III
COLPE
«Dannazione,
di nuovo loro!»
esclamò Ursula, allontanandosi di
scatto dalla finestra, probabilmente per non farsi vedere.
Amalia la
imitò subito dopo, osservandola sorpresa. «Conosci
quei
tizi?!»
La donna
annuì, nervosa. «Sono un gruppo di conduit che
vive in questa
zona e che adora causare problemi, ma credevo che fossero scappati
tempo fa,
quando sono arrivati quegli uomini armati.»
«Gli
Underdog?» chiese ancora Komi, inarcando un sopracciglio.
«Sì,
loro. In genere si occupavano sempre dei conduit che causavano
problemi.»
Allora
non erano poi così inutili..., osservò
Amalia tra sé e sé, con un po’ di
amarezza.
«Perché
sono venuti proprio qui?» domandò ancora la
ragazza, con il
cuore che le batteva all’impazzata nel petto. Una parte di
lei conosceva la
risposta a quella domanda, e il terrore che Ursula potesse trovarsi in
pericolo
per colpa sua era enorme. Al solo pensiero, sentiva i sensi di colpa
divorarla.
Come se non ne avesse già abbastanza, tra l’altro,
di sensi di colpa.
«Non
lo so.» L’albina scosse la testa.
«Probabilmente vogliono
qualcosa da me. In passato sono già venuti ad estorcermi
cibo o medicine. Se
gli darò quello che vogliono probabilmente mi lasceranno in
pace.»
«Ho
paura che questa volta non vogliano solo del cibo...»
commentò
Amalia, cupa, ottenendo uno sguardo perplesso da parte della donna. La
giovane
si sentì tremendamente a disagio sotto quegli occhi scuri
come la pece.
«Che
intendi dire?» le domandò Ursula, incrociando le
braccia.
Komand’r
sospirò profondamente, poi decise di vuotare il sacco.
«Loro...
sono i conduit che mi hanno aggredita.»
Ursula
spalancò gli occhi. «Oh... cazzo...»
sussurrò, dopo un attimo
di silenzio.
«Credi
che ti abbiano vista mentre mi salvavi?» interrogò
ancora la
ragazza, continuando a gettare occhiatine furtive alla finestra.
«Non...
non lo so. Io non ho visto nessuno mentre ti caricavo sulla
mia macchina, ma non devono averci messo molto a fare due
più due.»
Amalia
soffocò una delle sue migliori imprecazioni. «Che
cosa
facciamo?»
«Tu
devi nasconderti» asserì la donna, con sicurezza.
«Se non ti
trovano qui probabilmente lasceranno perdere.»
«Se
sono qui è perché sanno che tu c’entri
qualcosa. Se non trovano
me, faranno sicuramente del male a te.» La giovane si
avvicinò alla donna,
posandole una mano sulla spalla. «Dobbiamo scappare, tutte e
due.»
«E
come? La mia macchina è fuori, vicino alla loro!»
«Merda!»
Questa volta Amalia non si trattenne. Si voltò di nuovo
verso
la finestra e si affacciò appena, per poi scoprire con suo
enorme orrore che i
tre erano spariti. Probabilmente erano entrati e ora stavano salendo.
Il tempo
stringeva. Mise in moto il cervello per trovare una soluzione, anche se
di
scappatoie non ne vedeva molte. L’unica che le veniva in
mente, era quella che
involveva una delle poche cose che aveva imparato a fare in quei mesi
di
sopravvivenza disperata: combattere.
Cercando
di ignorare la voce nella sua mente che le urlava disperata
di non avere speranze contro tre conduit, tornò a guardare
l’albina. «Tu... hai
qualche arma?»
Ursula
parve capire immediatamente quali fossero i suoi pensieri,
perché la guardò allarmata. «Vuoi...
vuoi ucciderli?»
Komand’r
si irrigidì sotto allo sguardo
dell’interlocutrice. Distolse
gli occhi da lei. Proprio non riusciva a spiegarsi il perché
quella donna le
facesse quell’effetto. Si sentiva condizionata da lei, dalle
sue reazioni. Era
quasi come se... non volesse deluderla, e non ne capiva il motivo.
Forse...
era perché le aveva salvato la vita. Ed era stata gentile
con
lei. E, beh, le sembrava davvero una brava persona, e di brave persone
in giro
non ne aveva viste molte, a parte Tara. Le aveva dato una chance,
pensando di
avere a che fare con una ragazza per bene, ed Amalia non voleva che
invece
anche lei dovesse confrontarsi con la persona schifosa che in passato
era
stata. Aveva finalmente l’occasione di cambiare, di essere
una persona migliore
e, soprattutto, di dimostrare davvero di tenere alle persone che la
circondavano. Conosceva Ursula da poco, ma, sì, teneva a
lei. Perché l’aveva
salvata. Perché l’aveva aiutata. E
perché... erano molto più simili di quanto
avrebbe mai potuto immaginare. Non poteva negare di non essere rimasta
colpita
dalla sua storia, dalle sue parole. Il suo coraggio di essere
sé stessa anche
quando i tempi erano altri e come il semplice amore potesse averla
cambiata ed aiutata
ad essere una persona migliore.
Forse era
proprio quello che il destino aveva in serbo per lei: farle
conoscere quella donna. L’unico modo che aveva per scoprirlo,
era rimanere
accanto a lei, proteggerla e soprattutto... cercare di non deluderla.
«No»
rispose, infine. «Non... non voglio farlo. Non se non
sarò
costretta. Ma se loro ci trovano... non avranno pietà.
Dovremo difenderci in
qualche modo.»
Ursula la
osservò attentamente per un momento, sicuramente cercando di
capire se fosse sincera oppure no, ma poi, probabilmente per la
mancanza di
tempo – anche se Amalia preferì pensare che si
stesse fidando di lei – decise
di annuire lentamente. «D’accordo. Il mio vicino di
casa era un cacciatore,
prima che... beh, hai capito. Forse nel suo appartamento
c’è qualcosa.»
Un
bagliore di speranza si accese immediatamente, come un faro, per
Amalia. Forse la sua nave non era ancora destinata ad affondare. La
ragazza
fece un cenno di assenso. «Me ne occupo io. Ora
però dobbiamo uscire da qui,
arriveranno da un momento all’altro.»
Senza
farselo ripetere, la donna albina le diede le spalle e si
diresse verso la porta, seguita dalla giovane. Una volta nella tromba
delle
scale, riuscirono perfettamente ad udire gli schiamazzi di
quell’odioso nano e
i brontolii del colosso, il quale probabilmente non stava gradendo
quella lunga
scalata verso la sua preda. In effetti, Amalia li aveva davvero fatti
penare
per catturarla. Sicuramente sarebbero stati più che felici
di metterle le mani
addosso e saziare tutti i loro bisogni. La mora rabbrividì a
quel pensiero, poi
scosse la testa. Avrebbe preferito morire piuttosto che fare quella
fine. Si
voltò verso Ursula: «L’appartamento,
qual è?»
L’albina
le indicò una porta verso il fondo del corridoio di fronte a
loro. «Però temo sia chiusa.»
«Non
è un problema per me. Tu continua a salire, io li distraggo
e
quando vedi che la via è libera corri alla macchina. Io
vedrò di raggiungerti.»
Non
menzionò nulla sull’eventualità che
quel piano, campato così
grossolanamente all’aria, fallisse. E nemmeno Ursula lo fece.
Semplicemente,
non doveva fallire.
«Ci
vediamo alla macchina» asserì Ursula, per poi
correre su per le
scale. Amalia annuì, chiuse la porta
dell’appartamento per far sì che prima
andassero a cercarle lì e dopodiché si diresse
verso la sua meta.
L’ingresso
era sbarrato, ma la serratura era vecchia ed usurata e la
porta era realizzata con un legno piuttosto scadente. Alla ragazza
bastò
muovere un paio di volte la maniglia per accorgersi di come quella
stesse
ancora chiusa per grazia divina. Prese una leggera rincorsa,
dopodiché con una
spallata riuscì a scardinarla, pregando di non aver fatto
troppo rumore.
Richiuse immediatamente l’ingresso e spazzò via
tutti i trucioli che aveva
creato, tentando di non lasciare tracce. Osservando
l’appartamento si rese
conto che era praticamente identico a quello di Ursula,
perciò non le fu
difficile orientarsi. Non sapeva esattamente cosa cercare fino a quando
non
aprì la porta della camera degli ospiti, dove non
trovò nessun letto bensì
degli armadietti di ferro ed un banco da lavoro.
«Bingo!»
sorrise la ragazza, per poi entrare nella stanza. Ma il buon
umore svanì alla svelta, non appena si rese conto che gli
armadietti erano
tutti vuoti. «No,
no, no!» esclamò,
mentre ne apriva uno dietro l’altro trovandoci dentro
solamente polvere ed
insetti morti. Niente armi, solo un pugno di mosche. Letteralmente.
L’unica
cosa degna di nota fu un mazzo di fascette, ma con quelle,
più che legarsene
una attorno al collo, non sapeva che farci.
La
ragazza imprecò coloratamente, poi sbatté la
porta dell’ultimo
armadietto. «Che diavolo faccio adesso?!» Si
guardò attorno, non ancora pronta
ad arrendersi, e notò qualcosa sul tavolo da lavoro. Si
avvicinò di nuovo colma
di speranza, per poi rimanere delusa per l’ennesima volta.
Una fiamma
ossidrica. «E a cosa può servirmi, invece,
questa?!» sbottò, afferrandola ed
osservandola attentamente. Provò ad accenderla e con sua
enorme sorpresa
funzionò, sprigionando la sua piccola fiamma blu dal
beccuccio.
Amalia
sospirò e la abbassò, dopodiché il suo
sguardo cadde ai piedi
del banco da lavoro, dove, accanto ad esso, notò
qualcos’altro. Si chinò e vide
meglio: una tagliola. La ragazza inarcò un sopracciglio: che
diavolo di
cacciatore era il vicino di Ursula?!
Si
avvicinò all’oggetto per esaminarlo. Era
più ruggine che altro, ma
comunque il meccanismo sembrava ancora intatto. Komi la
afferrò, dopodiché posò
ciò che aveva trovato sul bancone. Un mazzo di fascette, una
tagliola
portatrice di tetano ed una fiamma ossidrica. La ragazza si
passò una mano tra
i capelli. «Sono spacciata...» mugugnò.
Un tonfo
secco la fece sobbalzare e voltare di scatto. Qualcuno aveva
sfondato la porta. La ragazza si irrigidì come un chiodo
quando sentì il rumore
dei passi dello sconosciuto nuovo arrivato ed un parlottare soffuso. Si
infilò
le fascette in tasca, dopodiché afferrò la fiamma
ossidrica, decidendo di
abbandonare, per il momento, la tagliola. Era troppo ingombrante da
prendere e
probabilmente non le sarebbe servita a nulla. Si appoggiò
contro al muro della
stanza e spense la luce, facendola piombare nel buio. La porta del
corridoio si
aprì con un lento cigolio e la ragazza riuscì ad
udire meglio la voce del nuovo
arrivato: era il ragazzo di colore.
«Che
stronzi...» borbottò questo con diverse vene di
irritazione nella
voce, mentre si muoveva nel corridoio. «"Io e Mammoth
pensiamo alla
ragazza, Seymour, a te se vuoi lasciamo la vecchia"»
recitò con voce in
falsetto, probabilmente imitando il proprio capo. «Tsk. Dici
una volta che ti
piacciono le donne stagionate e rimani marchiato a vita...»
Amalia
trattenne un conato di vomito udendo quelle parole. Ma con che
razza di gente aveva avuto il dispiacere di aver a che fare?! Scosse la
testa e
si appiattì contro al muro, stringendo con forza
l’impugnatura della fiamma
ossidrica. Il rumore dei passi si avvicinò. Komi trattenne
il fiato. Un’ombra
penetrò nella stanza. Seymour, il ragazzo,
mugugnò mentre cercava
l’interruttore. «Come se quella schizzata potesse
davvero trovarsi qu...»
Non
finì mai quella frase. Non appena accese la luce,
Komand’r lo
colpì alla tempia con il calcio della sua arma improvvisata.
Il ragazzo gridò
di dolore e cadde a terra, tenendosi una mano sulla testa. Amalia non
perse
tempo e si chinò su di lui, stendendolo con
un’altra mazzata. Il conduit si
accasciò sul suolo con il capo, una chiazza di sangue fresco
che scivolava
sotto l’attaccatura dei corti capelli castani. Amalia
controllò le sue
condizioni e notò che respirava ancora. Tirò un
sospiro di sollievo; per un
momento temeva di averlo fatto fuori, il che avrebbe mandato al diavolo
tutti i
suoi buoni propositi di poco prima, ma fortunatamente così
non era stato. Anche
se, probabilmente, dopo due simili colpi alla testa lo aveva
lobotomizzato.
Beh, almeno
è ancora vivo... è pur sempre un piccolo passo
avanti.
Senza
perdere altro tempo, la giovane afferrò le fascette e
bloccò
polsi e caviglie del conduit. Probabilmente non sarebbero bastate ad
immobilizzarlo a lungo, ma visto lo stato in cui era ridotto era anche
altrettanto probabile che non si sarebbe svegliato poi così
presto. Osservò poi
le fascette, compiaciuta. Alla fin fine, erano davvero servite a
qualcosa.
Soffocando dopodiché diverse imprecazioni,
trascinò il corpo in un angolo della
stanza e lì lo abbandonò. Una fitta di dolore le
colpì la zona in cui era stata
colpita da quello stesso conduit e solamente allora si
ricordò di tutte le sue
fasciature e della sua brutta ferita. Represse una smorfia, sperando
che la
cosa non si rivelasse un problema troppo grave. Mise le proprie armi
nelle
tasche del giaccone, spense la luce e chiuse la porta, abbandonando
Seymour
all’interno. Ed uno era sistemato. Ne mancavano altri due.
La
ragazza tornò nella tromba delle scale, per poi notare la
porta
dell’appartamento di Ursula sfondata. Era ovvio che gli altri
due fossero
entrati. Sperò che Ursula fosse riuscita ad aggirarli e che
fosse sana e salva,
mentre iniziava a scendere di corsa. Più gradini percorreva
e più accelerava,
voleva solamente più andarsene da quel luogo, scappare da
quei folli che la
inseguivano e sperare di non rivederli mai più. Lasciare
direttamente la città,
possibilmente. Tuttavia, quando credeva i essere quasi arrivata,
un’altra
atroce fitta di dolore la fece trasalire e per poco perdere
l’equilibrio. Ebbe
la freddezza di afferrare il corrimano per evitare una disastrosa
caduta, ma
subito dopo si ritrovò piegata su sé stessa ad
annaspare.
«Merda,
merda, merda...» imprecò, portandosi una mano
sulle fasciature
sotto la canottiera. Quel lievissimo contatto le causò
ancora più dolore di
quanto già non ne provasse. Non andava bene, non andava per
niente bene. Sola
contro il mondo, disarmata e perfino ferita. Una situazione decisamente
sgradevole. Sperò davvero che
Ursula
la stesse già aspettando in macchina. Lentamente, riprese a
scendere le scale,
questa volta però senza accelerare il passo e tenendo una
mano sul corrimano. Gradino
dopo gradino, fitta dopo fitta, imprecazione dopo imprecazione, la
giovane
riuscì a raggiungere il piano terra. Zoppicò fino
all’uscita e rientrò in strada,
dove una folata di aria gelida la travolse. Un vero toccasana per il
suo umore.
«Ursula?»
chiamò, incerta, avvicinandosi alla macchina della donna.
«Ci
sei?» Si affacciò sul finestrino, per poi
sbiancare; il sedile era vuoto.
Indietreggiò
di scatto, con un gemito. Cominciò a girare attorno alla
macchina, mentre il panico si insinuava lentamente dentro di lei,
dapprima solo
superficialmente e poi, poco per volta, sempre più
profondamente, fino a
stritolarle il cuore e a contorcerle le interiora. Non c’era.
Ursula non c’era.
«Cerchi
qualcuno?»
Quella
voce la trafisse come una lancia. La ragazza si voltò
lentamente, il terrore di sapere che cosa la aspettasse che si faceva
sempre
più forte, dopodiché ogni speranza di sbagliarsi
fu vanificata. Dietro di lei,
sull’uscio del condominio, il nano ed il gigante avevano
Ursula in ostaggio,
con quest’ultima tenuta per il collo e sollevata da terra di
almeno dieci
centimetri dal braccio di Mammoth.
«Amalia...
mi dispiace...» sussurrò la donna, prima che il
colosso
stringesse la presa attorno al suo collo, facendola gemere di dolore.
Cercò di
liberarsi dalla stretta e scalciò, ma quello non parve
nemmeno notare i suoi
sforzi, perché rimase concentrato ad osservare
Komand’r.
«Pensavate
che fossi nato ieri, eh?!» domandò poi il nano,
attirando
l’attenzione su di lui.
«Vista
la tua statura, sì» replicò Amalia,
suscitando una risatina dal
gigante, il quale venne subito folgorato con lo sguardo dal compare.
Ursula,
invece, si limitò a scuotere la testa, per farle capire che,
forse, non era il
caso di peggiorare ulteriormente la situazione.
«Hai
ucciso il nostro amico, mi hai calpestato la faccia ed ora hai
anche il coraggio di fare battute?!» piagnucolò il
bamboccio, pestando i piedi
per terra. «Mi hai davvero stancato. E che diavolo hai fatto
a Seymour?!»
«Chi?»
«Non
prendermi per il culo!» ululò ancora il moccioso,
estraendo una
pistola che nelle sue mani pareva quasi un giocattolo.
Amalia
sollevò le mani. «Sta facendo un
pisolino» rispose a quel
punto, calma. «È ancora vivo, se è
quello che ti importa.»
«Portami
da lui» ordinò a quel punto il suo interlocutore.
«Ma
è qui so...»
«HO
DETTO PORTAMI DA LUI!»
Komi
sussultò, per la prima volta in assoluto quel tizio
riuscì ad
inquietarla. Annuì lentamente. «O-Ok...
però, lasciate andare lei. Non ha nulla
a che fare con questa storia» disse, accennando con il mento
ad Ursula, la
quale la osservava sempre più spaventata.
Un
sorriso sadico si accese sul volto del nano, a quella richiesta.
«Non
sei nella posizione di dare ordini, puttanella. Adesso tu fai quello
che ti
dico, dopodiché, forse, lascerò andare la tua
amichetta.»
«"Forse"
non è una condizione che mi sta bene...»
mugugnò
Amalia, quasi ringhiando.
«Peccato
che tu non abbia molta scelta» incalzò ancora
quello, agitando
la pistola e continuando a sorriderle. «E adesso, prego,
prima le signore.»
Komand’r
fece una smorfia, poi, con il capo chinato, si diresse di
nuovo verso la porta. Mentre faceva ciò, la sua mente
elaborava la prossima
strategia. Aveva ancora la fiamma ossidrica nascosta nella tasca del
cappotto,
fortunatamente non l’avevano perquisita, ma non aveva la
più pallida idea di
come usarla. Semplicemente, avrebbe dovuto aspettare
l’occasione d’oro. Ma con
il dolore al fianco che non le dava tregua, Ursula tenuta in ostaggio
ed una
pistola puntata alle sue spalle, faticava ad immaginare uno spiraglio
per poter
agire. E il peggio doveva ancora venire: una volta scoperto in che
condizioni
era stato ridotto Seymour, quei due si sarebbero incazzati come iene.
Stava
passando dalla padella alla brace e non aveva la più pallida
idea di che cosa
fare se non riempirsi da sola di insulti per aver abbandonato le
persone più
simili a degli amici che avesse incontrato.
Rachel,
Rosso, Tara... se fosse rimasta con loro non si sarebbe cacciata
in quel guaio. E anche se fosse successo, loro l’avrebbero
aiutata a tirarsene
fuori. Non credeva che avrebbe mai potuto rimpiangere in quel modo la
compagnia
di quei tre, anche se, sotto sotto, doveva ammettere che si era
affezionata a
loro. A Tara, soprattutto.
Tara...
La mora
strinse i pugni. No, non doveva arrendersi. Non ancora. Lei
era Komand’r Anderson. La pazza dal grilletto facile, colei
che aveva ficcato
un coltello nel collo di Deathstroke, colei che aveva fatto fuori quel
sociopatico di Jeff Dreamer. Ne aveva viste di cotte e di crude, aveva
combattuto contro giganti di ferro, uomini armati, psicopatiche
drogate, ed era
la stessa che, già una volta, era riuscita a fregare quei
quattro babbei, ormai
solo più tre, che stavano minacciando lei e la sua nuova
conoscente, una donna
innocente che aveva semplicemente commesso l’errore di
trovarsi nel posto
sbagliato ma al momento giusto. Era stanca di essere la responsabile
dei
problemi altrui. Doveva rimediare, doveva salvarla. E lo avrebbe fatto,
da
sola.
Salirono
le scale, in silenzio. Il dolore al fianco non dava tregua ad
Amalia, ma lei per tutto il tempo si sforzò di ignorarlo.
Infine, si
ritrovarono di fronte all’appartamento in cui aveva lasciato
Seymour. Mentre
entravano, il suo cervello viaggiava a mille chilometri orari,
macinando
pensieri su pensieri nel tentativo di trovare un modo per cacciarsi
fuori da
quella situazione. Infine, si ritrovarono di fronte alla stanza delle
armi.
«Qui
dentro» asserì Amalia, cercando di apparire
più sicura possibile.
«Cosa
aspetti ad entrare, allora?» domandò il nano.
«Coso,
ti prego...» sussurrò Ursula, parlando di nuovo
per la prima
volta. «Deve esserci un altro modo...»
«No,
non c’è invece. E comunque, nessuno ti ha
interpellata, vecchia!»
«Ma
ascolta...»
«Ti
ho detto di tacere!» esclamò Coso, arrabbiandosi
di nuovo, per poi
sollevare la pistola. «O preferisci che...»
«Basta!»
si intromise Amalia, alzando la voce ed ottenendo lo sguardo
di tutti. La ragazza, poi, osservò la donna albina.
«Non preoccuparti, Ursula.
Vedrai che andrà tutto bene.»
«Nei
tuoi sogni, forse » sghignazzò Mammoth.
Komi
represse una smorfia. Si limitò a volgere ad Ursula un cenno
del
capo, poi inspirò profondamente e si voltò verso
la porta. Sapeva cosa fare.
Era rischioso, folle, ed inoltre aveva anche bisogno
dell’aiuto dell’albina, ma
sapeva che quella avrebbe capito. Se davvero erano simili come lei
stessa aveva
detto, sicuramente lo avrebbe fatto. Se così non fosse
stato... beh, erano
comunque spacciate, quindi il risultato finale non sarebbe cambiato poi
così
tanto.
Avvicinò
la mano alla maniglia ed aprì la porta. I quattro entrarono
nella stanza ed Amalia approfittò della penombra per
infilare una mano nella
propria tasca.
Tre...
«Puoi
accendere la dannata luce, per favore?» domandò
Coso, irritato.
La
giovane obbedì, posando un dito sull’interruttore.
Due...
Accese la
luce. Non appena Mammoth e il suo capo videro in che
condizioni Amalia aveva ridotto Seymour, questi sgranarono gli occhi. E
Komi
poté approfittare di quel minuscolo momento di distrazione.
UNO!
«Ma
che diav...» Coso tentò di parlare, ma fu
immediatamente
interrotto dalla legnata che si beccò su una tempia. Il nano
urlò e cadde a
terra, perdendo la pistola. Nello stesso momento, Mammoth si riprese
dallo
stupore per Seymour e si rese conto di quello che stava succedendo.
Urlò di
rabbia, ma qualsiasi cosa volesse fare fu interrotta dal morso di
Ursula, che
conficcò con quanta forza possedesse ancora i propri
incisivi nel polso del
colosso. Questo tramutò così il proprio grido di
rabbia in uno di dolore misto
a sorpresa. Mollò la presa sull’albina, che cadde
pesantemente a terra, ma non
ci mise molto a riprendersi dallo stupore. Sollevò entrambe
le mani e cercò di
avventarsi sulla donna, ma Amalia si frappose tra loro brandendo la
fiamma
ossidrica. Mentre inceneriva la faccia del colosso facendolo sbraitare
come un
condannato alla pena capitale, un sorriso di trionfo si accese sul suo
volto;
Ursula aveva capito, e aveva fatto molto meglio di quello che avrebbe
potuto
aspettarsi.
Un
disgustoso odore di carne bruciata si diffuse nell’aria
mentre
Mammoth cadeva a terra coprendosi il volto, sempre senza smettere di
urlare. La
ragazza a quel punto fece per piombarsi su di lui e finirlo, ma
l’urlo di
Ursula la fece voltare. «Amalia!»
La
giovane vide Coso e l’albina litigare per prendere possesso
della
pistola del primo, il quale si era già rialzato dopo il
colpo subito. Era una
scena quasi surreale, vista la loro elevata differenza di statura, ma
Ursula non
era più una ragazzina, era troppo debole, perfino per uno
come lui. Aveva
bisogno di aiuto. Amalia fece per
correrle incontro, ma qualcosa la afferrò per una caviglia,
facendola cadere
rovinosamente. Gridò di dolore, per la caduta e per
l’ennesima fitta al fianco,
poi si accorse della mano di Mammoth attorcigliata attorno al suo
stivale. Il
conduit la osservava con il volto dilaniato dalle ustioni e dal sangue
raggrumato, un occhio cieco e con un’espressione di pura
rabbia. Komi dimenò il
piede per liberarsi, ma quello non era assolutamente intenzionato a
mollarla. A
quel punto la ragazza urlò di rabbia e con la gamba libera
sferrò un calcio sul
volto del rosso, facendolo grugnire. La presa si affievolì e
a quel punto
Komand’r gliene sferrò un altro, poi un altro e
poi un altro ancora.
Usò
il suo volto come zerbino, letteralmente, udendo perfino lo
scricchiolio delle ossa del suo naso rotte, fino a quando quello non la
lasciò
andare, gridando nuovamente per il dolore ed afferrandosi il volto
ormai
ridotto ad una maschera di sangue.
La
ragazza a quel punto si alzò in piedi, fece per correre ma
un boato
la bloccò all’istante. Vide la scena a
rallentatore. Ursula che barcollava
all’indietro, Coso che invece veniva sbalzato via. Amalia ci
mise un momento
per capire cosa fosse successo, ma quando si accorse della mano di
Ursula
premuta sul proprio addome, più il liquido vermiglio che le
macchiava la
maglia, capì ogni cosa. L’albina avanzò
ancora di qualche passo, poi si voltò
verso la giovane. Le due si guardarono per un breve momento, ma parve
durare
un’ eternità. Fu un semplice sguardo, che
però valse più di qualsiasi altra
parola. Dopodiché, la donna roteò gli occhi e si
accasciò al suolo.
Amalia la
osservò paralizzata mentre il suo corpo si accasciava
esanime sul pavimento con una lentezza straziante.
Dopodiché, quando si fu
capacitata a cento percento di quanto fosse successo, il suo urlo
disperato
giunse fino al fondo della tromba delle scale.
Senza
perdere altro tempo, la ragazza corse da lei. Le si
inginocchiò
accanto dopodiché le prese il volto tra le mani.
«Ursula!» chiamò, ormai
prossima alla disperazione. «URSULA!»
La donna
aveva gli occhi sbarrati, un rivolo di sangue le colava dalla
bocca. Amalia continuò a chiamarla e a scuoterle il capo,
senza nessun
successo. La donna non riapriva gli occhi.
NO, NO, TI
PREGO, NO!!
Amalia
continuò con quel suo tentativo disperato di svegliarla, ma
più
i secondi passavano, più la dura realtà si
abbatteva su di lei con il suo peso
schiacciante. Continuò fino a quando non sentì le
braccia cederle per la
fatica, dovuta anche al continuo ed incessante dolore al fianco. Gli
unici
movimenti che ormai riusciva solo più a compiere, erano
quelli involontari
delle spalle, causati dal suo pianto, di cui nemmeno aveva fatto caso
fino a
quel momento.
Morta.
Ursula era morta. Di fronte a lei. Senza che lei potesse fare
nulla per salvarla. Morta per colpa sua, dopo che lei aveva giurato a
sé stessa
di salvarla.
Era
morta. Morta, come Kori. Morta, come Ryan. Morta, come i suoi
genitori.
Morta.
Per colpa
sua.
Non
l’aveva nemmeno ringraziata per averla salvata, ora che ci
pensava. Nemmeno per aver cercato di aiutarla con i suoi problemi.
Anzi, le
aveva urlato contro. Ed ora era lì, immobile, come una
statua di cera. Proprio
davanti ai suoi occhi.
Se solo
non avesse perso la voce nell’urlo di poco prima, Amalia
avrebbe gridato di nuovo. Invece, si limitò a chinare il
capo sul ventre
dell’albina e a riempirlo di lacrime.
Rivide
Ryan, nella sua mente. Rivide il suo corpo esanime, la sua
figura insanguinata. E dopo rivide Kori, e dopo i suoi genitori. E poi
tutte
quelle persone a lei care che erano morte. Attorno a lei, tutto quanto
svanì.
Si ritrovò immersa nel buio più totale,
circondata da tenebre, senza più alcuna
fonte di luce. Ancora una volta, terra bruciata era stata fatta. Quel
ciclone
che era la sua vita ne aveva spazzata via un’altra, di nuovo.
E lei, come al
solito, era rimasta illesa. Perché, perché quel
proiettile non aveva colpito
lei anziché Ursula?! Perché lei continuava ad
essere viva?! Perché non poteva
esserci lei al suo posto, o al posto di Ryan, o a quello di Kori?!
Perche?
PERCHÈ?!?!
Un rumore
improvviso la fece destare da quello stato di semicoscienza.
Era rimasta così concentrata su quanto appena accaduto che
si era dimenticata perfino
dello scontro precedente. Rivide Coso rialzarsi a fatica, brontolando
qualcosa
di incomprensibile, mentre, alle sue spalle, Mammoth continuava a
piagnucolare
per il dolore alla faccia.
Quando
Coso drizzò lo sguardo e si accorse di Amalia ed Ursula
sgranò
gli occhi. Komi lo osservò, in silenzio, apatica. Il nano
parve apparire sempre
più spaventato man mano che i secondi passavano, come se
avesse intuito lo
stato d’animo della giovane. Si voltò verso la
pistola, probabilmente era stato
proprio lo sparo di quest’ultima a farlo cadere, e si
fiondò su di essa. Ma
Amalia fu più veloce. Il
moccioso mise
mano sul calcio dell’arma, per poi ritrovarsela schiacciata
contro di essa
dalla suola dello stivale di Komi. Quello sussultò, per poi
alzare lo sguardo. Komand’r
non poteva vedersi in faccia, ma sapeva per certo che lo sguardo che
gli
rivolse mai era stato rivolto a qualcun altro.
Uno
sguardo di odio puro, misto a rabbia. Uno sguardo che mai, mai, una deviata mentale come lei
avrebbe dovuto avere.
«As...
aspetta, ti pre...»
Coso non
ebbe il lusso di poter finire quella frase. Il calcio che si
beccò in pieno volto gli fece cadere di netto le parole
dalla bocca, assieme
anche a qualche dente. Il nano fu sbalzato dall’altra parte
della stanza e si
afferrò il naso, facendo diversi versi di dolore.
Komand’r nel frattempo si
chinò per prendere la pistola, dopodiché rimosse
il caricatore e svuotò la
canna. Non voleva che accadessero altri spiacevoli incidenti con
quell’arma e
non voleva nemmeno che le cose si risolvessero così
facilmente. Lasciò cadere
la pistola, dopodiché si diresse verso la fiamma ossidrica,
che le era caduta
di mano quando Mammoth l’aveva fatta inciampare. Il suo
sguardo cadde poi sulla
tagliola per orsi, rimasta in disparte in un angolo della stanza fino a
quel
momento. Subito dopo, la ragazza controllò la tasca; le
fascette c’erano
ancora.
Amalia si
guardò attorno, concentrandosi sui corpi dei due bastardi
che l’avevano trascinata in quella situazione di merda.
Strinse con forza i
pugni, conficcandosi le unghie nei palmi fino a farsi male.
Avrebbero
pagato. Avrebbero pagato fino all’ultimo centesimo, con
tanto di interessi. E quella non era una minaccia, ma una promessa. Una
promessa che, questa volta, era intenzionata a mantenere.
Dopo
averlo immobilizzato con le fascette, si avvicinò al nano,
brandendo la fiamma ossidrica. Questo sollevò lo sguardo,
terrorizzato. Tentò
di supplicarla, con le lacrime agli occhi, ma lei non lo
ascoltò. Non sentì più
nulla.
Mentre
deturpava quel volto odioso con la fiamma ossidrica, non vedeva
altro che il corpo di Ursula mentre si accasciava a terra. Mentre Coso
gridava,
scalciava, piangeva e il sangue colava come una cascata dal suo volto,
Komand’r
vedeva suo fratello Ryan, sua sorella Kori, i suoi genitori, tutti
quanti.
Man mano
che la pelle rosa del nano si trasformava in un mosaico di
ustioni, tagli e liquido vermiglio, la ragazza ripensava al dolore,
alla
sofferenza, alle occasioni perdute. Quei pensieri deviati che le
avevano
distrutto la vita e che non era mai riuscita ad esprimere.
Fu
così persa in quel turbinio di ricordi ed emozioni
contrastanti che
non si accorse nemmeno del momento preciso in cui Coso smise di
gridare, anche
se immaginava che dovesse essere accaduto quando gli aveva aperto quel
buco
talmente grosso sulla fronte da poterci vedere la carne viva
attraverso. Ma
nonostante il nano fosse morto, lei continuò ad infierire,
incurante,
insensibile a tutto e tutti, fino a quando non udì un verso
provenire alle sue
spalle. La ragazza a quel punto mollò sul pavimento
l’ex capo della banda,
ormai irriconoscibile, tuttavia non si voltò.
Udì
la massiccia figura di Mammoth rialzarsi lentamente. Lo udì
muoversi, udì i suoi passi, capì che era diretto
verso di lei, ma non si mosse
ugualmente. Lo sentì ringhiare di rabbia e sentì
anche le sue nocche
scrocchiare, ma rimase, ancora, impassibile. Quello camminò
ancora verso di
lei, fino a quando un rumore metallico non ruppe improvvisamente il
silenzio.
Si udì uno scatto, come quello di un meccanismo che si
attivava. E subito dopo,
le urla strazianti del gigante. Solo a quel punto la ragazza si
voltò, per poi
vedere il conduit stramazzato a terra, intento a tenersi per la
caviglia
dilaniata. Dilaniata dalla tagliola per orsi disposta in precedenza
dalla mora, proprio lì di
fronte al colosso.
Komand’r
si alzò, brandendo fiamma ossidrica e fascette, e si diresse
anche verso di lui. Mentre lo immobilizzava come aveva fatto con gli
altri due,
quello la osservò con sguardo a metà tra il
terrorizzato e il disgustato. Anche
se era difficile intuirlo, viste le condizioni del suo volto.
«Tu
sei... pazza...» sussurrò lui, oramai
impossibilitato a muoversi
anche se lo avesse voluto.
Amalia
sospirò, inginocchiandosi ed osservandolo con aria assente.
«Magari
fosse solo questo» rispose con voce atona, semplicemente.
Quella sensazione,
quella sensazione di vuoto che la assaliva, quel suo non provare
più nulla, la
totale apatia, nei confronti degli altri, nei confronti di
sé medesima, nei
confronti della vita stessa... non era bello. Non era bello
per niente. Non
ricordava di essersi mai sentita così... strana.
Così fuori posto. Così... sbagliata.
Accese la fiamma. Per la seconda volta di fila, le urla strazianti della sua vittima le parvero distanti anni luce.