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Autore: Elphie94    11/02/2017    1 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxxv.
la baronessa di castelot-barzebac



Mi strinsi nella cappa nera – ora più che mai, il nero mi apparteneva e mi si appiccicava addosso come un sudario – in attesa sulla soglia del cancello di Rue Scribe. La pioggia calava dal cielo come l'apocalisse, un futuro impossibile, una pace distorta. Ero un'isola squassata dai marosi di una tempesta inarrestabile, e il suo nome mi riverberava nei timpani e nella mente e nel cuore come il rintocco di una campana funebre. Non ci sarebbe stato nessun funerale, per lui; nessuna lapide, nessuna tomba consacrata. Non credevo nell'aldilà, ma oh, Dio – speravo che almeno lui si trovasse in un posto migliore, adesso. In passato ero stata molto cinica e scettica riguardo alla gentilezza, alla bontà, alla redenzione: le consideravo – scioccamente, nella mia cecità – favole cristiane. Naturalmente non lo erano. 
Dovunque fosse, doveva essere in una costellazione migliore. Eppure non si scorgeva alcuna stella in cielo.
La fiacre si fermò dinanzi all'entrata del vicolo. Il conducente aiutò a scendere dalla carrozza una donna imbacuccata, che lo pagò e lo ringraziò profusamente. La donna si voltò nella mia direzione, e io intravidi appena il suo viso sotto il cappuccio blu. 
«Christine!» la chiamai a gran voce, facendole cenno di ripararsi in fretta sotto il mio ombrello. I suoi occhi azzurri ebbero un luccichio sotto la mantella e si affrettò a raggiungermi. La pioggia creava l'ennesimo drappo su di noi, pungente come un pugno di spilli.
Non disse nulla. Si limitò ad abbracciarmi così forte che credetti di soffocare. 
«Amica mia, sapevo – sapevo che ti avrei rivista!»
La strinsi a me con un ardore che non credevo più di possedere. 
«Mi sei mancata immensamente.» Sperai di non avere la voce incrinata – invano.
Lei mi osservò per qualche attimo di doloroso silenzio. Sapevo cosa stava vedendo: un volto smagrito, occhiaie profonde, guance incavate, pelle livida. Dischiuse le labbra di pesca in un'espressione di sconcerto.
«Meg… Cosa mai ti è accaduto?»
A quel punto non riuscii più a trattenermi: le lacrime mi gonfiarono gli occhi già rossi e la abbracciai più forte. Affondai il volto nell'incavo della sua spalla e tremai contro il suo corpo a me tanto amico e familiare. Il suo profumo di gelsomini, così sereno, contrastava con la mia rampante disperazione.
«Non qui.»
La trascinai oltre il cancello di Rue Scribe, invitandola ad appoggiarsi insieme a me alla parete di salnitro del passaggio segreto ideato da – da – non riuscivo neanche a pensare al suo nome, maledizione. Ero diventata un cumulo di macerie: quelle del nostro amore.
E fu allora che le raccontai tutto: di come lui mi avesse salvato la vita anni prima, da ragazzina; delle lezioni di pianoforte; della Persia; di come fosse cambiato; del fatto che mi ero innamorata di lui come non mi era mai successo prima e, temevo, mai sarebbe accaduto di nuovo.
Lei rimase a bocca semi–aperta, ed ebbe la buona grazia di non interrompermi. In qualche modo sapeva che, se avessi arrestato il flusso, non sarei riuscita a vomitare ancora quel fiume di parole che mi raschiava la gola come vetro. Non sapeva neanche della morte di mia madre; ne rimase sconvolta. 
Non dissi il suo nome. Mi limitai ad un “lui” inconfondibile. 
Christine rimase in silenzio per qualche istante. 
«Perché non me lo hai detto prima? Sei sempre stata incredibilmente onesta – forse in modo persino brutale – con me…»
La guardai con occhi gonfi. «Mi dispiace. Sono stata una stolta… Avevo paura. Perdonami, ti prego.»
«Ma certo che ti perdono. Meg, hai sofferto così tanto, ed io… io non ne ho mai saputo nulla, né ero qui con te per aiutarti! Oh…»
Ci scambiammo un abbraccio umido, asciugandoci entrambe gli occhi. Le lacrime avevano più potere delle parole. 
Il Persiano aveva fatto stampare l'annuncio sul Moniteur – “Erik è morto” – giorni prima del vero decesso. Sapevamo che Christine lo avrebbe letto, ovunque fosse, e avrebbe recepito il messaggio.  Era in attesa già da molto tempo.
«Raoul non era contento che tornassi qui, ma mi ha accompagnata ugualmente. Sapeva che era importante per me. Non può farsi vedere in giro per la città, sai com'è… Inizialmente abbiamo trovato ospitalità presso una delle sue sorelle, poi ci siamo diretti verso Nord. Ed è qui che…» Si sfiorò la pancia con una mano. Solo allora, scostando il mantello e la sciarpa, notai il pronunciato rigonfiamento. 
«Christine» dissi col fiato mozzato, «ma tu sei…»
«Ormai è quasi giunto il momento del parto. Qualche altra settimana di attesa.» Mi rivolse un sorriso baluginante nell'oscurità. 
«Sono felice per te.»
Lei mi accarezzò il viso con gentilezza, ed io proseguii nel farle strada attraverso il passaggio che conoscevo così bene. Arrivammo in poco tempo alla riva del lago. Remai con vogate nervose fino alla soglia dell'appartamento. Qui condussi Christine verso la camera Luigi Filippo.
Lei si fermò sull'uscio per qualche istante e inspirò a fondo.
«Va tutto bene?»
«Dovrei essere io a porre questa domanda a te, amica mia.»
Scossi il capo. «Sono grata della tua presenza qui.»
La presi per mano e ci fermammo insieme dinanzi al letto, dove giaceva Erik, le braccia conserte, immobile nella morte. Avevo fissato quell'immagine sulla retina della mia mente, e lì restava, bruciata. L'avrei rammentata per il resto dei miei giorni. 
I lineamenti di Christine si sfaldarono leggermente. Contrasse le labbra per l'emozione e, con lentezza, infilò al dito di Erik l'anello nuziale che indossava ella stessa e che lui le aveva dato molto tempo prima. Gli strinse le mani gelide.
«Sei stato mio maestro e amico. Grazie per avermi aiutata a riprendermi la voce. Hai vissuto un'esistenza angosciosa… ma sei stato amato, sappilo.» Mi lanciò un'occhiata di sottecchi. Io ero talmente insensibile al mondo esterno, tanto rattrappita in me stessa come un cucciolo esposto al gelo della notte, che non reagii in alcun modo. Mi limitai a fissare la scena, silente.
Avevo consumato tutte le mie lacrime, in quei giorni. Non pensavo di essere più viva.
Monsieur Nadir giunse in quel momento e salutò Christine con calore; quest'ultima gli rivolse i suoi più sentiti ringraziamenti per quanto aveva fatto per noi tutti in quei tempi indicibili.
«Solo il mio dovere, Madamoiselle… nei riguardi di un vecchio amico che è riuscito ad imparare, grazie a voi e a Meg, cosa significa amare.»
Sapevo per quale motivo il Persiano era lì. Dovevamo seppellire Erik, e in fretta. Erano trascorsi appena due giorni dal suo decesso, ma il morbo di morte cominciava a farsi sentire.
Avanzai di qualche passo, come tramortita. Christine e il Persiano restarono immobili, intenti ad osservare la scena dispiegarsi dinanzi a loro.
«La maschera» mugugnai. «É stato costretto a indossarla in questa vita – è stata la sua gabbia. Non voglio che lo sia anche nell'altra.»
«Hai ragione, Meg» concordò Christine. Monsieur Nadir non ebbe bisogno di dar voce ai suoi pensieri.
Sfilai ad Erik la maschera nera che era stato il suo scudo contro un mondo troppo crudele persino per lui, che crudele lo era stato davvero, un tempo. Lo aveva forgiato a sua immagine e somiglianza. 
Nessuno di noi sobbalzò a quella vista. Conoscevamo tutti troppo bene il volto disastrato del mio amore. Non lo avevo mai trovato meno orrendo, certo; ma quello era un fatto oggettivo che nessuno poteva contestare. Era – come ho già detto – parte di lui, né più né meno di questo. Eppure tutto cominciava da lì.
Posai le mie labbra sulle sue per un'ultima volta – temetti quasi di udire il cuore nel mio petto incrinarsi a quest'amara consapevolezza… ma ormai non c'era altro da spezzare. 
«Ti amerò per sempre» sussurrai al suo corpo senza vita. Sperai che da qualche parte potesse udirmi. Sperai che il suo fantasma tornasse ad ossessionarmi… oppure volevo dimenticarlo per sempre? Non lo sapevo. 
Il Persiano ed io lo trasportammo sulla riva del lago, dove il mio amico aveva già scavato una fossa adeguata. Lo aiutai a rivangare il terreno – naturalmente, non permettemmo a Christine di fare alcunché: era in uno stato di gravidanza avanzato. Quando la prima zolla di terra lo colpì, diedi in un singulto, e Nadir lo notò.
«Non dovete farlo per forza, Meg. Posso sbrigarmela da solo. Andate a riposare con Madamoiselle Daaé, ve ne prego.»
«No, glielo devo, Monsieur. Devo stare con lui fino all'ultimo. Fino all'ultimo…» Borbottai maledizioni mentre lo aiutavo con la pala. Era un lavoro manuale che mi sfibrò fino al midollo, tanto ero debole nelle membra del corpo e dell'anima. 
Alla fine, rimasi in ginocchio, la gonna nera gonfia attorno a me. Non so per quanto tempo Christine ed io fissammo quella tomba anonima e, speravo, introvabile. Udii la mia amica mormorare preghiere, le mani congiunte; sapevo che il suo concetto di spiritualità era più complicato di quanto desse alla vista. Io non pregai; non piansi; solo, non smisi di tremare. 
Cercai di immaginare un futuro senza di lui: mi sembrava impossibile. Eppure dovevo farcela, dovevo – glielo avevo promesso. Ero stata una piccola bugiarda, in passato, ma non allora; non lì, sulla sua tomba. Neanche io ero così sfacciata.
Doveva essere mattina quando Christine mi portò, sorreggendomi tra le braccia, nella cucina dell'appartamento sul lago. Il Persiano ci aveva lasciate sole, esausto anche lui per quella disavventura che, si vedeva, lo aveva provato sia nel fisico che nel cuore. La mia amica mi preparò un tè che sorbii a malapena. Provavo un senso di nausea crescente alla bocca dello stomaco.
«Meg, vieni con me.»
Alzai lo sguardo sul suo adorabile viso. 
«Cosa?»
«In Svezia, a casa mia. Per qualche tempo, almeno. Non ho cuore di lasciarti così… Raoul sarebbe lieto di accoglierti.»
Ponderai la proposta con attenzione: d'altronde, cosa avevo da perdere? Non avevo più nulla, neanche il cuore. Erik me lo aveva rubato e lo aveva seppellito con sé nella tomba.
«D'accordo. Sì, verrò.»
Lei mi rivolse un sorriso lieve che io non ricambiai.


Non ci volle molto per radunare le mie cose sparse per l'appartamento sul lago. Sapevo che lo vedevo per l'ultima volta. Con l'impressione di lasciare anche il respiro in quel posto freddo e solitario che eppure era stato casa mia più di qualsiasi altro al mondo, mi diressi verso l'argine dell'Averno, e con l'aiuto di Monsieur Nadir riuscii a trasportare tutti i bagagli – che non erano pesanti; non possedevo molto al mondo – sull'altra sponda e, infine, sulla soglia del cancello. Christine mi attendeva lì, e cercò di aiutarmi a sollevare una valigia.
«Non fare pazzie. Ricordati che sei incinta» l'ammonii. Lei annuì, placatasi. Voleva darmi una mano in tutti i modi possibili, era evidente.
Il Persiano mi rivolse un abbraccio durevole e affettuoso. 
«Rimettetevi, Meg. Scrivetemi se lo desiderate.»
«Sicuro di non voler venire? A Raoul farebbe piacere accogliervi. Vi dobbiamo molto» insistette Christine. Monsieur Nadir declinò con un lieve sorriso. 
«No, Madamoiselle. Porgete pure a vostro marito i miei più cari saluti, e le mie congratulazioni.» Accennò al rigonfiamento del ventre di Christine. 
«Vi sentirete solo» dissi io.
Lui sospirò. «No, Madamoiselle. Io avrò tanto cose di cui occuparmi…»
Certo, Erik gli aveva lasciato tutto il mobilio dell'appartamento sul lago, che un tempo era appartenuto a sua madre. Era suo compito sistemarlo appositamente, come richiesto dal suo vecchio ed eccentrico amico. 
Monsieur Nadir ci aiutò a salire sulla fiacre, insistendo per pagare il viaggio – era inutile discutere con un uomo su questo genere di cose, anche se io non avrei mai perso l'abitudine. Eravamo dirette verso l'albergo dove soggiornava Raoul; insieme a lui, saremo partiti per la Svezia. Non sapevo quanto sarebbe durato il viaggio… Speravo meno dei miei incubi.


La Svezia era fredda e incantevole, come l'avevo immaginata dalle descrizioni vivaci e accurate di Christine – si dimostrò un'ottima narratrice, e non c'era da stupirsene. Raoul fu così lieto di vedermi che mi baciò la mano e mi accolse come fossi una sorella ritrovata; non avrei dovuto stupirmi della sua natura, che era affabile e generosa. Mi rattristai, tuttavia, alla notizia che Mamma Valerius, in quell'anno e mezzo che ci aveva separate, era deceduta per l'età ormai molto avanzata e la malattia inguaribile che aveva finito per consumarla. Malgrado questo, la sua figlioccia non era rimasta sola, proprio com'era nei desideri della madre adottiva. 
Raoul e Christine avevano acquistato una comoda, piccola villa nei pressi del paese natio della mia amica. Lì lei si occupava di dare lezioni di musica ai bambini del villaggio; Raoul si apprestava a diventare un uomo tra i più semplici: aveva preso l'abitudine di cucinare per la moglie e l'ospite – ossia la sottoscritta – e dovevo ammettere che mostrava un certo talento in quest'ambito.
Naturalmente, questo mi riportava alla mente Erik in una slavina di emozioni dolorose. La verità era che tutto mi riconduceva a lui: sentivo nelle orecchie l'eco della sua voce, e mi sembrava di impazzire. Mi trovavo in un museo, e il soggetto dei quadri era sempre lo stesso. Non avrei mai dimenticato i suoi occhi, la sua risata, la sua trasformazione in bestia senza cuore ad uomo che il cuore me lo aveva rubato.
Christine mi disse che Raoul soffriva ancora di non pochi incubi per quanto accaduto nella camera dei supplizi e al fratello, più di un anno prima. Cucinare per lui era diventata una maniera per distrarsi e sollevare al contempo l'umore suo e della moglie, che in ogni caso era presente nella sua vita come mai prima. «Una notte ci siamo ritrovati a lavare il pavimento della cucina. Una scena assurda… Era così nervoso e triste. E anch'io… Non è facile.» Christine sospirò. Nessuno poteva capire le sue parole meglio di me. 
Trascorrevo i giorni in una sorta di insensibile e sorda catalessi: era molto simile a ciò che aveva provato nel periodo successivo alla morte di mio padre, anni prima. Christine mi restò accanto con l'usuale grazia dignitosa alla quale ero abituata. Il mio orgoglio era troppo forte per permetterle di aiutarmi a lavarmi e vestirmi ogni benedetta mattina, ma le concedevo di spazzolarmi i capelli mentre io le accarezzavo distrattamente la pancia rigonfia. Un altro piccolo cuore pulsava dentro di lei, adesso. 
Il giorno del parto giunse prima del previsto: Raoul andò a chiamare di corsa la levatrice del paese mentre io restavo con Christine, che urlava per le fitte al ventre. Immaginai che fossero come lame nella sua carne soffice. Rimasi con lei per tutta la durata del parto; Raoul insistette per essere presente, e così fummo noi due a stringere le mani di Christine mentre lei spingeva e spingeva e spingeva – non che capissi cosa la levatrice le stesse dicendo, visto che era in svedese – e alla fine il bambino nacque. Anzi, una bambina: era meravigliosa, con gli occhi azzurri dei genitori. 
Raoul e Christine rimasero a contemplarla per quelle che sembrarono ore, mentre io aiutavo la levatrice a rimettere in ordine gli asciugamani insanguinati e la bacinella d'acqua ormai rossastra.   
La piccola – che chiamarono Pauline, il nome della madre ormai defunta di Raoul – era in salute e robusta, con grande gioia dei genitori e anche, devo ammettere, della sottoscritta. Per quanto assistere a simili spettacoli di serenità familiare mi mordesse il cuore – non credevo che avrei mai più provato una simile gioia – ero lieta che, dopo tante disavventure, Raoul e Christine avessero raggiunto la pace che meritavano.
Qualche giorno dopo la nascita di Pauline, mentre io mi limitavo a restare al fianco della mia amica nei momenti in cui allattava la figlioletta – Raoul si era quasi sciolto in lacrime la prima volta che aveva visto la sua famiglia in quel modo, ed era oltremodo comprensibile – Christine mi pose una domanda che non mi aspettavo.
«Meg, so che è una richiesta non facile, questa…» La mia amica tentennò, accarezzando la testolina graziosa dell'infante.
«Dimmi» la incoraggiai con una voce sottile quanto un sospiro. Era divenuta ancora più roca e bassa del solito, dal momento che parlavo così poco. E mangiavo anche di malavoglia. 
«Meg, vorresti essere la madrina di Pauline? Ne ho parlato con Raoul, e davvero non c'è nessun altro che potrebbe prendere il tuo posto.»
«Christine…» 
Ero decisamente commossa, tanto che non riuscii a trattenere due grasse lacrime che mi sgorgarono dagli occhi. La mia amica – quasi sorella – le asciugò con dolcezza.
«Non piangere…»
Soffocai il viso nell'incavo della sua spalla, attenta a non disturbare la bambina, che beveva il latte con tutto l'agio di una poppante cullata dalle braccia di una madre amorevole. 
«Mi sento spezzata, Christine… Quasi fossi manchevole. Un uccello al quale si è rotta un'ala. Ho perso il cuore e non so se lo ritroverò mai più…»
Affondai il viso nello scudo protettivo delle mie mani esili, singhiozzando, mentre la mia amica mi accarezzava i capelli. Spaventata dai miei singhiozzi ben udibili – sperai vanamente che Raoul non li cogliesse, al piano superiore – Pauline scoppiò nel pianto stridulo tipico dei neonati. Christine la calmò con una pazienza che mi era estranea. 
«Tesoro mio» la mia amica mi rivolse uno sguardo colmo d'affetto, «anche questa tempesta cesserà. Vedrai. Non posso mentirti: vi sarà sempre una mancanza. Ma il vuoto non rimarrà tale per sempre. Nulla è per sempre.»
Annuii – questo lo sapevo bene. Lei aveva perduto la sua prima famiglia (il padre e la madre), poi Mamma Valerius, per trovarne un'altra, infine, in Raoul e la piccola Pauline. Chissà perché, dubitavo che a me sarebbe toccato in sorte lo stesso miracolo.


Trascorse una settimana prima del battesimo del nuovo membro della famiglia Daaé (Raoul aveva deciso, in modo assai lungimirante, di prendere il cognome della moglie). Per l'occasione, indossai il mio abito migliore e scortai i miei amici in chiesa. Fu un ingresso goffo, il mio: non entravo in un simile luogo sacro da una vita, ma la messa in latino mi era familiare, sebbene non ne comprendessi che poche parole. Accettai con grande onore il ruolo di madrina di Pauline, e quella sera, a casa Daaé, mentre Raoul e Christine si concedevano un delicato lento, io coccolavo la piccola e la stringevo al seno con una tenerezza che non sentivo più di possedere. 
Quella notte, com'era ovvio, fui travagliata dagli incubi – sentivo una mano fantasma, gelida e appena esitante, che mi accarezzava il capo dolorante, ma quando mi risvegliavo mi lasciava. L'assenza mi rivoltava le viscere con la precisione di una daga ben affilata, il cordolo di una cicatrice che non sarebbe mai svanita.
Tornai in Francia qualche settimana dopo, assicuratami che Christine e Raoul non avrebbero avuto problemi nel crescere la bambina da soli. Non sarebbe stato facile – pensai mentre abbracciavo la mia amica sull'uscio della casa – ma ce l'avrebbero fatta. Si amavano troppo per arrendersi dinanzi agli ostacoli.
«Scrivimi. E io scriverò a te. Capito?» Christine mi baciò una guancia e io annuii. Non potevo prometterle che sarei stata bene, malgrado tutto, ma potevo concederle almeno questa piccola rassicurazione. Aveva già tanto a cui pensare, e non volevo che l'apprensione per la sottoscritta la gravasse maggiormente.
Dopo quel giorno, tuttavia, non la rividi più.


Dicono che il tempo guarisca, ma non è proprio così. Il tempo era un palinsesto che io riscrivevo sempre con la medesima storia: la Morte di cui mi ero innamorata in modo così totalizzante mi seguiva come un segugio a caccia. Sembrava aver trovato in me la preda perfetta, ed io mi dibattevo nella trappola, come un naufrago che tenta di sopravvivere alla marea che minaccia di sopraffarlo. 
Era difficile non soccombere alla tentazione di infilarmi nel letto e non alzarmi mai più. Ogni volta che il pensiero mi attraversava la mente, ricordavo con precisione le parole che avevo rivolto allo stesso Erik: gli avevo detto che avrei continuato a vivere – avevo giurato sulla sua anima… e sulla mia, e su quella dei miei genitori. In base a ciò, non potevo darmi per vinta.
Pertanto, tornai al mio lavoro di étoile, e in ogni passo riversavo la mia disperazione, il mio lutto, in una morsa tale da commuovere gli astanti. Vi era un che di indomito e selvaggio nei miei passi di danza. E, come aveva promesso Erik, in ogni nota percepivo la sua presenza. Era un balsamo che mondava la mia anima, e al contempo un fantasma che non avrebbe mai cessato di perseguitarmi.
Ero in trappola.
Il Persiano veniva a vedermi ad ogni messa in scena. Dopo lo spettacolo, andavo a salutarlo con tutto il calore che mi era ancora possibile mostrare, ma ammetto che fui negligente nei suoi confronti: lo evitavo, perché la sua presenza mi ricordava quella assente di Erik – mi riportava alla memoria tempi migliori. Niente più passeggiate immersi nel tramonto parigino, niente più farfalle dorate nei suoi gentili occhi di giada. Era una parte del mio passato che non desideravo rammentare.
Juliette fu la prima delle mie amiche ad accorgersi che qualcosa non andava: non ridevo più con la stessa facilità di un tempo, né rivolgevo battute fredde e sarcastiche alle mie compagne. Trascorrevo il tempo con un mesto sorriso che impastava il mio volto in un'assurda maschera, tanto che, tornata nella mia camera, mi lavavo ripetutamente la faccia con la paura maniacale che si fosse cementata per davvero in quell'espressione di finta serenità. 
«Meg, ti vedo così abbattuta in questo periodo… Cos'hai che non va?» 
Juliette era palesemente preoccupata per la sottoscritta.
Rivolsi uno sguardo aguzzo nei dintorni. Eravamo sole. Forse con lei potevo parlare…
«In quei mesi di malattia… Ebbene, la malattia non era mia.»
Juliette aggrottò la fronte, perplessa e apprensiva. 
«Hai presente l'uomo di cui ti ho parlato?»
«Pensavo che riguardasse lui, e che non steste più insieme. Non dirmi che…»
Annuii. Lei comprese subitaneamente, e si portò una mano alla bocca. 
«Oh, mio Dio. Meg, mi dispiace tanto… Perché non me lo hai detto subito?»
«Sai come sono fatta.»
«Sì, sei una testona. Oh, mia cara…» Mi accarezzò il volto ed io la ringraziai per l'amicizia che mi dimostrava. 
Nei mesi seguenti, lei, Fabienne e Louise – a cui pure avevo rivelato il vero su quanto accaduto al mio misterioso amore – mi restarono accanto come ombre, o angeli custodi. Un po' quelle attenzioni mi davano fastidio… ma d'altro canto non ero sola. 
No, non ero mai sola: Erik era sempre accanto a me, nella mia mente. Un pensiero involuto, una bestemmia e una preghiera insieme. Avevo voluto l'amore, mi ero arresa ad esso per la prima volta in ventitré anni e ora ne pagavo le conseguenze. Ero Icaro, e il sole mi aveva uccisa; tutto ciò che rimaneva delle mie ali erano piume di cera sciolta.


Il mio lavoro di étoile proseguiva in modo eccellente. Monsieur Lefévre si congratulò con la sottoscritta per una mia esibizione in particolare – Aurora ne La bella addormentata – e i giornalisti sembravano tutti d'accordo, per una volta, nel sostenere che la mia pelle scura ben si adattava al personaggio della gitana Esmeralda ne Il gobbo di Notre Dame. Naturalmente, io volevo essere giudicata per le mie abilità, non per il colore della mia pelle. Andavo fiera dei miei antenati africani: mi ricordava l'eredità di mio padre. 
Non vi è bisogno di dirlo, ma non toccavo un pianoforte dalla morte di Erik. Ero caduta in una sorta di gelida depressione: mi alzavo e andavo a lavorare, ma mancavo di vera passione ed entusiasmo per la vita. Il mio futuro era un oblio di tenebre. Ero insensibile a tutto e a tutti, fuorché la danza: solo con la mia arte riuscivo a ricordare Erik in un modo che mi portasse una sorta di malinconica letizia. Ma soprattutto, in essa ritrovavo me stessa, ed era la cosa più importante.
Con la sensazione di essere un pesciolino in una boccia, camminavo per il mondo con chiodi sotto le palme dei piedi nudi, e il dolore era come il cancro che si era portato via l'amore della mia vita. Non avrei permesso che si portasse via anche me. 


Un giorno mi diedi la pena – e questa volta per davvero – di leggere alcuni dei biglietti contenuti nei mazzi di fiori che mi venivano offerti ad ogni esibizione. Cominciavo a trovarli irritanti: non sapevo dove metterli e alla fine mi vedevo costretta – senza alcun rimpianto – a gettarli via o, ancora meglio, a distribuirli tra le mie compagne del corps de ballet. 
La maggior parte dei biglietti era firmata da ricchi aristocratici, vecchi con la puzza sotto il naso, che mi invitavano a gozzovigliare con loro come se nulla fosse – ovviamente, era tutto scritto in modo più elegante e meno diretto, ma io andavo subito al sodo. Sbuffai e li buttai nel cestino dei rifiuti. Stavo per fare lo stesso con l'ultimo dei biglietti, consegnatomi in un mazzo di margherite (banale), ma rileggendolo mi avvidi che era diverso. 

Madamoiselle Giry,
sono un vostro ammiratore dall'inizio. Vi prego di accettare questo mio umile dono, e vi ringrazio di condividere con noi il vostro angelico talento.

Barone Armand di Castelot–Barzebac.

Aggrottai la fronte. Mi aveva scritto una lettera di complimenti anche al primo debutto da solista, anni prima, quando sia Maman che Erik erano ancora vivi. Quante cose erano mutate da allora…
Non era pomposo come gli altri. Lusingata da quella placida ammirazione, conservai il biglietto e lo riposi nel mazzo di margherite fresche. D'un tratto non mi appariva più così banale: la sincerità non lo era mai, in un posto come l'Opera Garnier.
Incontrai il suddetto barone qualche giorno dopo: passeggiavo per Parigi in cerca di un nuovo costume per il ballo in maschera di Aprile – non avrei voluto andarci, non ero dell'umore giusto, ma avrei assolto al mio dovere come una brava bambina di porcellana; ormai non mi restava altro – quando udii delle lievi risate provenire alla mia destra. Mi voltai. Un branco di giovanotti, all'apparenza molto ricchi, sembrava spronare uno di loro a farsi avanti. Gli schiamazzi erano diretti  a me. L'uomo in questione, calcandosi il cappello sulla testa e inghiottendo tutto il suo coraggio, mi si presentò con fare timido ma galante.
«Madamoiselle Giry?»
«Sì.»
Lui si inchinò con un agio che tradiva il suo sangue blu. Lo imitai, aggraziata con le mie movenze da ballerina.
«Sono Armand di Castelot–Barzebac. Vi ho spedito un dono l'altra sera, con un biglietto che recava i miei complimenti, dopo la vostra ultima performance… Io…» Divenne rosso e incominciò a masticare parole incomprensibili. Pensavo che si sarebbe messo a balbettare dal nervosismo. I suoi compagni lo incoraggiarono con non poche risate. Riservai loro un'occhiataccia. Non mi sembrava giusto ridere della sua timidezza. Dio solo sapeva quanto anch'io avevo avuto a che fare con uomini tanto inibiti… ma Erik – lui era stato un caso a parte.
«É un piacere conoscervi, barone.» Gli rivolsi il mio sorriso migliore, alla faccia dei bellimbusti che ancora se la ridevano.
Lui sembrò colpito.
«Oh, il piacere è tutto mio, credetemi. Danzate magnificamente.»
Accettai il complimento con un altro sorrisetto e un inchino. «Siete troppo gentile.»
«Mi chiedevo se… Voglio dire, so che appare sfacciato, ma…»
«Dite pure.»
«Se un giorno sareste libera per un caffè… o una passeggiata… ecco. In qualità di amici, beninteso.» 
Arrossì di nuovo e chinò il capo, già rassegnato ad un “no” secco. Eppure era un bel giovane: doveva avere più o meno la mia età, con capelli rossicci, deliziose efelidi e occhi verde mare. Forse non era abituato a fare la prima mossa. 
«Sono libera adesso. Sto andando a fare spese per il ballo in maschera all'Opera Garnier. Mi accompagnereste?»
Armand di Castelot–Barzebac aprì la bocca ad oblò per la sorpresa, e così i suoi amici più dietro, che avevano sentito tutto. 
«Sarebbe un onore.»
Prima di andare per la nostra strada, non dimenticai di rivolgere un sogghigno saputo ai bellimbusti che avevano accompagnato il barone fin lì tra scherni e risate. Così imparavano.
«Ignorateli, vi prego. Sono solo molto stolti… non serbano cattive intenzioni» mi disse Armand, mortificato.
«Non è un problema, Monsieur. Sono abituata.» Ricordai come avessi risposto con calore ad ogni derisione – sul mio aspetto, principalmente – di Jacques e gli altri amici di Luc. Certo, questi mi aveva sempre difeso, ma io avevo imparato a farlo da me. 
La passeggiata fu a dir poco piacevole. Armand mi accompagnò in varie boutique per scegliere il costume appropriato; io non avevo gusti difficili, e mi accontentai di un abitino di seta e tulle bianco, con ricami in pizzo, decorato con delicati fiori in tinta. Una maschera dello stesso colore e un fiore tra i capelli, e sarebbe stato l'ideale.
Armand si offrì di pagarmi l'abito, ma io rifiutai in modo così insistente che si trovò costretto a desistere. Uscimmo dal negozio, io con un pacchetto sotto il braccio.
«Potrei tenerlo per voi» il barone accennò all'involucro che reggevo.
Ridacchiai. «Oh, Monsieur, vi ringrazio per il pensiero, ma non è affatto pesante. Posso farcela da sola. O non mi credete capace?»
Lui arrossì e si affrettò a scuotere il capo. «Certo che… Voglio dire, è la mia educazione da aristocratico a parlare, Madamoiselle.»
«É un pensiero gentile, Monsieur, ma non credo di essere più debole di voi.» E l'ho dimostrato. Ho ucciso una mezza dozzina di uomini con le mie stesse mani. In Persia, sono stata in guerra.
«Oh.» Lui sembrò colpito. «Siete molto sicura di voi.»
«Non di me, ma dei miei diritti.»
«Capisco.» E capiva davvero. Per quanto gentile, non dimostrò mai di provare alcun tipo di superiorità nei miei confronti: e non solo perché donna, ma anche per le mie umili origini. Inoltre, doveva sapere del suicidio di mio padre. Era facile scoprirlo, se si era interessati alla sottoscritta.
Al ballo in maschera parlai molto tempo con lui – lo riconobbi subito, giacché non portava alcun costume. Essendo nobile, non sarebbe stato giusto dinanzi all'etichetta. 
Anche lui mi riconobbe – o meglio, riconobbe il mio vestito. Si complimentò per la mia bellezza (cosa quasi fantascientifica) e mi offrì un ballo, trepidante e imbarazzato. Sorrisi e accettai la proposta. 
Naturalmente, la mia quiete mentale fu presto minata dai semi del dolore: rammentai di un altro ballo in maschera, e di un altro cavaliere che, nello stesso modo esitante, mi aveva stretta a sé in un valzer da far girare la testa… Un cavaliere in rosso…
Mi salì la bile in gola e mi congedai con una scusa, fuggendo via per respirare un po' d'aria fresca. Aprile era un mese tiepido, ma la notte era ugualmente pungente. Strinsi così forte le nocche che queste s'imbiancarono sotto la seta dei guanti. 
«Madamoiselle, state bene?» Il barone mi aveva seguito per accertarsene di persona. Si avvide della mia espressione angosciata. «Preferite rimanere da sola?»
«No, io… ho ricordato qualcosa, tutto qui.»
«Deve essere profondamente doloroso.»
Annuii. Perché ne stavo parlando? Ero sempre stata restia a confidarmi, se non con note – e ormai scomparse – eccezioni. Ma c'era qualcosa in quel giovane che mi induceva ad avere fiducia, e il mio intuito non sbagliava.
«C'era un uomo, prima… tempo fa. Mi pare sia trascorso un secolo…»
«E ora…?»
«Ora non c'è più» gli rivolsi un sorriso mesto. «Mi mancano, sapete? Lui e mia madre. Con mio padre è diverso, ho avuto più tempo per elaborare il lutto. Con gli altri… è stato tutto troppo tragico e improvviso.»
«Io non ho mai conosciuto mio padre. È morto prima della mia nascita.»
Come Erik, riflettei.
«Avevo un fratello maggiore, sapete? Ma è morto quando ero piccolo. Da allora a mia madre non resto che io.» Sospirò. «Non sono fatto per essere il capo di una famiglia tanto prestigiosa. Il mio posto è nell'ombra. Ma ritornando a voi… Non so dirvi quanto mi dispiaccia, Madamoiselle. Sembrate una brava persona, e certamente le brave persone non meritano tutto questo. Il vostro dolore deve essere inimmaginabile.»
Come spiegargli che non ero una brava persona? O almeno, non come mi vedeva lui, né il mondo intero. Avevo ucciso ed ero stata quasi uccisa; il sangue mi imbrattava le mani dalla morte di Claude Giry. Il suo richiamo era sempre stato forte, e io lo avevo accettato, avevo compreso che era parte di me: odio e amore, luce e oscurità, bianco e nero, notte e giorno… ero un caleidoscopio di sfaccettature. Così come ogni altro essere umano al mondo.
Parlammo quietamente per qualche altro minuto, e mi ripresi dopo aver buttato giù un calice di champagne. Gli appuntai sul bavero del frac la rosa bianca che avevo tra i capelli. Il rossore sulle sue guance lentigginose mi fece sorridere.


Trascorsi molto tempo in compagnia di Armand – lui mi aveva invitato a chiamarlo così, ormai. Io lo avevo imitato, e lui mi chiamava Meg con agio, anche se non aveva smesso di rivolgermisi con il “voi”. Mi piaceva sempre di più: era solare e dolce come una vera margherita. Stare con lui mi regalava la tranquillità di giacere a piedi nudi in un campo fiorito, con la rugiada fresca sotto la punta delle dita, incurante del vestito che s'insozzava di terra.  
Il fatto che fosse entrato nella mia vita era una benedizione. Beneficiai di quell'amicizia con grande ingordigia: stare al suo fianco mi toglieva Erik – e mia madre, e mio padre, e il sangue – dalla testa. Ben presto, cominciai a provare strane quanto familiari sensazioni: un nodo in gola quando lo prendevo sotto braccio, un colibrì al posto del cuore quando mi sorrideva con quel suo fare timido e adorabile… Capii che mi piaceva sul serio, e che il tempo che trascorrevo con lui ogni giorno, prima o dopo gli esercizi e gli spettacoli, non arrivava mai troppo presto. 
Naturalmente, il confronto con Erik era inevitabile: l'amore che avevo provato per lui era nato prima come un'attrazione mentale fortissima, un connubio di bisogni primari – quello dell'essere capiti e dell'essere amati per ciò che si è davvero; la sua anima cantava all'oscurità che serbavo in me, la chiamava per nome. L'attrazione, dapprima curiosità, era mutata poi in qualcosa di molto più forte: un affetto intensissimo, divenuto un vulcano di lava e lapilli. Lui era me, io ero lui. Semplicemente questo.
Con Armand era diverso: mi rendevo conto che, per quanto il desiderio e l'apprezzamento che provavo per la sua compagnia fossero veritieri, forse innamorarmi di lui era più un bene per me stessa che un accadimento spontaneo. Mi ricordava l'amore maniacale che Erik aveva provato per Christine: si era invaghito di un'idea… e del fatto che quell'idea lo facesse stare bene. Forse io non ero così diversa.
Sta di fatto che non potevo immaginare di vivere senza Armand.
E lui provava lo stesso: era autunno inoltrato quando ci demmo appuntamento sul tetto dell'Opera – quel luogo era il tempio delle più strane e ardite dichiarazioni d'amore della mia vita. Lui si rigirava i pollici già da un po': appena sembrava sul punto di dire qualcosa, così chiudeva bocca. Mi accigliai.
«Armand, se non mi parlate, non risolviamo nulla» decretai, decisa ad apparire risoluta e determinata al riguardo, anche se dentro di me fremevo.
«Meg, io devo rivelarvi…» prese fiato, col coraggio di guardarmi negli occhi. Avvertii il cuore in gola. «… di ammirarvi e amarvi moltissimo. Siete una donna di grandi doti: avete talento, intelligenza e una certa rude ironia che vi rende cara ai miei occhi.» Sorrise suo malgrado. «Non riesco a non pensare a voi – vi penso continuamente, e… Mi siete entrata nell'anima, Meg. Vi prego di… di accettarmi. Se non provate lo stesso, è comprensibile, e io non…»
«Armand» gli posai una mano sulla spalla, al che lui sussultò. «Sapevo che sarebbe giunto questo momento. E vi dico che…» Armand sembrò trattenere il respiro, «… che essere vostra mi onorerebbe e mi farebbe più piacere di quanto possa esprimere a parole.» Sorrisi, questa volta sinceramente – la maschera era caduta. 
«Davvero?»
«Sì. Ma voi meritate qualcuno che sia molto migliore di me… Un'anima devota… Non sono la persona che credete.»
«Io vi conosco, posso dire che…»
É troppo ingenuo, inesperto e innamorato per pensare razionalmente. Altrimenti, ciò che dico avrebbe senso anche per lui.
«Amico mio» lo interruppi, «giurate di avere pazienza con me. Non sarà facile.»
Lui mi prese le mani con trasporto. «Permettetemi di conoscervi, allora.»
Annuii, e mi avvicinai per baciarlo. Sotto i raggi del sole morente, si consolidò il nostro rapporto. 
Sarebbe stato un marito molto migliore di quel che meritavo, e non sbagliavo.


Ero sempre stata una bambina solitaria. Crescendo, non ero mutata granché, ma la presenza di qualcun altro – un compagno, un amico – al mio fianco, una presenza fissa, dava solidità al mio essere pioggia tra le crepe della notte. La pioggia bagnava la terra, e da essa spuntavano radici. In costante movimento, avevo bisogno, in realtà, di una persona da poter chiamare casa. 
La prima di queste persone fu mia madre; poi Erik. E, infine, venne il turno di Armand. 
Mi resi conto che era lui ad essersi innamorato dell'idea che aveva di me, perché non mi conosceva davvero. Eppure io lasciavo correre per bearmi di quegli attimi di pace che solo la sua presenza sapeva regalarmi, ormai. Ero egoista? Approfittavo di lui, malgrado le mie buone intenzioni? Questo sembrava pensare sua madre, la baronessa di Castelot–Barzebac, la quale mi squadrava dall'alto in basso e non mi considerava degna di sua figlio, né tanto meno del titolo di nobile. La incontrai per la prima volta quando Armand mi portò nella sua villa – immensa, appena fuori Parigi – per presentarmi a lei in qualità di sua futura moglie.
Una sera, mi stavo recando a dormire con una tazza di camomilla fumante in mano – non credevo mi sarei mai abituata ad avere dei servitori ai miei ordini – quando la udii discutere animatamente con Armand riguardo la sottoscritta, e mi fermai ad ascoltare dietro la porta socchiusa di uno dei numerosi, ampli soggiorni.
«É una ballerina, Armand! Sei forse uscito di senno? E non è neanche bella. Come ti è venuto in mente di…?»
«Madre, non vi permetto di parlare così di Meg. Lei è…»
«Una negra! In casa mia! Non la voglio qui.»
«Come osate…? Dimenticate la civiltà.»
«Sei tu a dimenticarla. Sarà lei a darti dei figli, sarà lei a crescerli – come ti aspetti che verrà su la progenie di un Castelot–Barzebac e di una Giry?»
«Ho preso la mia decisione, madre. Meg è buona, onesta e intelligente – e, per me, più bella di qualsiasi altra donna! La amo, e tanto basta. Voi l'accetterete – niente discussioni.»
Mi affrettai a rifugiarmi nella mia camera, presagendo la fine di quel litigio. 
In cosa mi ero impelagata? Sarà lei a darti dei figli, sarà lei a crescerli… Non mi ero mai immaginata con dei figli al seno, neanche nel mio tempo con Erik, perché sapevo che non avrei potuto averli. D'altronde, non me ne curavo. Ma adesso… Costruirmi una famiglia non sarebbe più stato solo un piacere, ma un dovere. E io non ero mai stata brava nel seguire le regole, come sapete bene.


Il matrimonio e il viaggio di nozze in Italia furono un sogno ad occhi aperti. Scrissi una lettera a Christine per darle la buona novella, e il Persiano venne a congratularsi personalmente con me una volta usciti dalla chiesa, al termine della cerimonia. 
«Chi era quell'uomo, mia adorata?» mi si avvicinò Armand con fare curioso.
«Un vecchio amico» risposi semplicemente, e lui annuì, dimentico del Persiano e della sua stranezza. Era troppo felice per rimuginarvi su.
Naturalmente, la mia gioia ebbe un'esistenza breve. Amavo Armand e lo desideravo nella mia vita, ma se solo avessi potuto sbarazzarmi della madre… Dio, era la donna più odiosa sulla faccia della Terra. O forse era solo una donna preoccupata per il figlio, e per il fatto che fossi una mangiatrice di uomini – non riuscii mai a convincerla del contrario. Anche in punto di morte, fu sempre contro di me. Ma io la perdono, ormai. Ho perdonato molte cose, perché non lei?
In ogni caso, la baronessa si occupò personalmente della mia educazione, affinché parlassi il francese più colto possibile, mi muovessi con eleganza e conoscessi a memoria l'etichetta. Non ero famosa per le mie buone maniere, e si vedeva: per evitare di fare figuracce dinanzi ai nobili ospiti di mio marito, era arrivata a farmi imparare dall'inizio alla fine il manuale di bon ton, la storia della sua famiglia, e mi circondava di servitori. Mi lisciavano i capelli con un certo olio costosissimo, per poi arricciarli sapientemente; mi vestivano in stretti corsetti e abiti di seta dal perfetto taglio sartoriale; dovetti apprendere tutto sulla moda per intrattenere le nobili signore della società parigina. 
Ma Armand non amava le feste, e ne ero lieta. D'altronde, il mio concetto di festeggiare era molto diverso dal suo: pensai alle bevute con Darya e Amir e la ciurma intera della Sole Nero, anni prima. Sì, quello si confaceva maggiormente alla mia personalità. 
Inutile dire che mi sentivo terribilmente in colpa. Gli celavo una parte di me come la luna fa con la Terra: non conosceva i miei trascorsi, ed era meglio così, perché se li avesse saputi non mi avrebbe più voluto al suo fianco. Ero una ballerina, certo: ma cosa avrebbe detto se fosse venuto a sapere che ero stata anche un'assassina? 
Ma presto mi resi conto che non potevo più nascondermi con così tanta premura. Anche la luna alla fine deve mostrare ogni faccia di sé. 


La notizia che aspettavo un bambino giunse inattesa e improvvisa: mi ero insospettita non solo per l'assenza del ciclo, ma anche perché avevo cominciato a dar di stomaco ogni mattina. La conferma giunse dal medico di famiglia. Armand era estasiato: mi prese in braccio e mi fece roteare per tutta la stanza, mentre io ridevo, stringendomi a lui. 
«Guarda che così ti vomito addosso.»
«Non importa. Oh, Meg, ma lo immagini? Un bambino tutto nostro!»
«Spero sia maschio» mugugnò altezzosamente la signora baronessa. Le dardeggiai contro un'occhiata di fuoco.
«Non importa se sia maschio o femmina» commentò Armand, che non pensava all'eredità. 
Nei giorni seguenti, mi sembrava di camminare sulle nuvole, quasi non fossi me stessa: forse ero ancora incredula alla notizia, chissà. In ogni caso, l'amore con Armand era dolce e non volevo privarmene: quindi festeggiammo a modo nostro. 


Una notte ebbi un incubo. 
Non ricordo i dettagli, ma ciò che ne seguì: una mano sulla mia fronte e un'altra a lisciarmi i capelli. 
«Meg!»
Aprii gli occhi di scatto e sobbalzai. 
«Oh, mio Dio…» 
Prima di andare a dormire, avevo dimenticato di prendere i soliti tranquillanti che mi intorpidivano anche il dolore inconscio, quello che non riuscivo a controllare – e che più mi spaventava. Mi alzai e spalancai la finestra, alla ricerca furiosa di aria da inoculare nei polmoni. Quella che mi circolava adesso in corpo sembrava fiele.
«Meg, tesoro…» Armand mi raggiunse, avvolgendomi uno scialle attorno alle spalle esili. «Cos'è successo?»
«Un incubo.» Gli sorrisi tristemente. «Ti avevo avvertito che avresti dovuto essere paziente con me.»
«Non è un problema.» Mi strinse una spalla, poi si corrucciò. Sembrava alquanto perplesso. «Meg, chi è Erik?»
Raggelai. Non udivo quel nome da parecchi anni. 
«P–perché mi dici questo…?» balbettai.
«Perché lo hai nominato nel sonno. E non è la prima volta. Piangi quando lo fai, e stanotte è stata la peggiore di tutte. Fossi un altro uomo, mi insospettirei. Ma io ti conosco e…»
No, tu non mi conosci.
«Lui era… l'uomo di cui ti ho parlato una volta. Ricordi? Al ballo in maschera.»
«Ah. Capisco.» Un momento di pausa. «Ne sei ancora innamorata?»
«La sua perdita per me è stata incommensurabile. Vorrei poterti spiegare, ma…»
«Fallo, allora.»
«Non posso.»
«Non puoi o non vuoi?»
Rimasi in silenzio. Lui si passò una mano tra i capelli rossi.
«Scusa. Scusami, amore. Aspetti un bambino e non dovrei parlarti in questo modo…»
«No. Hai tutto il diritto di agire così. Io…» Sono una bugiarda e non ti merito. Ma ero troppo egoista e non osavo privarmi di lui, il mio unico conforto. Mi ero ritirata dal mondo della danza non appena avevo saputo di essere incinta, dal momento che nessuno mi avrebbe più offerto alcun ruolo, non con un bimbo in grembo. Armand aveva sostenuto di non avere alcuna intenzione di “tarparmi le ali” e costringermi ad abbandonare la danza, malgrado le furiose insistenze della madre… E io gli davo man forte. Una volta partorito, però, mi domandavo come avrei fatto a crescere mio figlio, dividendomi tra il palco e la culla. Certe donne dovevano essere vere eroine. Entrambi i miei genitori lavoravano quando io ero nata, e mia madre aveva volontariamente preso una pausa solo nel periodo dell'allattamento. Come Armand, Claude Giry non aveva avuto nessuna intenzione di “tarparle le ali”. Non che mia madre ed io fossimo quel tipo di persona. 
Mi chiesi perché per noi donne si fosse creato il problema del dividersi tra la famiglia e il lavoro, perché per gli uomini non fosse lo stesso. Beh, la risposta era facile quanto urticante.
In più, essendo ormai nobile – sebbene avessi acquisito quel titolo da mio marito e non per diritto di nascita – lavorare in pubblico, e in particolar modo come prima ballerina, sarebbe stato uno scandalo. Per non parlare, poi, del fatto che presto saremmo stati in dolce compagnia.
Era una situazione difficile.
«Meg, vieni a sederti. Sembri agitata.»
Mi accomodai sul letto, stringendomi a lui. 
«Sai che domani devo partire per affari.»
Annuii.
«Promettimi che al mio ritorno mi racconterai la verità. Promettimelo, Meg.» 
Ponderai. Forse una parte di questa… Forse posso parlargli di Erik. Non sarà facile, ma mi fido di lui. Mi fidavo davvero?
«Ci lavorerò sopra.»


Non ebbi mai l'occasione di parlargli di Erik, come mi ero prefissata di fare. Due giorni dopo, un poliziotto giunse a casa mia, con la notizia che Armand di Castelot–Barzebac era morto in un incidente stradale a Parigi. Ero talmente sconvolta dalla notizia che il poliziotto si spaventò e mi offrì una boccetta di sali per farmi riprendere i sensi. Non sapeva che ero incinta.
Non mi costrinsero a vedere il corpo, scempiato dall'incidente in carrozza. E fu un bene: non avrei mai potuto dimenticare quell'immagine, altrimenti. 
La madre lo seguì qualche giorno dopo. Sui giornali si disse che era morta di crepa cuore. Mi chiesi se avrei finito per fare la stessa fine: ma per la vita che portavo in grembo, dovevo essere forte. Era l'unica cosa viva che mi fosse rimasta di Armand.
Sapete senz'altro, Monsieur Leroux, che non ho figli, e per una ragione: la mia bambina – che avrei chiamato Antoinette, come mia madre – nacque morta. Strinsi a me il suo corpicino urlando di dolore, con le cosce impregnate di sangue, gli abiti appiccicati alla pelle per il sudore. Seppellii Antoinette di fianco al padre: era giusto così. 
Non mi alzai dal letto per un mese intero. Vivevo a stento. Mi servì tutta la mia forza per riprendermi: avevo perso la mia prima famiglia (i miei genitori), la seconda (Erik) e anche la terza (Armand e la mia piccola Antoinette). Non mi rimaneva nulla. I giorni si susseguivano come una slavina su una rena ghiacciata, ché tale era il mio cuore. Avevo dimenticato come si fa a vivere.
Poi tornai in me – fu un lento cammino: ripresi a mangiare e a lavarmi da sola. Poi a vestirmi e infine a camminare. Mi pentii amaramente della mia debolezza, seppure fosse così umana che davvero nessuno avrebbe potuto rimproverarmi al riguardo: avevo promesso a Erik che avrei vissuto. 
E così avevo fatto… e dovevo continuare con quella risoluzione.
Feci tutto ciò che non avrei potuto fare nei panni di Meg Giry – ma santo cielo, come baronessa sì: viaggiai per il mondo in lungo e in largo e mi ubriacai delle sue bellezze: l'America e l'Europa erano gli sfondi della mia vita disastrata, e a volte mi spinsi persino in Africa – dove potevo seguire le tracce dell'eredità di mio padre – e in Asia. Non tornai più in Persia, però. Era troppo doloroso, e io non abbastanza coraggiosa. Non dopo Erik, non dopo Armand, non dopo la mia piccola Antoinette.
Donai molto dell'eredità dei Castelot–Barzebac (una famiglia ormai finita) alla ricerca per la psicoanalisi; comprai il manicomio che un tempo era stato la prigione di mio padre e al suo posto feci costruire un orfanotrofio. Mi impegnai in numerosi dibattiti, sballottata tra vari studiosi e dottori. Doveva sembrare alquanto strano: pensate, una baronessa che si interessa dei malati mentali! Parlai in favore dei loro diritti, affinché fossero trattati da essere umani degni di avere tutte le cure possibili, e non bestie in gabbia. Non come era stato per mio padre. Se Claude Giry avesse ricevuto un trattamento diverso, se fosse stato aiutato sul serio nella malattia di cui, ripeto, non aveva nessuna colpa, non più del cancro che colpì Erik e che ora ha colpito anche me, forse anche la mia vita sarebbe stata diversa. Forse la Morte non mi avrebbe inseguita, beffandosi di me e portandosi via tutto – tutto tranne me stessa. 
Mi portò via Selene, la mia giovane amica interprete in Persia: seppi da una lettera di Jasper, il mozzo del Sole Nero, che era morta di parto, anche se si era sposata felicemente. Nella stessa lettera, appresi il destino di Darya e Amir: erano stati uccisi durante una battaglia. Avrei dovuto aspettarmelo – erano mercenari, e non esistono molti mercenari dalla vita lunga, non tra quelli audaci come loro – eppure fu un colpo. 
Ezzat regnò a lungo come Khanum fino al matrimonio del figlio, dopo il quale si fece da parte: morì circondata dai suoi cari. Non vi è miglior modo di morire. Da giovane sognavo una vita di gloria e una fine altrettanto maestosa, ma ora so che me ne andrò qui – come avevo detto ad Erik quando gli avevo confessato di amarlo, molto tempo fa, sul tetto dell'Opera? Brutta, oscura e maldestra. Non sono mutata davvero, dopotutto.
I miei amici dell'Opera – Juliette, Fabienne, Louise e Luc – stanno bene: si sono sposati e, da quel che so, Luc lavora ancora come capo macchinista all'Opera Garnier. Eppure io non vi ho più fatto ritorno dopo aver terminato la mia carriera di ballerina. È casa di memorie troppo lancinanti perché possa sopravvivervi.
Quelle più dolorose, oltre a ciò che mi lega ad Erik e mia madre, appartengono a Christine: ci siamo scambiate regolarmente delle missive, che mi sono state di grande conforto, fino alla sua morte, avvenuta prematuramente in un incendio che ha tuttavia lasciato indenni sia Raoul che i tre piccoli Daaé, che erano fuori casa. È stato lo stesso visconte a spedirmi una lettera per avvisarmi. La carta era umida di lacrime. Dio ha concesso loro più tempo di quanto sia stato dato a me e ad Erik, ma non era comunque abbastanza – non è mai abbastanza, in questi casi.
Per quanto riguarda Monsieur Nadir, l'ultima volta che l'ho veduto è stato al funerale di mio marito. Era venuto a porgermi le sue condoglianze. È sempre stato un uomo leale, e uno dei migliori amici che abbia mai avuto. Vi prego di porgergli le mie scuse e il mio affetto, quando lo rivedrete.
Ed io… io aspetto. Attendo di diventare una storia. Non una bella storia, beninteso, ma una vera, viva, vissuta: non sono un'eroina, Monsieur Leroux. Ho amato come tutti amano, e ho lottato per sopravvivere. Adesso sono sola, ma non ho più paura.
Negli anni, mi sono chiusa nel mio reliquiario e alla fine sono divenuta io stessa un relitto – lo spettro della donna giovane e forte che ero… Mi spaventava a morte l'idea – sempre la stessa, infida e crudele, che non mi ha mai abbandonata – di finire come mio padre: suicida, o peggio. Non me lo sono mai concessa. Molte volte ho udito le voci dei miei morti nelle orecchie; molte volte ho percepito la mano fredda di Erik sulla mia. Come osava tormentarmi dall'oltretomba? Lo avevo amato come nessuno mai. Ma perché arrabbiarsi? Si trattava di mere allucinazioni, voi direte. Certamente. Eppure – non mentite – non avete avuto anche voi l'impressione, entrandovi, che questa casa fosse abitata da spettri lontani?
È solo questione di tempo, ormai, prima che lo diventi anche io. 
Solo questione di tempo… 



Note dell'Autrice:
E siamo arrivati all'ultimo capitolo. Ora manca solo l'epilogo, che è breve, e che pubblicherò domani. Quando avevo detto che sarebbero accadute varie tragedie nella vita di Meg, oltre alla morte dei genitori e di Erik, non mentivo. È tutto molto triste, vero? Maleditemi quanto volete, so di essere una sadica di prima categoria.
È stato un capitolo molto difficile da scrivere: Meg diventa un guscio vuoto, per poi rimettere insieme i pezzi della sua vita grazie alla danza e all'amicizia (poi amore) con Armand; infine, la sua vita va in frantumi di nuovo. E lei è di nuovo lì, a incollare i tasselli del mosaico. Questa volta è più difficile che mai, ma ce la fa: perché, direte voi. Perché ha fatto una promessa – lo ha giurato sulla sua anima, ricordate? Come Christine giurò allo stesso uomo che sarebbe diventata la sua sposa viva – e lo deve a se stessa. Ha una storia da raccontare, e ora è alla fine.
A domani, con il prossimo – e ultimo *sigh* – aggiornamento.
E ora, le recensioni:

ondallegra: Hai pianto? Oddio, mi dispiace! Quindi ti ho stupita col finale “a lutto”… Beh, che dire, un ultimo colpo di scena prima della fine. Cosa mi dici del futuro di Meg in questo capitolo? Era ovvio che sarebbe diventata baronessa, ma te lo immaginavi così? Ammetto di adorare Armand – povero, non è colpa sua se Meg non lo ama quanto lui ama lei, per via del ricordo oppressivo di Erik; e anche così, Meg non può che sentirsi in colpa.
Hai “incontrato” Erik a Londra? Sei andata a vedere il musical, quindi. Non sai quanto ti invidio… Ricordi il cast che hai visto? Tanto io li conosco tutti a memoria. (Lo so, sono ossessiva. Ops.)
Erik IC… Ammetto che è stato difficile. Come hai detto tu, non lo si era mai visto aprirsi così con qualcuno, né nel libro né tanto meno nel musical. E grazie anche per i complimenti sul personaggio di Meg: io l'adoro e ho fatto di tutto perché fosse credibile.
Un bacio, a domani! <3

P.S. Sì, sto scrivendo un'altra ff. La pubblicherò presto, non temere.
Io immagino Erik ancora più orrendo della versione (magnifica) di Lon Chaney, ma certe movenze sono indescrivibili. Per quanto mi piaccia la voce di Ramin Karimloo, ammetto che non è il mio Fantasma preferito. Il mio ALW!Erik perfetto sarebbe un misto: la voce di Jonathan Roxmouth – senti su youtube la sua versione di “Music of the night” – e la recitazione di Earl Carpenter – di nuovo, su youtube è presente la sua fantastica versione del “Final lair”. Ammira e piangi con me.
Grazie per avermi fatto notare il pessimo (per l'appunto) errore di grammatica che neanch'io avevo notato. (Hai letto il capitolo cinque volte? Pazza! XD) Vado a correggere subito.

Jessica24: Bravissima, hai notato il riferimento alla situazione di Sansa nei libri di Martin. In effetti, pensavo proprio a lei quando l'ho scritto. È una sensazione che ho provato anche io, quindi… :)
Grazie per avermi segnalato l'errore! Ma cosa avevo quando ho scritto questo capitolo?
Domani è la fine… E già. Promettimi di recensire, please!
Un bacio! <3

bibliofila_mascherata: Scusami – sapevo che saresti andata in stato di shock. Ho pianto anch'io quando ho scritto la scena della morte di Erik, credimi. Tanto.
Comunque basta con i complimenti, che poi ci credo sul serio. Non “scrivo meravigliosamente”, suvvia… Ho ancora tanto da imparare. Sei troppo dolce e ti voglio bene anch'io. <3
Un bacio! <3

P.S. Immagino Armand come l'attore Eddie Redmayne. Avete presente? Assolutamente adorabile.

P.S. E dai, che lo sapevate che alla fine facevo morire tutti male! Vero? *cerca di difendersi dai forconi*
   
 
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