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Autore: AnyaTheThief    18/02/2017    1 recensioni
Si conclude con quest'ultima parte la saga di Crossed Lives. Finalmente potrete dare risposta alle domande che ancora erano rimaste aperte dai capitoli precedenti. In un viaggio tra vite passati e presenti, ecco l'ultimo moschettiere affrontare i fantasmi del XVII secolo in un mondo totalmente nuovo. Il suo primo incontro con la vita passata sarà qualcosa di inaspettato.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Athos, Porthos, Queen Anne
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Jad si ridestò lentamente, scaldato dai primi raggi del sole che raggiunsero il suo viso. Non aprì gli occhi, ma svegliò i muscoli, muovendosi piano. Gli faceva male dappertutto; era seduto in una scomodissima posizione, in un angolo della macchina, ed Iris si era addormentata sopra di lui, usandolo come cuscino.

La sentì muoversi a sua volta, mugolando appena. Sentì la sua mano sfiorargli il viso e scendere sul petto e sorrise. Non gli importava se ogni singola parte del suo corpo fosse dolorante per via della nottata scomoda e di tutte le acrobazie che aveva fatto la sera prima. E non solo quelle sulla fune. Cercò alla cieca la sua testa ed affondò le dita tra i suoi capelli, baciandole poi il capo, gustandosi il profumo del suo balsamo.

D’un tratto lei scattò, destandolo completamente e facendolo persino sussultare.

“Oh no! Oh, merda!” esclamò Iris, cercando i suoi vestiti sparsi per tutta la macchina. Indossava soltanto gli slip, ed in quel momento Jad non riusciva a preoccuparsi troppo per qualsiasi cosa si stesse agitando.

“Non dire le parolacce.” sorrise sornione, afferrandola per la vita e tirandola a sé per baciarle il seno. “Dovrò punirti… Di nuovo...”

“Scemo!” sbottò lei, schiaffeggiandolo col vestito che teneva in mano, ma Jad notò una nota di piacere nel suo urletto. “Dobbiamo spostarci, i miei stanno per uscire per andare al lavoro!! Vai, vai, parti!” lo esortò. A quel punto sì che iniziò a preoccuparsi.

“Cosa?! Ma… Non ho nemmeno...” e anche lui iniziò a cercare con lo sguardo i suoi vestiti.

“Non importa, sposta la macchina! Parti!!”

Jad si spostò goffamente sul sedile del guidatore, facendosi strada in quella macchina troppo piccola per la sua stazza, e l’avviò. Imboccò una strada secondaria e si accostò di nuovo, mentre Iris si rivestiva. Spense di nuovo l’auto.

“Senti...” iniziò a dire, guardandola dallo specchietto retrovisore.

“Scusami. Mi avrebbero uccisa.” lo interruppe lei, spostandosi a sua volta sul sedile del passeggero per stargli vicino. Lui spostò il sedile indietro ed iniziò a rivestirsi a sua volta.

“Beh, quando rincominciamo?” scherzò Iris. Ma forse non scherzava; aveva di nuovo quello sguardo malizioso dipinto in viso.

Jad ridacchiò, mentre si infilava la maglietta. “Dovrei richiamare mia madre, non sa che sono qui, ieri mi stava chiamando...” si guardò attorno e ritrovò il suo telefono ancora spento, abbandonato sul tappetino sotto ai piedi di Iris. Lo accese.

“Ieri è stato...” iniziò di nuovo, ma lei di nuovo lo interruppe.

“Hai perso la collana che ti ho regalato?” domandò all’improvviso, notandone l’assenza.

Ma Jad aveva già altri pensieri per la testa. Il cellulare iniziò a squillare all’impazzata, notificando decine di messaggi non letti. Tutti riportavano più o meno lo stesso testo, o segnalavano chiamate perse. Il viso del ragazzo si contrasse in un’espressione attonita.

“Jad, che succede?” lo richiamò lei.

Ma lui non la sentì. Era lontano con la testa.

Il telefono prese a squillare di nuovo, mentre il nome di Thibaud, il mago del circo, lampeggiava sullo schermo.

“Jad, rispondimi, cosa succede?” insisteva Iris, scuotendolo per un braccio.

Ma lui continuava a non risponderle. Il suo sguardo rimaneva fisso sul cellulare che vibrava e squillava inquieto come lei, che iniziava ad agitarsi.

“Jad!” lo chiamò di nuovo, senza ottenere risposta. Invece lui premette il pulsante verde sulla tastiera e lentamente si portò il telefono all’orecchio, tremante.

“Pronto?”

 

 

 

 

 

Da un paio di giorni Porthos teneva d’occhio quella cella, della quale riusciva a scorgere soltanto un angolo e soltanto premendo il viso contro le sbarre della propria, di tanto in tanto vedeva un’ombra, un piede, il lembo di un vestito. Sentiva i suoi passi camminare avanti e indietro, impazienti, agitati; doveva essere qualcuno di piccola statura, esile e aggraziato. Il Moschettiere si domandò cosa avesse fatto per essere rinchiuso insieme a lui in quell’ala della Conciergerie.

Tutte le altre celle erano vuote; non era stata una scelta casuale quella di ingabbiarlo dove non potesse vedere l’ospite dell’unica altra cella occupata.

Una settimana di isolamento: non gli era andata poi così male. Il Re era stato clemente, aveva tenuto in considerazione tutti i suoi anni di fidato servizio, e forse si era anche bevuto un po’ la scusa che Porthos gli aveva propinato. E non era nemmeno una bugia completa: credeva ci fosse qualcuno che attentava alla sua vita. Aveva soltanto tralasciato di menzionare il fatto che pensava fosse lo stesso Cinq-Mars a complottare…

Era infuriato con se stesso per aver commesso un errore tanto stupido; si vergognava profondamente di ciò che aveva visto, ed allo stesso tempo odiava quella donna sempre di più. Lei lo sapeva benissimo, lo sapeva e non glielo aveva detto, aveva lasciato che lo scoprisse da solo nel peggiore dei modi. Ed ora doveva starsene lì per tutto quel tempo a fare niente, mentre quel viscido verme attentava alla vita del suo Re, e Josèphine…

Non riusciva nemmeno a pensarci, sentiva il cuore annegare e la testa stretta in una morsa. Ma più soffriva, più si costringeva a pensare a lei. Questa era la sua vera punizione. Il suo dolore non sarebbe mai comunque equivalso a quello di Josèphine, e questo lo faceva stare ancora peggio.

Si stese sulla branda. Almeno la cella non era così male: aveva qualcosa che assomigliava ad un letto ed una panca.

Ogni giorno gli portavano della frutta e gli davano una nuova candela, ma comunque regnava il silenzio più totale. Nessuna guardia parlava, l’altro prigioniero non parlava e lui… beh, non aveva poi tutta questa voglia di aprir bocca. Sarebbe comunque stato zittito. Soltanto il rumore dei passi dei soldati che facevano avanti e indietro gli teneva compagnia; di tanto in tanto udiva anche quelli dell’altro prigioniero.

Sentì la guardia di turno lasciare il suo posto e salire le scale. Tre volte al giorno, per alcuni secondi – un minuto al massimo – veniva liberato dallo sguardo dei carcerieri.

Tirò un sospiro di sollievo e rilassò tutti i muscoli per un attimo solo. Ma poi un altro rumore lo fece tornare sull’attenti. Qualcosa aveva colpito le sbarre della sua cella. Si alzò di scatto e guardò incuriosito quella strana palla avvolta in un foglio stropicciato. Un’altra guardia stava già scendendo le scale. Rapidamente la raccolse e la infilò in una tasca interna della giacca, per poi far finta di niente e tornare a sdraiarsi.

Cosa diavolo era? Sicuramente proveniva dall’altra cella occupata. Il foglio sembrava vuoto, ma cosa conteneva, allora? Moriva dalla curiosità di scoprirlo; finalmente qualcosa di meno deprimente teneva la sua mente occupata.

Attese che la guardia passò davanti alla sua cella, dandogli le spalle, poi scartò velocemente la palla, che si rivelò essere… un’arancia. Nient’altro che un’arancia. Cosa poteva significare? Esaminò il foglio, fronte e retro, ma era totalmente in bianco.

D’accordo. O il secondo prigioniero era uno svitato, o a lui sfuggiva qualcosa. Nascose tutto sotto alle coperte, prima che la guardia tornasse indietro, poi cercò di guardare verso l’altra cella, ma non riuscì a scorgere nemmeno l’ombra del suo ospite.

Si sedette ed iniziò a spremersi le meningi. Se voleva soltanto dargli un’arancia, perché avvolgerla in un foglio? A meno che il foglio… Non fosse davvero vuoto. Certo!

Sempre tenendo d’occhio la guardia, avvicinò la candela ed iniziò a passarci sopra il foglio, attento a non bruciarlo; la carta iniziò a scurirsi in alcuni punti. Delle lettere stavano apparendo. Dovette interrompere l’operazione un paio di volte, quando la guardia faceva dietro-front e tornava verso la sua cella, ma alla fine sembrò aver decifrato il messaggio nascosto.

Un messaggio scritto col succo di arancia, semplice ma geniale. Era fiero di se stesso per aver scoperto il trucco, ma non ebbe tempo di gongolarsi troppo; non appena lesse ciò che c’era scritto, un velo gelido cancellò l’espressione soddisfatta dal suo viso. Poche parole in una grafia incerta bastarono per scuotergli la spina dorsale di brividi.

“Cinq-Mars vuole incolpare Athos del tentato omicidio del Re.”

 

 

 

 

Le luci lampeggianti delle autovetture e delle ambulanze si proiettarono negli occhi di Jad così profondamente da ipnotizzarlo e farlo quasi andare a sbattere contro una macchina parcheggiata. Abbandonò la propria senza nemmeno chiuderla e rimase per un attimo infinito a bocca aperta, col petto gonfio di dolore e lo sguardo fisso sui tendoni colorati che però d’un tratto gli apparivano come un brutto quadro ingrigito, in cui spiccava soltanto il giallo del nastro della polizia tirato tutto attorno.

Non si accorse nemmeno di averli scavalcati quando si ritrovò al di là del perimetro contornato, né del poliziotto che cercava di intimarlo di stare indietro. L’unica cosa che riusciva a vedere in quel momento era la ruota panoramica che si stagliava imponente sovrastando i tendoni e le bancarelle. Nonostante il sole alto di fronte a lui cercasse di impedirgli di capire cosa fosse successo, Jad non ci mise troppo ad individuare tra le cabine quella mancante. Seguì con lo sguardo una linea retta fino al suolo, ma non riuscì ad individuare che un ammasso di rottami, coperto parzialmente dalla folla che vi si era radunata attorno.

“Thibaud!” esclamò, individuando il mago tra la gente. Corse verso di lui, ma non appena l’uomo si voltò e lo riconobbe, la sua espressione afflitta mutò in qualcosa d’altro che Jad non seppe interpretare.

“No!” urlò, attirando l’attenzione di altri membri del circo, che vedendolo sembrarono andare nel panico a loro volta. “Jad, stai lontano!” e gli fu addosso. Un francese mingherlino che cercava con tutte le sue forze di spingerlo indietro, lontano dal luogo dell’incidente.

“Cos--? Cosa succede?” Jad era sconcertato. Gli avevano detto che nessuno era sulla ruota in quel momento, perché non voleva fargli vedere?

“Jad, non ti avvicinare!” intervenne il domatore, che insieme ad un paio di altre persone cercò di portarlo lontano da quel posto. Il suo cervello era tremendamente lento nel collegare tutti i pezzi, probabilmente perché lui stesso aveva una paura inspiegabile di giungere alla conclusione. Ma in quel momento gli fu chiara la presenza dell’ambulanza, il tono di voce di Thibaud al telefono, la faccia che aveva fatto quando lo aveva visto, e il perché quattro uomini gli erano ora addosso e lo spingevano con tutte le loro forze verso un tendone.

“Mamma...” mormorò con un fil di voce. Gli occhi gli si riempirono istantaneamente di lacrime. “No...” mugolò come un gattino ferito, guardando i suoi colleghi, uno per uno. “No, non è vero… No… Fatemi vedere, voglio...” ma non lottò per molto contro di loro. Una parte di lui non voleva veramente vedere: si lasciò trascinare via, quasi a peso morto.

Non svenne, ma cadde in uno stato di shock. Quando si riprese vagamente, si ritrovò su una panca a fissare persone che non riconosceva attorno a lui; avevano delle tute arancioni, ma il suo cervello era completamente congelato, tanto da non riuscire nemmeno a ricollegarli ai soccorritori.

“Stai tranquillo.” qualcuno gli prese la mano, un tocco femminile, delicato e rassicurante. L’attenzione di Jad però era stata catturata dai colori vivi delle tute e la vista appannata li mescolava assieme in un vortice confuso: quantomeno stava reagendo e avevano smesso di puntargli la luce negli occhi.

“Riesci a sentirmi?” una voce che cercava di riportarlo alla realtà, ma lui non voleva tornarci. La realtà era crudele, fredda.

Non c’era più quella ragazza bellissima che lo aspettava dall’altro capo della fune, col seno scoperto e le gambe divaricate. Ora riusciva soltanto a vedere l’oscurità sotto ai suoi piedi che inghiottiva la corda fino a fargli perdere l’equilibrio; i piedi nudi di Iris diventavano tentacoli pronti a frustarlo, il suo sorriso malizioso un ghigno diabolico, i suoi morbidi capelli biondi un groviglio ispido. Gli occhi gialli e rossi lo penetravano, terrificanti, una lunga lingua appuntita leccò le labbra violacee come se si stesse per pregustare un glorioso pasto.

“Riesci a sentirmi?” gli diceva qualcuno lontano, sopra di lui. Nel momento in cui si distrasse, i mostro lo colpì con un tentacolo. Cadde nelle ombre, ma riuscì ad afferrare la fune e rimase lì, a penzoloni, con il mostro che lo fissava e sghignazzava ed il buio che pareva risucchiarlo. Non era mai caduto prima d’ora.

“Riesci a sentirmi?” questa volta riconobbe chiaramente quella voce.

“Mamma?” Jad rimase per un attimo incredulo e la mano destra perse l’appiglio, lasciandolo appeso alla corda soltanto con la mano sinistra. Udì un sussulto di terrore da parte di un pubblico inesistente, da qualche parte sotto di lui.

“Mamma...” mugolò, mentre il soccorritore tornava a puntargli la luce negli occhi.

“Jad, mi dispiace. Ma non lascerò che tu cada.”

D’un tratto una forza lo prese per la mano libera e lo risollevò, riportandolo sulla corda. Jad vide una luce rossa come il fuoco, calda ed accogliente. Il mostro sembrava temerla.

“Vai.” la voce di sua madre era sempre più vicina, come se provenisse dall’interno di quella luce tremula. Il mostro terrificante si gettò nell’oscurità, terrorizzato e la luce lo guidò tenendolo per mano fino alla piattaforma.

La gente applaudì, l’occhio di bue puntò su di lui, accecandolo.

A quel punto Jad tornò realmente in sé con un sussulto improvviso. Si voltò per vedere chi gli stesse tenendo la mano, ma si rese conto che nessuno sedeva accanto a lui.

Fissò tutte le persone attorno che preoccupate cercavano di accertarsi delle sue condizioni e di decidere se portarlo in ospedale. Ma lui si alzò come se niente fosse e con una sicurezza irreale, uscì dal tendone sotto lo sguardo attonito dei presenti.

Entrò nella tenda di sua madre. Tutte le sue cose erano ancora lì, il suo profumo ancora nell’aria, delle carte scoperte sul tavolo, una scatoletta di legno incisa ed una lettera appoggiata accanto ad essa.

Lo sapeva. Non voleva crederci, ma in fondo lo aveva saputo dal primo momento in cui aveva visto i nastri della polizia; non poteva essere stato un incidente. Eppure non riusciva a spiegarsi il motivo per cui lo sentiva nel profondo delle sue viscere, una sensazione scomoda, fastidiosa, che lo faceva sentire in colpa, e non era soltanto per aver rifiutato quella che era stata la sua ultima chiamata, e non averla nemmeno rassicurata con un messaggio la sera prima, no. Era qualcosa di più profondo, di più oscuro.
Jad lesse la lettera senza esitazione: doveva sapere subito. Aveva tutta la vita per piangere e disperarsi, ma solo pochi istanti per cercare di afferrare il sentimento di sua madre tra quelle poche righe. Gli occhi scorrevano lentamente, nel tentativo di cogliere qualsiasi sfumatura nella scelta accurata delle parole, qualsiasi piccola macchia d’inchiostro esitante che gli facesse comprendere lo stato d’animo di Tabatha mentre le scriveva.

Quando ebbe finito, appoggiò di nuovo la lettera sul tavolo ed aprì la scatola di legno. Con gli occhi lucidi, si guardò attorno. Sembrava essersi rimpicciolito, come un palloncino sgonfio. Tutto il potere che si era sentito scorrere nelle vene in quei due giorni, la gioia, l’eccitazione, la soddisfazione, tutto perduto. Rimaneva solo lui, con quella lettera e quella scatola, senza Iris e senza madre.

Tornò a guardare l’interno della scatola di legno. Prese un grande respiro, poi afferrò il ciondolo a forma di equilibrista.

E questa volta cadde davvero.  

  
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