto le sue belle dita magre con le lunghe unghie accuratamente spennellate di nero e bianco. Lo guardò, nella profondità degli occhi neri completamente allucinati, dove continuavano a cadere specchi di Alice e scacchiere di marmo bianco, dietro a pregiati tendaggi di broccato rosso. Erano un teatro, gli occhi di Bill, uno spettacolare teatro che Ibsen avrebbe definito la sua bellissima Casa di Bambola e che Ionesco avrebbe trovato così deliziosamente assurdo. Per non parlare di Miller e della sua irrealtà surreale che dentro Bill trovava uno spazio assurdamente congeniale.
-La gente è matta, tesoro mio, eppure nessuno se ne accorge per davvero.- Bill si era alzato, per poi essersi riseduto comodamente sulle ginocchia di Tom, guardando con aria sognante fuori dalla finestra, una mano che giocherellava distrattamente con i capelli scuri del ragazzo arrotolandosi qualche ciocca attorno alle dita e l’altra impegnata a disegnare fronzoli invisibili nell’aria asettica dell’ospedale. Sembrava un capo di stato, a modo suo. Un papa. Un imperatore. – Sono tutti così schiavi del sistema, del mondo comune, che nessuno pensa a come potersi liberare una volta per tutte da questa prigionia eterna a cui ci si auto costringe. Ci si obbliga ad essere normali quando la normalità non è altro che un concetto borghese istituito dai poveri di spirito per crearsi personalità. Noi siamo liberi, Tom, te ne rendi conto? La tua memoria inesistente, la gentilezza di Holly, l’intera mia anima, non sono altro che i segnali per cui noi abbiamo superato la stupida concezione banale e abbiamo aperto le porte della vita vera. Non trovi, Tom? Non pensi che in fondo noi non siamo altro che quelli che stanno dalla parte giusta dello specchio?
Tom sospirò rumorosamente, accarezzandogli distrattamente la schiena. Certo, sarebbe stato bello se il mondo avesse funzionato come diceva Bill, eppure non riusciva a capir che quella era la realtà, non era uno dei suoi folli disegni, non era la Wonderland che sognava, non era altro che la schifosa vita a cui tutti dovevano sottostare. Il biondo era qualcosa che non c’entrava con loro, Tom lo aveva capito subito da quando lo aveva visto barcollare pericolosamente sulle rive della Sprea, vestito come una battona del Banhof Zoo, con i suoi bracciali tribali che cozzavano tra loro e i suoi occhioni speranzosi e allucinati. Lo aveva sentito fin dentro il cervello ogni volta che lo guardava, che parlava, che la sua memoria addormentata risvegliava oziosamente stralci impalpabili di canzoni grunge, e frasi scritte sulle mani, e inquietudini e carboncini di mostri neri con gli occhi verdi. Che Bill esistesse da sempre o fosse solo un ragazzo con gravi scompensi psicologici, rimaneva comunque che aveva ragione: era più normale lui, nella sua magica follia, che tutto il resto del mondo e la loro ottusa borghesia.
-Io … non lo so, B. Forse. Forse no. Credo sia questione di punti di vista.
Tom si grattò impacciato il retro del collo, stringendosi nelle spalle. Ma che domande veniva a fargli, lui, un inutile ragazzo proletario che arrivava a stento a fine mese e che doveva convivere con l’angelo più squinternato di tutto l’Inferno?
-Come vuoi, tesoro.- Bill gli sorrise dolcemente, il suo sorriso più vecchio del tempo e più giovane di un bambino appena nato, più saggio del mare e più innocente dell’acqua di sorgente, più triste della morte e più gioioso della vita. Bill era un controsenso ambulante. Era il suo Ankou, la sua Jana, la sua Lorelei. Era tutto quello che l’avrebbe perseguitato ogni notte nei suoi incubi. Si alzò dalle sue ginocchia, baciandogli le fronte, come un papa che consacra un sovrano, come un  padre che saluta il figlio, come un soldato che dà l’addio alla madre prima di partire per una guerra dalla quale non farà ritorno. – Vorrei che facessi qualcosa per me.
-Tutto quello che vuoi!- esclamò Tom, forse con troppa enfasi, sfoderando uno dei suoi larghi sorrisi un po’ malinconici e un po’ smemorati. Perché Tom non sarebbe cambiato mai, eterno bambino con lo skate sottobraccio, la rivolta in testa e una canzone dei Green Day da cantare sotto le stelle di metallo della periferia.
-Dovresti andare al cimitero.- cinguettò Bill, aggiustandosi i capelli, arrossendo un pochino – Lo so che non è una cosa molto allegra, ma vedi, ho bisogno che qualcuno vada a controllare e possibilmente a portare dei fiori a mio fratello e alla sua fidanzata. L’ho sempre fatto io ma ora … fallo tu, Tom. Per favore.
Ora, Tom si sarebbe aspettato qualunque cosa. Ma proprio qualunque cosa, dal portargli i pennelli, a mettergli a posto la casa, a fare un’intervista al suo posto, anche a scoparlo lì sul letto dell’ospedale, ma quello proprio no. E forse lo diede abbastanza a vedere quando boccheggiò
-Co … cosa?
-Oh, Tom, lo sapevo! Non avrei dovuto chiedertelo!
Il ragazzo guardò Bill assumere una perfetta espressione triste e corrucciata, mentre sfarfallava i grossi occhi inquieti, torcendosi le mani in grembo, le ali immaginarie che si stiravano nervosamente alle sue spalle, e subito si pentì amaramente di essere sempre così dannatamente impulsivo. Ecco, aveva rovinato tutto. Si affrettò a riparare, come poteva, afferrando le mani del biondo spasmodicamente
-No, Bill, no, cos’hai capito, certo che vado al cimitero, ero solo … stupito, ecco stupito. Non pensavo che portassi dei fiori a … tuo fratello, ecco. Intendo, dopo le bambole e quello che … dicevi.
-Sono quasi otto anni che gli porto i fiori, Tom.- Bill lo guardò, sorridendo docilmente, il fantasma di una lacrima a brillargli nelle pupille – Sai quando dicono che il primo amore non si scorda mai?
Tom annuì, anche se non aveva capito cosa c’entrasse il primo amore con quello psicopatico che bruciava la barbie del fratello minore e lo perseguitava. Ma d’altronde cosa c’era da capire in Bill che non fossero citazioni grunge e autoritratti inquietanti?
-Come vuoi, caro.- cedette, grattandosi il collo, anche se trovava già insopportabile il fatto di andare solo che a vedere la tomba di quel bastardo. – Devo, ehm, portare un determinato tipo di fiori, candele, oppure …?
-Dei fiori di adonide e un po’ di edera, se la trovi, ovviamente, per mio fratello, mentre per Holly … credo vada bene dei giunchi di palude e delle viole blu. Sì, decisamente!- Bill saltellò, battendo le mani – Sarebbero assolutamente perfetti! Devi andare al Cimitero di Friedenau, sono due lapidi vicine, nella zona a nord ovest. Ma credo che tu possa chiedere di Hansi Schadenwalt e Holly Lachmann e il guardiano ti dovrebbe saper indicare precisamente dove sono.
Tom annuì, segnandosi rapidamente tutto su un foglietto. Bene. Wow, all’insegna del romanticismo, spedito dal suo fidanzato in giro per cimiteri a portare fiori impossibili da trovare in tombe altrettanto sperdute per Friedenau. Un lavoro perfetto per Tom, che non si orientava nemmeno in casa sua.
-Grazie, tesoro, sei stato così carino con me!
Bill lo travolse stampandogli un sonoro bacio sulle labbra, appendendoglisi al collo, mentre un’arcigna infermiera faceva un secco cenno a Tom che l’orario delle visite era finito. Il ragazzo sospirò rumorosamente, inalando ancora il profumo di Bill e dandogli un altro bacio di arrivederci.
-Ci vediamo nel prossimo turno di visite, Bill. Ora … vedo di andare.
E Tom uscì, Bill che lo salutava con la manina e cinguettava un “Torna presto!”, la gola che chiedeva a gran voce una sigaretta, la vecchia infermiera che lo guardava acidamente borbottando qualcosa su “questi giovani d’oggi” e un nuovo, tragico, obbiettivo da raggiungere per poter aumentare ancora la sua presa sul biondo angelo infernale. Destinazione, cimitero di Friedenau.

***
Salve Aliens! Intanto, volevo scusarmi davvero per il ritardo osceno ma avevo avuto un brutto calo di ispirazione, non che ora ne abbia molto di più (leggasi, scusate se il capitolo fa schifo), ma almeno sono riuscita a produrre questo. Quindi, doppio scusate, mi sento una schifezza verso le sante ragazze che ancora seguono questa storia ... D: due cose, intanto credo che manchino pochi capitoli. Credo. Anzi, ne sono quasi certa, quindi la tortura non durerà ancora a lungo, e secondo alla fine Bill elenca dei fiori per Hansi e Holly, beh, hanno un significato, ovviamente! Intanto, l'adonide indica il ricordo doloroso, mentre l'edera è la dipendenza, mentre la viola blu è la fedeltà e il giunco di palude la docilità. Insomma, sono ragionati *-*
Boh, vi lascerei qui ringraziandovi per aver letto e scusandomi per l'attesa. Mi raccomando, recensite!
Bacio, Charlie xx

 
  
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