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Autore: LB Shadow    13/02/2017    1 recensioni
IN PAUSA REVISIONE (REVISIONE IN CORSO, L'ULTIMO CAPITOLO ANCORA DA CORREGGERE)
*
Questa storia parla di ossessione, di orgoglio ferito, di passioni che scavano nel profondo.
Ma anche di hamburgers mastodontici, cuochi incompetenti, giudici psicotici, magia nera e vendette efferate quanto, alla fin fine, improbabili.
O forse no, chi lo sa, magari il destino ha in mente qualche scherzo. Partiamo dall’inizio, vi va?
Un terribile evento ha allontanato Arthur Kirkland, chef inglese di dubbie speranze, da Londra e di lui non se n'è saputo più nulla.
Fino ad ora.
Dopo un anno, infatti, Arthur è tornato, portando con sé un giovane studente straniero al fine di ospitarlo. Dietro ai suoi modi gentili sono però nascosti un bruciante desiderio di rivincita verso chi l'ha costretto a fuggire e molti, troppi segreti.
I piani, però, verranno messi duramente alla prova. Incidenti di percorso e sentimenti che si credeva ormai appartenenti al passato travolgeranno sia lui che chi gli sta attorno in una spirale da cui nessuno uscirà illeso.
È davvero possibile vincere contro dei mostri quando in realtà fanno parte di noi? Chi è l'eroe e chi il cattivo della storia?
*
(presenti più possibili ship, anche oneside, a vostro piacere)
Genere: Commedia, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Long Time No See
 
IV.II

 
 

Un piccione stava becchettando briciole invisibili sul davanzale al di fuori della finestra. Natalia l’osservò, senza tentare di spaventarlo battendo sul vetro. Dopotutto, non le copriva la visuale.
Natalia era irrequieta. Si sentiva in trappola in quella stanzetta dove si era rintanata, condizione di auto reclusa che sentiva di meritare, ma solo a metà. Esiliata in casa propria. E per cosa, poi? Perché aveva fatto la cosa che sentiva più giusta, che era stata anche quella più errata. Mannaggia a lei e a al suo animo troppo tenero. Oh, ma sapeva cosa avrebbe fatto non appena fosse riuscita a liberarsi: fargliela pagare al moccioso che tanto stava facendo soffrire il suo amato fratello, fregandosene delle circostanze che al momento le erano sembrate inusuali e quindi degne di un’eccezione.
Era da ieri che il fratellone non faceva che pensare a quell’ “amico” mancato. La ragazza non aveva idea di cos’avesse più degli altri, ma a quanto pare lui era speciale; Ivan era addirittura disposto a rischiare la sua posizione di giudice, oltrepassando la sottile linea che separa la legalità dalla giustizia umana. Dovunque lui sarebbe andato, però, lei lo avrebbe seguito, come era sempre successo in quegli anni. Se lui voleva avere il ragazzo con sé, che autorità aveva lei per impedirglielo?
Guardò fuori dalla finestra del suo studio personale, lo sguardo diretto sul panorama che le si offriva, con la piccola speranza che l’assassino tornasse come sempre sul luogo del delitto. Glielo aveva ricordato il fratellone questo proverbio, l’aveva ringhiato ieri sera parlando dell’uomo che ospitava il suo “amico” a Londra; era offeso perché a quanto pare l’interessato aveva combinato un grosso pasticcio ed era pressoché scomparso dalla città, per poi tornare come se niente fosse successo. Sembrava inoltre che avesse tenuto nascoste alcune cosine, poiché il ragazzo che stava accogliendo non sospettava nulla del suo passato.
“Lurido ipocrita” lo aveva definito, sputando l’insulto come veleno.
Il fratellone si stava struggendo dai dubbi sul perché il ragazzo fosse scappato il giorno prima: le aveva domandato se avesse esagerato, se la sua scenata con il tubo di ferro fosse stata la goccia che aveva convinto Toris a tagliare la corda. Quando lei aveva confermato l’ipotesi, lui si era preso la testa tra le mani.
– Perché? Mi sono semplicemente arrabbiato perché è fuggito quando gli ho detto la verità riguardo Kirkland. Non è giusto! Che ho fatto di male? − le aveva chiesto con la voce rotta dal pianto. – Così non ho potuto fare altro che prendere il tubo di metallo e dargli una lezione, perché è così che si fa con i bambini che non sanno giocare bene, vero? Ѐ quello che ci hanno insegnato. Ѐ quella la maniera giusta. Non l’ho neppure sfiorato, non ho fatto nulla di male, volevo solo fargli un po’ paura −, e lei non aveva potuto far altro che annuire e abbracciarlo, sentirlo irrigidirsi sotto il suo tocco e stringere di più, perché non sfuggisse al suo affetto. Voleva consolarlo. Voleva più che mai il suo bene, anche se questo avesse significato doverlo condividere con un’altra persona non degna.
E ora Ivan aspettava il momento giusto, come lei.
Gli occhi puntarono in basso e lo vide. Anzi, li vide.
 
La tensione scuoteva il suo corpo come una foglia, trasmettendo dolorose vibrazioni alle dita spezzate. Toris era ansioso, felice, spaventato ed emozionato; aveva poche idee sul cosa fare, ma era abbastanza sicuro delle sue azioni. Camminava a scatti, come se le sue gambe volessero disobbedire al cervello e bloccarsi sul posto, ma fossero obbligate a percorrere quel tragitto. Il piccolo tic passò completamente ignorato.
L’unica cosa che stonava apertamente in quel quadretto era la presenza del nuovo amico, Feliks, che lo guardava come a domandargli “Sei certo che ne varrà la pena?”, infondendogli pericolosi dubbi. Feliks, però, non osava aprire bocca: si limitava a fissarlo con quello sguardo perplesso, tenendosi a un paio di passi di distanza da lui come un’ombra.
Aveva proposto Toris stesso di farsi accompagnare davanti al palazzo del giudice, dopo aver incontrato l’altro quella mattina e averci pranzato insieme. C’era il mercato poco distante, con baracchini che vendevano cibo: incredibilmente, Feliks aveva acconsentito a fermarsi ad uno di essi, contravvenendo alla sua fobia per gli estranei sebbene ci fosse un mucchio di gente e fosse l’ora di punta. Sorpresa delle sorprese, sembrava che addirittura fosse amico del cuoco ambulante, uno simpatico italiano, poiché i due si salutarono e scambiarono i convenevoli come niente fosse, lasciando Toris basito. Evidentemente Feliks aveva dei lati sconosciuti nel suo carattere.
La giornata era stata incredibilmente piacevole, i due avevano avuto modo di fare quattro chiacchiere e approfondire la loro conoscenza, fino a che, nel pomeriggio, a Toris non era venuta la favolosa idea e l’aveva proposta a Feliks. L’altro aveva accettato, anche se la cosa aveva raggelato le loro interazioni. Da allora non avevano chiacchierato più di tanto, limitandosi a brevi monologhi separati l’uno dall’altro; sembravano due attori che recitassero diversi copioni e facessero fatica a trovare un equilibrio. A ogni commento di Toris su Natalia e alla speranza di rivederla, Feliks rispondeva con un’alzata di sopracciglio e guardava con un’occhiata significativa le sue dita arrossate dove erano lese. Era fastidiosa, questa cosa. Non era Nat il problema, ma il fratello...
Arrivarono davanti al parco dove il giorno prima si erano incontrati. Si sedettero sulla panchina, rabbrividendo quando il legno umido si fece sentire attraverso la stoffa dei pantaloni. − E ora? – domandò Feliks, sbadigliando. – Hai, tipo, una vaga idea di cosa fare adesso?
− N-no... tu hai qualche idea? La conosci più di me, d’altronde.
− E che ne so io? Uhm. Se le cantassi, tipo, una serenata da quaggiù?
− Pensi che possa servire?
− Se vuoi farti trovare stasera dalla polizia appeso a un albero per il collo, sì. Cavoli, se non hai idea neppure tu di cosa fare, che sei tipo il suo ammiratore, mi chiedo cosa ci facciamo qua... Questo posto dà i brividi.
Feliks aveva abbassato il volume della voce fino a quasi farla sparire, così  Toris fu in grado di staccarsi da quella realtà e immergersi completamente nei suoi pensieri.
Inspirò una grossa boccata d’aria fresca, tossendo per lo smog che vi era mescolato. Aveva bisogno di ritrovare la calma, ma il palazzo davanti a lui lo stava riempiendo nuovamente di terrore.
Dopo la sua fuga era naturale fosse così, eppure stavolta c’era qualcos’altro: non l’impressione che l’edificio emanasse un’aura negativa, ma la certezza. Poteva percepire un lieve bisbiglio, simile a una risata maligna, tutt’intorno, riconducibile al rumore delle foglie calpestate nel parco vicino, ma no, ne era convinto, sebbene la parte razionale di lui tentasse di negarlo, quella era la “voce” del palazzo. Esattamente come era accaduto con la casa di Arthur la prima sera.
Strinse i denti in una smorfia. Voleva ricacciare in un angolo buio della sua mente le folli insinuazioni di Braginski. Esse pungevano, riemergevano, prepotenti e innegabili, nonostante i suoi sforzi gli era impossibile considerarle coincidenze.
Stanze proibite. Atteggiamenti sospetti. Un improvviso rimpatrio dopo un’esperienza avvolta per la maggior parte dal silenzio. E lui si trovava in mezzo a tutto ciò, pedina inconsapevole in un contesto che sembrava architettato a tavolino.
Quando la sera precedente era tornato a casa, non aveva fatto parola di tutto ciò. Non era nemmeno riuscito a guardare Arthur negli occhi, certo che avrebbe subito capito cosa non andasse.
Ma l’uomo aveva afferrato ugualmente. Cercando di non sembrare invadente, aveva cercato di penetrare quel muro di silenzio; inutili erano stati i tentativi di Toris per sviarlo parlando d’altro.
Alla fine Arthur si era arreso e lui aveva passato la notte senza chiudere occhio. Aveva dormito sì e no un paio d’ore, sonno agitato di cui non serbava alcun ricordo se non una sensazione di calore insopportabile, come se fosse stato avvolto dalle fiamme degl’Inferi. Quando si era svegliato, Arthur era già partito: sul tavolo un thermos di tè caldo già dolcificato e un piatto di biscotti fatti in casa, piccoli doni dettati da una sincera generosità. Toris aveva assaggiato entrambi. I biscotti non erano neanche male rispetto a ciò che cucinava solitamente l’uomo, e se ne era portato qualcuno via.
Un piccolo amuleto per ricordare che Kirkland fosse una brava persona.
Sentì qualcosa battere contro la sua spalla e riemerse dai suoi pensieri. Si girò alla sua sinistra: Feliks, con il braccio teso verso di lui, stava cercando di attrarre la sua attenzione picchiettandolo. Solo in quel momento si accorse che il biondino si era rannicchiato nella parte più esterna della panchina, come per tenersi a distanza.
− Ehi, tu. – disse Feliks, indicandolo col mento.
− Il mio nome è Toris. – rispose lui, il respiro esalato tra i denti serrati. L’altro fece spallucce.
− Ok, Toris. Giulietta si è affacciata al bancone, se vuoi procedere...
− Quale Giulietta?
Feliks sbuffò, mentre le guance si tingevano di rosso, borbottando qualcosa come “ignorante, non capisce neanche, tipo, le citazioni più ovvie”. – Alza gli occhi. Non siamo venuti qui per lei?
Toris alzò lo sguardo verso la finestra del quarto piano, con il cuore in gola. Eccola! Proprio come la prima volta. Dio, com’era carina... e stava guardando verso di lui! Lo stava aspettando? La vide alzare una mano, lo sguardo glaciale da bambola di porcellana sempre presente. Che lo stesse salutando? Toris agitò la mano per salutarla in risposta.
− Che combini? – chiese Feliks, notando i suoi movimenti.
− Beh, mi pare ovvio, no? Cerco di farmi riconoscere.
− Ehm, coso... Toris... non per rovinare quel bel sorriso che ti è spuntato sulla faccia, sei anche tanto carino così felice, ma credo l’abbia già capito chi sei.
− E come fai a esserne così sicuro?
– Guarda bene. − Feliks indicò la finestra,  − Ci sta facendo il dito medio.
Era vero. Con una compostezza degna di una giovane dama, Natalia li stava mandando a fanculo. Il volto di Toris divenne incandescente per l’imbarazzo.
− Oh. Ehm... – si schiarì la voce, tentando di ripristinare un po’ di contegno. – Scusa, non... non me n’ero accorto. Secondo te lo fa per scherzare o è seria?
Feliks gli lanciò un’occhiata più che sprezzante, cosa che lo fece arrossire ulteriormente, quindi si rivolse alla finestra e sollevò entrambe le mani alzato il terzo dito, accompagnando il tutto con una linguaccia.
Toris sbarrò gli occhi, scandalizzato. − Fe... Feliks! Che diavolo combini?! Ѐ una ragazza, non si fanno queste cose! Non vorremmo fare la figura dei cafoni, spero!
Feliks era sul punto di perdere la pazienza. Se le femmine ti rimbecillivano così, pensò, era cosa buona e giusta che non si fosse ancora innamorato.
– Vuole la guerra? – annunciò, la determinazione brillante negli occhi smeraldini, – E che guerra sia, allora! Non si offenderà di certo per così poco, la conosco totalmente più di te!
Ma non ci fu nessuna guerra.
 
Nella stanza era entrato anche Ivan; in mano aveva l’onnipresente bottiglia di vodka ed un bicchiere pieno per un quarto, tenuto saldamente tra le dita. Si muoveva con passo felpato, senza fare il minimo rumore ma facendo avanzare la sua enorme ombra, come un gigante. Come l’inverno.
Natalia si girò appena quando si accorse della sua presenza. − Fratelloneee~  – cinguettò.
Ivan trasalì, vedendosi scoperto. Finse indifferenza, avvicinandosi alla scrivania senza variare il suo andamento flemmatico.
− Tranquilla, sono venuto solo per prendere dei documenti che ho dimenticato sulla tua scrivania, nient’altro –. Le labbra si piegarono in un sorrisetto tenero: − Certo che potresti tornare a farti vedere in casa, nessuno ti costringe a stare qui tutta sola, sai? Non sono arrabbiato con te, non come ieri perlomeno.
Natalia sorvolò l’invito, staccandosi dal vetro e dirigendo lo sguardo direttamente su di lui. – Fratellone? Prova a indovinare chi c’è qua sotto, proprio dall’altra parte della strada?
Il giudice si bloccò, intenzionato a non entrare nel raggio di visualizzazione della finestra, o comunque a star lontano dalla sorellina. Si limitò a domandare, come se non immaginasse la risposta: − Non saprei. Chi c’è?
− Un idiota e un imbecille. Feliks e quell’altro, Toris.
La bocca di Ivan si aprì assumendo la forma di una mezzaluna, mentre gli occhi s’illuminavano estasiati; congiunse le mani e si mise a saltellare per la contentezza, facendo tremare leggermente le piastrelle sotto il suo peso, incapace di trattenersi. Era la grottesca imitazione di un bambino troppo cresciuto.
Il liquido dentro il bicchiere schizzò qualche goccia sulla scrivania lì accanto, rischiando di macchiare i documenti citati.
− Lo sapevo! – mugolava felice Ivan – Lo sapevo! Ѐ tornato da me! Vuole essere mio amico!
D’un tratto interruppe la piccola danza e restò in equilibrio su un piede solo, prima di posarlo delicatamente a terra. Calò la testa di lato, aggrottando le sopracciglia interrogativo: – Aspetta. Ѐ qui anche Feliks?
− Bah, a quanto pare vale la regola che i coglioni debbano andare in coppia.
− Oooh. Sono così felice! Però smettila di insultarli, rischi di sembrare maleducata. Ti sta così antipatico il piccolo polacco? Al piccolo lituano lui piace, se ci gira insieme.
Si avvicinò prudentemente alla finestra. Il sorriso si smorzò leggermente.
− Probabile che Toris non sia tornato perché sentiva la mia mancanza, da? Che peccato. L’importante, però, è che sia qui.
Tornò a muovere i piedi ritmicamente, canticchiando una melodia a caso interrotta di tanto in tanto da un sorso dal bicchiere, mentre si apprestava a cercare qualcosa tra i cassetti e la scrivania davanti a lui.
Natalia si girò verso il fratello: − Sento che vuoi fare qualcosa, ma non so cosa.
Ivan sorrise, dolce come una zolletta di zucchero. Non sembrava cattivo quando sorrideva in quel modo, ma nessuno riusciva mai a capire cosa pensasse davvero dietro a quegli occhioni.
− Naaat ~ − disse Ivan – Potresti farmi un favore grande grande? Eh? Per piacere?
Gli occhi di Natalia s’illuminarono di speranza e affetto. Forse il fratellone l’aveva perdonata per la faccenda di aver aiutato Toris a trovare l’uscita.
Si allontanò momentaneamente dalla sua postazione, mentre Ivan recuperava un foglio di carta e una penna da un cassetto lì accanto; quella stanza era una specie di studiolo appartenente alla ragazza, contenente i suoi libri e le sue cose, ma il fratello ne aveva libero accesso. A dire la verità, quella condizione gli dava dei svantaggi: la maggior parte delle volte era lui stesso ad avere l’arduo dovere di ritrovare gli oggetti quando venivano smarriti lì dentro, anche se era stata la sorella a perderli.
Ivan scrisse qualcosa sul foglio, una sequenza di numeri che in un primo momento Natalia non riconobbe. Quando capì di cosa si trattava, la ragazza sentì il sangue salire alla testa: − Ma quello è il mio numero di cellulare!
Ivan chiuse un occhio e congiunse la mani come in preghiera, le labbra strette in un sorriso accattivante.
− Ti prego sorellina! Non mi dici sempre che vuoi aiutarmi?
− Ce-certo... però...
L’uomo appallottolò il foglio fino a ridurlo a una piccola massa tondeggiante e glielo porse, sempre il sorriso sulle labbra che però ora tremava leggermente. C’era il rischio che rifiutasse di assecondarlo.
− Mi è venuta un’idea... tu buttaglielo dalla finestra. Fidati di me.
Natalia raccolse la pallottola e la guardò un attimo, prima di tornare al fratello.
− Ma perché il mio numero, poi? Non credo di aver capito...
Ivan sospirò: − Ti sarai accorta che tu gli piaci.
− Sai che mi importa.
− A me importa. Ѐ per questo motivo che ho scritto il tuo numero: voglio che te ne occupi tu.
− ...io?
Natalia abbassò lo sguardo, iniziando finalmente a comprendere come stessero le cose. Prese la palla di carta in mano, giochicchiandoci un po’, respirando profondamente nel tentativo di fare chiarezza nella sua mente. Solitamente avrebbe acconsentito senza pensarci troppo, in nome del’amore che provava per suo fratello, ma stavolta era arrivato al limite. Che diavolo c’entrava lei in quella storia? Perché doveva essere utilizzata come una mera esca? Soprattutto, sarebbe riuscita a dire di no, nel caso?
Ivan era tornato al suo usuale sorriso calmo e melanconico.
− Voglio solo un amico tutto per me, nient’altro. – disse, bevendo l’ultimo sorso di vodka rimasto nel bicchiere. Che questo amico fosse simultaneamente un suo subordinato o che lo avesse davvero irritato scappando come una lepre impaurita, mentre l’altro voleva semplicemente fare quattro chiacchiere, beh, erano solo fatalità. Ivan ci avrebbe lavorato sopra a tempo debito, quando sarebbe tornato da lui.
Tutti tornano, quando sono piccoli e deboli.
Natalia non rispose. Tornò semplicemente alla finestra e l’aprì sporgendosi con il busto verso l’esterno, sotto lo sguardo interrogativo del fratellone. Senza dire una parola, lanciò la palla verso il marciapiede dove stavano i due ragazzi, ritirandosi in un attimo.
− Ecco fatto, contento ora? – chiese con un sibilo.
− Oh, sorellina, grazie mille! – Ivan era semplicemente commosso, – Forse non te lo dico abbastanza spesso, ma sappi che ti voglio bene. Ora più che mai.
Natalia a quelle parole dimenticò tutto il resto.
 
La pallina di carta cadde sulla strada, proprio sull’asfalto e rimbalzando verso la zona dove passavano le auto. Approfittando di un attimo di quiete del traffico, fu Feliks a raggiungerla per primo; un brivido lo attraversò quando un’auto sfrecciò proprio nella corsia opposta, schizzandogli minuscoli sassolini sulle caviglie. Si sistemò al sicuro sul marciapiede antistante all’edificio. La minima ricompensa che poteva avere in quel gesto altruistico era leggere cosa ci fosse scritto.
Toris lo raggiunse in un lampo, controllando prima che non ci fossero macchine che passassero. Gli strappò praticamente il foglio di mano. – Cos’è?
Feliks aggrottò le sopracciglia: − Un numero di cellulare, credo.
− Ommiodio. – Toris sentì le guance avvampare dall’emozione – Ѐ il suo!
Fece un salto esultante sull’asfalto, incapace di controllare la sua gioia. Feliks continuava a studiare il foglietto con gli occhi socchiusi: c’era qualcosa che suonava storto in quella faccenda, se lo sentiva. La nebbia serale aveva cominciato il suo cammino per la città. appannando il paesaggio circostante e rendendo i dettagli gradualmente più confusi.
− Ma sei totalmente sicuro che sia il suo?
− E di chi potrebbe essere, altrimenti?
Feliks soffiò tra i denti sperando che quella storia finisse presto, dondolante sui talloni. Lanciò un’occhiata distratta al quarto piano. Dalla finestra una testa bionda li stava osservando, ma scomparve subito all’interno. “Cioè, questa cosa puzza di bruciato. Che diavolo sta succedendo?” si chiese, ma venne interrotto prima di poter approfondire il quesito. Tempo dopo, questo pensiero sarebbe riaffiorato di nuovo nella sua mente, ma ora era troppo presto per capirne la gravità.
– Grazie per avermi accompagnato quaggiù. – disse Toris, piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.  – Ora possiamo andare.
− Qua abbiamo finito, allora?
− Sì. Perdonami se ti ho fatto venire qui solo per farmi un piacere...
Feliks scosse la testa, le guance pallide divenute rosa: Toris aveva capito quanto la storia di Natalia fosse una scocciatura per lui, era già qualcosa di cui essere soddisfatti. – Seh, seh, vabbè! Piuttosto, che si fa adesso? Ho voglia di fare un giro in centro, fare quattro compere.
Toris rise. – Certo! Magari mi compro anch’io un ombrellino grazioso come ce l’avevi tu ieri, per le giornate di pioggia, che dici? Il mio non ce l’ho più.
Lo sguardo di Feliks s’illuminò. Iniziò a blaterare spedito come una macchinetta: − Oh, allora ti piaceva il mio ombrello? Lo dicevo io che era super carino, anche se la commessa mi ha guardato male, se vuoi ti porto in quel negozio, ci sono un sacco di belle cosine, tutte a una, due sterline, un affare, sì, sono tipo cianfrusaglie perlopiù ma sono tanto carine... – e Toris fu costretto a mettergli una mano davanti alla bocca per zittirlo, ottenendo in risposta uno sguardo scocciato dal biondino interrotto.
Senza accorgersene doveva aver premuto qualche strano bottone che da timido lo aveva reso logorroico. Quella capacità di sparare cinquanta parole in quindici secondi si doveva considerare un bene o un male? Anche se a malincuore, Toris propendeva decisamente per la seconda.
− Va bene, va bene! Buono! – esclamò – Ci andiamo, non ti preoccupare! Basta che poi mi lasci salutare un paio di miei amici, questione di cinque minuti e sono a posto. Ok? −.
Feliks allungò le labbra nel suo consueto ghigno. – Per me va bene. Solo, tipo... scusami se ho tanta fretta di andarmene, so che rimarresti qua tutto il giorno se potessi.
Toris sorrise di rimando. – Nessun problema.
− Non è questo il punto.
− Eh?
− Insomma... – Feliks si arricciò una ciocca bionda attorno alle dita, nervoso, − Questo posto mi mette totalmente a disagio. Dà una sensazione negativa, mi viene il mal di pancia solo a guardare quel maledetto edificio. – Ridacchiò, − Boh, probabilmente ho questa sensazione solo perché ci abita l’orco russo, lascia perdere.
Toris lo fissò per un attimo, senza dire una parola. Poi volse lo sguardo all’asfalto e sussurrò: − Tranquillo, non sei l’unico a pensarla così. Anche tu hai sentito la risata?
− Quale risata?
Toris agitò la mano. – Nulla, era soltanto una mia impressione. – disse. – Andiamocene e basta.
E si avviarono, con il sollievo silenzioso di lasciare quel luogo che li riempiva man mano Snow Hill si allontanava.
 
Ivan si ritirò con uno scatto dalla finestra. − Non mi ha visto. – ansimò. − Però ho rischiato di farmi scoprire.
− Fratellone?
− Allora stanno così le cose –. Il sorriso di Ivan era scomparso, il tono si era fatto mesto. – Dovevo immaginarmelo.
− Che cosa, accidenti?
− Feliks – bastò quel nome come risposta. Natalia strinse i pugni sui fianchi, ringhiando: – Feliks? Cos’ha combinato il piccolo demente?
− Sono amici. – mormorò Ivan. Natalia assunse un’aria perplessa, senza però rilassare la sua espressione: non capiva perché, tra tanti motivi, quello doveva essere quello che avrebbe rovinato il piano.
− Quei due escono insieme, sono diventati amici! – ripeté Ivan, tentando di mantenere la calma. La voce soffice si era abbassata, somigliando molto di più a quella di un uomo adulto. C’era qualcosa che non andava, in ciò.
− E... allora? Sei geloso?
− Sì... cioè, non è propriamente questo che intendo dire.– Ivan afferrò nuovamente il bicchiere vuoto, portandoselo alla bocca e notando all’ultimo, con disappunto, di ingurgitare solo aria. Si affrettò a riempirlo, senza rovesciare una sola goccia malgrado tremasse. L’acqua di fuoco gli attraversò la gola, riscaldandolo. Inspirò. L’affanno era passato.
Continuò: − Ho l’impressione che la responsabilità della fuga di ieri sia d’attribuirsi al giovane polacco.
Natalia spalancò gli occhi, scettica: − Ma il libri che aveva trovato in libreria? I tuoi discorsi urlati che sono riuscita a udire pure io, nell’altra stanza? Non erano stati quelli a spaventarlo come una bimbetta?
Ivan scosse il capo. Le labbra si erano deformate in un ghigno beffardo. − Toris non è una bimbetta. Ѐ abbastanza intelligente da capire che un giudice come me debba interessarsi anche ai campi più estremi della legalità, e abbastanza fiducioso nella bontà del prossimo da raccontarsi favolette pur di non accettare che questo non è il migliore dei mondi possibile. Ѐ stato Feliks a scuotere queste convinzioni.
Ivan prese un altro sorso di vodka, i denti tintinnarono contro il vetro. Natalia lanciò uno sguardo oltre la finestra. I due se n’erano andati.
− Feliks sembra un idiota, si comporta come tale, parla come tale ma... forse nasconde un buon intuito. Certo è che, se si è messo in testa che io sia una specie di cattivo Disney, non lo possa contraddire, tempo sprecato.
− Il problema è che adesso vuole convincere anche il nuovo arrivato della cosa. Ho capito bene?
− Esatto, sorellina. Credo stia proprio così la questione.
Natalia scrollò la testa, la boccuccia storta in una smorfia sprezzante. − Te l’ho detto e te lo ripeto finché non capisci: Toris deve essere proprio un farlocco per abboccare a queste cazzate.
Ivan annuì piano, impensierito. Il calore aveva invaso il suo corpo dall’interno, un caldo diverso da quello che sentiva nel suo studio. Chissà se anche Toris aveva sentito quello strano cambio di temperatura, l’altro giorno. Sarebbe rimasto sorpreso nel sapere che il riscaldamento in quella stanza fosse spento.
− Ha creduto subito a Kirkland. – rifletté – Senza fare una piega. Quando ho accennato a una stanza in cui non può accedere, lui ha sbarrato gli occhi. Ho visto giusto: Kirkland non gli permette di andare da qualche parte della casa, lui non sa perché ma accetta le condizioni perché sì. Perché è un bravo bambino che sa giocare bene. Meglio stare zitti e andare avanti, anche se quando posi la testa sul cuscino, la notte, ti possono assalire i dubbi. Perché è durante la notte che dalle stanze proibite si aprono silenziose le porte, un piccolo spiraglio, tanto per farci uscire i mostri...
Natalia rise a un pensiero così assurdo. Sembrava il trailer di un film horror.
− Beh, lui ha qualcosa da perdere. Sai quanto si sarà fatto il mazzo per trovare un posto decente dove stare qua a Londra, con un affitto che non lo dissangui? Senza contare che dovrà trovarsi al più presto un lavoro, dopo che ha rifiutato questo.
− Già... qualcosa da perdere...
− Comunque è davvero ridicolo vedere come preferisca stare agli ordini di uno praticamente sconosciuto, piuttosto che fare domande inopportune. Che pecorone!
− Ѐ manipolabile... Arthur è riuscito a guadagnarsi la sua completa fiducia – mormorò Ivan. D’un tratto gli occhi gli s’illuminarono di quella strana luce di chi è brillo e si convince di saper volare. – Nat? Ho avuto un’idea. Fufufufufufu! Oh, che bella, meravigliosa idea! Ti chiedo solo di farmi un secondo favore, niente di più.
− Eh? Aspetta, che succede? Di che idea stai parlando?
− Forse è meglio non ti riveli niente riguardo. Non offenderti, ma potresti essermi d’intralcio.
Ivan posò le grandi mani sulle guance di Natalia, imprigionandone il viso. Sorrideva. Il suo corpo era fin troppo caldo. La ragazza per un attimo pensò che quello che le stava davanti non fosse suo fratello, ma uno sconosciuto che ne aveva preso le sembianze.
− Avvisami ogni qualvolta qualcuno dovesse telefonarti o mandarti un messaggio, tanto ad avere il tuo numero al momento siamo solo io e lui, giusto? Faresti questa cosuccia per me, sì? Per favore? – sussurrò. La voce era più soffice che mai, procurò un brivido lungo la schiena della ragazza. Gli occhi erano socchiusi, la fissavano penetranti. Natalia sentì le gambe farsi più deboli, succube di quella strana malia che non riusciva a spiegarsi e che le intorpidiva i sensi; riuscì a malapena a mormorare un “Sì” in risposta.
Ivan sorrise, scoprendo i denti e allontanò il volto da quello di lei.  
− Grazie sorellina – disse, le iridi viola luccicanti e il tono tornato normale: la malia era scomparsa così rapidamente da dare l’impressione di non essere mai avvenuta.
Natalia aggrottò le sopracciglia, guardandolo dritto negli occhi. Un dubbio si era insinuato nella sua mente.
− Fratellone? Posso farti una domanda che non c’entra nulla con quello di cui abbiamo parlato finora?
− Dimmi.
− Secondo te, cosa c’è nella stanza misteriosa di Kirkland? Perché tu lo sai, vero?
Il sorriso di Ivan cambiò forma, divenendo un ghigno malinconico.
− Qualcosa che un ragazzino non dovrebbe vedere mai.
I pollici rotearono gentili sulle gote della ragazza: – Non preoccuparti, non c’è di che averne paura. Credo sia la stessa cosa che tiene caldo nel mio studio quando ti chiedo di non entrare. Solo molto peggio, temo. Non importa, i bambini che seguono le regole non corrono pericoli e tu... sei una brava bambina, vero?
Per la prima volta in vita sua, Natalia nel guardare l’amato fratello provò puro terrore.
 
*  *  *
 
Al posto degli hamburger, Alfred si stava accingendo a ingurgitare cucchiaiate di gelato. Sul tavolino era posta anche una brocca di caffè appena fatto, più un paio di bicchieri di carta in cui berlo. Toris ne aveva accettato solamente un goccio di caffè ma aveva gentilmente rifiutato il gelato, perciò ora l’altro si godeva tutto da solo il dolce refrigerio. Arthur tamburellava le dita sul tavolino, nervoso, le folte sopracciglia gettavano un’ombra su tutto il volto. Sembrava non ascoltasse neppure cos’avesse da dire il giovane, notava solo il suo volume incontrollato e altalenante, così inusuale. Tracciava ogni tratto del suo viso alla ricerca di particolari che potessero chiarire la sua situazione e da ciò che ne ricavava l’inquietudine aumentò. Borse sotto gli occhi. Volto pallido. Pupille ristrette. Gesti a scatti. Non poteva nascondere tutto con un sorriso, quel ragazzo.
Cosa diavolo era successo per ridurlo così?
− E, morale della favola, adesso ho il numero di Natalia! – esultò Toris alla fine del suo racconto. Alfred annuì compiaciuto, come se fosse merito suo quel successo; tentò di congratularsi, ma aveva la bocca piena e un rivolo di gelato gli scese dal labbro, macchiandogli il mento.
Arthur prese un tovagliolino e lo ripulì all’istante, emettendo uno sbuffo scocciato. Il suo gesto appariva meccanico come quello di un automa, non aveva nulla di affettuoso.
− Sei proprio un bambinone – mormorò, – Non ti hanno mai insegnato che non si parla mentre si mangia? Guarda che macello...
Alfred lo fulminò con lo sguardo, ma non gli rispose. − Potrei vedere un attimo quel numero, per favore? – tese invece la mano a Toris. Il ragazzo gli diede il foglietto e lui lo esaminò. La scrittura era sbrigativa, non certo aggraziata come ci si aspetterebbe da una ragazza. Era stata usata una comune penna a sfera. Anche la carta era semplice, strappata da un quaderno per gli appunti.
Si presumeva che l’avesse scritta davvero Natalia, magari di nascosto da Ivan. Che fosse la volta buona che quella ragazzina avesse messo veramente la testa a posto? Che si fosse presa una cotta come tutte quelle della sua età e non risultasse più così morbosamente attaccata al fratello? Sarebbe stato meraviglioso. Arthur lanciò anche lui un’occhiata svelta al numero, alzò un sopracciglio ma non commentò.
Nell’estrarre il foglietto dalla tasca, il sacchetto dei biscotti si era sfilato dalla sua postazione. Un improvviso movimento di Toris lo fece cadere a terra. – Oh!
Alfred si abbassò sotto il tavolo. – Cos’è? Ehi, biscotti! Ne posso avere uno? Non puoi negare del cibo a un poveraccio che sta morendo di fame, se hai un cuore!
Si stava già fiondando verso l’oggetto recuperato da terra e ora nelle mani dell’altro, sorvolando il tavolo con il busto e rovesciando tutto ciò che vi era posizionato sopra, intenzionato a arraffarlo a prescindere dalla sua risposta.
− Ehm... sì, certo, prenda pure... −. Toris gli porse il sacchetto prima che peggiorasse la situazione. A quel punto si pentiva di non averne portati di più, mentre in realtà alcuni di quei biscotti li aveva sbriciolati e lanciati ai piccioni nei dintorni del parco. Pensò di evitare quel particolare.
− Mi dispiace se si sono un po’ rovinati, colpa dell’umidità – spiegò, mentre Alfred ne addentava uno, soddisfatto.
− Ti sei portato da casa gli scones che ti ho preparato?
Toris si voltò verso Arthur. Lo stava fissando con i suoi pungenti occhi verdi, le palpebre socchiuse che lasciavano intravedere solo due tagli.
Toris si sentì intrappolato dal suo sguardo. Forse era solo un’illusione data da quelle luci artificiali, dai colori del locale troppo accesi che si scontravano con l’abbigliamento austero dell’uomo, dalle poche ore di sonno che gli annebbiavano la mente, eppure il ragazzo provò un disagio asfissiante.
− Sì, ne ho avanzati un po’ per mangiarli durante il pomeriggio. N-non le dispiace, vero? – domandò con voce sottile.
Arthur scosse la testa; l’espressione affilata non aveva ancora lasciato il suo volto. Toris non conosceva il motivo, ma aveva l’impressione che, qualunque cosa avesse detto in quel momento, la risposta sarebbe suonata sbagliata ai suoi orecchi. Possibile? Kirkland era così gentile. Non l’avrebbe mai redarguito per una cosa così sciocca come portarsi in giro per la città un sacchetto di biscotti della colazione. Quel giorno, però, sembrava diverso: e se si fosse offeso? Permaloso com’era, c’era la possibilità che lo tenesse in mente e gli tenesse rancore in silenzio.
Le parole di Braginski presero improvvisamente forma sopra Arthur, simili a un’invisibile spada di Damocle, più forti e taglienti che mai, come se fosse Ivan stesso a pronunciarle nascosto in un angolo del locale. Alcune erano più visibili, altre erano ricoperte di una patina rossa, indecifrabili davanti agli occhi della memoria. Kirkland sembrava cosciente di quel peso incombente sopra la sua testa, come se non stesse aspettando altro che Toris lo lasciasse cadere, uccidendolo, rivelando un passato che non andava neppure nominato. Polvere sotto il tappeto e scheletri nascosti nel fondo dell’armadio, per sempre. Stai zitto, fai il bravo bambino, così non succederà nulla e vivrai felice nell’incoscienza i tuoi prossimi mesi sotto il cielo inglese. Ciò che succede nell’oscurità non è di tua competenza.
Toris strizzò gli occhi e quando li riaprì la spada fatta di parole fantasma si era dissolta, così come la stretta che provava al cuore. Lasciò andare un muto sospiro.
Oh, ma perché doveva farsi sempre così tante paranoie per ogni minima cosa? Per dei stupidi biscotti, poi!
(un piccolo amuleto per ricordare che Kirkland fosse una brava persona)
Come un valoroso cavaliere, il giovane scelse di tentare lo stesso la sua impresa: inconsciamente, decise utilizzare il suo “amuleto” come scudo contro gli spettri del passato. Guardò Arthur dritto negli occhi, sostenendo quel contatto con forza.
− Sa, Mr Kirkland... questi scones sono anche più buoni del solito. – disse, utilizzando con cura le parole e la tonalità con cui pronunciarle. Non suonava affatto come una bugia. E perché avrebbe dovuto? Stava dicendo la verità: di solito ogni cosa che gli preparava era immangiabile, ma in quel caso aveva gradito il piccolo dono che gli aveva offerto quella mattina. Anche il sapore era apparso addirittura piacevole.
Arthur sbarrò gli occhi, come se quelle parole fossero state pronunciate in una lingua straniera. – Ti sono piaciuti? – mormorò stupefatto.
− Oh, eccome! Ecco... – Toris cercò i termini più adatti, − ... si sente che ci ha messo cura e impegno. Anche per questo sono “speciali”, no?
Sì, era la pura verità quella che stava uscendo dalle sue labbra, facendogliele curvare nel suo consueto dolcissimo sorriso, donandogli il coraggio di guardare il drago nelle sue pupille di piombo.
E allora accadde: il volto di Arthur si trasformò. Una luce particolare tolse ogni oscurità dai suoi occhi, illuminandolo per intero. Le labbra tremarono leggermente.
− Esatto, sono speciali perché li ho fatti apposta per te. Sono contento che li apprezzi, sei un ragazzo riconoscente degli sforzi altrui. – borbottò, cercando di mantenere un tono austero, ma senza riuscire a nascondere una certa emozione nella voce.
Gli erano piaciuti!
Toris mantenne la sua espressione serena, mentre Alfred storceva la bocca disgustato: i biscotti erano bruciacchiati sul fondo e avevano troppo poco zucchero per il suo palato guastato da anni di merendine industriali. Come si poteva affermare che fossero buoni? Bah!
Toris notò la sua smorfia e, con un gesto fulmineo, gli fece segno di star zitto e non dire nulla di negativo. Alfred mimò con le labbra “Perché?” e il ragazzo sbuffò, mimando a sua volta “Non farlo e basta”. Fortunatamente Alfred restò zitto e Arthur non notò nulla, rimanendo con quel sorriso orgoglioso sul viso come se gli si fosse appena consegnato il premio del secolo. La voce maligna era scomparsa dalla sua testa, così come i pensieri violenti. Si sentiva bene come non gli succedeva da molto, molto tempo.
E tutto grazie a un complimento.
A un certo punto il ragazzo guardò l’orologio e si batté il palmo della mano sulla fronte.
− Ragazzi, sono spiacente ma non posso dilungarmi troppo: Feliks mi sta aspettando. Mr Jones, potrei comprare qualche dolciume qui, nel caso volessi condividerne e avessi finito i biscotti? Vedo che ha una buona scorta là dietro.
− Certo! Ehi, come mai il tuo amichetto non è entrato con te? – chiese Alfred mentre si alzava e raccoglieva qualche barretta di cioccolato dallo scaffale degli snack. Toris ridacchiò imbarazzato, passandosi una mano tra i capelli castani. Quando aveva proposto a Feliks di accompagnarlo all’interno, per poco non aveva piantato una crisi isterica e allora ci aveva rinunciato.
− Lasci stare, è un campione di timidezza. Non si fida assolutamente degli estranei... anche se forse qualche eccezione la potrebbe fare anche lui.
− E allora portalo la prossima volta, ci farebbe comodo un cliente in più. Siamo un fast-food, accidenti, non la tana del lupo mannaro! Quando lo capirete, malfidenti?
Alfred agitò le mani in aria, esasperando la sua domanda. Toris rise: − Ahaha, d’accordo, farò il possibile. Quanto le devo?
Mentre i due chiacchieravano, Arthur ne approfittò per chiudere gli occhi; la testa cedette sotto al suo stesso peso, appoggiata sulle braccia incrociate sul tavolo e facendolo sembrare addormentato. Invisibile al resto del mondo, il coniglietto verde gli svolazzò davanti al viso, sedendosi sulle zampine proprio di fronte a lui. Con il musetto gli scosse la frangia caduta sugli occhi, scoprendoglieli. Alle spalle dell’inglese, un vecchio dalla lunga barba l’osservava angosciato. – Cos’è successo? – chiese l’anziana creatura, mentre un gruppetto di fate volarono in cerchio sopra di loro.
Arthur alzò leggermente lo sguardo, scrutando la combriccola di esseri fantastici che andava formandosi intorno a lui. S’accigliò quando notò che erano pressoché tutti ansiosi come il vecchio.
− Perché quelle facce da funerale, ragazzi? Non so voi, ma qua la situazione è sorprendentemente calma.− bisbigliò.
− Pensavamo a quello che è accaduto oggi, per questo siamo preoccupati! Temevamo il peggio... Che potessi cedere ai tuoi pensieri e combinare qualche atto sconsiderato. Non sei ancora pronto per attuare il patto. – borbottò il fantasma di un pirata, grattandosi una vecchia cicatrice sul volto con l’uncino.
Oh. Allora era quello il problema. Quei discorsi bruciavano come sale nella piaga ancora aperta.
− Tranquilli, ragazzi, è tutto a posto. Voltiamo pagina e non pensiamoci più, ok?
− Lo sappiamo che quello avrebbe preferito altro, ma va meglio così. Non sei d’accordo anche tu?– dichiarò il vecchio barbuto, ignorandolo.
Stavolta dalle labbra di Arthur uscì un impercettibile mugugno irritato. – Possiamo parlare d’altro che non sia Francis, quello, oppure i miei errori? Ѐ da un po’ che mi sembrate un disco rotto. Lasciatemi in pace! Da quando ho deciso di tornare a Londra vi siete messi a giudicare il mio operato e i miei pensieri...
Il vecchio, sordo alla richiesta, continuò il suo discorso: − Sembravi posseduto da qualcosa di estraneo, oggi, mentre facevate zig zag tra i ristoranti, non negarlo! C’era odio nei tuoi occhi. Un mondo da incubo dove regnava la violenza e il terrore! –
Parlando si agitò, rischiando di coinvolgere il coniglio alato nei suoi movimenti bruschi. Una fatina dalle ali purpuree s’intromise: –  Arthur, ritorna in te! Cosa ti sta succedendo? Non ti riconosciamo più! Vogliamo tornare a giocare con te, non vederti ridotto così!
Arthur strizzò gli occhi, mentre la voce piagnucolosa dell’invisibile amica gli penetrava nel cervello invocando il vecchio sé. Sospirò. Lo avevano interrotto nel suo discorso. – Potete stare tranquilli. I pensieri che mi attanagliano sono opera sua, però sono sicuro di poterli controllare. Lui è potente, ma non abbastanza da soggiogarmi.
Alzò lo sguardo sugli amici che ora lo circondavano. C’era anche il suo amato unicorno, posizionato in modo che non intralciasse il percorso tra seggiole e tavoli, che sbatteva spazientito lo zoccolo destro a terra, sbuffando. Sorrise, intenerito.
– Vi ringrazio per il vostro sostegno, per tutto l’affetto che mi date. So quanto vi manca il vecchio Artie dal cuore puro e dalle buone intenzioni, perciò voglio darvi una bella notizia.
− Cosa, Artie, cosa? – domandò una seconda fatina, chiamata Brownie per il colore bronzeo del vestitino, agitando eccitata le minuscole ali. Arthur allargò il proprio sorriso. Il suo cuore era incredibilmente sereno, ogni traccia di violenza era sciolta come neve al sole, lasciando il posto a una forza benevola e vitale. Uno stato di grazia dalla durata imprevedibile.
− Quaggiù, non so per quale motivo, quello ha molto meno potere. Chissà, forse perché è lo stesso luogo dove è avvenuto lo scontro con Francis? Comunque, qui non c’è pericolo.
− Vuoi dire che...?
Il sorriso di Arthur si allargò ulteriormente.
− Ho intenzione di fargliela vedere a Francis...
Mormorio di disapprovazione.
− ... ma senza l’aiuto di quello. Posso farcela anche da solo, con le mie sole forze. Insomma, ho deciso che romperò il patto!
Il gruppo invisibile scoppiò in un grido di esultanza. Uno gnomo domandò, appena ebbe finito di battere le mani: − Ѐ per via dell’energia positiva accumulata grazie ai tuoi successi, vero?
− Probabile! Una cosa è sicura: stavolta ce la posso fare!
− Sì! Ce la puoi fare! Stavolta farai un figurone, ne siamo sicuri, e senza l’aiuto di quello!
L’entusiasmo era contagioso, non fosse che il fantasma di prima non l’interruppe, scettico.
− Siamo sicuri che quello accetterà di buon grado la rottura del patto? Insomma, sappiamo che è un tipo difficile con cui contrattare.
− Difficile o meno, sono io il magista, io che decido.
Arthur batté il pugno sul tavolino, senza accorgersi che dava un filino nell’occhio tra le persone “reali”. Alfred soprattutto lo stava osservando confuso, mentre Toris lo ignorava garbatamente, ormai abituato a quelle piccole stranezze come l’abitudine al parlare da solo di Kirkland.
Arthur uscì dal suo mondo fantastico piuttosto bruscamente, quando una voce lo raggiunse al di fuori di esso.
− Mr Kirkland? Io vado, ci vediamo a casa! Ah, e grazie ancora per i biscotti!
Toris era ormai sull’uscio con un sacchetto in mano e lo stava salutando, cordiale come sempre. Provò una fitta al cuore: se la meritava tutta quella gentilezza? Toris era puro, troppo puro per stare con lui. Sentì che aveva fatto un terribile errore a coinvolgerlo in una faccenda così grande, ma una parte di lui ribatté che sarebbe andato tutto per il meglio. Sì, se il suo piano fosse andato a buon fine, neppure Toris avrebbe sofferto poi molto. Forse un pochino. Il minimo inevitabile. Bastava che non ci fossero imprevisti e sarebbe arrivato anche il lieto fine.
Giusto? Giusto.
Alfred nel frattempo era tornato al tavolo e si era seduto davanti ad Arthur nella stessa posa, mento appoggiato sulle braccia piegate. Lo stava fissando.
− Che succede, amico? – domandò, addentando uno snack al cocco.
− Nulla.
− Sei arrabbiato con me? Ce l’hai perché non ti ho fatto andare al pub? L’ho fatto per il tuo bene, sai?
− No.
− Magari perché ti ho dato quello schiaffetto per farti uscire dalla catalessi?
Arthur corrugò la fronte al ricordo del colpo infertogli. – No, anche se dovresti controllare quella forza bruta che ti ritrovi o cercare metodi meno violenti di fare le cose. – borbottò. Alfred scoppiò a ridere. La sua risata suonava meno fastidiosa del solito.
− Credi forse che avrei sprecato la mia bibita per buttartela in faccia? O che avrei utilizzato la tua preziosa birra? Almeno avessimo avuto dell’acqua! – esclamò. Arthur non poté che annuire in silenzio, con sua grande soddisfazione.
− Ѐ stata una giornata molto buona per noi, sei d’accordo? Non c’è nulla di cui preoccuparsi! Ѐ tuuuuutto sotto controllo! – Alfred tenne il conto con le dita, − Francis verrà a mangiare qui, non so quando ma lo farà e tu potrai, per modo di dire s’intende, fargli il culo. Toris non è mentalmente traumatizzato da Ivan, per cui credo che tutte le tue paure siano infondate, anzi, come vedi forse si è guadagnato le grazie di Natalia. Contento lui, contenti tutti, visto che il cellulare non mi sembrava in grandissime condizioni e non so a cosa gli possa servire il numero, ma è un problema suo. La sfida con l’italiano... beh, poteva finire peggio. E abbiamo guadagnato ben 5.45£! Non è fantastico? Su con la vita!
Arthur accennò a un sorriso. – I miei scones sono piaciuti. – disse.
Alfred non capiva cosa c’entrassero adesso gli scones con il suo discorso: − A quanto pare. Ma anche per le altre cose, è andato tutto be-
− Vuol dire che ce la posso fare, non è vero? Rispondimi, da bravo socio. Ce la posso fare a riconquistare la dignità di cuoco?
Alfred rilassò il volto in un’espressione fiduciosa. Gli mise una mano sulla spalla, incoraggiante. – Certo – lo rassicurò – te lo dico da socio e come amico.
Arthur storse la bocca in una smorfia e si tolse, delicato ma fermo, la mano di dosso.
−Amico? Pfff – lasciò andare un risolino amaro. − Lascia stare la parola “amico” – disse, − Tutti quelli che si definiscono così dopo fanno una brutta fine.
− Cosa intendi con brutta fine?
− Che non sono destinati a durare: gli amici accadono e come tutto svaniscono. Non tentare il destino, te ne prego. Ѐ più bastardo di quanto tu sia convinto non sia.
Alfred portò in fuori il labbro inferiore, mettendo il broncio. – Ma io considero tutti quanti miei amici! Perché escludere te, dal momento che dovremo lavorare fianco a fianco?
− Sai come dice il detto, Al? “Amici di tutti, amici di nessuno”. Includere tra i tuoi amici cani e porci è paragonabile all’essere da soli, perché non sai di chi fidarti. Scommetto che consideri tuo amico anche Braginski... a proposito! – Arthur si ricordò improvvisamente di una cosa. − Il numero della ragazzina è rimasto qua, Toris se l’è dimenticato.−
Indicò il foglietto accartocciato abbandonato su un angolo del tavolo. – Tu mi capisci se ho qualche dubbio riguardo a questa cosa? Conosci la sorella di Braginski, giusto? Ѐ normale che compia un’azione simile oppure...?
Alfred si accarezzò il mento, riflettendo sulle occasioni con il quale si era ritrovato suo malgrado da solo con Natalia.  – Normale... no, assolutamente. Ѐ una ragazza dal carattere sociopatico come il fratello, se non di più. Però può darsi che sia cambiata, no? Magari... magari si è finalmente innamorata.
− Al, non dire cazzate. Non ci credi minimamente neppure tu.
L’americano scosse la testa, desolato. – Cosa dovrei credere, allora?
− Io penso che questo in realtà sia il numero di Ivan, e che stia tendendo una trappola a Toris.
Alfred guardò Arthur dritto negli occhi, una lama di luce passò sopra gli occhiali. – Dici sul serio? Perché dovrebbe?
− Che ne so? Ѐ lui il pazzo, non io!
Alfred ridacchiò a questa affermazione. Arthur gli lanciò un’occhiata di fuoco, prima di continuare, serio: − Però mi è già capitato che Ivan mi chiamasse e non mi pare utilizzasse questo numero. Tu ne sai qualcosa?
− Anch’io sono perplesso a riguardo. Beh, in ogni caso c’è solo un modo per scoprirlo...
Le labbra del ragazzo si piegarono in un ghigno. Raccolse il foglietto e si avviò nel retro del balcone. Vicino alla cassa era posizionato un cordless nero.
− E ora, ladies and gentlemen, è ora che l’eroe entri in azione per smascherare il piano malvagio! Rullo di tamburi, prego! – annunciò a un pubblico immaginario e, prima che l’amico lo potesse fermare, aveva già digitato sulla tastiera il numero. Portò la cornetta all’orecchio, l’indice posato sulle labbra per intimare il silenzio. Dopo un’intensa attesa durata una ventina di secondi, in cui Alfred si tormentò il labbro inferiore coi denti fino a fargli stillare una goccia di sangue, qualcuno rispose. Il volto del ragazzo s’illuminò.
− Prooonto? – strillò. – Qui è l’Eagle, il fast food più stelle a strisce della city! Il mio nome è Alfred F. Jones, al vostro servizio! Con chi ho il piacere di parlare?
Restò per un paio di secondi zitto, annuendo con la testa mentre alzava il pollice rivolto al socio. − Lo so, è una domanda bizzarra, ma sa... questa voce, però, mi è familiare. Sei tu, Nat? Oh, lo sapevo! Cioè, no, non ne avevo idea... Come? Questo è il tuo numero di cellulare, dici? Ah, sì? Uhm...
Con un gesto della mano chiese aiuto ad Arthur, il quale si schiaffeggiò da solo la fronte. Che tipo, prendeva iniziative d’impulso e poi non riusciva a gestirle, da bravo incosciente! Ma Alfred fu veloce a recuperare il controllo.
– Un cliente mi ha dato questo recapito, ma forse ho sbagliato a scrivere una o due cifre... volevo informarmi quando veniva a prendersi la sua cena, ahahaha... come? Sono solo le cinque? Oh, si vede che lui aveva fame in anticipo! Ahahahaha!
Alfred sudava, gli occhiali gli si erano appannati e scivolati sul naso, la sua risata era più falsa di una moneta di cartone. In un modo o nell’altro, però, riusciva a trovare delle scuse pronte per sorvolare le dinamiche di quella telefonata sospetta: Arthur ne rimase impressionato. Forse sarebbe riuscito a scamparla.
− Beh, come stai, cara? E tuo fratello? No grazie, non passarmelo, era tanto per sapere. Oh, scusa, è appena entrato un cliente, mi dispiace ma devo riattaccare! Ci sentiamo!
Premette il pulsante della cornetta abbassata, cliccando più volte per essere assolutamente sicuro di aver riattaccato. Si accasciò sul bancone e lasciò andare un lungo respiro, finalmente rilassato.
− Allora? Era lei? – volle sapere Arthur. Alfred si tolse il sudore dalla fronte con la manica sinistra della maglia, mentre posava la cornetta sul bancone a faccia in giù.
− No, era Wonderwoman. Ma non mi hai sentito?
− Scemo, non avevi messo il vivavoce! Comunque... a quanto pare ci siamo dati pensiero per nulla.
Alfred raddrizzò la schiena e allungò le braccia verso il soffitto, emettendo un piccolo schiocco. – Esatto. Quindi ora possiamo metterci comodi e aspettare invano un cliente, come fa ormai ogni giorno il sottoscritto...
Sospirò. – Peccato, però, un filino ci speravo... – mormorò – almeno avrei avuto l’occasione di combattere il male... invece di star qui a far la polvere...
Appoggiò i gomiti al bancone, girovagando lo sguardo senza meta tra i logo attaccati in giro, senza emettere suono. Sospirò nuovamente, quindi non aggiunse altro.
Il silenzio, insolito ospite, piombò nel salone avvolgendoli.
(the quiet scares me cause it screams the truth)
Arthur strinse le dita attorno allo sgabellino della seggiola su cui era seduto, abbastanza forte da far delineare i tendini sui polsi. Le labbra gli si erano ridotte a una linea sottile, gli angoli rivolti verso il basso.
− Quando viene qui Francis? – domandò d’un tratto con voce gracchiante.
− Francis? – Alfred si scosse dal suo torpore e lo guardò confuso. L’ombra aveva ricominciato a scurire il volto di Arthur.
− Aveva detto prima della fine della settimana. Perché non è ancora qui? – sibilò.
− Ma la settimana non è finita. Siamo soltanto a giovedì.
Arthur si alzò bruscamente dal suo posto e cominciò a girovagare come un lupo in gabbia in giro tra i tavoli. Alfred l’osservò, sentendo un sottile senso di ansia crescere nel petto.
Che gli era preso tutto d’un tratto? Odiava quando l’altro si comportava così: era come se sentisse che qualcosa sarebbe potuto sfuggire al suo controllo da un momento all’altro. Gli eroi, invece, hanno potere su ogni situazione. Gli unici momenti in cui allentano la presa, BAM!, arriva il cattivo e se ne approfitta. Alfred non voleva che succedesse, voleva mantenere la giustizia. In quel caso, giustizia equivaleva a un Arthur sano di mente la cui rabbia repressa si fosse potuta incanalare in attività produttive, una specie di mostro al suo servizio. I mostri se vengono lasciati liberi combinano guai. Bisogna addomesticarli, renderli docili.
Per poi lanciarli all’attacco nel momento del bisogno.
− Calmati, Arthur, – disse dolcemente, come se stesse parlando a un cavallo imbizzarrito, − non stare in pena, perché tanta fretta? Pensa a cose belle. Pensa agli scones, pensa alla giornata di sole. Aspetta.
Arthur lo guardò insofferente, ma almeno rallentò il passo. Alfred gli chiese mentalmente perdono, sapeva anche lui cosa significasse la tortura dell’attesa. Continuò: − Calmati e rifletti. Il tempo a disposizione servirà a ottimizzare le nostre condizioni, è un vantaggio non da poco!
Arthur gli voltò le spalle; evidentemente di tempo ne aveva già avuto abbastanza per “ottimizzarsi”. Alfred sospirò e cambiò argomento: − Pensavo di cambiare un po’ il locale, renderlo un po’ più moderno, eh? Metterci una radio che diffonda musica pop, sistemare l’insegna... magari tinteggiare le pareti, per dare luce alla sala. Lo lascio scegliere a te il colore, così la smetti di scassare perché non ti piace come arredo. Pensi possa servire?
Nessuna risposta. La cosa stava cominciando a essere fastidiosa.
− Oh, ti ho detto di aspettare. Buona parte del divertimento sta nel progettare il piano! T’immagini la faccia di Francis quando assaggerà uno dei tuoi piatti e sarà costretto a complimentarsi con te? – bugie, bugie, sarebbe finito all’inferno per le cazzate che stava sparando, ma le raccontava a fin di bene, quindi era nel giusto. – Guarda, un attimo è già passato e un altro ancora, e ancora. Non è così difficile aspettare.
Sorrisone americano a 32 denti.
Niente, a dispetto dei suoi sforzi Arthur era sempre più ombroso. Che strazio. Alfred si portò le mani alla testa, lasciando andare un verso di sconforto: − Aaaaah, non sai fare altro che rimuginare su torti subiti Dio solo sa quanti secoli fa.
− Un anno fa.
− Per uno che vive nel presente, questa è già acqua passata.
Incrociò le braccia sul petto, sul volto il tipico broncio infantile. Non poteva capire, un ragazzino simile, cosa stesse provando in quel momento Arthur.
Aspettare sì, ma cos’avrebbe fatto una volta che Francis fosse tornato in quel luogo? Sarebbe rimasto congelato dalle troppe emozioni che avrebbero pervaso la sua mente, come era successo quel giorno? Sarebbe esploso? Avrebbe vanificato tutti quei mesi passati a progettare la sua vendetta? Tanto lo sapeva che, anche nei migliori dei casi, il loro rapporto non sarebbe tornato com’era prima dell’aggressione.
E se avesse domandato aiuto a quello, per ristabilire le cose?
Come una carezza, il sublime richiamo della bontà fece capolino nel suo cuore martoriato dai dubbi.
Gli tornò in mente Toris, gli scones che gli aveva preparato con cura. Il suo volto innocente. No, quello non poteva essere la soluzione, non se voleva mantenere al sicuro quel povero giovane colpevole solo di essersi fidato della persona sbagliata. Avrebbe riguadagnato la posizione con le sue sole forze. Ce la poteva fare.
Arthur si avviò verso la cucina. L’ombra si era dissolta in un tiepido sorriso.
− Che fai? – domandò Alfred, allarmato dal suo ennesimo improvviso cambio d’umore.
− Sono le cinque, vado a prepararmi un tè. – Arthur si girò verso di lui, ruotando il polso con un che di snob. − Sai, i gentleman bevono il tè ogni giorno alla stessa ora, dovresti farlo anche tu. Chissà che non impari un po’ di maniere.
L’altro scosse la testa. – No, grazie. Preferisco il caffè. – replicò con un sorrisetto di sfida.
Arthur storse la bocca; ti pareva che a un incivile simile non piacesse il caffè.
− Ѐ perché sei un moccioso senza esperienza. Quando sarai finalmente adulto, capirai il piacere di una buona tazza di tè.
− Nei tuoi sogni, vecchiaccio. Sparisci, prima che non mi prendano i cinque minuti e ti americanizzi contro la tua volontà.
Arthur sbuffò una risatina sarcastica e fece per dileguarsi in cucina, quando un rumore improvviso li fece voltare entrambi.
Il campanello aveva trillato, la porta dell’ingresso si era aperta. Due individui emersero dalla foschia dell’esterno, rivelando le loro fattezze sotto le lampadine al neon.
− Ma guarda chi c’è. – commentò Alfred, mentre la porta si chiudeva e la coppia fu dentro al locale. – Benvenuti! Posso fare qualcosa per voi?
Arthur non disse nulla, ma un brivido gli attraversò comunque la spina dorsale nel vedere i “clienti”.
Buonasera, signori – salutò Feliciano, facendo una piccola riverenza alla loro direzione. Peter al suo fianco rimase zitto. Feliciano gli diede una piccola spinta sulla spalla.
– Avanti – lo incitò – non fare il maleducato, saluta.
− Ciao, bastardi. – mugugnò il ragazzino. Feliciano raggelò, domandandosi nel fondo del suo cuore perché i bambini dovessero essere così privi di peli sulla lingua. O forse era lui che era incapace di tenerlo a bada.
− Perdonatelo – si scusò – Di solito è più educato, ma oggi è di malumore. Sarà il tempo...
Si voltò verso Peter, lanciandogli quella che doveva sembrare un’occhiata severa.
− Ti pare il caso di essere così insolente? – bisbigliò.
− Non ci posso fare niente, mi stanno antipatici!
− Cielo, mi sembra di essermi portato appresso Lovino...
Feliciano tornò a guardare i titolari. C’erano il cuoco che lo aveva sfidato e colui che si presumeva essere suo socio, lo fissavano come se avesse interrotto qualcosa con il suo arrivo improvviso.
− Buona sera, Mr Vargas – salutò con educato distacco Arthur.
− Salve, Mr Kirkland – rispose con un sorriso malfermo Feliciano. Tremava nel suo cappotto scuro, sebbene non facesse poi così freddo; la voce era sottile e fragile come un foglio di carta. Se ne rese conto anche lui, perché cercò di darsi un tono schiarendosi la gola.
Alfred si fece avanti, baldanzoso. – Ehi – fece – qual buon vento vi porta qui? Forse il delizioso profumo dei miei hamburger?
Con un rapido gesto spinse Feliciano e lo fece sedere su una seggiola, senza dargli il tempo di rispondere.
– La cucina al momento non è in funzione, ma se avete un attimo di pazienza vi posso fare un paio di panini al volo!
Alfred strizzò l’occhio e indicò le foto del menù attaccate al muro, affascinanti macrobombe di colesterolo: – Scegliete quello che preferite! Abbiamo inoltre una vasta scelta di bibite e nel caso disponiamo anche di snack di ogni tipo! Yahooo!
Feliciano tentò di protestare: − Beh, io sarei venuto per...
– ... variare, vero? Fa male mangiare solo pizza e pasta tutti i giorni! Ci vuole carne rossa, specialmente hamburger, Eagle naturalmente! Non si cresce grandi e forti come il sottoscritto con i soli carboidrati! Si guardi, è pelle e ossa!
Alfred indicò accusatorio la pancia più piatta dell’italiano, come l’ essere magro fosse stata una colpa. Arthur lo scansò con un gesto brusco, allontanandolo da Feliciano e dal suo sguardo disorientato.
− Che cazzo. Stai. Facendo. – ringhiò appena furono a distanza di sicurezza. Alfred alzò le spalle.
− Perché, c’è qualcosa che non va? – gli rispose candidamente.
− Devi proprio essere così te stesso a ogni ora del giorno? Non potresti prenderti una pausa e comportarti come un essere civile, almeno quando c’è un cliente?
− Senti, Mr Gentleman, non credo sia tu a poter venire a insegnare le buone maniere a me, dal momento che ogni due parole tiri fuori una frecciata velenosa! Almeno io cerco di mettere a suo agio la gente!
− Come no, si vede! Il ragazzino almeno ha avuto il buon senso di scappare dalle tue grinfie! – indicò Peter, che era andato dall’altra parte del salone a osservare i poster. Continuò bisbigliando, concitato: – Hai intenzione di farli fuggire a gambe levate? Che poi ho paura non siano venuti qui per mangiare un boccone...
Un piccolo colpo di tosse interruppe il battibecco sul nascere. I due litiganti si riavvicinarono a Feliciano, sorridenti come se non fosse successo nulla.
− Mi dispiace, Mr Jones. – disse Feliciano, ricambiando educatamente il sorriso, il capo chino, – Ma non sono qui per mangiare, tanto più non è neppure ora di cena e io di solito ceno presto. Sono qui perché devo parlare con Mr Kirkland, posso?
Arthur e Alfred rabbrividirono simultaneamente: la sensazione che la visita dell’italiano fosse foriera di cattive notizie era ormai certa. Alfred lanciò un’occhiataccia di sottecchi al socio, mentre l’altro si preparava mentalmente alla batosta.
− Certamente. Stavo andando di là a preparare del tè, se ha un po’ di pazienza potremmo parlare davanti a una tazza. – replicò Arthur, nascondendo l’ansia con il suo consueto tono pacato.
Feliciano annuì, sereno. Non sembrava in vena di attaccar briga, questo allentava la tensione, ma Alfred era lo stesso nervoso; aveva visto troppe scene del genere nei film, non se la beveva. Forse quella tranquillità era solo di facciata. E se magari nel momento in cui avessero abbassato la guardia avesse preteso, che so, i soldi per riparare il baracchino semidistrutto? Era possibile, se non certo. Dannazione, era tutta colpa di Arthur!
Cosa avrebbero potuto fare per guadagnare tempo? Di solito, a mali estremi corrispondono rimedi estremi, improvvisati e geniali. Beh, più o meno geniali.
Per fortuna c’era l’eroe a salvare la situazione! THE HERO!
− Mr Vargas, anch’io volevo farle una domanda, se non le dispiace. Riguarda il pranzo che ci ha servito oggi. – disse, assumendo improvvisamente uno sguardo serio. Feliciano inclinò la testa, sinceramente preoccupato: – O-oh, capisco. Sì? Qualcosa non andava?
− Ma è vero che ha utilizzato il co-protagonista del film “Alla ricerca di Dory” come baccalà mantecato?
− EEEEEHHH?!
Feliciano sbarrò gli occhi a quella domanda assurda, mentre il suono della mano di Arthur che sbatteva contro la sua stessa faccia risuonò per il salone. Alfred si avvicinò nuovamente a Feliciano, puntandogli un indice contro con fare accusatorio.
− Lo ammetta: lei ha servito un pesce star del cinema per i suoi piatti! Non c’è altra spiegazione per cui potessero costare così tanto!
− Ma... ma io...
− Risponda! E non è forse vero che ha sottoposto delle pannocchie a una selezione accurata per fare... come si chiama... la polenta? Eh? Secondo quali requisiti? La bellezza della pannocchia? Ma lo sa che migliaia di pannocchie vanno in terapia ogni anno perché hanno complessi d’inferiorità? E si riducono a fare pop-corn, invece ad ambire a qualcosa di più elevato? Non si sente in colpa per questo?
Mentre Arthur stava per esplodere dall’imbarazzo, mormorando disperato “Ma cosa vai berciando, razza d’imbecille? Non avrai mica creduto alla mia stupida pantomima che ti ho fatto a tavola vero? Ti stavo prendendo in giro!”, Feliciano sembrò invece trovare un filo logico in quel discorso assolutamente nonsense.
Infatti si offese.
− Come si permette! – strillò a sua volta – Ѐ ovvio che io scelga prodotti di qualità per i miei piatti, è il mio dovere! Costi quel che costi! Però c’è qualcosa che non quadra. Il baccalà co-protagonista de “Alla ricerca di Dory”? Ma siamo fuori? –
“Ecco, l’ha capito persino lui quanto sia insensata questa faccenda” pensò Arthur, guardandoli con un occhio solo scostando appena la mano dal viso.
− Il film si chiama “Alla ricerca di Nemo”! Non Dory! Dory è la pesciolina che aiuta a cercare Nemo! – puntualizzò Feliciano, serissimo.
La mano ricoprì nuovamente il volto dell’inglese, il quale si domandò inoltre quale fosse la maniera più veloce per togliersi da quel mondo di pazzi.
− No, amico, quello è il primo film! Adesso c’è il sequel, “Alla ricerca di Dory” appunto. – lo corresse Alfred. Feliciano inarcò le sopracciglia e spalancò la bocca in una forma ad “O”.
− Ma saranno passati dieci anni dal primo cartone... dopo tutto questo tempo?
− Sempre. – rispose in automatico Arthur, arrossendo come un semaforo quando i due si voltarono verso di lui.
− Ehi, non badate a me! Tornate al vostro film Pixar. – li rimbrottò aspramente. Feliciano allora si girò verso Peter, che stava ascoltando in silenzio la discussione.
– Tu lo sapevi? – gli domandò.
− Sì, l’ho sentito su internet, ma è una cosa talmente... infantile. – rispose il ragazzino, grattandosi imbarazzato un orecchio – E poi, per la precisione, il co-protagonista non è un merluzzo, quindi è impossibile che tu lo abbia servito come baccalà.
− Che sollievo! Allora non c’è possibilità che lo abbia cucinato. Mi sarei sentito in colpa al sapere di aver messo in pentola un personaggio dei cartoni animati.
− A dire la verità, è un polpo.
− Oh. Come non detto, allora l’ho sicuramente cucinato. Che dici, andiamo a vedercelo al cinema quando esce? O magari vai a vedertelo con i tuoi, non so se torno in tempo dall’Italia...
Approfittando della sua distrazione, Alfred strizzò l’occhio ad Arthur, sorridendo soddisfatto. Il piano di sviare l’italiano dal suo “discorsetto” stava andando alla grande. Arthur si avvicinò al socio e gli domandò sottovoce: − Al, perché diamine hai messo su tutta questa scenetta assurda?
L’altro rise, rispondendogli: − Dude, rilassati! Sparare la prima cazzata che ti viene in mente è sempre efficace per distrarre la gente, sia a scuola sia nella vita reale! Non vedi che adesso non ha più in mente di parlare con te? Ci siamo risparmiati la grana dell’incidente di oggi! Sicuramente se n’è pure dimentica-
Ve, l’incidente di oggi? – Feliciano si girò all’improvviso, interrompendo le sue chiacchiere con Peter. – Intendete l’incendio durante la sfida culinaria?
Maledizione, li aveva sentiti.
− Tranquilli, ho già spiegato a Mr Kirkland che paga tutto l’assicurazione. Non c’è problema! Ve! Eravate così preoccupati per questo?
Il suo tono era cordiale e gentile. I due titolari si sentirono incredibilmente stupidi.
− Ecco... allora, se non era questo, di cosa voleva parlare con Ar... Mr Kirkland? – chiese Alfred. Feliciano sorrise ma la voce si fece ferma: − Mi dispiace tanto, ma vorrei che questa cosa rimanesse tra noi due. Ѐ una faccenda privata, mi spiego?
Una faccenda privata. Alfred sentì lo stomaco chiudersi per l’offesa di non essere coinvolto, essendo lui l’attuale proprietario del locale aveva la responsabilità di tutto ciò che accadeva lì dentro. Arthur, invece, accettò di buon grado la cosa.
− Alfred? Dai qualcosa da mettere sotto ai denti al ragazzino e tienilo a bada, mentre io e Mr Vargas andiamo a parlare in cucina. −. Si rivolse a Feliciano – Non le dispiace parlare di là, vero? Se non è di disturbo preparo anche il tè.
− Nessun problema.
I due si avviarono verso la cucina. Alfred dovette arrendersi all’evidenza: non lo volevano tra i piedi.
− Yo, Mr-non ricordo come ti chiami, ce l’hai qualche dolcetto per me?
Peter lo stava chiamando, indicando con desiderio lo scaffale degli snack. Alfred lo guardò rassegnato. Doveva fare da tata a un moccioso. Raggiunse la scorta strascicando i piedi, mugugnando imprecazioni verso Arthur e l’ingratitudine verso gli eroi in generale, e selezionò qualcosa tra le marche disponibili. – Sì. Ti vanno bene le barrette di cioccolata? Comunque puoi chiamarmi Mr Jones.
− Alla grande! Ehi, Mr Jones, tu hai idea di cosa vogliano discutere quei due da soli?
Alfred sospirò, stizzito: − Per niente, però mi basta che, quando torna qua il tuo baby-sitter, paghi quello che mangi. Un cliente è sempre un cliente.
 
Arthur tenne aperta la porta per far entrare Feliciano, poi la richiuse con un colpo secco che riecheggiò nell’ambiente candido della cucina. Feliciano si guardò tutt’intorno, studiando le attrezzature del fast-food, mentre l’altro si dirigeva verso una credenza contenente le stoviglie di tutti i giorni di Alfred; quella mattina aveva aggiunto un bollitore e una teiera all’insieme, per evenienze come quella, ignorando le proteste dell’americano. Era la sua cucina, prima di tutto, nonostante ora fosse un altro a utilizzarla. Aveva nascosto anche una serie di bustine di tè, messe in modo che l’altro non potesse scoprirle, pena un rifacimento del “Boston Tea Party” versione contemporanea. Dio solo sapeva cosa potesse combinare quel moccioso in nome dei suoi principi di libertà e indipendenza.
− Simpatico quel tipo – commentò Feliciano. – Leggermente fuori di testa, ma simpatico.
− Alfred? Oh, sì, concordo.
Il ragazzo sospirò, appoggiandosi con un fianco al bancone. L’idea che tra un paio d’ore avrebbe preso l’aereo per tornarsene in patria, lontano dal suolo inglese, gli riempì lo stomaco di un calore che sciolse la paura.
Doveva farlo prima di andarsene, altrimenti sarebbe stato troppo tardi.
Feliciano aveva ricominciato a tremare, gli occhi erano divenuti lucidi. Fissò Arthur per qualche secondo senza dir nulla, prima di prendere una grossa boccata d’aria e dire, la voce flebile come quella di un uccellino: – Mai fuori di testa come te, però.
Arthur si bloccò, il bollitore pieno d’acqua appena posizionato sul fornello acceso.
− Scusi, Mr Vargas? Può ripetere?
L’italiano lasciò andare una risatina stridula. Ormai il dado era tratto, non poteva tirarsi indietro. – Chiamami Feliciano, ti prego. Sono Feliciano quando non lavoro −. Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ben attento a non toccare il ricciolo ribelle che svettava sulla sinistra del capo. Sorrideva.
Long time no see. Da quanto tempo che non ti si vedeva in giro. – rise di nuovo – Non ti ricordi di me, Arthur?
 
Peter stava mangiucchiando soddisfatto la sua terza barretta di Twix, alternandosi di tanto in tanto con un sorso di soda. Alfred l’osservava affascinato. – Non hai paura che ti vengano i brufoli? O ingrassare? – gli chiese. Peter scrollò la testolina, mandando giù un boccone appicicoso.
− Naaah. E poi c’è tempo per preoccuparsi di simili cose – e tornò a sgranocchiare il miscuglio ipercalorico di cioccolato e caramello. Alfred sospirò.
− Com’è che sei finito a lavorare per l’italiano? – domandò, tanto per fare conversazione.
− Mio zio conosce tipi che vendono pesce di buona qualità, così fa da tramite tra Feli e suo fratello e loro. Quando i miei hanno cercato qualcuno che mi tenesse mentre erano a lavoro, Feliciano si è offerto di tenermi con lui. In cambio gli fanno gli sconti all’Ikea. Mio padre lavora là.
− Quindi tu lo aiuti solo per un accordo coi tuoi.
− Diciamo di sì. Però sono tanto felice! Lui mi chiama “el me bòcia”, credo sia il suo modo di dire “il mio aiutante”. Mi rende orgoglioso perché anch’io lavoro come un adulto! Lovino invece mi chiama in modo diverso, “o’ scugnizzo” perché, pur essendo fratelli, loro due vengono da parti diverse dell’Italia, con diversi dialetti.
− Ah sì?
Gli occhi azzurri del ragazzino s’illuminarono, prendendolo come un incentivo a mostrare le sue abilità: − Mi hanno pure insegnato qualche frase in italiano, vuoi sentire?
− E va bene, spara...
Peter cominciò a sciorinare qualche breve frase con accento distorto e un gran movimento di mani, come aveva sempre visto fare ai fratelli Vargas: − Conosco “Buongiorno signore” o “signora”, poi “Arrivederci a presto” e una frase che gli sento spesso dire è “Signorina, lei è davvero bella” quando parlano con le ragazze, ma solo con quelle madrelingua inglese, per fare colpo. Mi dispiace perché da domani loro tornano in Italia per un periodo di ferie. Partono stasera, anzi, Lovino è già partito e Feli ha portato le sue valigie al deposito bagagli...
Alfred lo ascoltava tenendo la testa appoggiata sulla mano, il gomito puntato sul bancone.
Chissà di cosa stavano parlando gli altri due in cucina. Di ciò che accadeva là dentro, non si sentiva assolutamente niente.
 
Arthur guardò negli occhi Feliciano, incrociando le braccia con fare perentorio.
− Si può sapere di cosa va blaterando? – domandò, senza riuscire a coprire del tutto un senso di panico nascente.
− Non ti ricordi di me? – il sorriso non stava lasciando le labbra di Feliciano, ma era un sorriso ben diverso da quello che aveva esibito poco fa in compagnia di Alfred e Peter, o durante il suo lavoro qualche ora prima. Era un sorriso che non aveva mai trovato posto sul suo volto, a dire la verità. – Beh, posso capirlo, un idiota come il sottoscritto è facile da dimenticare. – lasciò andare un soffio tremulo. – Un poveraccio che non sa difendersi. Che si arrende non appena un suo superiore alza la voce... non che sia cambiato di molto durante questo tempo.
La voce gli s’incrinò. Feliciano dovette prendere un altro profondo respiro prima di ripristinare la calma. Dagli occhi era scivolata una piccola lacrima, che asciugò in fretta prima di continuare con voce ferma.
− Ero solo l’ennesimo straniero alla ricerca di un lavoro che avevi preso per un po’ come aiuto-cuoco nel tuo ristorante. Ma io non mi sono dimenticato il sapore dei tuoi piatti. E come avrei potuto? La tua faccia mi è sembrata familiare fin dall’inizio, ma non ho collegato subito. Ѐ stato quando ho assaggiato un rimasuglio rimasto integro del cibo che andavi cucinando che le cose sono diventate chiare come la neve.
Passò una mano sull’acciaio del bancone, gli occhi si velarono di nostalgia: − Me ne stavo qui, mi ricordo, a sognare il giorno in cui avrei avuto un ristorante tutto mio, mentre tu cucinavi le tue schifezze. Potrei dire che tu mi sia stato d’ispirazione. Della serie, chi ha fame non ha pane, chi ha pane non ha denti, giusto Arthur? E a me o allo sciagurato di turno toccava correggere come poteva i tuoi intrugli. Non che si potessero fare miracoli, ma gli inglesi hanno il senso del gusto estirpato alla nascita, perciò a loro andava bene anche così.
Tornò a guardare negli occhi Arthur, rimasto immobile come una statua di marmo.
– Sbaglio, forse? Ci sono sempre stati dei clienti anche dopo che mi sono finalmente licenziato, nel bene o nel male qualcuno c’era... – il suo sorriso scomparve, la voce divenne greve come non ci si sarebbe mai aspettato da lui. – ...fino a quel giorno maledetto. Dopo quel giorno, i clienti sono diminuiti fino a scomparire del tutto, sì?
Il suo sguardo aveva una luce distorta. Arthur non riusciva a distogliersene.
− Sai di quale giorno sto parlando, vero? Era pure scritto sul giornale, nero su bianco! Di quando hai tentato di uccidere il Fratellone Francis! – quello di Feliciano fu quasi un urlo.
− Non avevo intenzione di ucciderlo. – mormorò Arthur – Ѐ stato... un incidente.
− Un incidente? UN INCIDENTE? Per te tutto è un incidente! – stavolta Feliciano stava effettivamente urlando, una furia estranea al suo essere lo pervadeva completamente.
Sì, era stato un incidente, nonostante la stampa, i testimoni, la polizia affermassero il contrario. Arthur se lo ricordava come se fosse accaduto il giorno prima.
L’annuncio che il celebre critico culinario, ma soprattutto rivale sin dall’infanzia, Francis Bonnefoy sarebbe venuto a recensire il ristorante. L’ansia e l’eccitazione che gli avevano riscaldato il sangue nelle vene e gli avevano tolto il sonno i giorni antecedenti. L’immenso impegno che ci aveva messo nel preparare ogni singolo piatto, tutto con le sue mani. La faccia felice, fiera di quando glieli aveva portati personalmente al tavolo, e lì aveva aspettato che li assaggiasse, che li giudicasse.
Che ammettesse che, una volta tanto, anche lui poteva superarlo.
Ricordava che Francis aveva preso un boccone da ogni portata, facendo una smorfia a ogni imboccata ma senza commentare. Alla fine aveva dichiarato la sua sentenza ad alta voce, così che tutti, anche negli altri tavoli, lo sentissero chiaramente: − Non credo di aver mai mangiato qualcosa di così disgustoso in vita mia. Cos’è, una candid camera? Uno scherzo di cattivo gusto? Seriamente, ma cosa pensavi quando mi hai messo davanti questa poltiglia oscena? Dovevi essere totalmente fuori di testa se pensavi che potesse piacermi! −. Mentre lo scherniva senza pietà, mentre il resto dei commensali assisteva alla scena come a teatro, il sorriso di Arthur si era spento pian piano fino a scomparire.
− Ma io ho fatto tutto questo per te. Davvero non è buono? – aveva mormorato con un filo di voce. Francis lo aveva fissato come se avesse appena dichiarato che la Terra è piatta.
− Sei sordo? – disse, − O semplicemente stupido? Arthur, ti conosco da anni ormai, ma questo è il tuo flop peggiore. Fammi un favore, anzi fallo al mondo, butta tutto nell’immondizia che solo la vista mi fa venire la nausea. Non sei portato per la cucina, arrenditi.
− Co... come osi? – aveva strillato Arthur, − Sei solo invidioso e non vuoi ammetterlo! TI ODIO!
Francis per tutta risposta era scoppiato a ridere: − Io? Invidioso di te? Ma fammi il piacere! Quando mai lo sono stato? Ahahahahahahaha!
E Arthur aveva visto la bocca del francese allargarsi in quella risata cattiva, la stessa bocca che pochi secondi prima aveva assaporato gli sforzi di ore di lavoro, di progetti, di speranze, e li aveva denigrati senza pensarci due volte, distruggendolo. Sotto a quella bocca rosa spalancata ci stava il mento e la barba ben curata. Sotto ancora c’era il collo, lungo e affusolato, da cigno.
Con un gesto che sembrò girato al rallentatore, Arthur aveva avvolto entrambe le mani attorno quel collo magnifico. Non era la prima volta che lo faceva, non era la prima volta che litigavano in quel modo. Di solito si limitava a scuoterlo, seppure violentemente.
Stavolta, però, nella mente di Arthur scattò qualcosa di diverso dal solito.
Le dita si posizionarono attorno alla laringe ancora tremante in preda della propria ilarità e cominciarono a stringere.
All’inizio nessuno dei due si rese conto della situazione, tanto era familiare quel gesto di norma innocuo, e Arthur rafforzò la sua presa come una morsa e Francis continuò a emettere risolino finché non gli restò più ossigeno da esalare. Fu allora che cadde nel panico.
Emise un gorgoglio assurdo
(come una rana)
mentre le sue guance da rosse viravano sempre più verso il blu, e quel gorgoglio non servì che ad accentuare la forza con cui le mani si stringevano sempre più.
(Se continuo così  non riuscirai più a parlare e starai zitto e non dirai quelle brutte cose, ma perché dovevi disprezzare così il mio lavoro, rana bastarda questo è stato il tuo ultimo pasto, ORA MUORI)
Arthur continuava a stringere, senza rendersi conto delle sue azioni o del mondo intorno, senza sentire il terrore che serpeggiava tra i commensali davanti alla scena, chi chiamava aiuto, chi non riusciva a capire se fosse una sceneggiata, troppo sconvolto per credere fosse tutto vero. Poi, con le ultime tracce di ossigeno rimaste nel cervello, Francis aveva alzato con una fatica immane le proprie mani e a posarle sulle braccia tese di Arthur, anche se era certo che non sarebbe mai riuscito a togliersele di dosso con le sole forze rimaste.
Bastò quel tocco. Arthur era tornato alla realtà come un elastico portato al sua massima estensione ritorna alla posizione iniziale. Staccò immediatamente le mani dal collo, lasciando sulla pelle candida dei segni rossi destinati a vedersi per ancora del tempo.
Non era ancora pienamente conscio di cosa avesse appena fatto. Francis, al contrario, lo era eccome. Non appena era riuscito a ingurgitare sufficiente ossigeno per riprendersi, si era messo a urlare. Francis non urlava mai. Francis aveva una voce calda, lenta e armoniosa, una voce adatta a sedurre donne e uomini, ma stavolta stava urlando.
− Sei impazzito?! Ti rendi conto che MI HAI QUASI UCCISO! – gridava con un’ira mai sperimentata prima e soprattutto sorpresa. Perché Francis era sorpreso. Malgrado la loro inimicizia, non si era mai aspettato che l’altro potesse giungere a tanto. Ora che lo aveva scoperto, si sentiva tradito.
Ma l’avrebbe pagata. Oh, se l’avrebbe pagata.
I ricordi di Arthur dopo quel momento erano a sprazzi. Ricordava i poliziotti che lo avevano portato in caserma, tra cui quello che lo aveva ammanettato: alto, biondo, ben messo a muscoli e due occhi azzurri freddi come ghiaccio. Mai come gli occhi di Francis dopo quello scontro, comunque.
Ricordava il suo primo incontro con quello.
Ricordava anche il processo: Francis, ovviamente gli aveva fatto causa. Ricordava il giudice. Sorriso dolce, voce soffice, sguardo impenetrabile che aveva incontrato il suo, mentre venivano dichiarate le accuse. Ivan Braginski.
Il russo aveva liquidato il processo in una maniera straordinariamente sbrigativa per il caso, sfruttando lo choc delle due parti non ancora ben superato per proporre una soluzione alternativa al carcere.
Arthur se ne sarebbe dovuto andare da Londra per almeno un anno.
La pena non aveva neppure effetto immediato, ma Braginski sapeva non ce ne fosse bisogno. Le voci giravano. In poco tempo i clienti sparirono dal ristorante e il rancore, durante quei giorni eterni, sempre peggiori, crebbe fino a diventare insopportabile. Alla fine Arthur dovette chiudere il ristorante e venderlo. Poi sparì, per un anno.
Ma ora era tornato e chiedeva vendetta.
Feliciano l’osservava con gli occhi scuri in fiamme. – Perché sei qui? – domandò con un ringhio. Non aspettò neppure la risposta. – Io lo so! Vuoi finire il tuo lavoro! Vuoi... vuoi  ammazzare Fratellone Francis perché ti ha fatto chiudere! Ammettilo! – strillò, l’emozione storpiava la sua voce rendendola acuta come quella di un adolescente. In un altro momento si sarebbe messo probabilmente messo a piangere per la tensione insopportabile, ma non ora. Aveva bisogno di tutto il suo orgoglio per stare in piedi.
Arthur non disse una parola, limitandosi a guardarlo. Il ragazzino urlante assomigliava terribilmente a qualcuno di ben preciso, che però rifiutava di apparire alla mente conscia.
“Se me l’avessi detta ieri, una cosa simile” pensò “ti avrei dato ragione. Oggi, però, che mi sento tanto felice, perché dovete ricordarmi tutti il mio progetto iniziale? Non sono più sicuro di volerlo attuare. Vi dà tanto fastidio questa realtà, volete davvero che lo faccia fuori?”
− Parli a vanvera – disse, tono piatto. – Sei ubriaco?
− No. Ho solo bevuto un paio di bicchieri di vino in più del solito per trovare il coraggio di venire a parlare con te, ma sono perfettamente lucido. Senti? Non biascico neanche. Neppure da sobrio sono così spedito.
L’animo dell’italiano, allora, era infiammato dall’alcol, seppure poco. Ora si spiegavano alcune cose.
Incapace di rimanere immobile, Arthur si allontanò dal fornello con il bollitore, dando le spalle al suo interlocutore e avvicinandosi alla sua credenza speciale con tutti i suoi arnesi. Dentro di essa c’era anche il suo set di coltelli.
− Quando hai voluto sfidarmi e avere Francis come giudice... non so in che modo, ma doveva c’entrare con il tuo piano. Eh? Sbaglio forse?
− Cosa vuoi? – domandò Arthur, voltandosi verso Feliciano. Il ragazzo riacquistò il sorriso aspro. Era il sorriso di chi sa che, una volta tanto nella vita, ha il coltello dalla parte del manico e non è abituato a questo potere. La stupida arroganza di chi vuole stare dalla parte del bene ma non ha idea da che parte iniziare.
− Voglio che... – Feliciano deglutì, – voglio che tu sparisca e non ti faccia più rivedere quaggiù. Non voglio che Francis corra di nuovo il rischio di finire ucciso.
− Tutto qua?
Le guance di Feliciano s’imporporarono: − Sì! Tutto qua! Non è abbastanza? – urlò.
− E se non obbedisco, che fai?
Il sorriso del ragazzo si trasformò in un ghigno grottesco. Davvero, quell’espressione era così estranea al suo volto da trasformarlo in una caricatura mostruosa di sé stesso.
− Se non lo fai... – la sua voce aveva assunto un volume più contenuto ma il tono era isterico, stridente come un’unghia sul vetro,  − ... ecco, se non lo fai vado a dirlo al mio amico, l’agente Beilschmidt! Ricordi, quello che ti ha portato via in manette! Stavolta, però, se ti arrestano non credere di cavartela così! Ti sbatteranno in prigione e butteranno la chiave!
Arthur avanzò verso Feliciano, portandosi vicino ai fornelli, il cuore gli batteva nel petto tanto forte da fare male. Lo guardò nuovamente negli occhi, trovando in essi ciò che la bocca non aveva detto, discorsi rimasti muti nel cuore perché non trovavano le parole adatte.
In quelle iridi castane vi trovò la paura. Paura di perdere un amico per mano di un essere spregevole riapparso dalle tenebre dove era precipitato. Vi trovò anche fierezza e orgoglio. Feliciano stava sfidando i propri limiti, le raccomandazioni inferte da chi gli stava accanto e gli diceva “Non rischiare, non sei abbastanza forte per resistere. Lascia perdere”. Ma in quel momento Feliciano non avrebbe lasciato perdere. Avrebbe combattuto fino in fondo e avrebbe sconfitto il mostro.
Era Arthur il mostro? Quando era avvenuta la metamorfosi?
Ma Feliciano, dopo tutto, non era che un povero sciocco.
− Che cos’hai da dire ora, mio caro Mr Kirkland? – domandò con tono di scherno, l’alcol ingerito che cancellava ogni prudenza. Il bollitore iniziò a fischiare.
Ora Arthur poté riconoscere in quell’espressione, in quell’atteggiamento, persino nella voce la stessa di Francis quel giorno. Come se in Feliciano e Francis corresse lo stesso sangue, come se fossero figli di uno stesso padre. No, per essere più precisi come se fossero nipoti di uno stesso avo, troppe le differenze che ancora incorrevano tra i due nonostante tutto.
Non disse nulla.
Feliciano resosi finalmente conto di avere in mano il potere più totale, in preda alla frenesia non poté trattenersi dall’esplodere in una risata beffarda.
Fu allora che accadde.
Qualcosa scattò nella mente di Arthur e fu nuovamente il buio della ragione.
(Tic-toc, tempo scaduto, lo stato di grazia garantito dai biscotti-amuleto non c’è più)
Afferrò il manico del bollitore alla sua destra, un movimento rapido quanto inaspettato, e colpì con tutta la sua forza il volto di Feliciano. Questi, colto di sorpresa, indietreggiò quasi inciampando sui propri piedi. Allora Arthur vibrò il colpo di nuovo, ancora, e ancora e ancora, non fermandosi quando il ragazzo cadde a terra, picchiando ripetutamente alla testa, ciecamente, guidato solo dall’istinto, da una violenza brutale.
 
Fuori dalla cucina si sentì il tonfo del corpo che cadeva.
Peter alzò lo sguardo verso la porta, interrogativo. Alfred, capendo che quel rumore non aveva nulla di buono in sé, batté una mano sul bancone per dissimularne il suono. – Ehm! Scusa se faccio rumore – si giustificò – Sai, volevo verificare la robustezza del bancone, ahahahaha! Nel caso, hai detto che tuo padre lavora all’Ikea?
 
E nel frattempo Arthur continuava a riversarsi su Feliciano,
(colpisci, colpisci, colpisci)
(fallo tacere una volta per tutte)
ignorando i suoi lamenti, ignorando i suoi tentativi di coprirsi la testa, ignorando il sangue che a un certo punto cominciò ad uscire
(sangue, da dove viene? Chi è che lo sta perdendo?)
perché fermarsi prima del necessario, secondo un folle senso che in quel momento parve dannatamente logico, sarebbe significato ammettere che Arthur fosse il mostro, il cattivo, e invece non era lui. Cattivo lo era Ivan che aveva senz’ombra di dubbio fatto del male a Toris, lo era Francis che aveva denigrato i suoi sforzi culinari, lo era Feliciano che non voleva il suo riscatto.
Con il cuore sul punto di scoppiare, Arthur a un certo punto si bloccò, il braccio ancora in alto pronto a vibrare l’ennesima mazzata. Sotto di lui, a terra, giaceva immobile il corpo di Feliciano.
Arthur abbassò lentamente il braccio e lasciò cadere a terra il bollitore, che sparse in giro l’acqua rimanente. I suoi occhi avevano una patina opaca, nessuna espressione. La sua mente era sgombra. Silenzio totale.
− Feliciano? – domandò al corpo muto. – Ehi, Feli?
S’inchinò a terra su un ginocchio. Feliciano non rispondeva ai suoi richiami. Arthur allungò una mano e accarezzò il viso del ragazzo, come se volesse risvegliarlo da un sonnellino. I capelli castani erano impiastrati di sangue, così come la sua fronte. Le palpebre erano chiuse.
Arthur non riusciva a capire. Perché non apriva gli occhi?
− Smettila di fare il pigrone, non è ora di dormire – lo rimproverò bonariamente, come avrebbe fatto con un bambino capriccioso. La sua mente era ancora avvolta in una nube rossa, i pensieri razionali non riuscivano a valicarla.
Restò a guardare il corpo supino ancora per un tempo incalcolabile, prima alzare lo sguardo al soffitto.
Alla cucina vuota dedicò il suo sussurro: − Mio Dio, cos’ho fatto?

 
*  *  *
 
Ehilà. Tutto a posto? Quaggiù si fa quel che si può.
GRAZIE a chi recensisce, chi legge, chi dà consigli, vi auguro tutto il bene possibile.
Spero di aggiornare quanto prima, ma questo è periodo di verifiche, chi vivrà vedrà.
A presto.
L.B. Shadow
 
Aggiornamento post revisione: mi manca da revisionare solo un capitolo, poi farò in modo di aggiornare con più regolarità. Un bacione.
L.B. Shadow
   
 
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