Nightingale
during Christmas
-
seconda parte -
Dean fece ritorno in un momento imprecisato del suo sonno.
“Sammy...” Lo raggiunse prima la sua mano sulla spalla, poi, lentamente, anche
la sua voce. “Sammy, svegliati.”
E lo disse come se fosse stata una cosa facile.
Lo sentì respirare contro il suo orecchio, quasi come se volesse e non volesse
che si destasse dal suo sonno.
In un istinto ben radicato dentro di sé, sapeva che quella cortesia sarebbe
svanita nel nulla se avesse aperto gli occhi e dato segni di veglia, per cui,
non lo fece.
“Sam!”
Le sue labbra si arricciarono sotto le dita di Dean che per
l’ennesima volta in quella notte (o era giorno, ormai?), scorsero su di esse.
Una mano sulla fronte, una sulla carotide, poi ancora un’imprecazione, prima di
abbandonarlo al suo destino rinunciando all’impresa.
Le assi del parquet scricchiolarono una melodia stonata sotto i passi incerti di Dean, che si susseguirono in un moto febbrile e schizofrenico andando avanti, poi indietro, poi di nuovo avanti e un’altra volta indietro, e a volte anche in diagonale, e Sam si domandò se non avesse trovato un modo strambo (ma sempre meglio dell’affogare nell’alcol, ovvio) di catalizzare la propria isteria, prima di sentire la maniglia della porta scattare e suo fratello, uscire. Tornò pochi secondi dopo, e se non fosse stato certo che in quel bunker, Dean, non avrebbe fatto accedere nessuno con così tanta leggerezza, avrebbe pensato che si trattasse di qualcun altro, tanto fu deciso e disinvolto il passo che lo portò dritto verso il suo letto.
Il privarlo di colpo delle coperte senza alcun commento al gesto, fu la vendetta più adatta al suo rifiuto di collaborare. Il corpo seminudo fremette, ma non ebbe davvero il tempo di lamentarsene, prima di sentire la mano di Dean premere sotto la sua scapola e farlo rotolare su ciò che le sue guance riconobbero come le cosce jeansate di suo fratello.
Sino a quel punto però, andava ancora tutto bene, poteva definirsi ancora nella norma, o giù di lì. Fu solo quando sentì le dita di Dean afferrare l’elastico dei pantaloni del pigiama e farlo scivolare giù dai suoi fianchi inariditi che comprese che, forse, continuare a tenere gli occhi chiusi non era più una scelta fattibile.
“Dean...”
Li schiuse in due linee sottili; la linea di demarcazione tra ‘sicurezza’ e ‘pericolo’ era stata ampiamente superata, ma la mano di Dean pressata al centro delle sue scapole nude aumentò l’intensità del campanello d’allarme che prese a suonare nella sua testa.
“Hey, ti sei svegliato!” Esclamò con un tono squillante che mal celava un certo nervosismo. Sotto le guance, percepì le gambe di Dean irrigidirsi. Forse, suo fratello si era affezionato un po’ troppo all’idea di poter portare al termine ogni cosa senza la propria ‘approvazione’.
Tentò debolmente di fare leva sui gomiti in un blando tentativo di rialzarsi, ma dentro sé, non ci credeva davvero: sapeva che qualunque cosa Dean stesse per fare, a quel punto, l’avrebbe fatta.
“Cosa stai facendo?” Chiese con un fil di voce, ma la tosse che tornò a dilaniarlo gli fece dimenticare ben presto la domanda. La mano di Dean si mosse ritmicamente tra le vertebre scosse sino a quando a poco a poco, non smise di tossire. “Tra poco starai meglio, Sammy. Promesso.” Disse. E divorando ossigeno a grandi boccate, Sam gli credette. Perché quando Dean usava quel tono, difficilmente mentiva.
Il rumore di cellophane accartocciato sfrigolò alle sue spalle con un suono sintetico, seguito dallo stridere del vetro si infrange. Ancora una volta, l’istinto di conservazione spinse le sue pupille a tentare di rincorrere i movimenti di suo fratello alle sue spalle; ancora una volta, la mano di Dean tra le ciocche bagnate delle sue tempie, lo dissuase dal farlo.
“Rilassati, va tutto bene.” Ma tutto era un’infinità di cose, e forse avrebbe fatto meglio a dire che ‘qualcosa’, andava bene, se avesse voluto dare una visione realistica della situazione. Perché in quel momento, di cose che non andavano bene, ve ne erano molte. Fin troppe, a dire il vero. E questo divenne chiaro quando sentì i polpastrelli di Dean affondare qua e la’ sulla carne della sua natica destra e poi, insoddisfatto, su quella della sinistra, alla ricerca di qualcosa nascosta tra i miliardi e miliardi di brividi che lo pervasero. Sussultò, Sam; si tirò istintivamente indietro. Delicata ma decisa, la mano di Dean planò sul suo fianco a limitarne i movimenti. “Fermo-” cantilenò, con il tono di chi vuole nascondere una scomoda verità. “Farò in fretta, non te ne accorgerai nemmeno. Ma devi restare fermo, Sammy.” Il che era senza dubbio un’altra delle sue esagerazioni, perché strofinò vigorosamente qualcosa di umido sull’area di suo interesse e ci mise davvero un attimo, l’odore di Bourbon, a investire le sue narici, fuori luogo più che mai. Anticipare cosa sarebbe sopraggiunto successivamente a quello sgradevole rituale, per Sam, fu semplice quanto irrigidirsi.
“Cazz–” Mugugnò soffiando tra i denti quando l’ago, impietoso, penetrò le sue
carni. Chiunque con un curriculum recondito di esperienze devastanti come il
suo, avrebbe declassato a ‘fastidio
appena percettibile’ un dolore così banale come quello di una iniezione
intramuscolare, anzi. Probabilmente non avrebbe sentito neanche il bisogno di
classificarlo in qualcosa, dopo l’Inferno, e tutti i guai che ne precedettero e
seguirono; non lo avrebbe considerato degno neppure di un’etichetta specifica.
Per questo le sue gote divamparono più di quanto non avessero fatto sino ad
allora, quando si accorse di non riuscire a sopprimerlo, quel piccolo gemito
che voleva a tutti i costi scappare alla sua gola asciutta. Strizzò gli occhi,
nascose il volto sul grembo accogliente di suo fratello. I denti affondarono
sul labbro inferiore, ma la secchezza trovata su di esso gli rese tutto ancora
più disgustoso. Faticò a restare fermo quando il medicinale che Dean gli
spingeva dentro, cominciò a impregnare i suoi muscoli e sembrò ustionarli con
un calore in apparenza maggiore a quello in cui già bruciava il suo corpo.
“Quasi finito.” Le dita della mano di Dean con cui cingeva il suo fianco
tamburellarono piano e delicate come solo il Dean di-quella-dimensione (esattamente, quella chiamata Sam-malato-e-dolorante) sapeva fare, e
distratto dal quel conforto, Sam liberò l’aria che tratteneva in petto,
riprendendo a respirare.
In pochi secondi, Dean ritrasse l’ago con un gesto secco della mano e tornò se
stesso. Il che si tradusse in un: “Fai il bravo, Sammy. E’ solo una punturina!”
Detto con tono fintamente canzonatorio che richiamava alla sua mente eventi
simili dispersi nella memoria del tempo.
“Non appena sarai guarito, ti comprerò un mega gelato!” Scherzò ancora,
massaggiando la natica offesa con il batuffolo di cotone impregnato di Bourbon.
“Fatto male?”
Il grugnito che emise mentre veniva rivestito e allontanato dal suo grembo, fu l’unica espressione con cui Sam volle rispondere.
-
Sam spalancò gli occhi su una stanza invasa da un’oscurità solida e opprimente. Schiuse la bocca, annaspò come un pesce arenato, comprese di stare per annegare.
Era come se si fosse risvegliato nel relitto di una nave sul
fondo dell’oceano da così tanti anni da aver dimenticato cosa fosse l’aria e la
luce, e Dio solo sapeva cosa diavolo lo avesse portato lì - mosse le braccia,
poi le gambe. Nulla sembrò avere davvero il potere di contrastare quella oscurità
stagnante, nulla sembrò avere il potere neppure di scalfirla.
Cercò di recuperare aria tirando grandi sorsi di fiato, ma più lo faceva, più
gli sembrava di fare il suo gioco.
“Dean!”
Non era neanche sicuro di averlo urlato davvero, né di averlo sentito, davvero.
Non vi erano suoni in quel luogo, non vi erano segni di qualcosa ancora in
vita.
Una materia invisibile, calda e familiare, si intrappolò alle sue mani e Sam si aggrappò ad essa con tutte le sue forze, temendo di perderla.
“Dannazione, Sam! Rispondimi!” Che fosse reale o meno, la voce di suo fratello sedò di colpo la sua furia cieca, così. Come se d’improvviso, morire non fosse poi così terribile.
“Sam!”
Servì Dean con la sua torcia a spezzare le tenebre, proprio
come quella volta che Castiel aveva rotto il muro dei suoi ricordi infernali e
Dean aveva portato la luce nell’eterna notte della sua mente. Le palpebre erano
appiccicate tra loro da una cispa così cristallizzata da sembrare resina, e la
rottura sgarbata di essa per mano di Dean, fu solo l’ennesimo dolore non
preventivato della giornata, ma ne valse la pena. Nell’abbraccio in cui Dean lo
strinse quando diede segni di vita (ne diede? Davvero? Forse aveva reagito più
di quanto avesse percepito, a quel fascio di luce che andò a restringere le sue
pupille...), Sam ritrovò gli odori di tutta la sua intera esistenza, e gli
sembrò come rinascere, di ripescare il filo della propria vita.
“Dio, Sammy. Abbi pietà delle mie coronarie...”
Da quanto tempo non sentiva l’intera mano di Dean aperta sulla propria
nuca poi, aveva letteralmente perso il conto.
“Devi bere. E questa volta farai meglio a riuscirci, o giuro
che me la pagherai cara, fratellino.”
Non vi era cellula del suo corpo che non avrebbe ucciso per quella cucchiaiata
d’acqua che Dean era, per l’ennesima volta in quella giornata, in procinto di
ficcargli in bocca. Il ricordo dei fallimenti precedenti però, gli fece provare
un istintivo senso di repulsione. Arricciò il naso, inclinò la testa
lateralmente.
“Dai, forza. Non ti ho mica sbucherellato le chiappe per
niente, Sam. L’iniezione avrà già fatto effetto, questa volta non vomiterai,
fidati!” Insistette, e ci mise davvero poco a convincerlo.
La bevve gemendo di piacere, allungò il collo inseguendo il cucchiaio quando
Dean lo ritrasse, quasi a voler trattenere ancora un po’ della sua freschezza
tra le labbra.
“Vacci piano, tigre. Te ne darò ancora tra dieci minuti.”
E così fu.
Non ricordava di aver mai bevuto così avidamente in vita sua; ingoiò una
quantità d’acqua talmente abbondante, e talmente velocemente, da non dare
neanche il tempo a Dean di richiamarlo alla calma. Ne avrebbe bevuta ancora, se
quest’ultimo non avesse deciso di mettere un freno dopo la terza tazza, che
doveva essere solo un modo per ingoiare il Tylenol, ma finì per berla sino
all’ultima goccia.
“Direi che può bastare, per adesso. Il tuo stomaco starà urlando pietà, dovresti dargli tregua...”
E tossendo, Sam abbandonò le membra stanche sul materasso. Borbottò qualcosa che non comprese neanche lui, probabilmente una protesta, probabilmente l’ennesimo delirio insensato.
L’ultima cosa che sentì, fu suo fratello voltarlo su un fianco, rimboccargli le coperte, e accarezzargli la schiena in tutta la sua lunghezza, assottigliando per lui la sua percezione del mondo esterno, che divenne ben presto un punto lontano del suo universo, sino a quando, non sparì del tutto.
-
La prima cosa che colpì Sam, fu l’odore del brodo di
tacchino.
Di quelli corposi e speziati, che sanno di refettorio di scuola cattolica. Per
riuscire a raggiungere anche il suo olfatto congestionato, probabilmente era
così pieno di pepe da essere quasi immangiabile.
La punta del suo naso vibrò, uno starnuto gli contrasse dolorosamente l’addome. Si voltò verso la fonte di quella fragranza un po’ nauseato, e lo vide.
Era sul comodino accanto alla abat-jour accesa, confezioni varie di medicine aperte svogliatamente, e una bacinella per gli impacchi freddi. Sentì i muscoli rilassarsi, la sua cassa toracica si sgonfiò sopprimendo dei colpi di tosse. Quegli oggetti gli infusero un profondo e inspiegabile senso di intimità: Sam si sentì protetto e al sicuro.
L’ingresso di Dean contribuì ad alimentare questa
sensazione.
Entrò in camera con passi morbidi e leggeri, schivando gli spigoli in una sorta
di danza scoordinata. Temeva di urtare contro qualcosa che potesse causare
troppo rumore. Immobile, Sam ne seguì tutti i movimenti come stesse osservando
la danza di un’ape.
Dean cambiò espressione ed arrossì lievemente quando si accorse di quegli
occhi. Il suo sguardo saettò altrove, finse indifferenza.
Svuotò una sacca di ghiaccio appena recuperata dal freezer dentro la bacinella
con gesti fintamente distratti, poi, lo raggiunse sul letto.
“Sei sveglio”. Disse,
senza attendere che il materasso smettesse di rimbalzare sotto il colpo
svogliato offerto dalle sue anche. Sam deglutì, un suono gutturale si levò dal
profondo della sua gola.
La mano di Dean sulla sua fronte aveva sempre avuto un peso e una consistenza
unica nel suo genere. L’abitudine a quel tocco era nata insieme alla sua
memoria storica, ed erano tante le sensazioni che sapeva generare. In genere,
era disagio. Da piccolo ne rifuggiva quanto più possibile, ma la preferiva alla
mano callosa e ruvida di suo padre. Perché quella di suo fratello era, invece, morbida
e gentile. Ricercava la sua fronte senza forza né costrizione, semplicemente,
scivolava su di essa rendendo talmente patetici i suoi finti tentativi di
schivarla, che finiva per arrossire più di quanto la febbre potesse fargli
fare, e il suo stomaco sfarfallava in un crescendo di dubbio e vergogna.
Crescendo, al disagio si aggiunse un senso di agrodolce nostalgia. La mano di
Dean era forse persino più ruvida di quella del padre, adesso. Era fastidiosa e
scomoda come sempre, ma era anche tutto ciò che Sam desiderava più in certi
momenti. Nelle ultime ore, aveva sentito
quel tocco così frequentemente che il fantasma del suo peso sarebbe rimasto
ancora a lungo su di sé, si disse, mentre chiudeva d’istinto gli occhi al
passaggio di essa tra le ciocche ancora umide, fingendosi infastidito.
“Sembra che la febbre sia scesa, finalmente. Ti senti meglio?”
Stringendo il termometro tra le labbra (che faticavano a
restare chiuse causa tosse), Sam annuì.
Il bip di pochi secondi dopo lo confermò.
“Trentotto. Considerando i recenti picchi, la considero una
vittoria.” Sam acclamò il risultato
concedendo alla tosse messa forzatamente in stand-by di esplodere in tutta la
sua furia.
“Tieni, butta giù qualcosa.”
Riscosse fiato, e in quella breve tregua, sentì suo fratello raschiare il fondo
della tazza con un cucchiaio.
“Mi dispiace per il tuo tacchino.”
Fu la prima cosa che gli venne in mente di dire di fronte alla portata fumante
che Dean indicò con lo sguardo.
E niente, faceva già ridere così.
Dean fece spallucce, “Anche così non è male.”
“Di certo però non era il modo in cui pensavi di cucinarlo per il pranzo di
Natale.” Riprese a tossire.
“Che ne sai?” Sorrise Dean. “Sottovaluti la mia capacità di
mangiare sano, fratello.”
Fece forza sui polsi nel tentativo di rialzarsi, ritrovandosi a tremare come un
fuscello. Ingenuamente, non aveva considerato quanto potesse essere diventato
debole negli ultimi giorni. Senza fiatare, lasciò che Dean gli prestasse le
energie mancanti per completare il gesto.
Adagiato contro lo schienale del letto, non vi era un singolo muscolo che non
gli facesse male.
Chiuse gli occhi, il suo volto perse colore.
“Ah, cazzo-“
Ruggì con una smorfia di fastidio, mentre Dean sistemava la
tazza di brodo su un vassoio e lo posava sul suo grembo.
“Serve una mano?” Chiese senza incontrare il suo sguardo.
“Ce la faccio da solo.”
Dean annuì, non sorpreso dalla risposta ricevuta. “Fai piano però, okay?” Gli porse il
cucchiaio, ne approfittò per dargli una pacca sulla spalla.
Il farinoso fumo del brodo riscaldò le gocce di sudore freddo che facevano capolino sulla sua fronte. La testa prese girare. “Dio,” Pressò il dorso della mano alle sue labbra, inclinò il capo. “Non credo di riuscire a mangiare.”
“Non devi finirlo tutto, ne basta un po’, avanti.”
Tese il collo all’indietro, chiuse gli occhi nel tentativo
di controllare la nausea che tornò a mangiargli lo stomaco. Deglutì, scosse
piano la testa.
“Devi prendere delle medicine, Sam. Non puoi continuare a digiunare, ti
indeboliresti ancora. Coraggio,”
Dean rubò il cucchiaio dalle sue mani, raccolse del brodo
dalla superficie più esterna, soffiò su di esso, poi lo avvicinò alle sue
labbra.
“Dean.”
“Un paio di cucchiaiate saranno sufficienti. Apri, o giuro che comincerò a farti l’aeroplanino.”
“Mi stai già facendo l’aeroplanino.” Commentò con atona
stanchezza, deglutendo saliva amara.
“Stai scherzando!? Non ti sto facendo l’aeroplanino!” Esclamò fintamente
stizzito. “Figlio di puttana! Sam! Davvero ti sei dimenticato dei miei
aeroplanini? Erano completi di ogni cosa! Messaggio di benvenuto da parte del
comandante, misure d’emergenza con tanto di simulazione delle hostess tra i
corridoi, controllo delle cinture di sicurezza, commenti sulla velocità di volo
e sulla temperatura esterna. Cazzo, anche le comunicazioni dalla torre di
controllo! Per non parlare dei suoni di sottofondo, meglio dei film! Beh,
grazie mille, fratellino! E’ bello sapere che di tutti quegli anni di pratica e
perfezionamento non ti sia rimasto nulla! A saperlo prima, avrei fatto
puntualmente cadere l’aereo prima di arrivare alla tua bocca, così saresti
morto di fame!”
Arricciò le labbra per trattenere un sorriso, ma sapeva che questo avrebbe finito per dare a suo fratello una soddisfazione più grande di quanto auspicasse, per cui, si arrese. Sorrise, anzi. Rise. A occhi chiusi e gola silente, Sam lasciò che il suo addome si contraesse sotto le risa soffocate, prima di accettare la prima di una serie di cucchiaiate tra le labbra.
“Deduco tu abbia volutamente rimosso le volte in cui sono
stato io a far crollare l’aeroplano,
Dean. Precisamente, sui tuoi pantaloni. O sulla tua faccia, in caso di ‘sputo-esplosione’.” Controbatté
divertito, tra i colpi di tosse.
“Gne gne gne,” Scimmiottò. “Le ricordo perfettamente, invece. Ma la mia
compagnia aerea ha sempre vantato una flotta infinitamente larga, certi
incidenti di percorso possono solo renderla più forte.”
Si fermò per asciugare il sudore sempre più copioso dalla sua fronte, gli concesse un paio di minuti per riprendere fiato, prima di continuare. Doveva avere un aspetto davvero orrendo perché Dean potesse cogliere così bene il prezzo con cui stava pagando quel magro, insipido pasto.
Quando, stremato, gli chiese di fermarsi, questo non
insistette.
“Stai bene?” Si limitò a domandare, quando la tosse si accanì ancora sul suo
petto.
“Mi viene da vomitare.” Disse sfinito, riaprendo gli occhi
arrossati.
Ancora una volta la mano di Dean sulla sua fronte, ancora una volta Dean che
piega le labbra in una smorfia di disappunto.
“Okay–” Dean si rialzò. Si avvicinò al comò, recuperò delle
scatole e tornò accanto a Sam. “E’ l’ora della punturina, Sammy.” Disse con un
ghigno, agitando una delle scatole tra le mani.
“Queste, in particolare, se non ricordo male, non ti sono mai piaciute molto.”
“Cristo.” Sam la riconobbe: Phenergan da 50mg. Espirò sconfitto, si portò una mano sul volto imbruttito dalla stanchezza. “Non dirmi che hai avuto il coraggio di farmi una di queste poco fa.”
“E’ stato ieri notte. E sì, ti ho fatto una di queste.
Comunque, prego! Non c’è di che!”
Dean si rialzò dal letto, raggiunse nuovamente il comò. Il fatto che sembrasse
voler schermare con la propria schiena la preparazione, intensificò la
sensazione di fastidio.
“Ecco perché mi fa ancora male il sedere.” Portò istintivamente una mano sulla
natica ancora indolenzita, la massaggiò ripescando memorie che la febbre aveva
rimescolato a modo suo. In qualche modo, trovò irritante, il ricordo della
propria impotenza.
“Pensavo che quella roba fosse illegale dagli anni novanta.”
“Ti assicuro che ieri notte non saresti stato dello stesso parere.” Aspirando le ultime gocce di medicinale dalla fiala rotta, la siringa tra le mani di Dean emise un piccolo suono, come fischio sottile. “E credimi, non lo sarai neanche tra dieci minuti, se non ti sbrighi a fartene fare un’altra.”
E in effetti, era già da un po’ che sentiva il brodo cozzare
con le pareti del suo stomaco, preannunciando un ritorno non esattamente
gradito. Non aveva molta scelta. Avesse avuto otto anni, probabilmente avrebbe
protestato, protestato e protestato (perché da bambino aveva la capacità di
attirare bacilli come un fottuto magnete, e cazzo: erano mai passati tre mesi senza
che si beccasse qualcosa? No, che non erano mai passati!) sino a quando la voce
grossa di loro padre non avrebbe messo a tacere qualsiasi ribellione, e infine,
avesse accettato il proprio destino tra le braccia di Dean, con occhi gonfi e
le mani tremanti. Ma i suoi otto
anni erano lontani anni luce adesso, insieme a quei tempi in cui la paura di un
ago invisibile conficcato in un muscolo era solo la-paura-di-un-ago-invisibile-conficcato-in-un-muscolo, e
nient’altro.
E se la prima fosse stata una cosa tutta da dimostrare (perché diamine –
Dean non avrebbe mai smesso di prenderlo in giro, se non fosse stato così). La
seconda, stava bene dove stava. Non andava sfiorata, né menzionata.
“Vedi di fare in fretta.”
Lo disse con voce grave e seria, voltandosi di fianco prima che Dean potesse
sottolineare il cadaverico pallore apparso sul suo volto. Non doveva essere stato molto convincente.
“Va bene, va bene.” Rispose distrattamente suo fratello.
Tirò giù i propri pantaloni quando sentì il materasso
piegarsi sotto il ginocchio di Dean. Sobbalzò quando le mani di quest’ultimo li
abbassarono più di quanto non avesse fatto da solo.
Il respiro gli morì in gola. Il mancato commento di Dean peggiorò ogni cosa.
Cazzo.
Le dita andarono a pigiare fastidiosamente sulla natica
ancora integra, poi l’ovatta intrisa di Bourbon aprì la strada al resto. Sam si
morse un labbro. Anticipare mentalmente la puntura dell’ago fu quanto di più
immediato la sua mente riuscì a partorire, ma essa non avvenne, spodestata
dall’imprevedibile braccio di Dean che, in un attimo, scivolò intorno al suo
petto nudo come se per tutta la sua vita non avesse avuto altro scopo se non
quello di scivolare lì, in quel preciso giorno e in quel preciso momento, per
il solo gusto di scombussolare ogni cosa.
Con un unico, fluido movimento e prima di avere il tempo di protestare, Sam si
ritrovò con la testa sul grembo di suo fratello, spalmato come un gatto, tra le
gambe che questo aveva divaricato per accomodare il suo enorme corpo quanto più
possibile.
“Dai, vieni qui...” Non vi era traccia della precedente ironia; forse, il gesto
era apparso molto meno casuale di quanto avesse sperato. “Come se non sapessi quanto tu sia pessimo in
queste cose.”
Sam soffiò tra i denti, strinse i pugni. L’ago che Dean con
un gesto secco gli conficcò sulla natica contribuì in qualche modo ad offrire
una scusa alternativa, ma non vi erano dubbi su quale fosse la ragione per cui
suo fratello avesse preso a strofinare le sue braccia, maldestro tentativo di
camuffare la spiacevole costrizione a cui lo stava sottoponendo.
“Pensavo quella fase fosse superata da un pezzo, fratellino. Invece sei il
solito moccioso.”
Far leva su certe cose era ancora accettabile, in casi come questi. Anzi. Era
forse l’unico caso in cui lo era. Perché Sam e Dean non parlavano dell’Inferno.
Era un tacito accordo tra i due, quello di non richiamare mai alla memoria
dell’altro come le torture avessero cambiato le loro percezioni. In nessun
caso.
“Devo forse ricordarti quante volte sono stato o mi sono
ridotto a un colabrodo per far fronte a mostri, demoni, angeli e quant’altro?” Grugnì
Sam, tentando stoicamente di ignorare il dolore che si espandeva dentro di sé
man mano che Dean spingeva lento lo stantuffo.
“Certo, ma le iniezioni di Phenergan sulle chiappe? Tutt’altro livello di
terrore per te, fratellino. Da piccolo avresti vomitato di nascosto per giorni,
pur di non vedere neppure l’ombra della confezione.” Rise, mentre liberava la
natica dall’ago e la massaggiava. “Ma sarà il nostro piccolo segreto, promesso.
Ogni tanto è bello avere dei debiti con te. Devo ricordarmi di ringraziare il
Dottor Miller per la doppia cortesia.”
“Il Dottor Miller?” Sam strisciò via, sottraendosi all’ulteriore massaggio
quasi fosse l’unico atto di ribellione ad egli concesso; guardò il fratello con
volto intontito. Poi, l’illuminazione. “Sei andato a rubare a casa del Dottor
Miller?!” La tosse non gli permise di esclamarlo con lo sgomento che avrebbe
voluto.
“Lo dici come se fosse la prima volta.”
“Appunto!”
“Cosa diavolo avrei potuto fare in questo buco dimenticato da Dio, Sam?! La strada per Smith Center era ed è tuttora interrotta, a te servivano medicine e quel figlio di puttana di Miller ha appeso alla sua porta uno splendido biglietto dove informa i suoi pazienti di essere in Florida ad arrostire sotto il sole di Miami! Denunciami!”
“Ci denuncerà lui, prima o poi. E non sarà divertente
continuare ad averlo come vicino, la sua casa è a meno di cinque miglia da
qui.”
“Andiamo, ho solo preso in prestito
delle medicine che aveva nel suo studio! Non ho neanche fatto saltare
l’allarme. Dubito che quando farà ritorno il suo primo pensiero sarà quello di
controllare quante scatole di Phenergan manchino dalla sua dispensa.”
Sam emise un lungo sospiro silente, sentì i muscoli
rilassarsi, e non solo per l’effetto del medicinale che defluiva nel suo
sangue.
“Gli porteremo una cesta di frutta per Pasqua, vestiti da coniglietti, se
dovesse servire.” Aggiunse rimboccandogli le coperte.
E figurando mentalmente l’immagine di suo fratello vestito
da coniglio, Sam sorrise.
Il seguito fu confuso, fuori dall’ordinario.
Gli occhi si spalancarono nel vuoto d’improvviso, come qualcuno avesse ficcato
un pugno dentro al suo torace e strappato di netto i polmoni. Si accorse solo
allora di essersi addormentato, ma impegnata com’era a pensare ad un modo per riuscire a
respirare, la sua mente non riuscì a
ripescarne il ricordo.
Portò istintivamente le mani sul petto, spinse la punta
delle dita tra il costato spasmante. L’aria veniva espulsa con dei sibili
dolorosi e raschianti, soffiati attraverso la gola oppressa da un affanno che
lo soffocava.
Lo sguardo atterrito di suo fratello venne captato dai suoi occhi sbarrati tra
un colpo di tosse e un altro, si sentì sottrarre le mani dal petto con un gesto
brusco, impaurito. Il colorito che Dean ritrovò sulle sue unghie dovette
impressionarlo più di qualsiasi altra cosa avesse visto nelle ultime ore,
perché il modo in cui lo afferrò per le spalle mostrava un’urgenza tutta nuova.
Il resto, Sam non fu in grado di raccontarlo. In una matassa di suoni, luci,
movimenti sgraziati e percezioni distorte, probabilmente, gli avvenimenti
seguenti, sarebbero stati di difficile ricapitolazione anche per una persona
sana.
Oppure, più probabilmente, perse i sensi.
-
“Mio fratello sarà molto preoccupato...”
L’infermiera di primo acchito poteva sembrare arcigna, ma in fondo, Sam sapeva che, la sua, era tutta una finta. Mentre i medici lo stabilizzavano, gli era rimasta accanto per tutto il tempo, tranquillizzandolo con le sue grandi mani nere come fosse stato un bambino. Forse, la sfuriata che Dean le aveva fatto mentre gli ordinava di restare fuori dalla sala emergenze poteva aver inasprito il suo umore, ma si consolò pensando che probabilmente, non sarebbe stato né il primo né l’ultimo parente fuori controllo che si era ritrovata davanti. Così come non era di certo nuova a certe frasi dal doppio significato come quella che aveva appena proferito, si disse mentre respirava aria da dietro la mascherina, e pregava di non dover ulteriormente ripetere la richiesta.
Mentre regolava il deflussore della sua flebo, Angelina May – così diceva il cartellino appuntato alla tasca del suo camice celeste - spostò i riccioli neri dietro le orecchie, finse di non sentire.
“Mi dispiace per il suo comportamento, davvero. Ma non è cattivo. Ha passato intere giornate a prendersi cura di me, immagino la deprivazione di sonno lo abbia fatto andare un po’...fuori di testa.” I colpi di tosse intervallarono la frase come un sottofondo stonato.
“Non sembrate fratelli.”
“No, immagino di no.” Sam sorrise, l’ossigeno gli solleticava un po’ le narici,
era fastidioso.
L’infermiera sollevò un sopracciglio, poi scosse la testa rassegnata.
“Qualunque cosa siate, non è un mio problema. Saremo pure in un posto dimenticato da Dio, ma questo non gli dà alcun diritto di lasciare a casa le buone maniere. “
E Sam sospirò. Non ebbe neanche voglia di mettersi lì a discutere.
“Potrebbe farlo entrare?”
Tagliò corto. Domanda esplicita, questa volta.
La donna lo guardò con finto stupore, poi il suo borbottio
si confuse con quello dell’acqua che ribolliva spinta dall’ossigeno; disse
qualcosa, ma Sam non la sentì. Il ‘per
favore’ che aggiunse sulla fiducia poteva essere suonato patetico, ma fece
il suo effetto.
Continuando a brontolare, la donna sfilò via i guanti con i piccoli alberelli
di natale dalle mani. Si allontanò verso
la porta con passi pesanti e irritati, riapparve poco dopo con Dean – anzi, fu
Dean a riapparire per primo, lei lo seguì solo in seguito, inciampando
goffamente sui propri passi, mentre cercava invano di trattenerlo.
“Sammy!–“
E Sam sospirò. “Non potresti essere un po’ più gentile?”
Ma Dio, quanto gli piacquero quelle mani sul volto, sulle
spalle, sul suo petto.
“E tu non potresti essere un po’ più clemente con le mie coronarie? Ti avevo
avvisato, Sam!” Lo ammonì, ma lo sguardo che Sam gli rivolse fu l’abbraccio
silente di chi non poteva non aver apprezzato.
“L’orario delle visite comincia alle tre del pomeriggio.” L’infermiera batté ritmicamente il piede contro il linoleum del pavimento e incrociò le braccia al petto. Non doveva aver gradito molto il fatto che Dean avesse avvicinato una sedia accanto al letto di Sam. “Vi concedo dieci minuti. Poi ti voglio fuori dalle scatole, sono stata chiara?”
Dean inclinò la testa, stirò gli angoli della bocca verso il basso. “Simpatica.” Suggerì, al tonfo della porta che l’infermiera richiuse alle sue spalle.
Sam inalò una grande boccata d’ossigeno dalla mascherina.
“Non devono aver apprezzato molto il fatto che tu abbia minacciato di piantare
una pallottola in testa al medico di turno, se mi avesse lasciato morire.”
Dean sollevò il sopracciglio, abbassò lo sguardo. Dondolò la testa
imbarazzato. “Ho perso un po’ il controllo,
sai com’è: la stanchezza...”
“...e non devono aver apprezzato neanche il fatto di aver
fatto venire un elicottero a prelevarmi dicendo loro che avevo un infarto in
corso.” Sorrise con un sorriso di complicità.
“Parli così perché non hai visto in che stato ti ho trovato. Eri diventato blu,
cazzo! Blu! Cos’avrei dovuto fare!?”
“Pare che io abbia dei focolai di polmonite.” Disse facendo spallucce.
“Di’ la diagnosi per intero, Sam: focolai di polmonite dovuti a un’influenza mal curata. Da quanto mi tieni nascosto che
stai male?”
Sam arrossì, il monitor cardiaco segnalò un aumento irregolare dei battiti.
“Era solo un’influenza, Dean.” Gesticolò, prima di ricordarsi della flebo sul dorso della mano. “E sarebbe stato il primo Natale che ti–- ci saremmo concessi dopo tanti anni. Pensavo che i farmaci da banco sarebbero bastati. Non avrebbe avuto senso rovinarlo per una simile banalità.”
E invece l’ho rovinato comunque, avrebbe voluto aggiungere. Ma non era certo di saper poi reggere la tensione emotiva di quella frase senza apparire patetico, così, si morse l’interno della guancia, spostò lo sguardo altrove.
“Oh beh sì, certo. Perché festeggiare il Natale ha la priorità sui polmoni di mio fratello, ovvio. Ne ho tanti di fratelli, in fondo. Uno più, uno meno.”
“Mi dispiace.” Era sincero. Il più sincero ‘mi dispiace’ che avesse mai rivolto a qualcuno.
Dean tirò un sospiro, annuì. “Stai meglio adesso?”
“Sì.”
“Bene.” Poggiò una mano sulla sua testa in una carezza veloce, “Bene, Sammy.” Si lasciò sfuggire ancora, forse con un po’ troppa enfasi, questa volta.
“Ti verrò a prendere nel pomeriggio: questi figli di puttana hanno una di quelle macchinette moderne che verificano la validità della copertura sanitaria in tempi rapidi, non credo ci metteranno molto a scoprire che la tua è falsa. Ho una copia della tua terapia, mi procurerò tutto ciò che serve, tranquillo.” Spinse con le ginocchia la sedia, si alzò in piedi.
“Dean?”
Avrebbe voluto dirgli un misto tra grazie e, ancora una volta, scusa, ma era incredibile come lo sguardo di suo fratello potesse mettere a tacere ogni pensiero razionale nel giro di pochi secondi.
“Vai a riposare.” Proferì infine, ricordando la data segnata dall’infermiera sulla cartella clinica: era il 27 Dicembre: il suo calvario era andato avanti per quasi tre giorni. Tre giorni di cui non ricordava un solo istante di solitudine: Dean era sempre stato lì. Sicuro come un albero secolare, vigile come un soldato in territorio nemico in una guerra contro i suoi malanni.
“Dio, ho un aspetto così orribile?”
“Decisamente. Ed hai anche bisogno di una doccia, al più presto.” Borbottò, con uno strascico di tosse.
Impettito, Dean strinse le mani ai fianchi “Grazie. Molto gentile. Se non fossi un Sasquatch forse potrei anche pensare di occuparmi di te senza sudare sette camicie, ma non ho questa fortuna.”
Sam sorrise, scosse la testa, e cercò di rassicurare l’infermiera che nel frattempo era tornata a gettare fuori Dean, che sollevò le mani in segno di resa ed uscì.
Cullato dalla solitudine, Sam rilassò gli arti, fissò la neve che silente cadeva al di là della finestra soffocando la strada, espirò contro la mascherina, lasciando che la condensa gli inumidisse i contorni della bocca.
Quella stessa sera, aggrappato a suo fratello come un’edera,
Sam avrebbe lentamente sceso i trenta gradini delle scale del bunker,
ritrovandosi così di fronte ad una tavola imbandita a festa, con tanto di
candele, tacchino fumante, e i titoli di inizio di Home Alone 2 nell’antiquato
televisore. Sorpreso, e forse anche intenerito, Sam avrebbe chiesto cosa fosse
tutto quello pur sapendo la risposta, e Dean avrebbe abbozzato alla meno peggio
una scusa banale, bofonchiando che il mondo, in fondo, gli doveva pur sempre un
paio di favori, visto il loro contributo all’umanità. Spostare il Natale di due
giorni non sarebbe stato certo come chiedere la Luna.
E allora Sam avrebbe sorriso dicendo qualcosa di poco sensato che fungesse però
da balsamo all’orgoglio maschile già fortemente compromesso di suo fratello, e
fingendo di necessitare aiuto a sedersi, lo avrebbe stretto a sé più del
dovuto, sussurrandogli un Buon Natale
che Dean avrebbe finto di non sentire.
Così come avrebbero fatto finta che l’enorme gelato apparso in freezer fosse
solo una mera casualità, chiaro.
Fine.
Note dell’autrice:
- Alla carissima Alessandra, insostituibile compagna di malefatte ai danni di poveri personaggi indifesi. <3
- Non ha assolutamente senso, lo so. Avevo solo voglia di scrivere un pippone H&C per la persona sopracitata. V__V
- Grazie per aver letto sin qui! <3