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Autore: My Pride    03/06/2009    10 recensioni
«C'è qualcosa. Qualcosa d'oscuro, in me, che non comprendo. Ma quando ci riuscirò, forse capirò anche perché mi hanno risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che li hanno incontrati tempo addietro»
«Roy... ti supplico» riprovò Hughes, sentendo le lacrime minacciare di rigargli il volto.
«Non supplicarmi, Maes», disse sorridendo. «Non sono Dio»
[ Seguito de «Il bacio del vampiro» ]
[ INCOMPIUTA - Un giorno verrà aggiornata (forse) ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
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Il figlio delle Tenebre_Act 5
ATTO QUINTO. STORIE INFONDATE O POCO PLAUSIBILI


Nei pressi di Sheerness, 1612

    Se ne stava seduto dietro la scrivania nello studio del padre, a leggere tomi su tomi di storia mentre sbadigliava e si grattava distratto la testa, cercando di concentrarsi inutilmente sui suoi studi.
    Sbuffando, si scostò
i capelli dal viso a causa del caldo e voltò distrattamente pagina prima di lanciare uno sguardo fuori dalla grande finestra, la quale affacciava sulla foresta che circondava la loro dimora. Avrebbe volentieri passato il suo tempo lì fuori, se solo non avesse dovuto studiare. Gettò uno sguardo intorno per controllare che il suo maestro non fosse nei paraggi, guardando ancora una volta fuori e trovandolo in uno dei giardini sottostanti in compagnia di una delle cameriere, a civettare con lei come un ragazzino.
    Inarcò un sopracciglio biondo, scettico. Lui era lì al chiuso mentre quel vecchietto se la spassava. Sbuffò ancora, cercando di riconcentrarsi sulla lettura di quel tomo che aveva catalogato come gigantesco, aggrottando la fronte nel tentativo di capire ciò che leggeva. Ci rinunciò ben presto, però. Chiuse il libro, stiracchiandosi ben benino sulla sedia.
    «Che studente modello», lo rimbeccò divertit
a una voce, facendolo sussultare. Si voltò di scatto verso colui che era appena entrato, arrossendo di botto e afferrando stupidamente la camicia che aveva gettato sulla sedia libera per sistemarsela sulle spalle.
    «Che ci fai qui?» chiese, infilandosi una manica della camicia.
    Il suo inaspettato ospite rise, facendo qualche passo verso di lui per sedersi a cavalcioni sull'altra sedia, con le braccia poggiate sullo schienale.
«Avevo voglia di vederti», gli rivelò, sorridendo per il suo viso arrossato. «Ma, a quanto vedo, probabilmente ho fatto male a venire».
    «Non è questo», mormorò concitato, lanciando una rapida occhiata verso la porta. «E' di mio padre che mi preoccupo».
    L'altro ridacchiò, agitando distratto una mano come se la cosa non gli importasse affatto.
«Tuo padre per un po' sarà impegnato a parlare d'affari con mio padre», disse divertito, vedendolo spalancare la bocca per lo stupore prima che corrugasse le sopracciglia, offeso.
    «Non sei solo, allora», ribatté imbronciato, provocando all'altro un ennesimo scoppio d'ilarità.
    «Avrei voluto esserlo, però», gli sussurrò con una punta di seduzione, sporgendosi un po' verso di lui per fondere i loro respiri, senza un vero contatto. Ritrasse svelto il viso, godendo del rossore che aveva imporporato le guance del biondo. L'attenzione gli cadde poi sui volumi di storia e inarcò una delle sopracciglia scure, divertito. «Non pensi sia ora di spassartela un po'?» chiese ironico, gettandogli uno sguardo.
    Ricevette un'occhiataccia, vedendo poi il ragazzo biondo alzarsi e prendere i tomi sotto braccio per dirigersi verso lo scaffale dal quale li aveva presi, rimettendoli a posto prima di voltarsi a guardarlo, con le braccia dietro alla schiena in una comica imitazione di un uomo d'affari. Prima che potesse dirgli qualcosa, però, nello studio entrò anche un altro ragazzino biondo, che gettò uno sguardo ad entrambi, incuriosito. 
    «Ti servono ancora i libri di storia?» gli chiese, avvicinandosi allo scaffale.
    Scuotendo la testa, il biondo li riprese per porgerglieli, con un vago sorriso ad illuminargli il volto; si avvicinò poi alla scrivania
per tirare per un braccio l'altro ragazzo, trascinandolo verso la soglia e voltandosi a guardare il fratello minore. «Se ci cercano siamo a cavalcare, okay?» gli disse divertito e, senza guardarlo o parlare, l'altro annuì, muovendo al contempo la mano libera.
    Lasciandosi sfuggire una piccola risata, il fratello più grande portò con sé il ragazzo fino alle scuderie, trovando nel frattempo strano il fatto che non avesse aperto bocca. Si fermò a pochi metri da esse, mollandolo e voltandosi verso di lui imbronciato.
«Che cos'hai?» gli chiese, facendo esitante qualche passo avanti per poggiargli le mani sulle spalle.
    L'altro scosse la testa come se nulla fosse.
«Niente, mi chiedevo solo se tuo fratello sapesse di noi», rispose a mezza voce, vedendo il biondo sussultare dalla sorpresa. Notò che guardava a terra, adesso, e si tormentava i capelli. «Non lo sa», concluse ovvio il moro, afferrandogli delicato il mento con due dita per sollevargli la testa, in modo da poterlo guardare in quegli strani occhi ambrati che l'avevano profondamente colpito appena li aveva visti, sin dal principio. Occhi che non si potevano riscontrare in altre persone perché speciali, speciali come il ragazzo che aveva davanti. «Guarda che per me non è un problema, sai?» gli disse, incurvando le labbra rosee e piene in un lieve sorriso. «L'importante è che né mio padre né tuo padre lo scoprano».
    Non potevano rischiare che i loro genitori venissero a conoscenza della loro relazione. Un po' per il mondo in cui vivevano, un po' per le loro posizioni. Il figlio di un Laird scozzese e quello di un semplice commerciante... che futuro avrebbero mai potuto avere insieme? Sentì le braccia del ragazzo stringerlo a sé, il suo volto affondato nel petto, mentre strofinava come un gatto una guancia contro di lui.
    «Tha gaol agam ort [1]», sussurrò in tono dolce, e il suo compagno ridacchiò, ricevendo uno sguardo dorato.
    «Traduzione, prego?» fece divertito.
    Anche l'altro rise e, guardatosi intorno, avvicinò a lui il suo volto, baciandogli castamente le labbra prima di allontanarsi. Lo guardò, sorridendo.
«Ti amo».


    I suoi occhi d'onice, appena riaperti, registrarono a poco a poco il luogo in cui era stato rinchiuso, senza che ricordasse però come c'era arrivato.
    Tutto ciò che la sua mente stordita rammentava erano i volti dei suoi due compagni e alcune delle loro parole mentre lo portavano fuori dal maniero, nel bel mezzo della radura dove l'atmosfera era man mano diventata gelida. Poi, più niente. Solo un vivido vuoto, solo un enorme caos. Gli si era annebbiata la vista, quello lo ricordava, la testa aveva cominciato a dolergli e a girargli, e l'aveva scossa per schiarirsi la mente dove i suoni e le voci erano diventati troppo forti, mostrandogli per l'ennesima volta immagini su immagini. Da quel che ricordava, il suo campo visivo si era ridotto appena ad un unico puntino scuro e, sebbene non avesse proprio perso i sensi, non era sicuramente cosciente di se stesso né di dove si trovava. Proprio come quando diventava un vampiro. Come quando aveva bisogno di bere il sangue del suo Signore per riprendersi.
    Si guardò debolmente intorno, sbattendo confuso le palpebre, convinto in un primo momento di trovarsi nel suo feretro, accanto al suo Signore. Tentò di rimettersi in piedi ma non gli fu possibile e, osservandosi, notò che era legato con delle corde ad un palo di legno ed era circondato da cumuli di paglia e balle di fieno. Sbatté perplesso le palpebre, senza capire a pieno la situazione. Una stalla? E perché era legato? Cos'era successo in quel lasso di tempo in cui aveva perso se stesso?
    Roy si leccò le labbra, sentendole fin troppo secche; la bocca impastata da uno strano sapore, come se non avesse fatto altro che dare di stomaco fino a quel momento, la pelle del braccio e quella all'altezza del collo gli pizzicavano appena. La debole luce rossastra che filtrava dalle aperture gli diede modo di lanciarsi un'occhiata, e notò delle pallide cicatrici che stavano scomparendo velocemente, aiutate dal risveglio dal suo sonno diurno che aveva appena superato il corpo.
    Confuso, cercò di ricordare senza successo. Provò a muovere le spalle, ma un fastidioso dolore al braccio gli lasciò sfuggire un gemito dalle labbra. Guardò il punto che gli faceva male e notò che la camicia era bucata; intorno al foro, grande quanto quello di un proiettile, il bianco lasciava posto ad uno strano grigiore, come se qualcuno l'avesse sparato a distanza ravvicinata. Perplesso, l'unica cosa che riuscì a fare fu sbattere in continuazione le palpebre. La lingua sfiorò i canini e ritrasse d'istinto le labbra, scoprendo un ringhio. Si sentiva esattamente come quando tornava da una caccia, solo più stanco. Sentiva una strana inquietudine appena percepibile, come se fosse in astinenza da sangue. Del suo sangue. E la cosa gli fece ribrezzo. Non voleva ammetterlo a se stesso, ma aveva assoluto bisogno del sangue del suo Signore.
    «Che abbia perso il controllo?» mormorò in tono concitato, rivolto al vuoto. Sentì poi come se qualcosa di pesante lo stesse opprimendo. Guardò in alto e, legato alle travi di legno, poté scorgere una croce d'argento, che fissò quasi con immenso timore, come se gli stesse ferendo gli occhi e il corpo. Lui, che era sempre stato un uomo di Chiesa più che devoto al suo Dio, da quando aveva acquistato l'aspetto di un vampiro temeva quella sacra reliquia, un tempo simbolo della sua incrollabile fede. Forse era per quel motivo che a lui faceva del male, a differenza di quegli altri vampiri.
    Debolmente, Roy vide uno spiraglio di luce arancione in direzione della porta, dalla quale entrarono subito dopo, seguiti da un uomo corpulento, il Sindaco e Havoc. I tre lo squadrarono per un po', avvicinandosi piano, e lui si ritrasse, soffiando involontariamente come un gatto; mostrò le zanne, come in procinto di attaccare, nel notare tra le braccia dell'uomo svariate armi in argento, pallottole e una pistola, più una lampada ad olio.
    Ringhiò senza volerlo fare davvero, sentendo i canini palpitare. La sete stava crescendo. Doveva fare attenzione a ciò che poteva succedere.
«Che hai intenzione di fare, Maes?» chiese quasi in un sibilo, rivolto all'indirizzo del Sindaco. La sua, adesso, era la solita voce. La sua voce. Sebbene fosse ancora un po' rauca.
    Hughes non si prese la briga di rispondere, sedendosi sulla paglia di fronte a lui a gambe incrociate, facendo poi cenno all'uomo nerboruto di posare ogni oggetto lì accanto. Havoc fece lo stesso restando in piedi, come un'ombra alle sue spalle.
Gettatagli un'occhiata veloce, il Sindaco sospirò, rivolgendo la sua attenzione al vampiro, che sembrava osservarlo di sottecchi. Si spostò poi verso l'uomo nerboruto. Non voleva che vedesse anche lui o che sentisse altro. «Puoi andare, Armstrong, ci penso io», disse calmo, e, nonostante la nota allarmante che si era dipinta sul volto dell'uomo, senza proferir parola e con un cenno del capo si congedò, uscendo svelto dalla stalla.
    Con l'ombra muta di Havoc a fargli da guarda spalle, Maes trasse un lungo sospiro, osservando attentamente il prete. Quasi gli sembrava quello di sempre, adesso, con la sola differenza che il suo volto, era più giovane di quanto ricordasse. Come se fosse ancora un diciottenne, quel diciottenne puro e innocente che era una volta. «Sono stato obbligato a legarti», gli tenne presente, sospirando ancora. «Eri diventato pericoloso».
    Roy spostò la sua attenzione da lui al biondo, sbattendo le palpebre. Vedendo che non capiva, Hughes trasse un altro sospiro, portandosi lentamente una mano al volto e toccando il cerotto che adesso gli copriva il taglio sulla guancia. Guardandolo, il volto del moro si atteggiò ad un'espressione sconcertata e dolorosa.
«Sono... sono stato io?» sussurrò con voce incrinata, gli occhi color pece sgranati dalla meraviglia e dal terrore del suo gesto. «Ti ho... fatto del male?»
    Un altro sospiro sfuggì dalle labbra del Sindaco e, non sentendolo rispondere, il moro sentì il cuore stringersi in una morsa. Stava per fare ciò che quei vampiri gli avevano comandato. Stava
per... ucciderlo. Abbassò lo sguardo, con i capelli scuri che gli ricaddero davanti agli occhi e i canini che sporgevano appena dalle labbra schiuse.  
    «Perdonami, Maes», bisbigliò, senza avere il coraggio di guardarlo. «Ormai perdo il controllo troppo spesso, soprattutto quando...
» si interruppe, mordendosi il labbro inferiore, affondandone il canino nella carne. «...quando comincio ad avere sete».
    L'attenzione del Sindaco si appuntò solo sul vampiro che teneva lo sguardo basso, evitando accuratamente di incrociare i suoi occhi smeraldo, come se si sentisse in colpa, ma era lui che avrebbe dovuto. Lasciandolo andare, dieci anni prima, l'aveva consegnato nelle braccia di quei mostri. E il bersaglio, in realtà, era lui. Stolto com'era, a quel tempo, l'aveva persino accusato di essere lui la causa della comparsa di quelle creature. Se avesse saputo sin dal principio come stavano le cose, non gli avrebbe mai permesso di esporsi, sarebbe stato lui stesso a dirigersi al maniero per far sì che tutto si concludesse alla svelta. Nessuno avrebbe più sofferto, e quei mostri, forse, se ne sarebbero andati. E invece...
    Guardò il suo amico con comprensiva dolcezza.
«Te l'ho detto, Roy, non preoccuparti», mormorò. «Troveremo una soluzione».
    Il prete, a quelle parole, sorrise amaro. Era rimasto il solito ingenuo di sempre, lo stesso ingenuo di quand'era piccolo.
Non era affatto cambiato, Maes Hughes. «Non c'è nessuna soluzione», bisbigliò mesto. «Credi che non abbia provato?» fece, scuotendo debolmente la testa. «Ho tentato persino di ammazzarmi con le mie mani».
    Maes gli poggiò una mano sulla spalla, come ad interromperlo. Non riusciva davvero a vederlo così. Era troppo vulnerabile, emotivamente.
«Non mi avresti chiesto di portarti via se ti fossi arreso», disse con fare ovvio, e il volto del prete si alzò di scatto, la coda in cui erano legati i capelli gli ricadde in avanti su una spalla, nei suoi occhi color pece brillava ora appena un puntino di luce.
    «Non volevo morire da solo, laggiù... è per questo che te l'ho chiesto», si mosse un po', la paglia sotto di lui frusciò appena.
«Sei un cacciatore... voglio che sia tu ad uccidermi, Maes».
    Hughes sgranò gli occhi, deglutendo.
«Come puoi chiedermelo, Roy?! Come?!» sbraitò allarmato. Come se si fosse scottato, ritrasse la mano, indietreggiando sulla paglia. Non poteva chiedergli davvero una cosa del genere. Non era riuscito a farlo al maniero, come poteva mai farlo adesso?
    «Perché potrei essere io ad uccidere te!» esclamò Roy, spaventato al solo pensiero.

    I volti di entrambi gli uomini, che s'erano gettati sguardi nervosi, divennero maschere indecifrabili. Respiravano e deglutivano sonoramente, cercando di evitare di specchiarsi nelle polle scure del moro, che sembrava sussultare come se stesse piangendo. Un lamento gli sfuggì dalle labbra quando reclinò la testa all'indietro, e si lasciò andare quasi docilmente contro il palo che sosteneva il tetto della stalla, abbassando le palpebre.
    «Pater Noster qui es in cælis...[2]» sussurrò in latino, iniziando lentamente a ciondolare sotto lo sguardo sconcertato di Hughes e Havoc, i quali si fissarono senza capire. Un vampiro che recitava una preghiera? Quale subdolo trucco era mai quello? Anche osservandolo attentamente, non si riusciva a capire quale fosse il suo stato d'animo. Mormorava soltanto con voce smussata quella preghiera, ripetendola in continuazione con ritmo sempre più calzante e disarticolato, incerspicandosi a volte nelle parole come se non le ricordasse con esattezza.
    Sconcertato, Jean picchiettò la spalla dell'amico, facendogli cenno d'alzarsi e di seguirlo. Lasciando il prete ai suoi flebili singhiozzi e sussurri spezzati, lo portò lontano da lui, quasi sulla soglia della stalla; g
li afferrò bruscamente il volto fra le mani per costringerlo a guardarlo, mentre gli scrutava il volto quasi spaventato senza liberarlo dalla sua presa.  I suoi occhi verdi sembravano vuoti, inespressivi. «Ehi, vedi di riprenderti», sbottò a bassa voce, imperativo. «Sapevi benissimo che sarebbe andata in questo modo, piangerti addosso non servirà a nulla». Maes provò a distogliere lo sguardo, ma l'altro non glielo permise. La presa divenne più salda, gli occhi azzurri si ridussero a due fessure. «Non puoi continuare a sperare che sia ancora se stesso, non puoi», sussurrò, scorgendo la disperazione sul suo volto. «Anche ieri, quando ha cercato di ucciderti, te ne ha dato la prova tangibile. Non può controllarsi, non sa più distinguere il bene dal male».
    Stavolta l'attenzione del Sindaco si riappuntò su di lui, nonostante il velo di indomabile terrore che sembrava offuscargli la vista. Portò le mani su quelle dell'uomo che ancora gli reggevano il volto, facendogli delicatamente mollare la presa, così da indietreggiare un po'. Tra loro aleggiava solo il sentore della paglia umida e i mormorii indistinti a cui stava dando vita il prete, che si era portato le gambe al petto e si era raggomitolato su se stesso, come per proteggersi.
    Hughes chiuse gli occhi, scuotendo debolmente la testa.
«Ne sono consapevole, Jean», mormorò, chinando la testa e coprendosi gli occhi, come se volesse nascondere possibili lacrime. «Purtroppo ne sono consapevole».
    Leggero, un braccio dell'altro gli cinse appena i fianchi, attirandolo a sé, facendo così in modo che poggiasse la fronte sulla sua spalla. La mano libera andò ad accarezzargli i capelli, lentamente.
«Quello che dobbiamo fare, adesso, è provare a carpire delle informazioni da lui», bisbigliava, come se non volesse farsi sentire. «Non potremo riportarlo com'era prima, ma forse riusciremo a porre fine a quest'insensata lotta che ti grava sulle spalle».
    Maes aveva annuito piano, in silenzio, e adesso gli stringeva convulsamente la stoffa della manica destra in una mano, come un bimbo che si sentiva solo e sperduto.
    «Parlerò con gli altri di questa storia», riprese Havoc in un mormorio sordo, con voce flebile e accorata, delicata proprio come quando si parlava ad un bambino. «Ci aiuteranno anche loro, vedrai».
    «Non voglio coinvolgerli», fece in risposta Hughes, scuotendo la testa sulla sua spalla.
    «È una cosa che interessa tutti, non solo la tua persona», replicò, allontanandolo un po' per guardarlo attentamente in volto. «Dobbiamo sostenerci a vicenda, no?» soggiunse, abbozzando un piccolo sorriso per provare a rassicurarlo, e, seppur gli occhi verdi risultassero un po' gonfi e arrossati, Hughes annuì ancora, alzando appena un angolo della bocca in un mesto sorriso.
    «Ieri mi sembrava che avessi detto che dovevo assumermi le mie responsabilità», disse in un sussurro, cercando di rendere il tono leggero e sarcastico, ma la voce era appena incrinata, pronta a divenire spezzata e flebile.
    Havoc sorrise ancora di più, stanco. Gli diede una pacca sulla spalla, facendogli forza per quanto poteva.
«Parlo a vanvera, lo sai», ribatté, ricevendo un'altra occhiata di ringraziamento. Si squadrarono come se fossero complici di chissà quali misfatti, ed era accaduto tutto sotto lo sguardo attento del prete, che aveva smesso di mormorare senza che loro se ne fossero accorti.
    Un fuggevole lampo solcò quegli occhi scuri come la notte, il lampo d'un qualcosa d'indefinibile che passò immediatamente com'era arrivato, inabissandosi nelle polle d'onice. L'ombra d'un sorriso gli incurvò le labbra prima che anch'esso sparisse senza lasciar traccia.
Le cose non sarebbero potute andare meglio.


ATTO QUINTO. FINE





[1] Ti amo [ Gaelico scozzese ]
[2] Padre Nostro che sei nei cieli [ Latino ]




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