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Autore: Eneri_Mess    18/02/2017    0 recensioni
Uomini e donne, reduci da un’epoca cesellata di leggenda, agiscono per sovvertire le sorti di un mondo ignaro e di sognatori, il cui unico scopo è quello di raggiungere il più famoso e ambito dei tesori, il One Piece.
Ma il nuovo Re dei Pirati, colui che conquisterà ancora una volta ricchezza, fama e potere, sarà solo uno.
« Non peccare di presunzione. Gli eredi sono quattro, i pretendenti molti. Non sarai tu a scegliere chi diventerà Re dei Pirati e come egli – o ella – deciderà il futuro di ciò che resta del mondo »
Dal Capitolo XX:
« Non vedo cosa dovrei ricordarmi di te, Portuguese. Non tratto coi pirati » sibilò in tono velenoso, avventato, ma non riusciva a domare un pulsante senso di ansia crescente.
Quel tipo sapeva il suo vero nome. Quello che lei tentava di insabbiare da anni, e che se fosse arrivato alle orecchie sbagliate avrebbe provocato troppi casini.
Ciononostante, il pensiero sparì, come vapore, dopo aver sentito la “spiegazione”.
« Mi avevi detto che bacio bene. Pensavo che questo fosse qualcosa di bello da ricordare » dichiarò offeso.
Genere: Avventura, Generale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Storia aggiornata per il Cow-T, prima missione, terza settimana. 
Prompt: Le cose non vanno mai come credi
N° parole: 9726

 
- Capitolo XX -
[L’Asta]
 
(Seconda Parte)
 
 
 
San Faldo,
Palazzo Du Rossigol.
 
 
 
 
L’ambiente permeato di basse chiacchiere era addolcito dalle sinfonie dell’orchestra. Molti degli ospiti del galà vagavano per il salone dando a intendere chiaramente il proprio scarso feeling per tanta eleganza e opulenza. Obbligati a lasciare le armi all’ingresso e costretti in abiti bizzarri, il loro entusiasmo era esattamente quello di un animale in gabbia; la malcelata ironia del padrone di casa iniziava a surriscaldare gli animi in attesa del clou della serata.
Lambert Kohitsugi non registrò di nulla di tutto ciò. Nemmeno il vino che aveva in mano, dal profumo avvolgente, lo distrasse. Teneva il calice serrato in mano, intoccato, rimpiangendo la sua pistola d’ordinanza e avvertendone la disperata mancanza. Più si guardava intorno più si sentiva l’agnello di cui quel fedifrago del suo capitano l’aveva abbigliato. Era circondato da belve, e non solo nel costume. Fiutava il lezzo di pirata da ogni invitato che gli piroettava intorno, fossero stati bradipi o conigli. Per non parlare dei chiacchiericci a mezza voce, dei sorrisini ghignanti e l’attesa pulsante per l’inizio dell’asta: si fosse trovato in una trincea dichiarata sarebbe stato meno preoccupato.
A fargli scendere ulteriormente l’umore sotto i tacchi era il compito morale di tenere d’occhio Dashiell, alias Raven, o, come aveva continuato a ribadirgli nel tragitto tra l’albergo e la festa trapanandogli cervello, mademoiselle Charlotte Crawford. Sentì un nuovo travaso di bile in arrivo, soprattutto a vederlo svolazzare nel suo vestito da corvo, ridacchiante con la sua vocetta che sembrava non aver ancora suscitato dubbi negli altri commensali.
Ammazzarlo quella volta non sarebbe stato sufficiente.
Avrebbe voluto spennarlo, tirargli il collo, buttarlo nel catrame e…
« Tutto solo, agnellino? »
Lambert non rovesciò il bicchiere solo grazie ai nervi saldi sviluppati negli anni. Ma dire che gli era presa una sincope interiore era un eufemismo. Volse rigidamente il capo verso la fonte della voce, ricordandosi di essere mascherato e che doveva darsi una calmata. Fino a prova contraria non aveva scritto “marine” in fronte.  
Tuttavia, nel vedere la proprietaria della voce non riuscì a non deglutire, portandosi il bicchiere alle labbra per la prima volta. Tentò di dissimulare la sorpresa e bagnare la gola secca, ma si strozzò in maniera molto imbarazzante.
Nell’imporsi una necessaria dose di contegno, squadrò da capo a piedi la donna. Era un Ibis Scarlatto, ma non si capacitava di come l’uccello d’ispirazione dell’abito sarebbe potuto risultare altrettanto sexy. Il vestito era composto per la maggior parte da piume aderenti e stoffa morbida sui fianchi, dai cui spacchi facevano capolino un paio di splendide gambe tornite. Nel corpetto il seno sembrava essere stato prepotentemente lasciato al limite dello scoperto, con quelle stesse piume che, Lambert era certo, fossero sul punto di volare via da un momento all’altro.
Il sorrisetto compiaciuto della donna gli ricordò che l’aveva appena spogliata con gli occhi. Cercò di ridarsi un tono e ricomporre l’espressione più seria di cui disponesse; tentativo alquanto scarso data la voce soffocata che gli uscì.
« Buonasera… »
« Disturbo? » la malizia si sprecava nelle curve delle labbra. E non solo in quelle.
« No » e si pentì un attimo dopo quando la vide avvicinarsi, con quel seno che ondeggiava pacioso rubandogli l’attenzione ogni tre decimi di secondo. Quando si avvide di avercela ad appena un paio di spanne, interessata ai suoi sguardi poco velati, deglutì il vuoto. « Non parlo coi pirati »
Lambert diede voce al suo pensiero martellante, e per poco non aggiunse il sonoro sono un idiota che echeggiò nella sua testa come un gong. Se stava cercando di farsi scoprire il risultato era molto vicino.
La donna rise, sinceramente divertita, e con lei si scosse il resto del corpo. Lambert era così vicino – e non poteva andare molto lontano, incastrato tra una colonna e un tavolo da buffet in cui minuti prima credeva di avere trovato rifugio – da sentirne il profumo esotico e affascinante. Se doveva fare una brutta fine, si disse, lo avrebbe fatto con un’altra occhiata a quei due meloni frementi sotto il suo naso – e al diavolo Raven e i suoi capricci da beota.  
« Peccato. Sono tipi interessanti, i pirati » disse lei squadrandolo a sua volta. Lambert si sentì un pezzo di carne sulla griglia. « Ma se ti riferivi a me, non sono un pirata, dolcezza. Viaggio in mare per lavoro… » sussurrò, sospendendo volutamente la frase per avvicinarsi. Con un ultimo passo sinuoso, la donna gli fu di fronte, tanto che il Sergente Kohitsugi dovette allontanare il bicchiere, trovandosi schiena alla colonna.
« … ma la mia vocazione è ballare » finì l’Ibis in un sussurro che certamente era allusivo, che certamente dava adito a un panorama di infinite possibilità in cui il suo prosperoso petto era implicato. Che mandò all’aria qualsiasi self-control di Lambert, accendendogli in testa allarmi e protocolli di emergenza i quali gli si sbrodolarono dentro in fiumi di pensieri disordinati.
Appoggiò la mano libera sulla spalla della donna e la allontanò cercando di essere quanto più delicato le sinapsi ancora in uso riuscissero a comunicargli. Prima di fare altri danni appoggiò il bicchiere sul tavolo e poi tornò a fissare negli occhi la femme fatale. Ritrasse il palmo incriminato neanche scottasse e avvertì addosso uno sguardo ora decisamente interrogativo e contrariato.
La sensazione di affondare nelle sabbie mobili – ricordo ben impresso nella sua memoria grazie a uno dei guai combinati da Raven – fu quasi reale e lo spinse a domandarsi quale comportamento avrebbe dovuto adottare. Quella situazione gli stava succhiando via tutte le energie, neanche stesse facendo uno dei suoi allenamenti massacranti. Erano a quella festa da forse mezzora e lui aveva quasi il fiatone.
Così decise di ricominciare dall’ABC delle buone maniere e cavarsi d’impiccio.
« Mi dispiace signora, ma ha fra- »
« Signora..? » allibì lei, e l’intonazione scadde pericolosamente verso lo sdegno.
Lambert chiuse gli occhi, desiderando evaporare.
Cosa aveva fatto di male per cacciarsi in quella situazione?
Era tutta colpa di Raven.
« Signorina » si corresse, ma il danno era fatto. Lo leggeva negli occhi assottigliatisi della donna. E nel suo seno che non sembrava più così baldanzoso come prima. Si sentì come doppiamente rimproverato. « Io, ecco, mi dispiace di averle dato l’impressione sbagliata ma… »
Qualcosa di svolazzante e nero entrò nel suo campo visivo, sul lato scoperto e libero. Come mai aveva creduto, provò del sollievo nel vederlo.
Allungò il braccio, con la stessa velocità con cui avrebbe voluto svanire da quella disastrosa situazione, e agguantò poco carinamente – e strappandogli un verso meno che mai femminile – la sua disgrazia giornaliera, tirandosela vicina. Praticamente si schiacciò un Raven sbalordito al petto.
« Dicevo, mi dispiace di averla ingannata, ma questa è la mia dama, mademoiselle Crowford » e nel calcare su quel nome fittizio cambiò totalmente tono, raschiandosi la gola con un ringhio, giusto per essere chiari col diretto interessato.
Raven colse la palla al balzo e lo strinse per la vita, affondandogli beato la guancia nell’incavo del collo e regalando un sorriso smagliante alla perfetta sconosciuta davanti a lui.
« E’ una bellissima Ibis Scarlatta » constatò Dashiell stucchevole, con quella voce falsa che tuttavia fece aggrottare le sopracciglia alla donna. « Ma le consiglio di prendere il volo e lasciare in pace il mio agnellino »
Lambert si rese subito conto di non aver fatto una buona scelta. Era passato dalla padella alla brace, non ci voleva molto a capirlo dagli sguardi che le due – si arrese al genere femminile – si lanciarono. Anche se l’occhiata dell’Ibis era più curiosa che offesa. Una curiosità pericolosa a cui era meglio non dare seguito.
Così si scrollò di dosso Dashiell, interrompendo quel duello silenzioso. Fece un cenno di commiato all’Ibis e marciò verso l’altro capo della sala, con un Raven che gli si spalmò sul braccio, ridacchiando e alludendo vago al “dovergli un favore”.
 
 
 
 
Eve osservò il Drago dai toni del tramonto tornare verso la terrazza con un piatto tanto colmo che gli sarebbe servito un vassoio. Si lasciò andare a una risatina mentre si riportava alle labbra il flûte di prosecco.
« Che hai da ridere? » domandò l’interessato ficcandosi in bocca un pugno di tartine miste.
Lo sguardo della donna si addolcì attraverso i fori affusolati della maschera da Pavone.
« Un costume da drago, eh? » ribatté con una sfumatura di malinconia.
Il ragazzo fece spallucce e portò lo sguardo sul panorama della laguna di San Faldo, dando così modo a Eve di osservarne meglio il profilo, col cuore che prese a batterle fedifrago.
« Non l’ho scelto io, ci ha pensato Marco » spiegò alla fine il ragazzo, lasciando sulla balaustra di pietra il piatto e poggiando i palmi per sostenersi. Le luci delle lanterne crearono un gioco di iridescenze sulle scaglie che calamitò e fece ulteriormente vagare lo sguardo della donna.
« Marco… » ripeté tra sé, cercando nella memoria un volto. Sbocciarono altre domande, nel continuare a osservare quel costume che tanto bene stava ad Ace e tanto faceva riaffiorare in lei vecchi ricordi. « Da quant’è che sta con Barbabianca? » domandò sovrappensiero.
Pugno di Fuoco ci meditò su un po’, riacchiappando dal piatto qualche leccornia.
« Non ne ho idea » borbottò alla fine, rendendosi conto di non averglielo mai chiesto. Avrebbe detto da sempre, se il Babbo non fosse stato tanto anziano. Insomma, Marco era il pilastro della ciurma, dopo il vecchio.
Eve gli si affiancò, fregandogli dal piatto un rustico e gustandoselo ancora con quell’aria lontana. Tanti, troppi pensieri quella sera, si disse, centellinando il prosecco da cui Ace, a sua volta, le rubò un sorso.
« È probabile che conoscesse Doragon » sussurrò a nessuno in particolare, ma attirò l’attenzione del ragazzo come se avesse premuto un interruttore. « Mi chiedo se abbia scelto il costume volutamente… »  continuò, ma poi scosse la testa, dandosi della complottista. Quella doveva essere una serata di relax e non una caccia ai fantasmi. « Gli hai parlato di me? » chiese infine, pizzicando altri bocconcini dal piatto.
A quella domanda Ace sbuffò così intensamente da sgonfiarsi e accasciarsi un poco, lasciando andare la testa sconfitto.
« Non ancora…  » mugugnò scocciato, ripensando alla chiacchierata di qualche giorno prima e a quanto si sentisse imbarazzato a trattare l’argomento. « Mi sta facendo il terzo grado… »
« Non ti fidi? »
« Certo che mi fido! » sbottò fissandola come se avesse detto un’eresia, ma lei gli sorrise incoraggiante, finendo col farlo tornare a sospirare. « Ma la situazione è delicata. Non ho mai detto nulla a nessuno, neanche al Babbo… non so come potrebbe reagire… non voglio mettergli strane idee in testa »
Eve gli accarezzò la guancia sotto la maschera e lui chiuse gli occhi, godendosi il momento.
« Ti preoccupi troppo » 
Gli occhi neri di Ace tornarono vigili, piantandosi nei suoi dorati con diverse domande e la voglia di cambiare discorso.
« Ho letto dell’Erede… di quel Bryan »
La donna realizzò di averne abbastanza. Era sfibrata da quella storia, dai dubbi, dalle possibilità, ma non lo diede a vedere. Ingoiò l’angoscia e l’impotenza, ripetendosi di non poter fare nulla finché non avesse avuto tra le mani qualcosa di concreto. E l’ultima cosa che desiderava era vedere Ace caricarsi del peso di quella situazione.
« Io invece ho letto di Rufy… » sviò con un sorriso che per quanto avesse dovuto camuffare i suoi pensieri, fu altrettanto vero e sincero.
Ace non riuscì a nascondere il proprio entusiasmo, ripensando all’articolo e al nuovo wanted.
« Quel cappello di paglia starebbe molto bene in una delle mie aste »
La voce che li interruppe fece voltare entrambi di scatto.
Dominic, nella sua veste nivea da Ermellino, proseguì disinteressato alle occhiatacce dei due.
« È un cappello dalla storia molto interessante… Prima portato da Gold Roger, poi ereditato da Shanks Il Rosso e finito poi sulla testa di un ragazzo venuto fuori dal nulla, Monkey D. Rufy. Girano voci che sia il pegno di una promessa tra i due »
Ace cercò con lo sguardo Eve, ma lei e il Vice dei Raiders stavano avendo un intenso scambio di occhiate affilate.
« Io e lei stavamo parlando » se ne uscì quindi il Secondo Comandante di Barbabianca, senza trattenersi dal dare al tono una nota aspra.
Dominic lo ignorò, accostandosi al Pavone e mascherando con eleganza l’intima vicinanza.
« Mia cara, non mi presenti il tuo più uno? »
La donna, con tono incolore e usando la mano con cui reggeva il calice, fece le presentazioni.
« Dom, lui è Axe – e ignorò l’espressione scettica del ragazzo – Axe, lui è l’anfitrione della festa, Dominic Du Rossignol » 
I due uomini si squadrarono a vicenda, chi guardingo chi senza perdere il proprio aplomb.
« Axe? » echeggiò dubbioso Dominic e con la faccia di uno ben lungi dal credere alla risposta. Ma Eve fece spallucce; non diede segni di aver sparato una bugia e Ace si annotò di chiederle in separata sede il perché di quella pagliacciata. « Nome curioso. Da dove vieni, Axe? » continuò serafico il Vice dei Raiders, con una curiosità supponente ma dedicandogli finalmente un’occhiata.
Era un gioco. La balla era chiara, ma il tutto stava nel non cedere per primi.
« Water Seven » borbottò Ace, cacciandosi le mani in tasca annoiato.
« Carpentiere? » proseguì Dom, accennando ironicamente al suo fisico forte.
Il moretto rincarò con un sogghigno.
« Yep, di quelli addetti alle seccature »
Ci fu un momento di stasi in quell’improbabile triangolo di menzogne. Nessuno aveva il reale timone; ognuno teneva per sé qualcosa stando alle mosse dell’altro. Il padrone di casa non diede a vedere il proprio divertimento, ma cambiò discorso, a modo suo.
« Parlando di Cappello di Paglia, non è passato da Water Seven qualche tempo fa? Nonostante il governo abbia insabbiato tutto. Ho letto della sua vittoria su Akai Oushiza dalle parti di Port Red Jack… mi chiedo cosa potrebbe succedere se sbarcasse sull’isola dopo questo articolo… da quelle parti bazzicano rinomati cacciatori di taglie e malavitosi… »
« Succederebbe che loro non avrebbero vita facile » borbottò acido il Drago, facendo un passo avanti. Un chiaro segno di sfida. Eve gli lanciò un’occhiata guardinga, mentre Dom si voltava del tutto verso di lui, senza più pretendere di considerarlo appena.
« Indubbiamente è uno di quelli più quotati nella Nuova Generazione: non sanguinario come Eustass Kidd e quasi più affidabile di X Drake. Tuttavia potrebbe essere un mero astro nascente. Lo Shinsekai non funziona a colpi di fortuna »
« Rufy è capacissimo di cavarsela e lo farà anche nel Nuovo Mondo »
Dominic sorrise, compiaciuto da tanta verve. La pantomima era stata divertente, soprattutto lo sguardo duro – e avrebbe azzardato infuocato – del ragazzo che lo stava fronteggiando.
« Alla salute di Monkey e dei suoi fan » motteggiò levando il proprio calice e tornando a guardare Eve, che non diede segni di sorta, impassibile nel bere dal proprio flûte. Ace volse il capo di lato, cacciandosi in bocca qualcosa a caso dal piatto per tenere le mandibole occupate. Aveva capito di essersi fatto prendere la mano dal discorso, perché sentiva in testa la tipica risatina sotto i baffi di Marco quando accadevano situazioni del genere.
« Credo che il lavoro ti stia venendo a chiamare, Dom » mormorò Eve pacata, seguendo con gli occhi i movimenti di una delle Gazze Ladre avvicinarsi a loro. Questa sussurrò qualcosa all’orecchio del capo, indicando poi verso l’ingresso della terrazza dove sostavano due invitati in attesa.
« È stato uno scambio piacevole » commentò l’uomo abbigliato da Ermellino, ma Eve alzò una mano, accennando un blando sorriso.
« Non ti scomodare, rientriamo noi. Ho un po’ di appetito »
E detto ciò, la donna afferrò il ragazzo per mano e si incamminò verso la sala interna.
Passarono davanti ai due clienti di Dominic e Ace fu attirato da una risata leggera, da ragazza, e da un bisbiglio di cui colse qualcosa come « … un altro drago! »
Fu una sensazione strana ad attraversare Ace mentre con la coda dell’occhio notò una macchia blu e nera, un costume simile al suo, sfilargli di fianco. Vide solo la schiena dei due che si allontanavano, e un presentimento a cui non sapeva dare nome lo bloccò a fissarli. Un brivido, quasi la pelle d’oca.
« Tesoro tutto bene? »
La voce di Eve lo richiamò nello stesso momento in cui vide quel costume da Drago blu sparire tra gli altri invitati sulla terrazza.
Ace scosse la testa e la realtà tornò a posargli la sua mano di ragionevolezza e infrangibilità sul capo.
« Ho visto un fantasma » affermò con un’alzata di spalle.
 
 
 
 
In una stanza al piano superiore, un’ombra passò sul muro veloce, come avesse avuto vita propria. Nello stesso momento, la donna presente, abbigliata nel vestito a farfalla, cadde a terra con un gemito spaurito. Le imposte a vetri furono spalancate sulla notte e il vento fresco e odoroso di salsedine invase l’ambiente. Un bacio volante alla damigella abbandonata, un occhiolino, e l’uomo scomparve oltre la finestra nello stesso istante in cui la porta venne scardinata con violenza.
Milo, mercenario dei Raiders, si catapultò dov’era sparita l’ombra, gli occhi rossi ardenti di irritazione. Non trovò niente e nessuno; non c’erano tracce, né sotto, nel canale dalle acque placide, né sopra, sui muri del palazzo Du Rossignol.
« Dannazione, è scappato! »
« Ehi, Baka-kiki, vieni qui » lo richiamò Dakota, fermatasi vicino alla Farfalla accasciata in un angolo. La tirarono in piedi, squadrandola tanto da metterla in soggezione.
« L’hai visto!? Chi era!? L’hai fatto entrare tu!? » sbraitò Milo fuori di sé.
La escort scosse il capo iniziando a piangere e pigolare.
« No! No! Non … io… credevo fosse un invitato! Lo giuro! » singhiozzò, indicando un mucchio di vestiti a terra. « Mi ha detto che voleva un posticino appartato per un po’ di intimità… e mi ha portata qui… non so chi fosse! Sotto la maschera ne aveva un’altra! »
Dakota, mentre ascoltava il racconto, si avvicinò agli indumenti abbandonati, ricordanti un Gatto Siamese. Annusandoli inspirò un vago sentore di agrumi e tè.
« Baka-kiki, questo costume è la copia di quello di Duca Rama, il pirata del Mare Meridionale. L’ho visto prima di sotto, stava seguendo l’asta »
Si squadrarono per pochi secondi, in una muta conversazione.
« Come diavolo ha fatto a entrare!? » sbraitò alla fine il biondo, andando a serrare la finestra con una violenza che fece vibrare i vetri. « Anche questa stanza, doveva essere stata chiusa a chiave! »
« Dobbiamo avvertire Nii-kiki e Maze » affermò Dakota, torcendosi un ricciolo rosa intorno al dito e osservando l’uscio con aria seria, mentre la Farfalla scappava via in lacrime.
Milo si dette una calmata, affiancandola.
« Che c’è? » le chiese secco.
Lei arricciò le labbra con aria furbetta.
« È ancora qui »
Il biondo replicò con un silenzio inquietante. In gesti rigidi ma veloci, si arrotolò le maniche della camicia fino ai gomiti.
« Quello stronzo ci voleva far credere di essersela filata… »
« … ma non ha capito con chi ha a che fare » terminò Dakota serafica.
 
 
 
 
 
Intanto, nel salone dell’asta.
« … il prossimo articolo all’asta proviene dal misterioso Regno del Mare. Un oggetto raro e impossibile da trovare in commercio, utile a chi desideri tenersi al sicuro dai possessori dei Frutti del Diavolo: un Cristallo di Agalmatolite! Molto più potente del minerale grezzo, ve lo presentiamo forgiato in una deliziosa forma a stella marina; il monile è elaborato interamente nello stesso materiale, catenina inclusa! È indistruttibile! La base d’asta parte da due milioni di berry! »
Il Leopardo delle Nevi osservò senza particolare interesse il riverbero del pendente messo bene in vista dall’assistente del banditore. Un coro di oooh e di mormorii si diffuse dalle prime file, mentre l’uomo abbigliato nella pelliccia maculata dette un altro sorso al buon vino rosso in suo possesso.
L’asta dei Raiders era iniziata da più di un’ora. Le trattative erano andate avanti piuttosto pacificamente, nonostante la maggior parte degli invitati fossero pirati o ricercati. Lo stretto controllo del personale era vigile e pronto a sedare qualsiasi focolaio, anche se, con un sorriso bieco, il Leopardo niveo aveva notato come diversi avventori si stessero dando silenziosi appuntamenti fuori dal palazzo per sistemare i conti.
Ma all’uomo presto vennero a noia pure quelle dimostrazioni di forzate e ridicole buone maniere. Aveva capito che dentro la sala vigesse un rispetto che era impossibile trovare nella quotidianità della filibusta presente. Una mescolanza di timore e blande allusioni al padrone di casa, che il Leopardo delle Nevi non aveva ancora individuato.
La sua conoscenza dei Raiders era ridotta ai minimi particolari di facciata. Le chiacchiere sentite a riguardo lo avevano avvertito di non creare problemi a quella particolare banda di mercenari, adducendo alla loro capacità di scovare anche il più piccolo e riposto segreto della vita di chiunque. Abilità che lui aveva sperimentato a pelle quando gli era arrivato l’invito al gala:
“Al sopravvissuto della Città Bianca”
Avvertiva ancora un seccante misto di fastidio e un non meglio definito senso di incredulità ripensando a quelle righe. Non aveva mai speso più di troppe preoccupazioni sulla possibilità che qualcuno potesse scovare le sue origini, considerando che per tutti Flevance era stata rasa al suolo e i suoi abitanti sterminati dal primo all’ultimo. Non esistevano archivi di necrologi da quel che sapeva, e neanche più un’anagrafe. Nessuno aveva mai pianto le vittime condannate della Città Bianca, ritenute colpevoli di essersi scavate la fossa da sole e tanto egoiste da cercare di diffondere la Sindrome del Piombo Ambrato nel mondo.
Ma leggere quell’intestazione aveva rimescolato in lui sentimenti antichi e velenosi.
Oltre al fargli chiedere come il capo dei Raiders fosse a conoscenza dell’oggetto che stava cercando, motivo per cui gli era arrivato l’invito all’asta.
« … il successivo articolo è un diario » scandì il banditore, riaccendendo l’attenzione di Law.
Levò il mento e scrutò il palco attraverso la maschera. Una delle assistenti fece il suo ingresso dal dietro le quinte, portando tra le mani guantate un robusto libricino in pelle nera, dall’aspetto maneggiato e con angoli di appunti esterni infilati tra le pagine. La platea si era tacitata per il tempo dell’annuncio. Un brusio disinteressato era sorto a seguire, zittito di nuovo quando dal pulpito il banditore descrisse l’oggetto.
« Invitiamo gli ospiti di non farsi ingannare dalla forma umile: il qui presente diario apparteneva al medico di bordo del Re dei Pirati, il Dottor Crocus. Vi sono annotazioni a carattere clinico e di viaggio, segreti sulla salute di Gold Roger in persona. La base d’asta parte da cinquecento mila berry! »
« Cinquecentoventi e una boccetta di aspirine! » gridò qualcuno con scherno, riflettendo l’opinione comune che il libercolo non valesse davvero la pena se non per fare bella mostra.
Law piegò le labbra, compiaciuto.
« Seicento » ribatté pigramente, senza neanche sprecarsi a levare la mano. La sua voce baritona riecheggiò forte, insinuandosi nel chiacchiericcio e giungendo al banditore, che lo indicò nell’indifferenza generale.
Seguirono ampi secondi di disinteresse nonostante le lusinghe del banditore al diario, ma nessuno ne rimase pervaso. Mantenendo un contegno professionale ma capita la perdita di tempo, il mediatore alzò il martelletto per richiamare la formula di rito e assegnare l’oggetto, quando una voce, alta e decisa, rialzò.
« Ottocento »
Il Chirurgo della Morte voltò il capo alla sua sinistra, lo sguardo assottigliato.
« Novecento » scandì, con una chiara allusione predominante nel tono. Osservò la donna e la sua maschera da Pavone, che ricambiò l’occhiata con un sorriso appena accennato, a mo’ di saluto. Levò il flûte e ribatté ancora.
« Un milione »
Arrivarono presto al milione e sei, mentre il serraglio intorno a loro li osservava annoiati, sbuffando per quel tedioso battibecco a cifre. Law era ancora tranquillo, conscio che avrebbe messo le mani su quel diario in un modo o nell’altro, nonostante ormai stesse ignorando il palco e rispondendo tenendo gli occhi color del mercurio allacciati allo sguardo della donna. Era abbastanza distante da fargli dubitare sulla tonalità dell’iride, ma non sulla testardaggine impiegata nel mettergli i bastoni tra le ruote.
Il tono poi non sembrava davvero interessato, quanto più indispettito.
Forzarono la soglia dei due milioni. Il banditore stava spendendo parole di eccitazione per l’agguerrita e inaspettata contesta, quando Trafalgar notò uno dei tanti invitati avvicinarsi alla sua contendente. Abbigliato in un pregiatissimo costume candido ricordante un ermellino, questi si chinò all’orecchio del Pavone, sussurrando qualcosa che a lui dovette risultare dilettevole, ma che alla donna piacque poco. A Law non sfuggì come l’uomo afferrò la mano libera di lei, scorrendovi le dita con gesto intimo, fino al polso. Le sussurrò qualcos’altro, stringendola appena nella presa. La donna sbuffò stizzita, scrollando le spalle, ma senza sottrarsi.
Tornando a fissarlo, a squadrarlo, con un ultimo gesto del capo il Pavone fece intendere a Law che lo lasciava vincere.
Il martelletto sancì l’assegnazione del diario. La folla incalzò per proseguire e quando il capitano degli Heart tornò a fissare la propria avversaria, lei e l’Ermellino erano spariti tra gli altri animali.
 
 
  
 
Fayth Mihawk, alias Morgaine Aguillar nel suo lavoro da mercante, si tolse la maschera di piume brune con fastidio, ravviandosi i capelli neri e setosi. Si appoggiò alla balaustra del ballatoio al piano superiore, osservando con una smorfia il branco di animali invitati alla festa. Più di due ore, tre drinks e una miriade di scocciatori, e non ne poteva già più. Aveva cercato di svignarsela quattro volte, ma ovunque si voltasse si era ritrovata premurose Gazze Ladre, con sorrisi leziosi e catenine di Agalmatolite, a indicarle la strada per tornare alla festa. Se in quello zoo avesse beccato Dominic lo avrebbe scuoiato vivo davanti a tutti.
Con stizza, si era quindi rintanata in bagno, unico posto in cui l’avevano lasciata andare senza venirle dietro. Peccato che le finestre lì fossero state sigillate. Alla fine, per buoni venti minuti, era rimasta nella sontuosa toilette a meditare se riscendere, ubriacarsi definitivamente e mandare tutto al diavolo, o mettersi in un angolo e iniziare a vagliare le torture a cui avrebbe potuto sottoporre suo fratello durante la notte.
Alla fine era uscita sul pianerottolo deserto per osservare gli invitati sottostanti intenti ad accaparrarsi gli articoli dell’asta. Ammise che molti degli oggetti erano davvero interessanti e pregiati, ma il solo pensiero che sarebbero finiti nelle mani di qualche pirata dissacratore la disgustò tanto da farle perdere il trasporto.
Così rimase a cincischiare con la maschera tra le mani, nel vestito stile deco perlinato di velo nero, marrone e oro, che richiamava la figura di un Gufo. Suo fratello aveva proprio gusto quando si trattava di vestire una donna e renderla magnifica, e ammetterlo la fece soffiare esasperata ancora una volta.
Quando si accorse di avere qualcuno a fianco, fu troppo tardi per ricomporre il travestimento e non farsi vedere in volto.
Molto tempo dopo Fay avrebbe ringraziato per quell’incontro.
« Sei tu… »
Voltatasi di scatto, la ragazza fece un passo indietro istintivamente, sentendo un brivido caldo.
Squadrò da capo a piedi l’individuo in costume – un lucente Drago vesperino – ma di nuovo fu lui ad avere la prima parola.
« Fayth! Sei tu! » ripeté con espressione smagliante, levandosi la maschera ingombrante dal volto.
La Mihawk lo fissò incredula e muta. Capelli neri scarmigliati, occhi dello stesso colore, lentiggini e un sorriso che si chiese se ne esistessero di più abbaglianti.
Ma no. Non aveva la minima impressione di conoscerlo. Non come lui desse a intendere di conoscere lei. Un flash le passò davanti, la reminiscenza di un wanted. Un wanted di quelli che gente della sua risma evitava come la peste.
« … il Secondo Comandante di Barbabianca… » deglutì, maledicendosi per il tentennamento nella voce.
« Sono Ace! »
« … Portuguese » replicò prosaica Fay, rifiutandosi di chiamarlo per nome. « Ci conosciamo » aggiunse, dando consistenza all’ovvietà del suo discorso, non riuscendo tuttavia a venirne a capo. Come, dove, quando? Perché?
Lei i pirati non li frequentava. Non poteva, non doveva e, soprattutto, non voleva. Gli erano bastati gli anni con suo padre per capire la loro mentalità bacata e la volontà di non averci a che fare nella vita.  
Il sorriso, la fronte, gli zigomi di Ace ebbero un’incrinatura. Fugace. Il tempo che il giovane impiegò a ritrarre le labbra in un “oh” e poi ridistenderle in un ghignetto. Si mise comodo contro la balaustra.
Aveva intuito che lei… non sapeva.
Fayth in un lampo cancellò l’espressione da dilettante davanti a un trucco di magia e fece appello alla sua espressività invalicabile e altera.
« Ebbene? »
« … non ti ricordi, vero? » replicò Ace, e la pacatezza che voleva dimostrare gli riuscì a metà. Dentro se la stava ridendo e ciò traspariva ben lungi dall’essere dissimulata. « Comprensibile »
Fu imbarazzante a tal punto da farla arrabbiare.
C’era qualcosa, ora che lo passava ai raggi x dopo lo sbigottimento iniziale, che le diceva di averlo per lo meno già visto in carne ed ossa. Ma era una mera e labile sensazione.
« Non vedo cosa dovrei ricordarmi di te, Portuguese. Non tratto coi pirati » sibilò in tono velenoso, avventato, ma non riusciva a domare un pulsante senso di ansia crescente.
Quel tipo sapeva il suo vero nome. Quello che lei tentava di insabbiare da anni, e che se fosse arrivato alle orecchie sbagliate avrebbe provocato troppi casini.
Ciononostante, il pensiero sparì, come vapore, dopo aver sentito la “spiegazione”.
« Mi avevi detto che bacio bene. Pensavo che questo fosse qualcosa di bello da ricordare » dichiarò offeso.
Qualsiasi muraglia di Fay crollò miseramente quando lei sbatté le palpebre tre volte di fila, con lentezza, aspettando che quella situazione surreale svanisse da davanti i suoi occhi.
Aveva sentito fischi per fiaschi.
Non l’aveva detto davvero.
Baciare?
Baciare bene?
« Eravamo sull’isola di Yoga »
Ecco il mal di testa. Fay lo avvertì nitido, una fitta alla tempia al solo sentir nominare il posto e la confidenza che il pirata si stava arrogando.
A Yoga non aveva fatto buoni affari. Per niente. A Yoga aveva avuto una seria crisi di nervi per una partita di merce contraffatta, tre ore di lumacofono con Gustavio per spiegargli la questione e quel decerebrato di Craig Durmstrang si era permesso di redarguirla sul suo essere frigida.
Rammentava in sprazzi vaghi che la mattina dopo Ziva e Shiroi avevano spettegolato su insensati cappelli arancioni e bicipiti di fuoco, mentre lei combatteva con il dopo sbornia.
Aveva bevuto in un locale per farsi passare il malumore. Ma non ricordava altro.
Possibile che…
No.
« Ti stai inventando tutto. Se vuoi dei soldi, se intendi ricattarmi, scordatelo o te ne pentirai »
Stavolta a sbattere gli occhioni fu Ace, certo di aver capito male.
« Eh? »
« Hai sentito. Non tratto coi pirati. Se pensi di farmi paura hai sbagliato persona »
« Frena, frena! » celiò, ironico, ma poco sicuro, alzando le mani. « Ricattarti? Ma di che stai parlando? E guarda che è successo davvero! – e un nuovo sorrisetto, più discreto e sincero, quasi timido, gli piegò la bocca – È stata una serata divertente. Certo, eri ubriaca fradicia e non ti sei fatta problemi con degli sconosciuti… »
Il viso improvvisamente terreo di Fayth gli fece aggiustare il tiro.
« … ma non hai fatto nulla di sconveniente. Hai ballato in mezzo al Blue Beach, cantato cose irripetibili, e tirato bestemmie ai falchi… e ci siamo solo baciati… »
Stavolta la ragazza ebbe l’impressione di scorgere del rossore all’altezza delle orecchie, ma era troppo impegnata a elaborare per accertarsene.
« … e poi mi hai dato il nome della tua nave e ti ho riportata lì. Shiroi e Ziva non ti hanno detto nulla? »
Era tutto vero.
Con quel suo tono naturale, limpido e stramaledettamene onesto.
Conosceva Shiroi e Ziva…
E sapeva il suo nome di battesimo, Fayth.
« Ti stai inventando tutto. Ballare? Cantare? »
Baciare sconosciuti? Io?, aggiunse tra sé, ma nel ripetersi le venne su anche una risatina stridula, incontrollata, che soffocò all’istante, serrando la mascella. « Non significa nulla. Dimenticati di quella serata, ero… ho avuto dei problemi. Se ti ho dato fastidio non era mia intenzione »
« Non mi hai dato fastidio » rincarò lui candido.
E certo, da quello che ho fatto pare di no!, tuonò di nuovo Fayth interiormente, sopprimendo gesti nervosi per non perdere la calma.
« Cosa vuoi? » soffiò sentendosi come un gatto all’angolo e nel frattempo pensando alla velocità di un treno. Poteva addormentarlo, chiuderlo in un bagno a chiave e accendergli il subconscio come un fuoco d’artificio. Ma il solo pensiero di sfiorarlo le fece cambiare idea. Dopo che lui aveva insinuato quel “baciare bene”, la giovane Mihawk si era ritrovata a squadrargli la bocca più di una volta, timorosa e attratta come una falena.
Già, il fuoco. Altra cosa che non poteva dimenticare. Quel tipo era fiamma viva, anche se non l’aveva mai visto accendersi. Ma conoscendo la sua fama e i poteri dei Frutti del Diavolo, dei Rogia, non ci voleva molto a farsi due conti.
Se l’avesse toccato cosa sarebbe successo? Si sarebbe scottata?
Perché l’impressione che provava era proprio quella.
Ace rise, riportandola coi piedi per terra, ma senza mitigare la sua aria oltraggiata.
« Sei proprio strana! Con questo tuo atteggiamento freddo mi stai facendo venire i dubbi! Sembri un’altra persona rispetto a quella del Blue Beach »
Ai pesci la prudenza sulle ustioni, inveì Fayth desiderando mettergli le mani addosso e farlo volare giù dal ballatoio.
« Senti, non mi ricordo niente, ok? E stento davvero a credere di aver fatto quello che vai blaterando! » sbraitò chiaro e tondo, facendo un passo avanti con l’indice puntato. Il suo vestito sinuoso frusciò appena, e a lei non sfuggì la fugace occhiata di apprezzamento che lui si concesse, cosa che la imbestialì ancora di più. « Quindi dimentica tutto, lasciami in pace e va al diavolo! »
Ace fischiò, senza ritrarsi, ma anzi, dando l’idea che avesse recepito la metà delle cose.
« Quanto ti fermi qui a San Faldo? Ho delle questioni da sistemare a Water Seven, non so se ci sei mai stata, ma potremmo- »
« N-O! » scandì lei, gli occhi topazio sbarrati e frementi.
Il Secondo Comandante si imbronciò pestifero, neanche avesse avuto dieci anni.
« Fay stasera sei proprio… come diceva Thatch? Ah sì, frigida »
Parola sbagliata.
Parola sbagliatissima che la fece rimanere impietrita, gelata, con un ruggito di battaglia dentro che, anche a centinaia di leghe di distanza, fece fischiare le orecchie a Craig Drumstrang a Port Red Jack.
Quei due sarebbero morti. Quei due che non si facevano gli affari loro e che sparavano un mucchio di stronzate sarebbero crepati centinaia di volte e nelle maniere più cruente.
Ma quella sera non accadde nulla.
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che Ace sperimentasse quanto fosse dolorosa e  terrorizzante l’ira vendicativa di Fayth Mihawk, la Fatal Queen.
Si salvò grazie all’intervento del tutto casuale di qualcun altro che, come lui, quella sera firmò inconsciamente un contratto col destino.
Allo scoccare della mezzanotte, un black out tolse corrente a tutto Palazzo Du Rossignol, dalle cucine ai bagni, e naturalmente al salone principale, dove soltanto le luci esterne rischiararono fiocamente i contorni della sala.
Qualcosa cadde. Qualcos’altro si infranse col suono acuto di vetri e porcellana frantumati. Il brusio provocato dal serraglio degli invitati, guardinghi e brontolanti, fu zittito da una sonora minaccia, seguita da un’imprecazione.
« Scendo a vedere cos’è successo! Ho lasciato giù… » ma le parole di Ace si spensero. Aveva alzato la mano sinistra, le cui dita erano sormontate da piccole fiammelle per rischiarare l’oscurità, quando notò che al suo fianco non c’era più nessuno.
Fayth si era volatilizzata, come dissoltasi nelle ombre incombenti, silenziosa, senza un respiro, un passo.
Il ragazzo sospirò sconsolato, ma senza appannare la bella sensazione di averla rivista.
Rapido, rimettendosi la maschera da drago, discese al piano inferiore per capire cosa stesse succedendo.
 
 
 
Qualche minuto prima l’Asta stava volgendo al termine. L’ultimo articolo messo in mostra era qualcosa che come valore si piazzava tra un reperto archeologico e un libro di favole.
Sistemata in una cornice di legno dorato e vetro, per un’altezza di un metro e una larghezza di tre, una magnifica cartina in fibre di lino, cotone e canapa, ornata di macchie e piccoli strappi dovuti al tempo, faceva mostra di sé sorretta da due Gazze Ladre.
Era una mappa dell’intera Grand Line risalente a quattro secoli prima.
Firmata Montblanc Noland.
Prima che il banditore sancisse l’inizio delle offerte, osservò la sala ammutolitasi di fronte all’oggetto, non un semplice corredo d’arredamento. Aveva un significato più profondo, un’idea di confine che in mezzo alle file di quella nuova generazione si piazzava tra la realtà e il sogno vissuto da molti nel salone a festa.
Noland era ancora per molti, tutti, un avventuriero bugiardo relegato a ruolo di personaggio satirico nei libri per bambini. Ma la bellezza di quella cartina, redatta con mano ferma, con linee e colori precisi, appena sbiaditi, scritte vergate senza tentennamenti, per un attimo realizzò la magia.
La magia di leggere i nomi di diverse isole e trovarli reali, veri, e altri ritenuti ancora favolosi. Come Jaya, sui cui contorni da teschio si soffermarono in molti, prima in silenzio, poi con i primi risolini e parole di scherno che spezzarono l’atmosfera sospesa e trasognata.
Qualcuno additò beffardo anche un’altra isola, dal contorno amorfo e corredata di minuscole righe di appunti, sull’estrema sinistra della cartina, dopo St. Kora e Garden Party.
Raftel Island.
La meta ultima.
Il luogo che aveva mitizzato da Gold Roger.
La tana del tesoro.
Molti contemplarono quella porzione di carta sgualcita con sguardo famelico, eccitato, riflessivo, e perso nel tempo. Chi ci credeva, chi osava superare il bordo della ragione e fissare senza paura il precipizio dei propri desideri apostrofati come vane illusioni.
Leopardi della Neve, Pavoni, Corvi, Agnellini rassegnati, Draghi dai colori della notte che avvertivano le tempie pizzicare, come se pensare al One Piece potesse portare a galla qualcosa in una memoria ottenebrata dall’amnesia. E ancora, un Ermellino, compiaciuto dalle chiacchiere, dall’esaltazione provocata da quel pezzo d’arte, di storia e sogni recuperato dal passato.
Dominic Du Rossignol non credeva al destino. Non a quello scritto da qualcuno.
Lui era uno a cui piaceva tenere in mano le carte della sorte. Uno di quelli che gettava l’amo, conscio dell’esca succulenta nell’acqua infestata di pesci e squali. Non gli importava chi si sarebbe accaparrato l’oggetto in sé. A lui interessava solo che tutti fossero consci, che tutti ammirassero e ammettessero l’ennesimo tassello di quel puzzle che metteva in dubbio realtà e speranza.   
La sala si surriscaldò in breve.
La base d’asta era già stratosferica in sé, diciotto milioni di berry, ma le offerte, i rialzi, le minacce si levarono tonanti, tanto da far scattare più di una volta la sicurezza per ristabilire l’ordine in mezzo agli animali impazziti.
Che prezzo si può assegnare a un sogno?
Un pensiero che passò per le menti di molti. Di molti che rimasero in disparte, silenziosi, senza partecipare perché storditi dall’emozione provocata da un semplice pezzo di carta, perché consapevoli che la sfida non era metterci le mani sopra, non quella sera almeno.
La strada era lunga, come i disegni stessi di Noland raccontavano. San Faldo, su quella cartina, era un puntino poco oltre la metà del Paradiso, e molto lontano anche solo dai cancelli del Nuovo Mondo.
Chi aveva già accolto la sfida tempo prima, in quel momento, nella confusione di voci, la rinnovò davanti a quella cartina. Levando il calice o ghignando divertito, o sospirando, sapendo solo di dover attendere.
L’asta arrivò presto a sfiorare i quarantasei milioni di berry; la folla sembrava uno stadio in piena ovazione per chi si stava contendendo la mappa.
Ma tra il decimo e il dodicesimo rintocco della mezzanotte, passati in sordina tra le grida, la luce si spense. Le lampadine languirono, lasciando calare il buio come un manto carezzevole ma inaspettato per i presenti, primo fra tutti il padrone di casa.
L’Ermellino si mosse senza perdere un attimo, appoggiando il calice che aveva tra i guanti, ma quando sentì i rumori attutiti di una colluttazione provenire da uno dei ballatoi superiori dovette fermarsi. Una voce inveii rabbiosa e Dominic la riconobbe come quella di Milo.
Ci fu un cigolio forte, il cricchiare di cristallo contro cristallo, e tutti levarono i volti mascherati verso i lampadari incombenti nella cavernosa oscurità, vedendone uno dondolare pericolosamente. I più attenti notarono anche una figura saltare agile da una lumiera all’altra.
Il Vice dei Raiders ne seguì i movimenti, con sguardo sottile e attento.
Alle sue spalle, intanto, qualcuno arrivò trafelato e ansante.
« Nii-kiki… mi dispiace… è scappato… » alitò Dakota, scarmigliata e con la livrea sgualcita. « Non abbiamo capito chi sia… ma- »
Dominic la interruppe con un gesto secco e disinteressato, tenendo ancora l’attenzione incatenata a quell’ombra balzante in totale libertà e agio. I lampadari ondeggiavano in fruscii e suoni limpidi da accapponare la pelle, coprendo gli ulteriori spostamenti dell’intruso, che scomparve all’improvviso da chi lo aveva seguito fino a quel momento.
I primi guerrafondai dello zoo iniziarono a sbraitare per l’interruzione e il velato senso di minaccia, ma non andarono avanti per poco.
Il rumore secco del legno rotto, seguito da un forte rumore di vetri in frantumi e dalle strilla acute di donne, portarono l’attenzione al fondo della sala, nell’area del banditore, dove poco prima si stava disputando la contesa per la mappa di Montblanc Noland.
« Signore e signori, pazientate ancora un attimo, tra poco sarà tutto finito »
La voce rimbalzò ovunque, disperdendo nell’atmosfera tesa una nota beffarda e sicura. Ne seguì un nuovo evento del tutto impensabile: una striscia di fuoco si accese, sul tetto del baldacchino costruito per l’occasione sopra il palco e il pulpito del banditore. Le fiamme, di un brillante quanto scenico e fatuo azzurro, si alzarono da prima nefaste, per poi circoscriversi e placarsi, dando però l’effetto desiderato: una figura si erse a pochi passi dalla fonte di luce, ghignante e padrona della situazione.
« Buonasera! » esordì l’intruso in tono pieno, giovanile e maledettamente divertito dinanzi agli avventori ammutoliti e incerti. Non attese che si riprendessero dallo sbalordimento per tornare a parlare:
« So di aver interrotto una festa piacevole, ma vi priverò solo di qualche altro minuto! Vediamo, qui abbiamo… pirati – cadenzò laconico, con una sordida pietà, per proseguire supponente e far scorrere brividi a chi di dovere – e anche marines! Il Gran Capo Sengoku lo sa che siete qui? » ridacchiò. « E sia mai che dimentichi le buone maniere verso alcuni illustri ospiti… come segretari di stato… o consiglieri… e mi pare di aver scorto un qualche principe? »
L’uomo aveva una maschera grottesca, irregolare, formata di pezzi di vetro come uno specchio rotto in cui danzavano le fiammelle cerulee e si annidavano i volti animaleschi degli invitati. Si profuse in un inchino burlone che nella platea, ai diretti interessati, provocò una serie di gesti nervosi e impacciati. 
« … e non ho finito con i saluti. Il nostro Vice Capo dei Raiders ha davvero invitato ospiti illustri. Sapete che qui in giro c’è una splendida regina dei commerci con le sue affascinanti assistenti? » e lo disse scoccando un bacio con le dita. « Per concludere con membri del fronte rivoluzionario: ogni tanto anche a voi piace divertirvi, eh? »
L’irriverenza di quella pagliacciata scatenò ringhi profusi di cui l’imbucato non si preoccupò. Il ghigno che l’intruso esibì fu colto da tutti, come la sicurezza emanata da un solo uomo di fronte a canaglie che insieme arrivavano al complessivo di sei miliardi di berry in taglie.
« Prima che ai signori presenti venga in mente qualche rappresaglia, vi ricordo che le vostre armi sono state requisite all’ingresso. Per quelli di voi, poi, che hanno la fortuna o la sfortuna di vantare poteri legati ai Frutti del Diavolo, faccio notare cosa ho accidentalmente trovato in una delle vostre tasche durante il mio giro perlustrativo stasera » e nel dirlo, fece penzolare davanti al naso dei presenti il Cristallo di Agalmatolite messo all’asta un’ora prima. Senza prestare attenzione all’”Ehi! Quello è mio!” di un qualcheduno degli animali al buio, se lo mise al collo, compiaciuto. « Proprio un bel gioiellino » commentò sagace, per poi battere le mani e tornare ai suoi ospiti.
« Se ancora non siete convinti della mia buona fede, vorrei aggiungere che a ognuno dei magnifici lampadari ho applicato una carica esplosiva, nel caso proprio non riusciate a fare a meno di attaccarmi. Comunque, una esploderà ugualmente tra circa tre minuti. Me ne scuso in anticipo » continuò indifferente, e tanto suonò serafico il tono che in molti non capirono la reale portata della frase.
« Ah! » riprese, come dimentico di qualcosa. « Riguardo la solerte Gazza Ladra che mi stava inseguendo prima, credo che si stia ancora districando dalla breve divergenza di opinioni che abbiamo avuto, signor Vice Capo dei Raiders. Devo ammettere che non mi aspettavo un tipetto tanto bellicoso »
L’ultimo appunto, melenso e distaccato, lo disse puntando gli occhi verso l’Ermellino, rimasto immobile in mezzo alla calca fremente.
Per quanto Dominic Du Rossignol, nella sua implacabile posa, non avesse gradito quell’intermezzo, quell’imprevisto, e soprattutto quel ragazzetto ritto in piedi a parlare con arroganza, non si era ancora mosso. Immobile come fosse stata una delle belle statue classiche che si potevano trovare nel palazzo, era rimasto a fissare l’intruso con una ben chiara consapevolezza in mente. A posteriori avrebbe trovato l’episodio quasi divertente, nonostante gli avesse rovinato la serata. Ma in quel momento, lo stava solo studiando, valutando. Perché sì, dovette ammetterlo, lo aveva sottovalutato.
« Mi sono dimenticato di presentarmi e spiegarvi la mia presenza » parlò di nuovo l’uomo dalla maschera fatta di specchi rotti, senza più burle, senza più giochetti. Si espresse senza fretta, ricatalizzando l’attenzione come un’overture, e in tono flautato, incantatore. « Il chi dietro la maschera è Ruba Nome. So che molti di voi mi conoscono perché ho sottratto loro qualcosa negli anni. Colgo l’occasione per ringraziarvi per avermi permesso di ampliare la mia collezione privata! » e le bestemmie si sprecarono. « Ma ora passiamo alle ragioni che mi hanno spunto qui… ossia dare una risposta al Signor D. dei Raiders, che ha avuto la presunzione e il cattivo gusto di fare ricerche sulla mia persona per poi chiedermi di entrare a far parte del suo gruppo di ladruncoli. Il no, grazie, non sono interessato è deducibile, o almeno spero »
Tutta l’ilarità, l’irriverenza, la presa in giro si dissolsero e rimase sono il silenzio. Breve e teso. 
Ma nessuno diede seguito a quella dichiarazione quando un’esplosione fece balzare il cuore in gola a tutti. Lustrini e stelle filanti, più macabri che mai nel buio che ottenebrava in quel momento il salone settecentesco, seguirono la lenta caduta e lo sfracellarsi di uno dei lampadari. Ne uscirono tutti indenni, salvo pochi graffi, dato che i cristalli si infransero sui tavoli centrali del buffet. Tuttavia la reazione fu quella stimata da Ruba Nome: la folla iniziò a disperdersi disordinatamente.  
Sbraitando maledizioni e invettive, il serraglio cominciò a battersela, a buttarsi verso le uscite chiuse, tentando di sfondarle.
« Nii-kiki… cosa facciamo? » mormorò allibita Dakota alle spalle del suo capo, guardandosi intorno.
Le sorprese non erano ancora finite.
Di punto in bianco, Ruba Nome levò il braccio, armato di pistola, puntando il petto di Dominic. La ragazza dai capelli rosa fece in tempo a cacciare un verso incredulo che uno sparo riecheggiò assordante, ma il rumore acuto dell’impatto fu totalmente innaturale.
A cadere a terra fu un povero sfortunato dal lato opposto della sala, che si tenne la gamba dov’era appena finito il proiettile rimbalzato.
« Fiuu… per fortuna anche la mia ricerca su di lei, signor Vice Capo, era vera » ironizzò l’improvvisato pistolero, che gettò via l’arma scarica.
« Questo potevi risparmiatelo, Ruba Nome » sibilò finalmente Dominic, riprendendo la parola mentre si tastava la giacca irrimediabilmente rovinata all’altezza del torace, dove ora un foro bruciacchiato faceva bella mostra, ma non c’erano tracce di sangue o buchi.
« Scherzi? Sei un fottuto diamante gigante! » esclamò l’altro abbandonando la teatralità e rivelando maniere più colloquiali e gioviali. L’apprezzamento nei suoi occhi aveva un che di maniacale e un sorriso avido sfavillò alla luce delle fiammelle ancora accese ai suoi piedi. « E tanto per la cronaca, questo – riferito al proiettile – era per aver ficcato il naso dove non dovevi! » aggiunse inviperito, neanche fosse stato un adolescente permaloso.
I due si erano completamente dimenticati della baraonda intorno a loro, dei tavoli da buffet rovesciati dagli invitati che tentavano di svignarsela, del vociare concitato. Solo in pochi, i più attenti e i meno suscettibili, erano rimasti a fissare la scena e il battibecco. Che riprese, per la postilla finale.
« Ho solo altre due cose da dirti, Signor D. Da adesso sta in guardia, perché qualsiasi cosa penserai di rubare per una delle tue aste snob, io te la fregherò sotto il naso prima. Sarò la tua ombra » promise, puntandogli il dito contro.
Dominic non parve così colpito, ancora irritato per il vestito.
« E la seconda? »
Il sogghigno di Ruba Nome fu la firma e il pegno che quella sera egli lasciò al destino.
« Malauguratamente devo aver accennato alla divisione della Marina di San Faldo che ci sarebbero stati traffici illeciti questa sera, qui, a Palazzo Du Rossignol » comunicò serafico a voce alta per farsi sentire e facendo a cubetti il sangue nelle vene dei commensali che udirono quell’ultima frase. La filibusta bestemmiò all’unisono; un Agnello in particolare sbiancò, un Gufo maledisse il fratellastro mentre due Rivoluzionari a caso, un Drago blu e un Koala, decisero che era davvero ora di levare le tende. Ruba Nome proseguì. « Non volevano credermi all’inizio, data la buona reputazione della famiglia Du Rossignol, ma quando ho snocciolato qualche nome e ho fatto notare loro alcune navi sospette in porto… »
Il resto venne sormontato da ruggiti e un parapiglia crescente.
Con una risatina e un “Buonanotte!”, l’intruso spense le fiamme sul tetto del palco, facendo ripiombare tutto nella tenebra. Qualcosa esplose, facendo tremare i lampadari ma senza farli precipitare. Nuove nuvole di coriandoli e fumo colorato invasero la stanza.
« Dakota » chiamò Dominic, controllato. « Va’ a liberare quel – roteò gli occhi, lasciando l’aggettivo deficiente per sé – Va’ a liberare Milo. Assicuratevi che tutti gli invitati lascino la festa. Di’ a Maze di mandare giù dello scotch e occuparsi della Marina, li voglio il più lontano possibile »
« E quel tipo? » sbottò lei, fissando il buio del palco in cui non si vedeva più nulla.
« Non discutere » l’ammonì, spedendola via con un gesto mentre si avvicinava al pulpito del banditore, pur sapendo di non trovarci nessuno.
« Bello spettacolo »
La risata veniva da una delle alte finestre che dava sul canale secondario. Anche se la figura era totalmente in ombra, Dominic sospirò avvicinandosi.
« Mon trésor, non ridere delle mie disgrazie, almeno tu »
« Quel ragazzino te l’ha proprio fatta » rise il Pavone con un ghigno che lo fece innamorare di nuovo. « Anche al grande Dominic-so-tutto-di-tutti ogni tanto sfugge qualcosa, o qualcuno »
« Sei proprio perfida stasera, Eve »
« Siamo pari » celiò lei con un sorriso squisito, sotto la maschera. « Non vai a prendere il guastafeste? » aggiunse, toccandogli il buco nel costume da Ermellino.
« Chi? Quel casse-pieds? » sbuffò lui. « Non ho voglia. Dovrò passare la nottata con Monsieur Jesaistout, il Sergente della Marina di stanza qui, e pagarlo profumatamente per farlo stare zitto… perché non mi aspetti in camera? Avrò bisogno di essere consolato » mugugnò falsamente contrito, e assolutamente indifferente al tramestio circostante. 
Dalla penombra, senza che nessuno dei due se ne rendesse conto o intuisse l’intrusione, due braccia sollevarono la donna vestita da Pavone, strappandole un verso sorpreso. La allontanarono dalle grinfie di Dominic, rimasto vagamente interdetto, ma anche in quell’occasione la sua imperturbabilità aristocratica non lo abbandonò, non quando riconobbe il presunto aggressore.
« Ora di andare » ghignò Ace, nel suo costume stazzonato, tenendosi saldamente la donna in braccio, troppo sbalordita per dire qualcosa. « Alla fine è stata una serata divertente. Soprattutto i fuochi d’artificio alla fine » rincarò allegramente e con una punta di malizia, senza staccare gli occhi da quelli chiari dell’Ermellino.
« Oh cielo… » sospirò Dominic con un sarcasmo esasperato. Gli ci mancava solo lui
Ma Pugno di Fuoco, mormorando un divertito “Reggiti forte!” alla sua dama, non restò ad ascoltarlo. Balzò con agilità sul davanzale di una delle finestre rotte dietro di loro, si voltò per un ultimo cenno di saluto e poi saltò giù, ignorando il verso sbigottito della donna.
Dominic si sporse in tempo per vederlo atterrare sul marciapiede in una piccola e fugace vampa di fiamme generata per attutire l’impatto. Se il Vice dei Raiders avesse conservato ancora dei dubbi, la fiammata li incenerì definitivamente.  
« … chi ti credi di essere, Portuguese D. Ace? »
Dominic sospirò morbidamente, levandosi la maschera e assottigliando lo sguardo, intrigato.
« Ti circondi di persone fuori dall’ordinario, eh Eve? Che altro mi nascondi, mon ami? »
 
 
 
 
 
All’alba delle quattro di mattina, il salone delle feste di Palazzo Du Rossignol era vuoto, con poche luci soffuse e un caos infinito.
Dominic era in pantaloni e camicia, arrotolata ai gomiti, i capelli raccolti disordinatamente e lo sguardo che spaziava la povera stanza dove sembravano passati degli elefanti imbizzarriti. Sua nonna gli avrebbe urlato nelle orecchie per tre giorni di fila, maledicendo lui e i suoi hobby illegali.
I marines erano sloggiati dopo tre ore di chiacchiere e deposizioni inutili, buone solo per i giornali del giorno dopo; la servitù se ne era andata da mezzora, come anche Dakota e Maze a seguito degli ultimi aggiornamenti su cosa fosse stato trafugato da Ruba Nome in casa. Milo lo avevano dovuto sedare, letteralmente, avendo bestemmiato per un’ora di fila facendo venire il mal di testa a tutti.
Mal di testa che a Dominic sarebbe rimasto anche il giorno successivo, quando si sarebbe sorbito le ulteriori lamentele e le varie minacce di morte che i suoi invitati gli avrebbero sbraitato per lumacofono per com’erano finite le cose.
E in quel quadro di pessimismo, un piromane di vent’anni gli aveva portato via da sotto il naso la sua bella dea vestita da Pavone, quando lui aveva già programmato di spostare la fine della festa a un tête-à-tête nelle sue stanze con champagne. Non paga, la sua sorellina gli aveva tolto il saluto e si era barricata nelle sue stanze con la minaccia di ammazzarlo ripetutamente nel sonno.
« Lo sa che si è già sparsa voce che sia stata una festa movimentata, Mr Du Rossignol? »
Il commento provenne dalle sue spalle, da qualcuno che entrò nella sala calpestando i vetri rotti dei bicchieri guardandosi in giro falsamente curioso.
Dominic scrollò le spalle, alzando le braccia in segno rassegnato. L’ennesimo imbucato senza invito, ma ormai era inutile lamentarsi.
« Non si possono insegnare le buone maniere a un branco di animali » rispose quindi laconico, per poi voltarsi e squadrare il nuovo venuto, levando un sopracciglio incuriosito. Aveva davanti una persona piuttosto singolare. « Non ha scelto il momento migliore per entrare in casa mia. L’ultimo che si è presentato non in lista ha provocato questo disastro. Sono un po’ suscettibile a riguardo »
L’uomo si fermò a poco meno di tre metri. Sorrideva mite, ma gli occhi stavano analizzando tutto del padrone di casa, dando ragione alle voci sentite.
« Con chi ho il piacere di parlare? » proseguì Dom.
« Devo credere sul serio che non lo sappia? »
Ci fu un breve silenzio, poi un lieve accenno di sorriso dal maggiore dei Mihawk.
« Il Nadim, dico bene? O Amon, la Mano Sinistra di Dragon il Rivoluzionario. È una leggenda che si rivela »
« Amon andrà benissimo, come darmi del tu » assentì quest’ultimo. Abbigliato in un comodo kimono nero a ricami floreali rosso e oro, teneva un braccio scostato dalla manica e appoggiato pigramente nella parte anteriore dell’indumento. I capelli bluastri e lunghi erano trattenuti dietro il capo, mentre la cicatrice orizzontale sul naso riluceva al riverbero dei lumi.
Dominic assentì.
« Vada per Amon allora. Mi scuso per la pessima accoglienza, ma temo non mi sia rimasto nulla di intatto da offrirti da bere »
« Non è necessario » continuò sulla falsa riga della cortesia, nonostante entrambi di squadrassero impazienti di sapere cosa l’uno volesse dall’altro. « Mi attarderò poco e passerò subito al sodo: sono qui per richiedere il lavoro dei Raiders. O meglio, di te in particolare »
Il padrone di casa inclinò la testa e sorrise modesto.
« Ho giusto bisogno di rifarmi delle spese di questo disastro. Come posso aiutare la terza – o la seconda? – persona più importante dell’esercito rivoluzionario? »
« La mia richiesta non ha nulla a che vedere con i rivoluzionari » precisò l’altro, e fu come una clausola di riservatezza. Non c’era più colloquialità nei suoi occhi, induritisi. « Ho bisogno che venga trovata una persona »
Il Vice Capo dei Raiders sospirò sconsolato. Non gliene andava giusta una, quel giorno.
« Preferirei ritrovare oggetti, manufatti, tesori. Con le persone c’è il fattore emotività e libero arbitrio che complica sempre tutto » borbottò grattandosi la nuca.
Amon tradì una piccola dose di impazienza nel fare un ulteriore passo. Appariva minaccioso, ma l’unica persona che Dominic temesse al mondo probabilmente stava gozzovigliando nei Mari Meridionali in quel momento. Continuò quindi a fissare l’ospite inatteso incoraggiandolo a proseguire.
« Mi interessa solo sapere il nome e i suoi ultimi spostamenti » chiarì il rivoluzionario.
« Questo è più ragionevole » convenne Dominic. « Dunque, qual è la tua richiesta, Amon? »
« Voglio sapere chi ha mangiato il Frutto del Diavolo Death Death »
 
 
 
 
 
 
To be continued?
 
   
 
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