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Autore: Lynx96    22/02/2017    2 recensioni
Una volta rientrati nell’atmosfera ambrata e soffusa della cucina, l’una con viso comicamente accalorato, e l’altro, l’espressione trasognata, con il segno evidente di cinque dita sulla guancia sinistra, si trincerarono in un pensieroso e concentrato silenzio, intenti all’adempimento meticoloso del proprio compito.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nami, Sanji | Coppie: Sanji/Nami
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Una mano lava l’altra -
 
 
 

 




Il tempo dell’esuberanza, dell’allegria e del chiasso si era concluso e Sanji rimase solo nella cucina silenziosa. Era rasserenante la quiete dopo la tempesta, anche se quest’ultima era rappresentata da una gradita ed eterogenea marmaglia di pirati rumorosi. Era anche sinistra quella calma, come se la solitudine si aprisse uno squarcio nella tela acquerellata di quella tranche de vie beata ed appagante.
Era il momento opportuno per le riflessioni, i ripensamenti ed i timori: riverberi delle insicurezze e dei ricordi di un passato lontano. Il tempo in cui la stanchezza si ritagliava il proprio spazio nella frenesia della quotidianità.      
Sanji sollevò lo sguardo dal tavolo verso il lavello, conscio della necessità di sparecchiare, lavare, strofinare, asciugare e sistemare ogni cosa, affinché quella stanza, ora così caotica, potesse ritornare accogliente e confortevole. Si lasciò sfuggire un sospiro - un po’ per indolenza e un po’ per spirito – e decise di concedersi una sigaretta per distendersi, osservare le costellazioni senza davvero distinguerne le figure e non percepire null’altro dello sciabordio conciliante dell’acqua marina contro se stessa e gli ostacoli che vi galleggiavano. 
Non fu voluto, per Nami, avvicinarsi e non essere notata, tanto egli era assorbito dal suo proposito.
Lo osservò con curiosità, dapprima discretamente, sinceramente divertita, poi sempre più sfacciatamente e stizzosamente, ponendosi davanti a lui con espressione indispettita. Chiaramente, Sanji si accorse ben presto della sua presenza e non trascorsero molti secondi prima che distendesse la bocca in un largo e festoso sorriso di benvenuto, e che assumesse i suoi modi calorosi e animati, esclamando giubilante: “Oh, Nami-san, mia adorata! Hai bisogno di qualcosa?”.          
“No, per quanto possa sorprenderti, sono venuta per aiutarti a lavare i piatti” soffiò lei spazientita.
Sanji, come previsto, sgranò gli occhi per lo sbigottimento e poco mancò che lasciasse cadere la sigaretta, posta in precario equilibrio tra le labbra socchiuse.    
“E’ stata un’idea di Robin”, aggiunse spiccia, prima che Sanji potesse nausearla con i suoi ringraziamenti. “Ovviamente Rufy - il solito esagerato - l’ha accolta con smisurato entusiasmo”, riprese, sardonica. “Il resto della ciurma ha acconsentito di buon grado - me compresa - e ci siamo spartiti i turni poco prima di cena, mentre eri assorbito dal tuo personale delirio culinario” spiegò, asciutta. “Perciò, eccomi qui!” ed indicò, ostentando contenuta e debole convinzione, tutta la sua persona.
Con ritrovata forza, Sanji sollevò la sigaretta che aveva fra le dita e puntò nuovamente lo sguardo al cielo, rompendo il silenzio a cui sembrava essersi votato: “Sei la prima, dunque”, disse, semplicemente, a mo’ di riflessione a cui dare corpo e voce. “Così puoi toglierti il pensiero”, affermò con tono noncurante, voltandosi verso di lei ed esibendo un sorriso indecifrabile.  
Nami si irrigidì, meravigliata e confusa. “Perché dici così?” esitò, titubante, improvvisamente mortificata. L’affermazione di Sanji non sottintendeva un’accusa, un rimprovero, né un tono impertinente; era scevra da qualsiasi aggressività o provocazione. Aveva dissolto, però, il manto di imperturbabilità di cui si vestiva, lasciandolo sguarnito, esposto, indifeso. Le sue fragilità alla mercé del sarcasmo e delle canzonature di lei.       
La fermezza e la scioltezza di Nami vacillarono, perché un breve e tacito quesito sembrava emergere da quell’asserzione, dissimulato con la parvenza di una dichiarazione che non poteva essere altro che esatta, frutto di ragionamento logico e rigoroso, un dato di fatto. E quel dubbio implicito, quella richiesta silenziosa, aveva scoperto anche lei, come una coperta troppo corta per coprire entrambi. Gravava, infatti, ora, su di lei, la possibilità di scegliere tra il potere sferzante della derisione, per difendersi dalla verità, e la verità stessa.          
“E’ stata una giornata astrusa, tremendamente difficile, come ce ne sono state tante”, cominciò, nervosa. “Incomprensibilmente, la prima cosa a cui pensi siamo noi. Sempre”, aveva la voce affaticata dal rincrescimento, ma lo sguardo era fiero e lo puntò fermamente su di lui. “E’ giunto il momento di prenderci cura di te, anche - e soprattutto - dopo una giornata come quella che è appena trascorsa”, Sanji si voltò verso il pozzo profondo che era diventato il cielo, con aria assente, neanche un briciolo di entusiasmo ad accendergli gli occhi. “Vorremmo sinceramente ripagarti di quello che fai per noi”, la verità sapeva essere spigolosa ed impegnativa. “Io voglio ripagarti”, concluse.   
“Sai che non ammetto alcuno scialo!”, aggiunse poi, scherzosa, per rompere il persistente silenzio di Sanji.  “Ho scelto di farlo per prima, perché sono quella che ha combattuto di meno” ed è stata protetta di più, pensò con biasimo e dispregio. Sono quella che ti deve di più, e per innumerevoli ragioni.     
Sanji si rianimò in un istante, come fosse stato percorso da una scarica elettrica, e prese ad osservarla da sopra in giù, con espressione divertita e vagamente imbarazzata. “Non mi dovete nulla: oltre ad essere il mio compito, io lo faccio volentieri”.     
“Anche noi, zuccone!”, continuò lei, spazientita, dopo averlo colpito sulla testa con forza. “E non mettere mai più in dubbio le mie buone intenzioni”.      
Non lo aveva mai fatto, sempre bendisposto ad un’immagine integerrima ed ineccepibile di lei – non sapeva se per speranza o per ottusità, per ottimismo o per autoinganno -, ma in qualche modo, quella sera, il suo cervello, troppo debilitato e stanco, non era stato in grado di giustificare positivamente la presenza di Nami, insolita ed improbabilmente disinteressata.        
Il cuoco si massaggiò la testa, un secondo sorriso sornione sfumò velocemente in ampia e sincera risata. “Sai essere molto convincente Nami-san!”, poi continuò, tra il serio e il faceto: “La tua pelle potrebbe risentire di questo lavoraccio. Sei convinta di volerti impelagare in questa antiestetica impresa?”      
“Non è un’offerta trattabile.”           
“Potresti riscattare il tuo debito in un altro modo”, aggiunse Sanji maliziosamente.         
“Se possibile, è ancora meno negoziabile!”  
 
 
Una volta rientrati nell’atmosfera ambrata e soffusa della cucina, l’una con viso comicamente accalorato, e l’altro, l’espressione trasognata, con il segno evidente di cinque dita sulla guancia sinistra, si trincerarono in un pensieroso e concentrato silenzio, intenti all’adempimento meticoloso del proprio compito.     
Dopo che ebbero sparecchiato – il tavolo da pranzo era un cimitero di avanzi e posateria -, pulito e riordinato, con tutti i crismi, la stanza, Sanji si offrì di lavare le stoviglie, in cambio che lei le asciugasse: in questo modo lei avrebbe accontentato la dedizione del cuoco alla salvaguardia della morbidezza della sua pelle, senza, per questo, esimersi dall’aiutarlo attivamente.      
Mossi dal ritmo tintinnante e argentino del loro privato concerto a quattro mani, scandito dalla collisione di acciaio, vetro e ceramica, accompagnato dalla base rassicurante e fluida dell’acqua corrente, giunsero alla fine dell’opera: l’accompagnamento si fece sempre più fioco, i trilli più radi e deboli, la cadenza sempre più calma e rallentata, fino ad esaurirsi nel placido strofinio dello straccio, semizuppo, lungo i bordi e le pareti delle stoviglie.        
In quel labile frangente, con Nami ancora intenta a sfregare piatti e bicchieri, Sanji si accese l’ennesima sigaretta e si concesse alla contemplazione di quello scorcio raro ed effimero, venendo subitaneamente assalito dal forte impulso di toccarla, anche solo brevemente, o di suggerire un contatto distratto ed innocuo, lieve e dolce come uno spruzzo d’acqua tiepida.         
Strinse più forte la sigaretta tra le dita, con l’intento di dominarsi e di non fare qualcosa di mal interpretabile o genuinamente sciocco. Avrebbe tanto voluto sfiorarle il viso. Avrebbe voluto tante cose, in realtà, ma questa era l’unica che il suo rispetto verso l’universo femminile avrebbe permesso al suo cuore ed alla sua mente, in nome di un’abnegazione a cui si era spontaneamente e naturalmente consacrato molto tempo prima.        
Percepì un intenso formicolio ai polpastrelli, un pungolante fremito scandito da tenui e cadenzati afflussi di energia, di potenziali d’azione, come un tarlo, ma più rarefatto ed esteso: il frusciante presentimento di un’azione prima ancora che venga compiuta, il respiro sospeso tra un pensiero e la sua esecuzione, il tempo congelato tra un desiderio e la sua realizzazione, quando tutto è ancora in potenza ed è già entrato in divenire; il senso vibrante dell’attesa, l’attimo fugace in cui l’astratto diventa concreto e viene imboccata la strada di non ritorno.       
A quel punto, Nami si era già da tempo accorta dell’irrequietezza del cuoco, non indifferente all’insistenza, tuttavia non invadente, del suo sguardo, e poté scorgere la tensione che pervadeva ogni muscolo del suo corpo – la bocca serrata, il collo e la mandibola contratti, in evidenza, la lividezza delle nocche, l’atteggiamento rigido e controllato -, avvisaglia di un suo stato interiore del tutto conflittuale, e la stanchezza che il suo corpo permeava, a partire dal viso tirato, dalle spalle ingobbite, fino alla schiena, curva sotto il peso di macigni invisibili. Rilevò minuziosamente tutti i segni del suo affaticamento, fisico e psicologico, che non erano mai stati tanto palesi, ed intuì la debolezza profonda per la quale non era più in grado – o non aveva più l’intenzione – di nasconderli. Decise che, sebbene restare fedele al comportamento che le era solito sarebbe stato auspicabile,  non era il caso di reagire scontrosamente, eppure disse: “Sanji-kun, visto che hai finito, non stare lì impalato, vai a sederti e lasciami finire con calma!”  
Lui non rispose né si riscosse dall’estrema concentrazione che gli faceva aggrottare la fronte e socchiudere gli occhi, ma si avviò comunque, rigidamente, con passo pesante ed a grandi falcate, verso la tavola, per poi ricadere scompostamente e rumorosamente sulla sedia più vicina. Appoggiò i gomiti sul piano del tavolo e riprese ad aspirare la sua sigaretta, cacciando poi fuori boccate di fumo denso con espressione funerea.       
“Sanji-kun, ti vedo stanco”, riprese Nami, addolcendo il tono e deglutendo silenziosamente prima di continuare. “Non volevo essere brusca, ma sono molto stanca anche io. Finiamo in fretta, così possiamo andare entrambi a dormire, che ne dici?”, propose, mentre Sanji le sorrideva di rimando.
“D’accordo Nami-san”, la voce arrochita dal silenzio prolungato. “Devo essere proprio ridotto uno straccio, mentre tu rimani sempre meravigliosa!”       
Nami depose lo strofinaccio sul ripiano della cucina, ben disteso, in modo tale che cominciasse ad asciugare e gli si rivolse nuovamente: “Ehi! Ti va di bere qualcosa?  Posso prepararci un tè o una tisana”, l’inflessione esitante della sua voce le aveva fatto colorire le guance, non avvezza a questo genere di gentilezze.     
“Tè. Nero. Ma faccio io Nami-san, è la mia mansione su questa nave”, così dicendo scattò dalla sedia e si lanciò con premura verso di lei, ad indicarle l’ubicazione di tazze e teiera, troppo in alto perché lei ci arrivasse. Nami si immusonì. “Mi sono proposta, quindi lo farò io. Non essere arrogante, qui nessuno è insostituibile ed ora te lo dimostrerò”. Non era vero, ovviamente, e Nami meglio di tutti sapeva quanto il cuoco fosse importante per il loro benessere, così come Chopper lo era per la loro salute e via dicendo. Voleva solo che Sanji stesse fermo, anche appena per qualche minuto, ed essere utile alla causa, che la ciurma aveva abbracciato, di alleggerire la fatica del proprio cuoco, forse sottovalutandone la dedizione e la sollecitudine.       
“Prometto che se avrò bisogno, ti chiamerò Sanji-kun”, concluse, perentoria, invitandolo con rapidi ed espliciti gesti della mano a tornare al tavolo. Sanji la squadrò un attimo, poi, convinto dal suo cipiglio di quanto fosse determinata a spuntarla, le lanciò uno sguardo ammirato e, profondendosi in eterni ringraziamenti, tornò a sedersi, scortato dagli energici sbuffi di Nami.        
La ragazza eseguì egregiamente il proprio compito, sebbene mettendoci molto più tempo di quanto fosse considerabile come plausibile o dignitoso, risoluta a non cedere all’istinto di abbandonare l’iniziativa e conscia del fatto che si trattasse di un compito veramente troppo banale per rimanerne sconfitta o vessata. Possedeva tutte le competenze del caso, tuttavia impiegò un’eternità a trovare la scorta di infusi nella dispensa, perché, sebbene fosse tutto ordinatamente catalogato, quel luogo appariva come la proiezione della mente di Sanji - tutto era disposto secondo il suo schema mentale, il suo gusto, la sua scala di priorità -, e, come tale, Nami necessitava di qualche istante per raccapezzarsi e trovare ciò che cercava.  
Una volta messo il tutto in infusione, comunque, terminò la salita e cominciò la discesa, così, per ingannare l’attesa, controllò che fosse tutto in ordine. Occhieggiò i vari strofinacci stesi ad asciugare, li tastò ed una smorfia di disappunto le distorse il viso, contrariata, poiché erano ancora umidicci. Decise di esporli all’aria aperta, quindi uscì rapidamente, assicurando distrattamente a Sanji che sarebbe tornata subito.         
L’aria fresca della sera le sferzò il viso e, istintivamente, rabbrividì un poco. Il ponte di coperta era deserto e silenzioso, il cielo sereno e ammantato di stelle ben visibili, come qualche ora prima, ma l’acqua, se possibile, era ancora più calma e disciplinata. Distese velocemente, ma comunque con cura,  i pezzi di stoffa lungo il parapetto - il pulpito - dell’imbarcazione, fissandole in qualche modo con i chiodi che vi erano innestati, quindi rientrò alacremente in cucina, ansiosa di riscaldarsi e andarsene a letto il prima possibile.        
Si affrettò a filtrare in qualche modo gli infusi; con fare impaziente e frettoloso depose le tazze su un vassoio e si avviò a passo cauto verso il tavolo della cucina, ben attenta e scrupolosa a che non si rovesciassero lungo il tragitto.            
Compiuta trionfalmente l’ardua impresa, appoggiò il vassoio, non troppo delicatamente, di fronte a Sanji e sussultò, trovandolo assopito. Prese improvvisamente coscienza dell’intenso e, per questo, quasi stordente silenzio che aveva saturato l’ambiente quando era rientrata.     
Sanji era riverso sulla tavola, la testa poggiata pesantemente sul braccio disteso e il viso reclinato secondo gravità; la sigaretta, ormai spenta e consumata, ancora fra le labbra, la bocca semidischiusa, l’espressione imbambolata e distesa; l’altro braccio giaceva, ripiegato, accanto al capo, con la mano vicina alla sigaretta estinta; vi soffiava sopra il suo respiro, regolare e quieto.      
Nami gli si avvicinò, prese delicatamente la sigaretta tra indice e pollice, e, dopo essersene sbarazzata, si sedette accanto a lui sulla sedia adiacente. Scelse di riscuoterlo, avendo maturato nella mente l’immagine di lui, il giorno seguente, tutto dolorante, dopo aver dormito in quella sgradevole posizione; riconoscendo, inoltre, di non essere in grado di trasportarlo ella stessa e non avendo l’intenzione di innescare una baraonda, destando uno qualsiasi dei suoi compagni.      
“Sanji-kun, svegliati!”, gli bisbigliò Nami, sollecita. “Non vorrai rimanere a dormire sul tavolo! Poi così il tè si fredda, renderai vano il mio impegno!”        
Sanji, dallo stato di incoscienza in cui versava, inizialmente percepì la sua voce, flebile e ovattata, come giungente da un luogo remoto, quindi anche la durezza del legno a cui era appoggiato, l’intorpidimento delle braccia, la rigidità del collo e, infine, un dolore vago intorno alla regione del trapezio. Socchiuse gli occhi, ancora immerso in una dimensione quiescente di dormiveglia. L’immagine sgranata e celestiale di Nami gli addolcì lo sguardo, ma non lo restituì alla realtà. Allungò la mano libera verso di lei, in un moto istintuale, e le sfiorò delicatamente lo zigomo con il dorso delle dita, in una carezza tacita e solitaria, per poi ripiombare nel sonno, con espressione serafica e rilassata.            
Nami non ebbe la prontezza di reagire, non tanto per riguardo, quanto per incredulità e sconcerto. Impreparata a quel gesto, gli afferrò il polso, pronta a dargli un vigoroso strattone, piccata; tuttavia, meravigliata dall’inaspettata ruvidezza della sua pelle, girò la mano verso il palmo e lo portò, istintivamente, al viso, immergendovi una guancia, come a soppesare la compattezza e le increspature della sua pelle, ed a studiare il contatto di questa con la propria.            
Dopodiché la allontanò nuovamente, scombussolata, per osservarla da vicino: sia il palmo che il dorso erano adorni di sfregi, alcuni piccoli altri più ampi - irregolarità variabili per visibilità e profondità, segni di escoriazioni ed evidenti rossori -, di cui seguì accuratamente il tracciato con i polpastrelli. Sul dorso risaltavano distintamente i rilievi delle vene e le prominenze delle nocche, come dune nel deserto o colline in seno ad una pianura, mentre il palmo era ampio: un avvallamento sinuoso ed esteso. La pelle era secca, perciò predisposta alle screpolature, senz’altro per il frequente contatto con l’acqua, in grado di spaccarne la superficie, a causa dello shock termico, nel passaggio da calda a fredda. Lungo l’indice ed il medio, inoltre, la pelle aveva assunto una colorazione giallastra, stigma della sua irriducibile ed incorreggibile natura di fumatore. Ma non era il solo: evidenti segni di bruciature denunciavano la sua dipendenza da nicotina, vessilli incontestabili della sua assuefazione e della sua lucida, quanto svagata, adesione a tale rituale.     
Nonostante tale repertorio di ferite, era inconfutabile che Sanji avesse delle belle mani, grandi ed affusolate, dalle dita lunghe e spigliate: mani forti, ciò nondimeno sciolte ed eleganti; mosse sempre da sincero garbo e riguardosa delicatezza.    
Nami riconobbe anche che Sanji fosse una persona affascinante, benché non vantasse una bellezza fatale e statuaria: non annoverava, infatti, tra i frutti di una Fortuna benevola o di un caso pietoso e complice, uno sguardo acuto e perspicace, ma, anzi, piuttosto vacuo ed inespressivo, quasi vitreo, né una figura - sebbene slanciata, armoniosa ed atletica - massiccia o erculea; i riccioli delle sue sopracciglia fuori dal comune, oltre a suscitare riso e perplessità, gli conferivano un aspetto facile alla caricatura, eccentrico e stravagante, ispirante, ad alcuni, sofisticheria e sussiego, e mancanza di sobrietà ad altri; la barbetta rada ed incolta suggeriva sciatteria, così come i capelli tendenzialmente lunghi e spioventi sugli occhi in ciocche e ciuffi selvatici; di carattere alterno e mutevole, ma essenzialmente esuberante e farfallone, e di natura buona ed altruista, era accessibile bersaglio di sgarbatezze e raggiri, soprattutto in virtù della sua incondizionata devozione al gentil sesso.
Tra tutto questo, in particolare quell’adorazione estenuava Nami, la stizziva persino, e talvolta la lusingava: era di difficile comprensione il meccanismo per il quale una volta la disarmasse e l’altra la inasprisse.  
In fondo, riconosceva la matrice essenzialmente gentile e compassionevole dell’indole di lui, che defluiva, come sangue, alle sue mani, le quali, nonostante la loro callosità, non avevano nulla di rozzo, grossolano o brutale. Era tutto lì, dopotutto: le sue mani erano l’estremo veicolo del suo amore.   
Ammise a se stessa che dovesse essere desiderabile, e piacevole - in qualche modo appropriato e ragionevole -, essere accarezzata e corteggiata da mani così.        
L’affermazione di questa nuova consapevolezza la impressionò, smuovendola dalla bocca dello stomaco e turbandola dolcemente. Allora si affrettò a scrollarlo, con vigore e senza delicatezza - quasi veemente -, palpitante di allarme ed urgenza.         
“Sanji-kun!”, continuò a strepitare. “Svegliati, forza!"        
Sanji emerse bruscamente dal suo torpore come da un troncato letargo. Sussultò appena la scorse, con la memoria ancora offuscata dal sonno e la vista annebbiata, cisposa.  
“Nami-san...”, gracchiò, annichilito, sfregandosi gli occhi con le dita ed emettendo un sonnolento sbadiglio. Le braccia anchilosate gli dolevano, ma quel senso di spossatezza che prima gravava su di lui era parzialmente scemato.            
Portò istintivamente un’immaginaria sigaretta alle labbra, in un gesto abituale, accorgendosi con sgomento e contrarietà di non avere nulla tra le dita.      
A quell’automatismo inconscio e familiare, Nami rispose con sproporzionata ed incomprensibile forza: “Immagino non sia la prima volta che ti addormenti, per sfinimento, in cucina. Questa è la dimostrazione di quanto tu sia preda della distrazione, Sanji-kun”, osservò, risoluta. Sanji la guardò, confuso, dacché Nami sentì la necessità di portare altre prove sul banco di imputazione.           
“Guarda le tue mani: portano tutti i segni della tua trascuratezza! Devi prenderti più cura di te stesso. E devi smettere di fumare!”, lo incalzò, cocciuta.      
Sanji si sorprese dell’irruenza della compagna e scrutò le proprie mani, disorientato. Erano ricoperte da graffi e ferite parzialmente cicatrizzate: alcune erano completamente sbiadite, mentre altre, più recenti e vistose, affermavano la propria presenza con fierezza.           
“Non capisco, Nami-san”, rispose con espressione imbambolata. “Qual è l’associazione di idee che ti porta a collegare questi tagli al fatto che mi piace fumare?”   
Nami sbuffò, convinta dell’ovvietà del suo ragionamento e inveì contro il malcapitato, il cui volto si ricopriva sempre più dell’ombra dello smarrimento. Gli prese con impeto una mano e la capovolse in modo tale che fosse ben visibile il palmo. Le guance di Sanji si imporporarono a quel contatto e Nami non si sarebbe stupita se un rivolo scuro di sangue fosse zampillato dalle sue narici, sintomo rivelatore di un’inequivocabile epistassi.          
“Sappiamo entrambi che non combatti usando le mani, che le devi preservare da qualsiasi scontro diretto. Questo, però, non significa che tu possa proteggerle dai danni collaterali di questi scontri. Non rinunci mai alla tua sigaretta, nemmeno durante una zuffa, da ciò si evince mancanza di cautela ed eccessiva spavalderia, o imprudenza. Non è difficile immaginare che tu ti sia bruciacchiato nel tentativo di mantenere un’aria compassata e spaccona, dico bene? E’ assurdo ed insensato!”     
Estremamente coinvolta dalla propria argomentazione, Nami non si avvide subito della soggezione e della difficoltà del cuoco, il quale era in appariscente trepidazione, dovendo addomesticare e vincere gli impulsi scatenati dal fuoco che era diventata la sua mano destra.           
Soltanto perché già paonazzo per il fervore, il viso di Nami non arrossì ulteriormente di vergogna, non appena si rese conto della condizione nella quale Sanji si stava consumando e dell’epicentro dell’eccitazione e del subbuglio che lo scuotevano. Mantenne, tuttavia, una parvenza di autocontrollo ed impassibilità, fissando il suo sguardo - ancora infervorato nonostante l’imbarazzo -  in quello di Sanji, che rinsavì un poco, affrancato dall’acceso temperamento che ardeva negli occhi di lei.
Si rilassò e si schiarì velocemente le idee: le emozioni che si coglievano sul suo viso – confusione, meditazione, folgorazione, sorpresa -, digradavano rapidamente l’una nell’altra.            
Dopo che questo inseguimento di pensieri e ragionamenti ebbe termine, Sanji adottò un atteggiamento comprensivo ed un pacato tono delucidatore: “Ho capito cosa volevi dire Nami-san. Avresti ragione, se non fosse che ustioni e abrasioni varie non me le sono procurate nel modo che tu pensi”, fece una pausa, poi proseguì: “Cucinare non è un’attività esente da imprevisti”.      
Nami comprese in un istante e si sentì improvvisamente sciocca per la sua riflessione così sofistica e cerebrale.
“Come può, qualcosa che ami tanto, ferirti a tal punto da colpire e danneggiare ciò che hai di più prezioso, Sanji-kun?”, chiese, turbata. Per tutto l’amore che vi dispensasse, sembrava che la sua passione lo rigettasse, convertendolo in acido, sulle sue mani.            
Sanji si rintanò in un silenzio di raccoglimento, durante il quale Nami lo fissò, scettica ma interessata e partecipe. Quando Sanji si alzò, Nami, dalla sua posizione, si sentì scomparire e sovrastare dalla sua statura, come ai piedi di una montagna, ma non si levò di rimando, poiché propensa a non rompere l’equilibrio e la profondità che la loro conversazione stava conquistando.
Il cuoco prese il vassoio con mani esperte, vuotò il contenuto delle tazze, ormai freddo, e ricominciò da capo la procedura. Ci impiegò pochi minuti, durante i quali si astennero entrambi  dal discorso, meditabondi. Poi Sanji tornò al tavolo, offrì una delle due bevande a Nami, che lo ringraziò con uno sbrigativo cenno del capo, e le si sedette accanto con la propria. Ne bevve un sorso, quindi, come ristorato, ruppe il silenzio e riprese la sua spiegazione: “Non si può prescindere dal dolore, nemmeno quando si ama. Anzi, forse a maggior ragione se si vuole accedere alla sua dimensione. Vengono richiesti sacrifici, rinunce, compromessi. Tutto questo è doloroso. Suppongo siano i vincoli dell’incontro tra l’universo dell’umano e la sfera affettiva, più intima, e che quelli sulle mie mani siano i suggelli di questo patto”.
“Mi stai dicendo che c’è sempre un prezzo da pagare? Non credi che sia una visione molto cinica dei sentimenti?”, lo rimbrottò.       
“Strano che tu lo dica. Ti facevo una persona concreta e distaccata... non che sia un difetto, anzi, ti rende ancora più incantevole”, si affrettò a dire, sospirando con aria sognante. Poi, tornato stranamente serio, continuò: “No, non penso sia una questione di costi e di benefici, di quid pro quo. Penso che all’origine di un accordo di questo tipo ci sia coinvolgimento da entrambe le parti. Vedi: io non sarei quello che sono solo grazie alla mia passione, perché senza qualcosa da cucinare e gli strumenti per farlo, rimarrei un cuoco solamente in potenza”, così dicendo indicò con trasporto tutto l’ambiente circostante. “E senza il proprio cuoco, una cucina non è utile a nessuno. Rimane, però, un’utilità intrinseca latente, pronta ad emergere nel momento in cui avviene l’unione tra le due parti in causa. E’ una questione di completamento, di reciprocità e dualismo se vuoi, quella storia che non c’è luce senza buio o rosa senza spine e compagnia bella”, si accese una sigaretta ed inspirò, poi espirò con lentezza, sovrappensiero. Il rapporto che aveva con Nami, per quanto potesse sembrare strano, era quanto di più simile alla relazione che aveva instaurato con la sua arte. Richiedeva la stessa perseveranza, la stessa tenacia e la stessa pazienza, ma soprattutto la stessa speranza: quella fiducia che diventa risorsa nel passaggio da una piatto sfacciatamente fallimentare a qualcosa di edibile, quindi ad un buon risultato, e, infine, al raggiungimento di una prelibatezza.
Il principio del suo mestiere, la prima regola del gioco, non era avere talento, ma rispondere con un’ostinazione di forza pari e contraria al cupo ed echeggiante riverbero del fallimento, abbracciando simultaneamente rischio e coraggio, fratelli inscindibili e bifronti.        
Ma ecco che da una passione si plasma, equivalente, la sua pena, dalla scintilla il suo sedativo, dalla vampa il suo smorzamento: un sottile scherzo di incastri e complementarietà. Sanji sapeva che confrontarsi con Nami potesse ustionare: il suo sguardo, il suo sorriso, le sue parole, quando gli si rivolgeva, erano incandescenti come il colore dei suoi capelli. A contatto con la pelle di lei, le sue dita bruciavano come colpite dagli schizzi frenetici dell’olio bollente; i dorsi delle sue mani si infiammavano come quando violava distrattamente le delimitate frontiere del forno; le sue narici si impregnavano del suo odore, così come i suoi vestiti si intridevano, talvolta, del penetrante afrore di cipolla o frittura.       
C’era una soave corrispondenza tra il loro rapporto e questi spiacevoli inconvenienti, che rendeva la loro interazione più vivida e significativa, come le lunghe attese e le strazianti separazioni sanno essere necessarie e fortificanti - sebbene inconcepibili - per due innamorati. 
Si era convinto che i prerequisiti di un buon cuoco fossero, perciò, gli stessi che forgiavano un uomo: la costanza, la fede, la volontà, l’audacia e la passione, assieme ad un’implicita e generosa dose di cuore.         
La guardò intensamente, ammorbidendo lo sguardo in un modo che la fece sentire completamente parte di esso, assorbita ed incorporata alla sua vista, incisa sulla sua retina; e distese i lineamenti in un sorriso tenero e pacifico. Nami si chiese se stessero ancora parlando della stessa cosa. L’affetto che si sprigionava da Sanji aveva qualcosa di rassicurante e di riposante, come fosse in grado di abbracciarla e contenerla totalmente. Capì in quel momento di essere voluta genuinamente bene.
Gli sorrise di rimando.          
Nel frattempo, il liquido bruno del tè e quello opaco della tisana si erano raffreddati di nuovo, ma nessuno dei due sembrò averne a cuore il destino, indifferenti alla futilità di quell’impegno, per cui stavano indugiando nella notte, spiegandola come un foglio di carta; e suscettibili solo al rasserenante fruscio, fioco e fremente, dei loro reciproci sorrisi.


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Benvenuti,
sono Lynx96 e non ho mai scritto nulla del genere in vita mia. Ho messo subito le mani avanti e  non è proprio un inizio promettente... Ok, mi riprendo, non sono brava né a presentarmi, né a scrivere di getto. Sono una persona molto timida e riflessiva, cerco sempre di ponderare ogni parola, pensiero o respiro. Pertanto, vi chiedo scusa per il mio approccio un po' stentato. 
Chiedo scusa a chiunque per le licenze poetiche che mi sono presa senza tante cerimonie e per gli errori vari ed eventuali di questo scritto. Non scrivo molto e solo se sono ispirata, ma certamente, quando lo faccio, mi impegno a fondo.

Spero sia stata una piacevole lettura.
Il più affabilmente possibile, 
Lynx96
  
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