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Autore: MadAka    19/02/2017    1 recensioni
«Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza, «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.
«E se fosse Moriarty?»
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Emily Prince si è sempre sentita diversa. Un ombrello giallo sotto la pioggia di Londra, un puntino rosso nel cuore della notte, una mente affollata, sicura e colorata, e una visione unica del mondo intorno a sé.
La sua ambizione più grande la guiderà lontano dalla sua città, fino al più noto numero civico di Baker Street. Tuttavia, contro ogni previsione, la farà anche sprofondare in qualcosa da cui, sola, la ragazza non potrà uscire.
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La storia è ambientata dopo la fine della terza stagione.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Quel sabato mattina Emily si rigirò a lungo nel letto. Le nove erano prossime ad arrivare, ma lei non riusciva a trovare la voglia di mettere piede fuori dalle morbide coperte che teneva tirate fin sopra alla testa. I rumori della Londra mattutina entravano dalla finestra in modo ovattato, ma comunque incessante. Alla fine la ragazza riaffiorò da sotto le coperte e lanciò un’occhiata alla parete alla sua sinistra, dove era solita appendere i suoi acquerelli. Ne aveva fatti altri e aveva ulteriormente incrementato la parte di muro coperta dai suoi lavori. Fece scorrere gli occhi su di essi, dopodiché si decise ad alzarsi.

Il sabato mattina Sherlock era quasi sempre a casa, principalmente per il fatto che Molly non era mai al St. Bartholomew's Hospital e quindi non poteva autoinvitarsi al suo laboratorio per svolgere delle analisi su cose che sapeva solo lui. Emily decise quindi di trascorrere quelle ore insieme al detective, nel tentativo di ampliare ancora un po’ il suo lavoro di ricerca che, nelle ultime settimane, stava cominciando a prendere una forma maggiormente definita – sebbene rimanesse un’accozzaglia di appunti, note, post-it e indicazioni. Si vestì con una delle sue abituali camicette e un paio di jeans, si legò i capelli in un improvvisato chignon, e, infilate le proprio sneakers, uscì dalla camera. Appena fu all’inizio della rampa di scale, però, si accorse che in soggiorno Sherlock non era solo. Stava parlando con qualcuno, qualcuno che non ne aveva intenzione di alzare il proprio tono di voce. Quella che si stava svolgendo al piano di sotto era una delle conversazioni più mormorate che la ragazza avesse mai sentito, soprattutto perché non riusciva a comprendere una sola parola. Scese le scale cercando di fare abbastanza rumore, nel caso i due presenti stessero parlando di argomenti di cui lei avrebbe fatto meglio a rimanere all’oscuro e, sull’ultimo gradino, fu in grado di vedere chi aveva raggiunto il 221B quella mattina.

Mycroft Holmes era in piedi, in linea d’aria, proprio davanti alla porta. Era vestito con l’impeccabile eleganza riconducibile ai membri della sua famiglia e stava rivolgendo il suo sguardo al camino dove, immaginò Emily, si trovava di sicuro il fratello minore. L’uomo la sentì e si voltò verso di lei. Le fece un cenno con il capo e le diede il buongiorno.

«Salve, Mr. Holmes» lo salutò di risposta lei, entrando nella stanza.

Sherlock la stava già guardando e la ragazza gli rivolse un saluto. Mycroft aveva come suo solito la consueta aura di sicurezza e superiorità a rivestirlo e a Emily non servì molto tempo per intuire che in quel momento vigeva un’atmosfera piuttosto tesa nella casa. Sperò di poterla alleviare in qualche modo.

«Posso offrirle del tè?» domandò al più grande dei fratelli Holmes.

Quest’ultimo declinò l’offerta con un elegante gesto. «No, ti ringrazio. Mrs. Hudson ha già provveduto» rispose, per poi rivolgersi a Sherlock: «Per fortuna in questa casa continua a esserci qualcuno che sa cosa sono le buone maniere, a differenza di te, fratellino.»

La ragazza notò Sherlock irrigidire la mascella, lo sguardo fisso su Mycroft. A ben pensarci lei non era mai stata a contatto con entrambi contemporaneamente e le fu evidente la poca simpatia reciproca che provavano l’uno per l’altro – come John le aveva già detto tempo addietro. Eppure era certa che Mycroft volesse bene a Sherlock, altrimenti non sarebbe stata in grado di spiegarsi perché qualcuno fosse disposto a spendere soldi con l’intenzione di chiedere a una sconosciuta – lei, in quel caso – di sorvegliare il proprio fratello.

«Ha un incarico per Sherlock o è qui per una semplice rimpatriata» tentò poi Emily, respirando perfettamente il clima presente e chiedendosi se non fosse meglio scappare finché ne aveva il tempo.

«Nessuna delle due cose» intervenne il detective, lanciando un’occhiata torva in direzione di Mycroft. «Ho già detto al mio adorato fratello che può andarsene perché non ho alcuna intenzione di accettare il caso.»

L’interesse della ragazza esplose sentendo quelle parole. Un caso, non poteva chiedere di meglio. Considerando poi il ruolo ricoperto da Mycroft e le sue capacità deduttive – sempre John l’aveva informata della cosa – era certa che si trattasse sicuramente di qualcosa che valeva la pena approfondire. Un caso certamente delicato e complesso per Sherlock Holmes significava anche una raccolta di quante più nozioni aggiuntive possibili sul modo pensare del detective. D’improvviso il caso Horvat – come lei e Sherlock lo avevano denominato – che le aveva tenuto impegnata la mente per giorni passò in secondo piano.

«Un caso?» chiese, l’eccitazione palpabile nella voce.

Entrambi i fratelli Holmes la guardarono, le loro espressioni erano una l’opposto dell’altra. Mycroft sorrise a quell’improvviso interesse da parte della ragazza, mentre Sherlock si irrigidì ulteriormente.

«Emily, per favore, evita di porre domande a riguardo. Come ho già detto a Mycroft non sono interessato» la rimbeccò quest’ultimo, prendendo parola per primo.

«Suvvia, Sherlock, è solo curiosa. Cosa c’è di male a darle qualche informazione aggiuntiva sulla questione?»

Il detective guardò suo fratello esterrefatto; l’unico motivo per cui poteva comprendere che Mycroft raccontasse di cose che definiva egli stesso “top secret” era solo per via del fatto che Emily poteva, in qualche modo, convincerlo ad agire. A quanto pare al fratello importava relativamente poco dell’incolumità della giovane ragazza. A ogni modo Sherlock non aveva intenzione di accettare, non si sarebbe mosso da Baker Street per risolvere un caso che proprio il fratello stava cercando di propinargli.

«Quindi posso saperlo?» incalzò Emily, sempre più esaltata.

Sherlock alzò gli occhi al cielo di fronte all’improvvisa stupidità della sua coinquilina. Mycroft era sempre stato bravo a manipolare le persone, gli bastavano poche parole e una gestualità ben calibrata per riuscire a conquistare il proprio interlocutore. Nel caso della ragazza, invece, era bastato attirare la sua attenzione con qualcosa che bramava – nel suo caso uno Sherlock Holmes alle prese con delle indagini – per catturarla per bene.

«Si tratta del Vice Primo Ministro. Ha ricevuto una busta anonima contenente una minaccia di morte. Come comprensibile Scotland Yard brancola nel buio e io vorrei che il colpevole, chiunque esso sia, uscisse di scena il più in fretta possibile» disse Mycroft, rivolgendosi solo a Emily.

«Perché le stai dicendo queste cose?» intervenne Sherlock.

«Perché me lo ha chiesto.»

«No, non è vero. Tu glielo vuoi dire perché sei convinto che possa indurmi ad accettare» sibilò il detective.

La ragazza si chiese se aveva capito correttamente ciò che Sherlock aveva appena detto. Non aveva mai pensato di poter essere in grado di convincere l’uomo a fare qualcosa e quello che aveva sentito, in un certo senso, la lusingava.

«Vuoi veramente farmi credere che una ragazza come Emily può riuscire a farti fare cose che non vuoi?» domandò Mycroft, con finta sorpresa. Sherlock strinse gli occhi.

«A malapena John ci riusciva. Ma è pur vero che lui non ha mai scritto una tesi intera su di te» concluse poi il maggiore dei fratelli, sorridendo sornione.

«Mr. Holmes» prese infine parola Emily. Aveva visto abbastanza di quel bizzarro teatrino e non ne aveva capito molto. L’unica cosa di cui era sicura era che non voleva vedere i due fratelli battibeccare ancora, ne tantomeno rimanere in silenzio mentre il più grande umiliava il più piccolo. «Se Sherlock non vuole accettare il caso credo di essere l’ultima persona in grado di dissuaderlo, mi creda.»

L'uomo la guardò, facendosi improvvisamente serio. Il silenzio che si formò nella stanza durò diversi secondi e smise pochi attimi prima che Emily potesse convincersi di aver detto la cosa sbagliata.

Alla fine Mycroft sospirò. Guardò il fratello che, di tutta risposta, lo fissò con uno dei suoi sguardi più fermi.

«C'è in gioco la vita di un uomo, Sherlock» mormorò.

«Allora risolvi tu il caso dato che ti piace vantarti di essere più intelligente di me nel fare deduzioni» replicò gelido l'altro.

«Sai che non ho tempo.»

«Trovalo. Oppure cerca di indirizzare Scotland Yard nella direzione giusta.»

Si zittirono entrambi. Emily rimase a guardare i due studiarsi, impassibili e imperscrutabili. Si sentì in mezzo a uno scontro silenzioso, mentale, e proprio per quello ben più spaventoso.

Con tutta probabilità fu Mycroft il primo a cedere. Ispirò a fondo e distolse lo sguardo da Sherlock, infine recuperò il proprio cappotto, infilandolo senza dire nulla.

«Se dovessi cambiare idea sai dove trovarmi. Nel caso non volessi contattarmi direttamente anche Emily ha il mio numero» disse infine, avvicinandosi alla porta d'ingresso. Si fermò a un passo dalla ragazza e le sorrise. «Tu fammi sapere se dovesse cacciarsi nei guai, mi raccomando.»

«Conti su di me.»

L'uomo salutò i presenti avviandosi lungo le scale. Sherlock rimase in attesa di sentire la porta chiudersi, guardando Emily. Alla ragazza parve di trovare una leggera nota d'intesa in quello sguardo, ma cercò di non illudersi più del dovuto.

«Preparo un caffè» disse lei, decidendo anche di fare colazione.

Anche quel giorno la cucina era un disastro, tuttavia in quei mesi di convivenza la giovane aveva imparato bene a ritagliarsi un angolo salubre sul tavolo in cui poter inzuppare i biscotti in tutta tranquillità. Davanti ai fornelli, però, decise di prepararsi un tè. Mise sul fuoco il bollitore e rimase a guardarlo distrattamente, pensando. Sapeva che in soggiorno Sherlock si era sistemato sulla poltrona, con tutta probabilità intento a leggere il giornale del giorno. Appena il tè fu pronto Emily se ne versò una tazza fumante, lo zuccherò e prese dalla sua metà di credenza la confezione di biscotti, ben più sgonfia del giorno prima – probabilmente per opera del coinquilino.

Aveva appena addentato il primo biscotto quando Sherlock si presentò nella stanza. Rimase sulla soglia, a osservare Emily come se davanti a sé ci fosse un bizzarro, ma quanto mai interessante, animale. La ragazza sopportò quella situazione più a lungo che poté, poi, sull'orlo dell'esasperazione, sbuffò: «Cosa?»

L'uomo non si scompose. «Tu volevi che io accettassi il caso. Perché non hai dato manforte a Mycroft? Siete quasi amici dopotutto.»

Lei si strinse nelle spalle. «Non mi piace insistere con qualcuno quando ha già preso una scelta» disse, afferrando un altro biscotto.

Il detective le si avvicinò, calmo. Si sedette di fronte a lei e la guardò, un misto di divertimento e interesse negli occhi.

«Tu vuoi che io accetti» rivelò poi, consapevole.

Nuovamente Emily cercò mostrarsi indifferente. «Ovvio che vorrei tu accettassi. Sto scrivendo di te. Più casi risolvi e più vari sono questi, più informazioni articolate raccolgo io per il mio lavoro.»

Sherlock sorrise lievemente, stringendo appena gli occhi chiari.

«No, non è solo per questo» disse sicuro. «Una minaccia di morte anonima, Scotland Yard che brancola nel buio. Questo caso ti intriga come pochi altri. Tu vorresti che io accettassi anche perché vorresti indagare sulla situazione, non solo perché vuoi vedere come opero in una simile circostanza.»

La ragazza si sentì colta in flagrante. Forse un po' era così, anzi no, lo era. Non aveva affrontato mai direttamente un simile caso e nel momento in cui se lo era trovato davanti subito ne era rimasta rapita. Tuttavia era compito di Sherlock accettare, lei non aveva parola in merito e ne era consapevole. Si sforzò di fingere indifferenza alle parole del detective ma sapeva di non riuscirci. Lui la capiva troppo in fretta. Emily allora si concentrò sul biscotto, che inzuppò nel tè.

«Perché non svolgi tu l'indagine al posto mio?» domandò poi l'uomo, di punto in bianco.

Il plop del biscotto troppo imbevuto che cadeva nel tè fu piuttosto esaustivo per descrivere l'atmosfera del momento. Curiosità e consapevolezza per Sherlock e incredulità, pura e semplice, per Emily.

Quest'ultima imprecò sottovoce appena vide dove era finita la metà del suo biscotto e cercò di recuperarla con il cucchiaino. Appena fu riuscita nel suo intento guardò Sherlock, che aveva dipinta in volto ancora quella stessa, pacata, espressione di poco prima.

«N-non posso accettare un caso io, Sherlock. Con che scusa Mycroft me lo affiderebbe? E poi lui non mi conosce affatto, dubito che si fidi di me a tal punto.»

Il detective sbuffò un po' d'aria. «Mi deludi. Rinunciare così.»

«No, ehi» scattò subito lei «Non ho rinunciato, ti ho solo fatto notare che è impossibile che possa essermi affidato un caso. Quello, in particolare. Parliamo del Vice Primo Ministro, non può occuparsi di qualcosa che riguarda la sua incolumità l'ultima ragazza appena giunta da Newport. Non scherzare.»

L'uomo rimase a guardarla. Notò il leggero rossore affiorato alle sue gote, l'improvviso e debole tremolio che aveva colpito le mani e il suo sguardo che aveva cominciato a fissare con insistenza il contenuto della tazza. Emily si era innervosita, anche se, per lui, era ben più corretto dire che si era agitata. Aveva colto nel segno per l'ennesima volta e, oltretutto, era riuscito a farle dire ciò che si aspettava.

Alla fine si alzò da tavola. «Non lo dare così per scontato» le disse, tornando in soggiorno.

 

*

 

Nel pomeriggio, intorno alle diciassette, sia Emily che Sherlock erano in soggiorno, ognuno intento a trascorrere il tempo a modo proprio. L'uomo, seduto alla poltrona, alternava suonate al violino a momenti di assoluto silenzio mentre la ragazza, accoccolata sul divano, era concentrata su uno dei suoi voluminosi libri di psicologia, che aveva aperto dopo aver terminato di schizzare l'ennesimo ritratto di Sherlock sul retro di un vecchio foglio stampato.

Entrambi si misero sull'attenti quando sentirono l'ingresso del 221B aprirsi, ma Sherlock ignorò il tutto praticamente subito. Emily, invece, ascoltò felicemente i passi farsi strada lungo le scale e le voci dei nuovi arrivati farsi sempre più vicine. Con il suo caloroso e tipico sorriso, Mrs. Hudson entrò in casa, dietro di lei i coniugi Watson e la loro piccola bambina.

La ragazza chiuse immediatamente il libro quando li vide e sorrise verso di loro, salutandoli. John e Mary salutarono di rimando, provando anche a coinvolgere in quello scambio di convenevoli Sherlock. Quest’ultimo, come prevedibile, si rivelò piuttosto restio ai saluti, ma per Emily fu palese che la comparsa di John e Mary – e, perché no, anche di Mrs. Hudson – lo aveva ravvivato. Come prevedibile la signora Hudson si spostò in cucina, borbottò un paio di mezze preghiere una volta vista la situazione che vi aleggiava dentro e mise sul fuoco il bollitore per preparare del tè. Mary si sedette sulla poltrona che era sempre stata di John, la bambina fra le braccia e il marito in piedi dietro di lei.

«Allora Sherlock, ci sono novità?» domandò lei all’uomo che aveva di fronte.

Il detective la guardò aggrottando leggermente la fronte. «Sii più precisa, per favore» la invitò.

La donna si strinse nelle spalle. «In generale. Hai accettato nuovi casi, hai incontrato qualche possibile cliente? Cose del genere» disse. Non attese però una risposta, si voltò verso Emily, rivolgendosi a lei: «Ti sta facendo impazzire? Sai che, nel caso, a noi puoi dirlo.»

La giovane di risposta sorrise allegramente. «Sarete i primi a cui lo dirò, se dovesse succedere.»

Sherlock sbuffò leggermente dopo quel rapido botta e risposta e, alla fine, si decise a parlare. Da lì la conversazione si snodò in fretta, coinvolgendo tutti i presenti e arricchita dall’Earl Gray preparato da Mrs. Hudson.

Il gruppo continuò a chiacchierare per tutto il resto del pomeriggio, finché la sera non si affacciò alla finestra e Londra venne illuminata dalle migliaia di luci colorate che la caratterizzavano nelle ore notturne. Erano quasi le diciannove quando John e Mary annunciarono di dover andare. La donna si alzò dalla poltrona, stiracchiandosi per bene e andò a recuperare la figlia che dormiva tranquilla fra le braccia di Emily, la quale aveva chiesto di poterla tenere in braccio per un po’ e aveva finito per non volerla più lasciare.

«Penso che tu le piaccia molto» disse Mary alla ragazza, appena riprese la figlia.

Emily le sorrise, dolcemente.

«Chissà se lo stesso si può dire di Sherlock» ipotizzò John, guardando l’amico. Quest’ultimo sorrise ironico, senza rispondere, ma salutò sinceramente i coniugi Watson quando questi si vestirono e si avviarono lungo le scale.

Il silenzio che si formò subito dopo, piuttosto tipico al 221B, fu improvvisamente triste per Emily. Si avvicinò alla finestra, scostò le tendine e osservo la coppia avviarsi lungo la strada, John a sospingere il passeggino lungo il marciapiede, Mary accanto a lui, stretta al suo braccio. La ragazza li guardò allontanarsi finché non sparirono, sentendo una strana fitta dentro di sé; era un misto di amarezza e desiderio, qualcosa che non provava da mesi ma che, ripresentandosi così d’improvviso, non le lasciò scampo. Tornò a tirare le tende sulla finestra e si avvicinò al divano; lì prese il proprio libro di psicologia e il foglio di carta dove aveva abbozzato un ritratto di Sherlock e su cui, nelle ore precedenti, era anche comparso un disegno di Mary e della bambina. Emily non era riuscita a resistere al desiderio di disegnarla. Il ritratto raffigurava Mary intenta a osservare davanti a lei, la figlia stretta in braccio che la guardava con gli occhi luminosi di chi è profondamente innamorato e, alle spalle della donna, la sagoma di John era appena abbozzata. La ragazza non capì per quale motivo le riuscisse così semplice raffigurare quella purezza di sentimenti che caratterizzava la famiglia Watson, eppure era così. Le bastavano pochi tratti e un chiaroscuro accennato per caricare di amore i disegni che faceva su di loro perché di quello, fra loro, ce n’era molto ed era perfettamente percepibile. Si rese conto solo in quel momento che i suoi disegni di Mary e Sherlock erano stati fatti uno di fronte all’altro e sembrava quasi che la cosa fosse voluta. Senza farlo apposta Emily aveva disegnato una scena ben più ampia, sebbene lo avesse fatto involontariamente.

Sapeva di essere ferma in piedi a osservare il suo disegno da troppo, così, prima che Sherlock potesse definitivamente insospettirsi, disse: «Vado in camera mia.»

Salì le scale e subito si chiuse la porta alle spalle, cercando di ricomporsi in fretta. La spiacevole sensazione che l’aveva aggredita al piano di sotto sembrava non volersene andare, al contrario, con tutta probabilità stava crescendo. Raggiunse l’armadio, lo aprì e vi si inginocchiò davanti, afferrando dal fondo di esso la sua valigetta. Era una vecchia valigetta in cuoio, appartenuta a suo nonno. Le piaceva particolarmente e fin da quando l’aveva ricevuta – a tredici anni – vi aveva sempre riposto dentro alcune delle sue cose più preziose, tenendola ben chiusa a chiave. Aveva deciso di portarla con sé a Londra con l’intenzione di raccogliervi dentro le cose più rilevanti della sua presenza nella capitale ed era proprio lì dentro che aveva riposto tutti i documenti che lei e Sherlock avevano accumulato nella speranza di scoprire l’assassino di Walker; quello che l’uomo non aveva gettato via era ancora custodito lì.

Si sfilò dal collo la catenina a cui era legata la chiave che serviva per aprire la valigetta e che portava sempre con sé. Fece scattare la serratura e l’aprì, lanciando un’occhiata ai fogli ammucchiati dentro e alla consueta stoffa damascata che rivestiva l’interno. Vi posò il disegno che aveva fatto quel pomeriggio, sentendo dentro di sé che per quei ritratti il posto giusto non era la parete, ma quello e infine richiuse tutto.

Fu proprio mentre chiudeva la valigetta e la spingeva sul fondo dell'armadio che si rese conto di cos'era quella sensazione che l'aveva colpita: malinconia.

Aveva lasciato tutto a Newport, lontano da Londra, tuttavia in quel momento si chiese cosa, esattamente, ci avesse lasciato. A parte la sua famiglia, che per quanto le volesse bene non aveva mai nascosto di considerarla la pecora nera, c'era poco altro in quella città per lei. Di amici ne aveva sempre avuti pochi e nessuno di loro la considerava preziosa o insostituibile, lo aveva sempre saputo. La sua vita sentimentale, inoltre, era intralciata proprio perché lei era sempre, ed esclusivamente, se stessa. Delle volte, pensando a tutto ciò la sua innata gioia veniva spazzata via, proprio come in quel momento. Le si formò un nodo alla gola mentre infilava la collana al collo e nascondeva la chiave sotto alla camicia, come sempre. Intorno a lei il buio che entrava dalla finestra, per quanto sopraffatto dalla luce della camera, la costrinse, come sempre faceva, a pensare, pensare e basta, scavare nelle proprie profondità e cercare delle risposte. Sebbene lo facesse spesso e le sue ambizioni riuscissero sempre a vincere sulle incertezze e i dubbi, in quel momento non ci riuscì affatto. Semplicemente si sentì sola.

Il nodo alla gola le si strinse ulteriormente mentre lei, ancora inginocchiata in terra, fissava ostinatamente davanti a sé con gli occhi che le bruciavano. Non appena la prima lacrima riuscì a liberarsi, Emily non fu più in grado di frenare le altre. Si lasciò andare a un pianto silenzioso, raggomitolata contro al letto, le ginocchia strette al petto, per minuti interi, finché non si sentì svuotata di ogni possibile emozione. Soltanto allora prese una lunga boccata d’aria e si alzò da terra, sistemandosi meglio che poté i vestiti e decidendo di uscire dalla propria camera nonostante tutto, pur di non rimanere sola.

Arrivata al piano di sotto fece una deviazione in bagno, passando dalla cucina, così da evitare di incrociare Sherlock. Non voleva vedesse che aveva pianto, soprattutto perché non aveva voglia di rispondere a possibili domande o di dover resistere al silenzio consapevole di chi sa qualcosa ma a cui non importa.

In bagno si lavò il viso con acqua ghiacciata nella speranza di ridurre il rossore degli occhi. Quando questo le sembrò sufficientemente diminuito decise di tornare in soggiorno per riprendere a leggere il suo libro nella speranza che lo studio e la presenza di Sherlock – l’uomo che racchiudeva le sue ambizioni – potessero aiutarla a farla sentire meglio.

Era sulla soglia della cucina quando il detective la fermò. «Hai pianto» disse semplicemente.

Aveva il viso coperto dal giornale che ancora non aveva finito di leggere e non degnò la ragazza di uno sguardo. Eppure la sua era stata un’affermazione, non certo una domanda e per Emily fu inevitabile chiedersi come ci fosse riuscito ancora una volta. Tuttavia, in quel caso, la ragazza non aveva voglia di dirgli la verità e ripiegò su una delle scuse più efficaci in casi del genere. «No, mi sono solo data un collirio.»

«Uhm, beh, in tal caso ti consiglio di cambiare marca. Potresti esserne allergica dato che non solo ti ha fatto arrossare gli occhi ma te li ha anche fatti gonfiare» replicò lui, in tono piatto.

Emily non fu in grado di rispondere prontamente. Si zittì e rimase a guardare il profilo dell’uomo davanti a lei, concentrato sul suo quotidiano. Alla fine distolse lo sguardo, sospirando leggermente.

«Come lo hai capito?» chiese, anche se sospettava di conoscere la risposta.

Sherlock abbassò il giornale e si voltò verso di lei, un mezzo sorriso in volto. «Capire quando una persona ha appena pianto è fin troppo semplice. Spesso, poi, lo si intuisce più facilmente dal naso che dagli occhi.»

Sentendo quelle parole la ragazza si toccò istintivamente la punta del naso, smascherandosi definitivamente. Nuovamente nella stanza cadde il silenzio e alla fine Emily si avviò verso il divano, con l’intenzione di riprendere la lettura. Sherlock l’aveva scoperta, d’accordo, ma sperò con tutta se stessa che non volesse approfondire ulteriormente la cosa.

Prima che potesse sedersi, però, la voce del detective si sollevò di nuovo: «Perché?»

«Cosa?» domandò in risposta lei.

Sherlock sollevò impercettibilmente gli occhi al cielo. «Perché hai pianto» scandì.

«Non ti interessa saperlo veramente» gli rispose la ragazza, in tono piatto.

«No, infatti» disse l’uomo, sospirando e ripiegando il giornale. «Ma Mary e John vogliono che sia più... gentile con te. Ho detto loro di pensare prima alla propria vita, ma a quanto pare ne faccio parte anche io e trovano opportuno darmi "consigli". A ogni modo, se non vuoi dirmi niente, fa' pure» concluse con sufficienza.

Emily rimase a guardarlo a lungo, pensando. Alla fine si decise a dirgli cosa le era appena accaduto, aprendosi così a Sherlock. Puntò lo sguardo fuori dalla finestra prima di prendere parola, osservando la sera.

«Quello che hanno John e Mary... Lo vorrei anche io» ammise alla fine.

«Una figlia?» domandò l’uomo, sollevando un sopracciglio confuso.

Sentendo quella risposta Emily si lasciò sfuggire una leggera risata e tornò a guardare Sherlock.

«No, o meglio, non solo. Parlo dei sentimenti che ci sono fra loro, sono quelli che vorrei poter vivere anche io. Il loro legame, il loro conoscersi così bene. È questo che vorrei. Riuscire a trovare qualcuno che mi faccia sentire davvero speciale.»

Sherlock rimase a guardarla, in silenzio. Per un istante si pentì di aver chiesto a Emily per quale motivo avesse pianto. Lui non era pratico di queste cose, dei sentimenti. Li considerava solo dei difetti chimici e non aveva certo voglia di approfondirli o cercare di comprenderli. Tuttavia si rese conto che non poteva più tirarsi indietro in quel momento. «Credo ti convenga solo avere un po' di pazienza. Anche John ha impiegato diversi anni prima di incontrare Mary» disse infine, sperando fosse sufficiente per consolare la ragazza.

Lei si strinse nelle spalle, scuotendo debolmente la testa. «Non è questo, Sherlock. Gli uomini tendono a evitarmi quando capiscono come sono fatta. Hanno paura di me» informò Sherlock, sentendosi nuovamente triste come lo era nella sua stanza poco prima.

Fra di loro calò un nuovo silenzio, ben più pesante dei precedenti. Emily decise di riempirlo finendo di raccontare al detective quella che era la verità sui suoi rapporti umani: «Io sono in grado di capire quando qualcuno mi sta mentendo. Riesco a intuire con chi ho che fare in fretta. Questa cosa non va bene per nessuno, in pratica. All'inizio di una relazione si tende sempre a nascondere una parte di sé all'altro, per preoccupazione, per ansia. Ma se l'altro sono io, che riesco a intuire se il ragazzo che mi ha chiesto di uscire è sincero oppure no, allora la cosa diventa un problema e tutto finisce.»

Aveva alzato la voce sul finire della frase, ma tornò ad abbassarla subito. «Sono andata oltre il primo appuntamento solo due volte e solo in un caso mi sono innamorata» rivelò infine a Sherlock, senza sapere esattamente perché lo stesse facendo. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e ripercorse la linea della vita della mano sinistra con l’indice destro. «Di solito riesco a non pensarci, ma stasera è andata così» concluse. Tornò a guardare il detective e gli dedicò un sorriso abbozzato. «Scusa se ti ho fatto perdere tempo dicendoti queste cose, di certo avevi di meglio da fare. Però grazie per avermi ascoltata. Ti lascio finire di leggere il giornale.»

Si avviò verso la sua stanza senza aggiungere altro. Sherlock la sentì chiudere la porta e rimase a fissare l’inizio delle scale in silenzio, ripensando a quello che Emily gli aveva appena rivelato. In quel momento si sentì strano ed era certo di provare dispiacere per la ragazza. Cominciò a pensare ad altro abbandonando completamente il giornale.

 

  
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