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Autore: Lynx96    05/03/2017    1 recensioni
La pareidolia era, per lei, come una deformazione professionale, pur tuttavia anche la figlia illegittima del suo deprecabile istinto di conservazione, dal momento che persino nelle ombre che ora incombevano su di lei, ricercava gli aspetti confortanti e peculiari dei suoi compagni [...]
“Sanji-kun, sai cosa significa pareidolia?”, lo affrontò.
Sanji ammutolì, meravigliato, poi rispose, incuriosito: “Hai tutto il tempo di spiegarmelo, Nami-san”.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nami, Sanji | Coppie: Sanji/Nami
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa dell’autrice: è presente qualche sporadica parolaccia, che spero non sia di fastidio alcuno, mi sono sentita di specificarlo, di modo che nessuno ne rimanga spiazzato durante la lettura.
 
 
 
 





“Per arrivare all’alba, non c’è altra via che la notte”
Kahlil Gibran 
 
 





- Pareidolia -
 
 
 
 
 
 











Era avida come un drago, Nami, e condivideva lo stesso deleterio orgoglio che contraddistingue la loro stirpe.            
Per rapacità si era lasciata adescare da quello sparuto gruppo di uomini, e per presunzione aveva accettato quell’innocua scommessa, che l’aveva strappata dalla sua brigata, convinta com’era dell’affidabilità della propria scaltrezza.      
Quel branco di carogne era riuscito a sottrarle il Clima Takt e tutto il denaro di cui disponeva, e solo per miracolo si era trattenuta dal giocarsi persino la Thousand Sunny.       
Ironia della sorte, nel tentativo di recuperare i primi, era stata costretta ad abbandonare entrambi.
Completamente spogliata dello scudo di cautela da cui era solitamente difesa, ed accecata la diffidenza con il bagliore fulgente dell’oro, si era resa vittima ingenua e sprovveduta del broglio più trito del mondo, recandosi, sola e armata unicamente della sua furbizia, in quell’anfratto sudicio e chiassoso.
Nel frattempo, quei disgraziati erano venuti a sapere con assoluta e cristallina chiarezza chi lei fosse, e si sarebbero improvvisati cacciatori di taglie anche per una ricompensa molto minore di quella che la sua cattura prometteva.           
Aveva pregato che il fiuto di Chopper non la tradisse e che le sue previsioni risultassero esatte: dopo aver approssimativamente sondato l’ambiente circostante con lo sguardo, aveva acquisito la certezza che non avrebbe piovuto per diverso tempo e si era lasciata alle spalle più tracce che aveva potuto.           
Ormai già una manciata di giorni era trascorsa dall’esaurimento della sua waterloo personale, ed il suo buonsenso non era più ottenebrato dalla goduriosa vicinanza con il denaro, sicché la sua mente si perdeva in ragionamenti atti a mordersi la coda, pur di aggirarne altri, di più spietati ed angosciosi.
Il pavimento nudo e madido di umidità su cui era accovacciata - le ginocchia strette tra le braccia rigide e la nuca ritta sul collo sottile, segno di una remissività solo apparente -, sebbene impossibilitasse al sonno, era quasi di refrigerio per la sua mente intossicata dalla valutazione di scelte ormai compiute ed appassite, e spossata dal circolo vizioso di previsioni sempre più drammatiche, sulle quali indulgeva mano a mano che il tempo scorreva, incessante.           
C’era un pensiero, in particolare, che la pungolava, dispotico ed inclemente, e non per via di una sua debole opposizione, quanto consapevole e ricercata attenzione; quindi non vittima passiva del suo pensiero, quanto burattinaia sapiente ed ostinata, in grado di piegare le sue ansie alla sua volontà, retrocedendole a trascurabili crucci collaterali, in virtù di un unico e preponderante tarlo, capace di assorbire tutta la sua considerazione.    
Per certi versi ne era succube, ma il suo orgoglio occultava il giogo cui era soggetta in libero arbitrio, a giustificare tale sottomissione obbligata come un destino abbracciato e scelto.
Non c’era gioia in quel crogiolante soffermarvisi, ma non c’era nemmeno concreto struggimento: solo uno straniamento balsamico ed innocente.          
Quel martellante assillo aveva il nome specifico - e dal suono raffinatamente antico -, di pareidolia, un fenomeno tramite il quale la mente umana riconosce ed associa, in completa autonomia, immagini familiari a forme irregolari ed indefinite.      
Nami pensò ci fosse qualcosa di efferato in quell’inclinazione, qualcosa di disumano ed inesorabile: la sola mente a tessere una tela inestricabile di interpretazioni e concetti predefiniti, offuscanti la ragione e intorbidenti l’accurata esattezza con cui essa sarebbe stata in grado di evincere la natura delle cose.       
Una mente tirannica e cannibale, la quale, a imitazione di una vile e laida vedova nera, che avvince e divora i suoi stessi simili, insabbia la verità che dovrebbe spasimare tramite una trama di abbaglianti congetture e falsità; una gabbia di pericolose chimere, camuffate da percezioni incomplete e lacunose, e da un senso di vaghezza e ottundimento. L’afflizione della creatura umana concentrata nella tendenza inestirpabile e congenita alla mistificazione.           
Nami ne aveva una conoscenza profonda, poiché era su tale meccanismo inconscio che gran parte della sua professione faceva affidamento: le sagome e i colori di monti e scogliere - ma anche grotte, gole, mari e città -, dai nomi suggestivi, oppure pretenziosi ed altisonanti, evocavano spesso - eventualmente mediante miti e leggende antichi -, rappresentazioni mentali universalmente percettibili e riconoscibili, divenendo punti di riferimento tangibili e risaputi di viaggiatori e abitanti del mondo.          
Tuttavia, da buona navigatrice quale era, sapeva che lo sguardo non doveva posarsi solo a terra, ma puntare soprattutto al cielo, dove le stelle, traghettatrici e guide della notte, da singole ed indistinguibili fonti luminose che simulano una distribuzione fortuita ed arcana, si univano ad abbozzare figure recondite e misteriose, per cui il loro non era più uno scintillio debole e solitario, ma il profilarsi di contorni netti e taglienti, che squarciano di luce il manto scuro e pesante del cielo, a lasciarne intravedere le pareti.   
E sempre scrutando il cielo, sfondo del passaggio felpato e quieto delle nuvole, Nami sapeva prevedere le variazioni climatiche e la direzione dei venti. Allora, scopriva la propria mente assorta in voli immaginifici, atti a connettere i bordi cotonati delle nubi a forme e configurazioni consuete e razionali, oppure ad identificare volti e sfumature d’espressione nella loro filtrante opacità.     
L’immaginazione le consentiva pure di cogliere, nel soffio deciso o titubante dei venti, la volubilità e l’impazienza di Eolo; e lotte intestine di imperscrutabili divinità marine nel moto ondoso dei flutti e delle correnti. Così, le veniva spontaneo identificare i punti in cui l’acqua si faceva più scura con tetre ecchimosi, e la spuma biancastra che si infrangeva sugli scogli con il loro sangue.
Inoltre, quando delineava l’itinerario che stavano percorrendo sulle sue carte nautiche, o quando tratteggiava la fisionomia di un’isola remota e dimenticata, comparivano parziali ed approssimative effigi, sulle quali, per l’arbitrarietà e la soggettività di ciò che individuavano, lei e i suoi compagni, talvolta, battibeccavano animatamente.           
Ciò nonostante, questa stravagante licenza astrattiva non veniva ispirata solo dalla natura incontaminata: anche nel fitto e nebuloso fumo esalato dai comignoli delle case, infatti, Nami ravvisava l’interconversione di immagini dai contorni labili ed indistinti; e poteva scorgere, nell’anatomia di case ed imbarcazioni, uno scheletro antropomorfo dall’aspetto confortante.       
Grazie a tale capacità, le efelidi e le cicatrici cutanee andavano a corrispondere alle coordinate di disegni ermetici e sbalorditivi, e lei diveniva in grado di intuire una figura in ogni cosa: nelle vampe fiammanti del fuoco nel camino; nelle volute di schiuma del caffè caldo; sulla superficie bruciacchiata del pane tostato e su quella maculata della frutta matura; sui vetri segnati dai sentieri imprevedibili delle gocce di pioggia; sui dorsi coriacei e madreperlacei delle conchiglie; sulle ali variopinte delle farfalle e sui manti policromi dei mammiferi; tra le pieghe dei vestiti accoccolati su uno sgabello; oppure attraverso il vapore del respiro, tiepido e sfuggente, nei giorni d’inverno; e nel gioco di riflessi e di colori delle ghirlande, al crepuscolo di una città vestita a festa.        
Ed era altresì apprezzabile un implicito disegno nelle venature brune del legno, o nella danza del pulviscolo sotto i raggi del sole filtrati dalle chiome frondose degli alberi in una foresta; sicché si creava un gioco di luci ed ombre, di materia ed assenza, di forma e nulla, e non si distingueva più tra la fondatezza e la fallacia delle percezioni.     
La pareidolia era, per lei, come una deformazione professionale, pur tuttavia anche la figlia illegittima del suo deprecabile istinto di conservazione, dal momento che persino nelle ombre che ora incombevano su di lei, ricercava gli aspetti confortanti e peculiari dei suoi compagni: l’iridescenza della cicatrice cruciforme di Rufy, la sfumatura di prato dei capelli di Zoro, l’opalescenza ossea del viso di Brook, forme ramificate che potevano essere corna di renna o molteplici braccia, il naso allungato di Usop o la massiccia prestanza di Franky, la figura slanciata e longilinea di Sanji, piuttosto che lo sfavillio della sua sigaretta.  
Le pareva perfino di udire il sussurro sfrigolante di quella stupida sigaretta, o lo scalpitio liberatorio dei loro passi frenetici.        
Si chiese se l’accezione di quel termine - pareidolia - fosse  estendibile anche alla sfera del suono.
Confondere i sorrisi derisori e spregiudicati dei suoi aguzzini, e le loro voci sinistre e strepitanti con le risate calde e spavalde dei suoi compagni era una beffa, per lei, più mortificante e avvilente della trappola in cui era caracollata.           
Incapace di distinguere le creature che si nascondevano nell’ombra, l’armonia dalla cacofonia, la realtà dei fatti dalle sue aspettative, si sentiva di nuovo un’infante intenta a comprendere la differenza tra giusto e sbagliato, e le leggi che governano il mondo.       
La speranza è un gioco sottile ed implacabile, i cui contorni si confondono con quelli corrosivi dell’allucinazione, dimensione pregna di promesse illusorie e di delusioni cocenti.     
Nami sorrise lugubremente a quel pensiero, perché non v’era, in quel processo dal nome così elegante e mellifluo, nulla di consolatorio o carezzevole, e tutto di ironico e perverso.   
“E’ ora di cena, bellezza”, la porta appena socchiusa lasciò entrare uno spiraglio di luce, come una lama pronta a trapassare la densità del buio che inzuppava quel tugurio, e la figura tozza di uno dei suoi persecutori emerse dall’uscio. ”Vedi di finire tutto!”     
Un riso ghignante aveva accompagnato quell’intimazione, riscuotendola dalle sue elucubrazioni, poi minacciose mani le avevano violentemente consegnato un vassoio sporco e dal contenuto di dubbio gusto.          
Nami lanciò uno sguardo bieco al suo carceriere, concentrandovi tutto l’astio che le corrodeva il fegato, finché lui si fu allontanato, ridendo sguaiatamente, e l’oscurità si fu riconquistata, senza sforzo, il suo dominio.       
Una volta sola, cominciò lentamente a muoversi, allentando la stretta intorno alle ginocchia. Inizialmente, sentì i muscoli intorpiditi e doloranti, a causa del rattrappimento prolungato, poi una fitta perforante ad un fianco.     
Si massaggiò la zona interessata e la scoprì dal tessuto della maglietta, rinvenendo un largo livido violaceo, che si era procurata scivolando sul suolo bagnato di quella spelonca rocciosa e mefitica.
Una volta in ginocchio, allungò le braccia verso il vassoio e mangiò senza curarsi di capire cosa stesse effettivamente masticando ed inghiottendo, in un gesto meccanico più che desiderato.
Era inappetente e disgustata, ma il suo istinto di sopravvivenza le suggeriva di tenersi in forze, casomai avesse avuto l’occasione di scappare o la possibilità di difendersi.          
Non poté frenarsi dal ricordare, abbattuta e col magone, i manicaretti di Sanji e l’aria festosa che ravvivava la cucina quando, lei e il resto della ciurma, pasteggiavano e gozzovigliavano, godendo della reciproca compagnia.        
Una forte repulsione ingolfò in un colpo il suo stomaco, nauseato a quel ricordo, e il dolore al fianco divenne, da acuto e comprimente, impercettibile e vacuo, quando un nuovo dolore si sostituì al primo. Percepì improvvisamente uno spasimo al centro del petto nascere e diffondersi, a pervadere ogni particella del suo essere, catapultandola in uno stato di sopore ed apatia.           
L’angoscia era diventata intollerabile, lancinante come una trafittura, e troppa da contenere, perciò proruppe da lei, strappandola dal suo stesso corpo, di cui perse ogni percezione, ed obnubilata da quella forza serpeggiante, tutto cominciò ad apparirle distorto: il panico la stava sopraffacendo.
Le sembrava di galleggiare nell’aria, dispersa ed incorporea, come uno spirito errante; spalmata su di una superficie invisibile ed eterea, fuori dal materico e dal consistente. Ma non era una sensazione liberatoria o estatica: si sentiva morire, uccidere dalla prostrazione.  
Era come fumo rarefatto sospinto dai capricci del vento, schiaffeggiato e dissolto dalle sue moine, in balìa di tutto fuorché dalla sua volontà; immobile, paralizzata, imprigionata in una dimensione incontrollabile e  trascendente, da cui non sapeva se sarebbe mai riuscita ad emergere.
Allo zenit di quell’ansia spasmodica, paventò concretamente di eclissarsi per sempre, invece cominciò a riappropriarsi dei suoi sensi, come fosse stata una fenice destinata a consumarsi nel fuoco per poi rinascere dalle sue ceneri.  
Si accorse di stare piangendo lacrime torrenziali e di essere scossa da violenti tremiti, che non sembravano intenzionati a placarsi, mentre stava riacquistando, progressivamente, lucidità.    
Si chiese cosa ne sarebbe stato di lei, covando la rancorosa convinzione che la vita le stesse facendo un torto; e tornò con la mente a lidi lontani, tallonando con tutte le sue forze i ricordi più felici che possedeva, ed aggrappandovisi con ogni fibra del suo essere.
Quando si fu calmata, sebbene turbata da quello sfogo, si ricompose e riacquistò tutta la determinazione che il suo temperamento offriva.          
Si sorprese di come la rievocazione della sua vita da pirata una volta la gettasse nello sconforto, devitalizzando il suo granitico nerbo ed ancorandola a terra, come una zavorra, a rinsaldare il suo legame con l’autentico e il concreto; e l’altra la rincuorasse, prendendosi gioco di lei, proiettando ciò che pateticamente vagheggiava e non l’effettiva realtà dei fatti.         
La sua mente era spinta dall’autoconservazione, e, nell’assolvimento di questa predisposizione, la stava proteggendo da se stessa, ostinata a tenerla in vita attraverso idee dal potere suggestionante così convincente, da estrinsecare ogni fantasticheria e tradurla in immagini nitide e sensibili: sogni lucidi, allucinazioni, impressioni coercitive.           
Non c’era pietà nella pareidolia, ma solo un prepotente egoismo.   
Estenuata, si domandò dove fossero i suoi compagni e sperò con tutte le forze che le rimanevano che stessero bene, ed egoisticamente che stessero per venirla a recuperare.     
Emise un mugolio amaro: per quanto ci provasse, il suo spirito di sopravvivenza era, rispetto alla sua cupidigia, altrettanto infelicemente noto.
 



 


Appoggiato con i gomiti sulla balaustra della Thousand Sunny, Sanji - una sigaretta stretta  nella morsa dei suoi incisivi - guardava l’orizzonte senza effettivamente vederlo, rannuvolato dall’impotenza e dalla frustrazione.   
Segno inequivocabile del suo turbamento e della sua impazienza, Sanji fumava nervosamente una sigaretta dietro l’altra e, sebbene si riparasse sotto una scorza di impassibilità e stoico distacco, i suoi occhi fiammeggiavano di una ferocia febbrile e di profonda preoccupazione.        
Usop gli si avvicinò con cautela, intimorito dalla furia ferina che irradiava, e si accostò al parapetto, lambendone la superficie con la schiena, in modo tale da non mostrarsi troppo invadente o molesto, e incrociò le braccia al petto, a simulare disinvoltura e noncuranza.  
“E-ehi Sanji, mi sono sempre chiesto... ehm... q-quando hai iniziato a fumare?”, esordì,  senza nascondere una nota di titubanza nella voce.  
Sanji ignorò la domanda, consapevole del palese e fallimentare tentativo di Usop di aggirare l’elefante nella stanza, e sentenziò: “Se le è stato torto anche solo un capello, Usop, giuro sulla mia professione che li ucciderò quei bastardi schifosi, con le mie mani se necessario”.      
Usop si voltò verso di lui, spaurito, ma con lo sguardo divampante determinazione.        
“Non devi sobbarcarti tutto questo peso, Sanji. Vogliamo trovare Nami quanto te, e non appena Rufy si sarà svegliato, gliela faremo vedere noi, insieme!”, nonostante la soggezione, il suo tono era convinto e fiducioso.  
“Sì, ma quanto cazzo ci stanno impiegando?! Sono passati giorni!”, sbraitò Sanji, rabbioso. Nella foga, la sigaretta ancora accesa sfuggì dalle sue labbra frementi e precipitò nell’acqua gelida sottostante, appoggiandosi lievemente sulla sua superficie.   
Usop sussultò e si schermò il viso con le braccia, atterrito da quel brusco sbotto, smascherando tutte le insicurezze della sua natura tremula e pavida. Ma poi, percorso dalle vibrazioni riecheggianti di una responsabilità di cui si era fatto spontaneamente carico, si guarnì di tutta la risolutezza che riuscì a trovare nel suo cuore.   
“Il tempo necessario, Sanji”, disse, lapidario, con tono deciso e severo. “Stiamo facendo tutti del nostro meglio! Non potevamo prevedere che da quella gola si sviluppassero dei miasmi soporiferi e allucinogeni! E non è colpa di Chopper, se il preparato che aveva con sé non era sufficiente a svegliare anche Rufy, Brook e Franky! Cara grazia che non hanno effetto sugli animali!
Vedrai che Nico Robin e Zoro torneranno presto con gli ingredienti necessari, loro sono rapidi e, sebbene Zoro non sia molto acuto o ragionevole, ha delle buone braccia, e Nico Robin potrà compensare in perspicacia ed assennatezza, è una cervellona molto persuasiva.   
Solo Chopper può monitorare il letargo delle belle addormentate laggiù, io di certo non sono in grado di capire quando e quanto devono essere idratati e compagnia bella!
Sì, magari noi non siamo molto utili in questa fase, però abbiamo dalla nostra tutto il tempo di elaborare una strategia adeguata, o quantomeno decente!”, sfiatò, accalorato.       
Sanji si rincrebbe, pentito, e si sentì obbligato verso di lui. “Ti chiedo scusa, hai ragione. Grazie amico”, disse, riconoscente, sorridendogli.  
Usop sgranò gli occhi, poi sorrise di rimando, assumendo un atteggiamento comicamente tronfio e vanaglorioso.
“Non c’è di che, sono o non sono Usop il Consolatore, il pirata più altruista e brillante dei sette mari?” 
“Certo, certo”, rispose Sanji, con affettata condiscendenza. “Ma cosa stai facendo esattamente per la ciurma, tu?”, aggiunse poi, scettico, inarcando uno dei suoi riccioluti ed asimmetrici sopraccigli.
Usop non si scompose, perfettamente a suo agio nella sua vanteria fanfarona. “Be’, io ho ideato un nuovo clima Takt per Nami, ti faccio vedere!”, così dicendo, estrasse da una tasca un oggetto cilindrico dal diametro molto ridotto, pressoché pari a quello di una sigaretta, e lungo quanto il suo dito indice. “E’ solo un prototipo, ma l’obiettivo è quello di ottenere un’arma tascabile e più maneggevole, che conservi la stessa potenza ed efficacia di attacco della versione odierna”, spiegò, orgoglioso.          
“E’ davvero un bel pensiero Usop. Un’ottima idea...”, disse Sanji, meditabondo, tornando a voltarsi verso la distesa glauca del mare. Poi il suo viso si illuminò, ed esclamò, ringalluzzito: “Anzi, è un’idea deliziosa!”.        
Usop lo scrutò, perplesso e sospettoso. “Perché tanta enfasi su deliziosa?”           
Sanji lo prese per le spalle, con energia euforica. “Ideerò la migliore ricetta coi mandarini che la mia adorata Nami-san abbia mai anche solo pensato di assaggiare!”    
Usop esalò un sospiro di sollievo, rinfrancato dalla consueta gaiezza del compagno, che, intanto, si stava dirigendo, in preda all’eccitazione, verso la cucina; e, soddisfatto del risvolto del suo intervento, tornò a concentrarsi sul suo nuovo progetto, di cui ancora non riusciva proprio a controbilanciare i difetti.     
Nello stesso momento, Sanji, una volta che si fu chiuso la porta alle spalle e si fu accomodato al tavolo da pranzo, si prese la testa tra le mani sudate, vittima di un vortice sospiroso di pensieri taglienti come lame. 
Non è che le parole incoraggianti di Usop non avessero acceso, in lui, la fiamma dell’ottimismo e della fiducia, ma era poi poca cosa, una misera fiammella, in confronto al falò d’ansia frammista ad ira che si stava consumando nel suo petto.       
Era tanto ardente quel sentimento, da appannare persino il ricordo di lei, la cui separazione era pure così recente. Trapelavano, però, dalla sua memoria ostinata e passionale, piccole sfumature della ragazza, non appena coglieva accenni della sua, ancora fresca, presenza.   
Nella camera che condivideva con Nico Robin, le carte di Nami giacevano abbandonate sullo scrittoio, i suoi strumenti esanimi, ma pronti all’uso; il letto era ancora disfatto e il pigiama - scure chiazze di colore, come sangue, tra le candide lenzuola - avviluppato tra le coperte.      
Aveva, inoltre, erroneamente dimenticato uno dei suoi fini e molteplici goniometri sul ripiano della cucina, l’ultima volta che era venuta a prendere un bicchiere d’acqua, e la fragranza dei suoi mandarini, coltivati con cura al fianco dei fiori della compagna di stanza e della fetta di prato di Usop, si insinuava nelle narici sensibili e navigate di Sanji, conficcandosi nel distretto del suo cervello, dove potevano solleticare le corde della sua memoria intermittente.           
Per Sanji, era intollerabile il senso di incompiutezza di quelle sollecitazioni - che ventilavano l’imminente ricomparsa di lei, a spezzare l’incantesimo che pareva aver congelato il tempo -, poiché, sebbene consapevole della grande resistenza della compagna e del suo morboso attaccamento alla vita, a cui era allacciata come una cintura, non riusciva a sopportare che le venisse fatto del male, in primis come donna, ma soprattutto in quanto parte di quella loro bislacca famiglia, che si erano costruiti un passo dopo l’altro nel corso degli anni.    
Il suo buonsenso era miope quando si trattava dell’incolumità di Nami, e la sua percezione visiva vanificava per la nostalgia e la rabbia, allora si illudeva di scorgere lo sfarfallio indistinto di un’ombra che poteva essere la sua, fantomatica e ballerina, sulle pareti lignee della nave, alla lattiginosa luce della luna; oppure di avvistare le rutilanti tonalità rugginose dei suoi capelli non appena svoltava l’angolo, come fiochi miraggi incastonati nella coda dei suoi occhi. Questo perché il timore di Sanji era così denso, da velarne la vista, che non intravedeva che lei, il suo sinuoso tatuaggio, il suo sguardo vigile, sia nel nulla che nella moltitudine.
Ogni tanto, gli pareva di udire la sua voce, dal timbro vellutato e dall’intonazione squillante, o lo schiocco nervoso dei suoi tacchi sul pavimento di legno: perfino il suo udito era abbindolato da quell’intimo istinto di protezione e soccorso al sesso debole, spronato da un nocivo almanaccare sulle condizioni misere in cui stava potenzialmente versando quella fragile creatura, che era sì volitiva e dalla tempra ferrea, ma allo stesso tempo insofferente e disillusa.           
Per non parlare del suo olfatto, plagiato dalla risonanza che il profumo di lei spandeva dalla sua memoria e dall’effluvio d’agrumi che permeava l’aria, quando era sottovento al suo modesto frutteto.        
Disprezzò quelle vane lusinghe dell’intelletto, che rendevano ciechi il suo giudizio e la sua prudenza; si massaggiò le tempie con i polpastrelli, assordato dall’inconsistenza dei suoi pensieri, e prese una decisione.    
Si precipitò da Chopper ed Usop, che si trovavano entrambi in infermeria, ed esclamò con forza e tensione: “Io vado, non posso più aspettare, mi raggiungerete dopo!”, e si volatilizzò con la stessa rapidità con cui era comparso.   
Fu in quel momento, però, che la voce fastidiosa ed impertinente di Zoro raggiunse le sue orecchie: “Qui nessuno va da nessuna parte, tu tantomeno! Con quelle spirali d’incenso che ti trovi al posto delle sopracciglia dovresti evitare di mostrati alla luce del sole!”   
Sanji aveva perso lucidità ed autocontrollo. “Levati di mezzo, testa d’alghe, Nami è tenace, ma non infallibile, bisogna muovere il culo!”     
Zoro puntò intensamente lo sguardo su Sanji, che ribolliva di rancore, e dopo una pausa di riflessione che parve durare ore, si rivolse altrove: “Usop, hai elaborato un sistema per evitare di inalare quei fumi caliginosi?”         
Usop si riscosse, e si precipitò a rispondere: “S-sì, certamente, per chi mi hai preso? Avevo considerato l’idea di migliorarle, ma poi ho pensato che potesse compromettere la loro efficacia e, nel dubbio, fosse meglio ripararle e basta”, così dicendo, estrasse da un borsone delle maschere antigas piuttosto rovinate e sgraziate, rinforzate nei punti in cui il tessuto di base era liso o danneggiato con delle leghe metalliche, più resistenti ed impenetrabili.           
“Chopper tu occupati insieme a Robin di svegliare il capitano e gli altri, poi raggiungeteci. Io, Usop e Sanji partiamo subito!”, decretò Zoro con fermezza.           
Trenta minuti dopo, erano sulla via per riportare Nami al luogo a cui apparteneva, accompagnati dallo strenuo piagnucolio di Usop, che, imbronciato e contrariato, continuava a mugugnare: “Perché pure io...?!”.
 
 
 
 




Stava per sopraggiungere la sera, quello stato di sospensione e d’attesa, quel limbo temporale che precede la notte, in cui tramonta il sole e con lui si eclissano tutte le certezze dell’occhio.       
Nami si sentiva come confinata in un vespro perpetuo, in uno stato dell’essere la cui unica risoluzione poteva essere il suo crepuscolo, un’attesa tanto spasmodica quanto sterile. I suoi occhi si erano abituati all’oscurità e percepivano i contorni dei rari oggetti presenti in quell’antro spettrale.
Pensò che anche la sua, di presenza, fosse, in un certo senso, spettrale, ma non nella consueta accezione del termine: era come evanescente, impalpabile, avvolta dal nulla nel nulla, dal buio nel buio.
Sentì dei clangori in lontananza, che rischiararono quella schermatura percettiva, rianimando di nuova limpidezza la sua sensibilità. Si girò bruscamente nella direzione da cui sembrava provenire quel bailamme, finché, dalla penombra, improvvisamente una luce la accecò, abbacinante.  
Nella stanza, si riversarono, insieme a quella luminosità diffusa, anche sibili di sferragliamenti e ringhi rabbiosi. Nami si accasciò sul pavimento bagnato e bruciante di freddo, e si rannicchiò su se stessa, in posizione fetale, tappandosi le orecchie con le mani, in segno di rifiuto verso quel putiferio babelico ed assordante, da cui si sentiva soffocare.           
Schianti roboanti fecero tremare il terreno, facendola vibrare fin dentro le ossa,  ma a lei giunsero solo come rumori lontani e attutiti. Udì, poi, voci e strepiti ovattati, toni bassi e remoti ad accavallarsi e rincorrersi senza sosta, che riverberavano nel suo stomaco, frastornandola.
Intanto, passi pesanti, dal suono sordo e cupo, si facevano sempre più vicini, ineluttabili, mentre lei, sconfitta e rassegnata, deplorava, infuriata, quel suo insito istinto di sopravvivenza, che persisteva, tenace ed infelice, a giocarle quegli scherzi crudeli: tentava di convincersi che quelle urla la schernissero, a graffiarla ancor prima che con le unghie, le corde o le lame, un assaggio della loro causticità, mentre a questa immagine si sovrapponeva, irrefrenabile e testarda, quella sospirata dei suoi compagni di avventure, mentre correvano verso di lei, chiamando il suo nome, con le braccia protese nella sua direzione.    
Non riusciva a digerire che la sua mente le imponesse una burla così subdola, per cui riconduceva quel tumulto schiamazzante - che, più verosimilmente era dedito a sbeffeggiarla ed oltraggiarla -, al fracasso inconfondibile con cui si risolvevano i suoi paladini.      
Si domandò se, come accadeva a lei, la sua ciurma rinvenisse la sua immagine nelle disorganiche composizioni di oggetti e colori, nelle nature morte del quotidiano; se sorbisse lo stesso sapore amaro, una volta resasi conto dell’umiliante errore; e se sapesse dell’esistenza di quel fenomeno, se ne conoscesse il nome, se l’avrebbe benedetto o aborrito.         
Repentinamente, sentì scuotere le sbarre della sua cella con veemenza, quindi, sottratta a quel frullio imperante di interrogativi, alzò, con strenua tenacia, lo sguardo. 
“Nami-san! Arrivo a prenderti! Ti porto via da quest’inferno!”      
Vide Sanji - le mani strette intorno alle grate di quel loculo - gridarle parole confuse, che approdavano ai suoi timpani come prive di significato. Dal canto suo, Sanji, la scrutava attentamente, a valutare le sue condizioni psicofisiche: Nami appariva semi-incosciente, lo sguardo vacuo e stralunato, l’aria smarrita.    
Fuori di sé dall’urgenza di accertarsi concretamente che fosse viva e non solo il riflesso manifesto di un suo pio desiderio, tirò un potente calcio alle inferriate, aprendo un varco sufficientemente ampio da consentire il passaggio di entrambi.        
Lei fece per alzarsi, ma il suo corpo non rispose all’impulso nervoso, e non si mosse. Scossa e inebetita da quella paralisi inopportuna, sebbene momentanea, e svuotata di ogni capacità di reazione, boccheggiò, affannata, ma Sanji accorse prontamente. 
Nami si sentì afferrare da braccia forti e nervose, con apprensione e trasporto.     
“Sanji-kun...”, mormorò con voce flebile, vagamente attonita.       
Essendo la prima parola pronunciata dopo diverso tempo, la sua voce risultò rauca e gracile, come il suono intermittente e raschiante del pane raffermo quando viene tritato. 
Sanji rilevò la secchezza delle sue labbra, esangui e screpolate, nel momento in cui Nami cercò di umettarsele inutilmente. Aveva i capelli impiastricciati di sangue secco, tuttavia non presentava ferite visibili; e i suoi vestiti erano intrisi dell’odore acre e rancido di sudore ed urina; il suo viso era il ritratto della costernazione. 
La pece nelle pupille di Sanji si accese, lampeggiando con ardore feroce ed astioso, quindi, a suon di calci e botte, si fece strada in quella calca di individui senza nome né onore.         
In quel frangente, Nami non seppe se avere soggezione di lui - una creatura docile, che aveva conservato tutto l’accanimento della sua natura selvatica -, oppure esserne attratta: quell’assoluto e sacro valore che attribuiva alle donne era stato sia il suo tallone d’Achille che il suo maggiore incentivo, ed era certamente qualcosa di raro, ma con questo poteva considerarsi anche prezioso o encomiabile?  
Sanji rafforzò la stretta fino a farle dolere il seno ed il collo, mentre lei si sentì implodere per la tachicardia. Si aggrappò più saldamente a lui, temendo non fosse altro che un miraggio, ed il suo odore le penetrò nelle cavità nasali con intensità inaspettata, come qualcosa di insperatamente umano e reale: tracce del sentore aspro e ferroso del sangue, frammisto a quello familiare di tabacco e della sua colonia.          
Nami venne assalita da una trepidante nausea simile ad un formicolio a vuoto, in quanto la sua emozione ed il suo sollievo erano così totali e pieni, da non riuscire a contenerli.         
Come dopo un lungo digiuno, il suo stomaco era contratto e dolorante, scombussolato da quella marea di sensazioni non confinabili in compartimenti stagni, né circoscrivibili in definizioni immobili e definitive, ma tracimanti da qualsiasi demarcazione semantica.    
C’era del dolore appartato in quelle sensazioni mistiche e vertiginose, come se quelle conosciute fossero solo emozioni elementari, tendenti a mescolarsi tra loro in infinite combinazioni possibili, che prescindono da qualsiasi etichetta; ed era quella spina velenifera e graffiante a farla sentire viva, come fosse l’impalcatura del mondo emozionale.    
Decise di accogliere la commistione di quell’afflizione con l’integrità presunta della gioia, e smise di temere la confusione dei sensi e delle percezioni, prendendo a considerarla come una risorsa atta a rivelare la ricchezza inesauribile e sublime dell’esistenza.
Prima di emergere da quel tartaro pestilenziale, Sanji si fermò, la appoggiò delicatamente a terra e le assicurò la maschera antigas al viso, mentre lui si coprì il naso con un lembo della sua giacca elegante, conscio dell’inutilità del gesto. Le afferrò la mano senza titubanza, mentre lei, ancora disorientata, dapprima oppose una poco convinta resistenza, poi, evincendo gi effetti che i vapori di quella grotta producevano sul corpo di Sanji, si lasciò guidare.           
La mano di lui era rovente, come se in essa fosse confluita tutta la sua collera, mentre quella di Nami era ghiacciata, come previsto da quella naturale scala di priorità, che pone le estremità corporee all’ultimo posto dell’irrorazione sanguigna.      
Insieme, le loro mani sembravano stemperare l’una gli eccessi dell’altra, a raggiungere un equilibrio proprio, una sorta di microclima.
Una volta fuori, Sanji non ebbe il tempo di riconoscere il volto pallido della luna, che crollò al suolo, vittima di quelle diaboliche esalazioni. Nami si tolse con foga quella specie di scafandro, scagliandolo lontano, quindi, la mano ancora aderente alla sua, si avvicinò a lui, preoccupata.
“Sanji-kun, che cosa succede?”, chiese, allarmata. 
“Sono fumi soporiferi, niente che Chopper non possa curare”, rispose, cortese, strascicando leggermente le parole.    
Era stato irragionevole, da parte sua, tutelare lei invece che se stesso, in quanto ora non avrebbe più potuto difenderla, se fosse stato necessario. Sorrise mestamente a quella considerazione: era più forte di lui.    
Le braccia e le gambe gli formicolavano, e sembravano non reagire alla sua volontà. Nonostante tutto, sembrava che l’antidoto di Chopper stesse ancora agendo, in quanto, al di là di un parziale addormentamento degli arti, la sua mente era perfettamente lucida e riusciva ancora a parlare, sebbene masticando qualche parola.
Era come trovarsi in quello stato di semiveglia che precede o segue il sonno. Probabilmente aveva sviluppato una temporanea resistenza a quei vapori.
Nami prese il polso di Sanji tra le dita fredde, tentando di captare le sue pulsazioni.       
Diamine!
Non le era mai riuscito.         
Si trovò costretta ad accostare il capo al suo petto, e gli auscultò il cuore. Così sì che si sentiva bene: il battito era sincopato e leggermente irregolare, ma forte e vigoroso.     
“Non pare anche a te che scandisca il tuo nome, Nami-san?”, le domandò, increspando le labbra in un sorriso svaporato e disarmante.        
Nami si distrasse, spaesata, e drizzò lo sguardo verso di lui, semi-sdraiato sull’erba umida.         
La visione di Nami, leggermente allocchita, con la guancia appoggiata sul suo torace, lo accese in viso e lo fece sogghignare di piacere, mentre lei si imporporò, impermalita.         
“Sei stucchevole, Sanji-kun!”, replicò, sbuffando, e gli pizzicò una guancia, per disperdere l’imbarazzo. “Direi che stai benissimo e che mi sono preoccupata per nulla!”, aggiunse poi, puntigliosa.
Nami non si trattenne, ma, anzi, fu manesca di proposito, tuttavia Sanji rise; lo deliziava il modo in cui lei si indispettiva e camuffava il suo turbamento, deviando l’attenzione dell’interlocutore su qualcosa di impellente ed inaspettato, come il dolore fisico. Era una difesa spicciola e pratica, che ben si addiceva al suo carattere burbero e circospetto.    
Dopotutto, era solo un monito espresso in quel suo modo aggressivamente distintivo: attaccava per difesa, Nami, e, sebbene lo facesse deliberatamente, che volesse fargli del male per proprio diletto, o a titolo gratuito, era fuori discussione.   
In quel mentre, Nami rimuginava: lo smielato intervento di lui aveva richiamato alla sua memoria quell’attitudine peculiare, per cui il cuore di Sanji sembrava davvero sillabare il suo nome, e per cui lei non aveva ceduto alla rassegnazione.
“Sanji-kun, sai cosa significa pareidolia?”, lo affrontò.       
Sanji ammutolì, meravigliato, poi rispose, incuriosito: “Hai tutto il tempo di spiegarmelo, Nami-san”.
Non si riscontravano ancora, infatti, i segni di una prossima comparsa dei loro compagni - erano ancora udibili, in lontananza, gli urti di lame contro lame, e un gridio diffuso, mentre, dalla parte opposta, dilagava la quiete -, inoltre, quel luogo dimenticato dalla civiltà pareva prestarsi a quelle speculazioni.
I contorni aguzzi della caverna si stagliavano minacciosi contro il cielo, illuminati dal pallore diafano della luna, e rilucevano di un tenue luccicore. La sua struttura era massiccia e sorgeva in grembo a quell’angolo bucolico, mosso unicamente dal ritmo placido ed imperturbabile della natura, mentre, dentro di essa, giaceva, quieta, una notte buia e senza stelle: pareva la fasta tana di un drago.          
Quella cupida razza e Nami erano accumunati dalla stessa brama vorace, pur tuttavia, lei era refrattaria all’inespugnabile isolamento in cui si confinava, ed allergica alla cupa, seppur dorata, solitudine di cui si circondava, perciò rabbrividì come a qualcosa di fosco e pericoloso.     
Fece per alzarsi, ma lui le sfiorò delicatamente il polso, ancora incapace di movimenti più ampi ed articolati.    
“Nami-san, prima potresti accendermi una sigaretta?”, la implorò. 
Lei gli lanciò uno sguardo riluttante, ma alla fine capitolò. 
“D’accordo”, sospirò.
Cercò l’occorrente nelle tasche della sua giaccia, quindi, una volta rinvenutolo, gli pose una sigaretta tra le labbra e si accinse ad accendergliela. Non era molto pratica al funzionamento dell’accendino, inoltre l’aria era bagnata e tirava una leggera brezza, perciò impiegò diversi tentativi prima di vincere l’atmosfera sfavorevole.     
Si sedette di fianco a lui ed abbozzò un discorso, inizialmente stentando su alcuni passaggi, che a lei parevano plateali, successivamente districando e giustificando ogni singolo dettaglio, essenziale o banale che fosse.       
L’esempio più eloquente che riuscì a parafrasare, le balenò in mente nella contemplazione dell’oscurità stellata.           
“Sanji-kun, osservando il cielo, sicuramente la tua mente tenderà ad unire le stelle a delineare figure astratte, in cui riscontrerai un’immagine che ti è familiare. Per esempio, vedi quelle stelle adiacenti, meno luminose delle altre? Connettendole a quelle cinque coppie allineate in parallelo a me sembra di individuare una freccia e così via, ed è così che prendono il nome le costellazioni maggiori”, esemplificò. 
Sanji esalò una boccata di fumo con gesti impacciati dall’intorpidimento e con fare assorto.       
“Io in quella schiera di stelle ci vedo un cuore, Nami-san”, opinò con tranquillità.
Nami non si meravigliò: era una naturale divergenza di visioni.     
Tale discrepanza nella decodificazione dei criptici messaggi della volta notturna, aveva una connotazione quasi sublime, poiché, se da un lato smentiva la propria interpretazione, in realtà, dall’altro, ne ampliava la prospettiva, cosicché un nuovo tassello si aggiungeva al parziale quadro della comprensione delle cose, come a dire che nessuno basta a se stesso e tutti hanno un contributo da versare, qualcosa da suggerire.    
Allora, anche quel fenomeno che aveva considerato maledetto, la pareidolia, assunse un nuovo valore, uno scopo brutalmente vitale e creativo, e cooperante, che faceva sì che ovunque fosse rilevabile l’infinità delle possibilità e l’imponenza dell’esistenza.   
Curiosamente, infatti, c’era un’ambivalenza intrinseca in tutte le cose, che la mente umana, intenta a rintracciare ogni singolo tono di quell’incalcolabile caleidoscopio di significati possibili, non poteva esimersi dal considerare, né cogliere autonomamente nella sua interezza.
Quella consapevolezza poteva opprimere di un peso atlantico, quello del sapere di non poter conoscere fino in fondo, ed imponeva che la realtà fosse una, ma la verità molteplice, per la qual cosa non si poteva oscurare la brillantezza di un’opinione, o il potere consolatorio di un desiderio -  per quanto infondato o utopistico -, né il suo pugno propulsivo.     
Non c’era nulla di fatuo o di corrotto, dunque, nei loro vagheggiamenti: le debolezze dell’uno e dell’altra, e le dolorose e velleitarie fantasticherie di entrambi, andavano a supportare la nitidezza del loro sentirsi vivi, ad attizzare la fiamma della loro energia vitale, sicché perdersi diveniva fondamentale per ritrovarsi, confondersi per comprendere, addolorarsi per gioire, in un flusso eterno, riconducibile ad una simbiosi mutualistica, di ossimori e contraltari.     
Quella volta, le loro aspirazioni conversero fino a divenire sinonimi, confluendo in quell’istante in cui erano insieme, e non importava che, per l’una fosse necessità di estinguere la solitudine, e per l’altro trasparente letizia dello stare con lei, poiché entrambi provavano il medesimo e condiviso conforto del non essere soli. 








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Salve a tutti!  
Rieccomi con qualcosa che spero abbia almeno un barlume di coerenza.   
Non ho voluto revisionare il testo ulteriormente, perché avrei finito o per riscriverlo da capo (e non mi sembrava il caso, sarebbe diventato qualcosa di completamente diverso) o per non pubblicarlo mai nella vita (la qual cosa mi sembrava altrettanto sciocca), quindi, come l’altra volta, chiedo scusa in anticipo per eventuali sciocchezze e divagazioni da me perpetrate nella scrittura e ringrazio per il vostro tempo.          
Mi rendo conto sia tremendamente introspettivo, forse persino eccessivamente, e temo tenda un po’ al melodramma. Non ho scuse, ma spero mi perdoniate qualche licenza poetica ed espressiva.       
La cosa che più mi preme è mantenere il più centrati possibile i personaggi, e non so se sia una cosa che mi riesce, ma di certo mi ci impegno. E proprio su questo aspetto, vorrei esplicare una mia scelta: penso che Sanji reagirebbe in questa maniera alquanto irrazionale pur di proteggere Nami, anche se, francamente, non so se la lascerebbe così esposta…       
Certo, è anche vero che metà della ciurma sarebbe sopraggiunta a breve, mentre la coppia Zoro-Usop era intenta al combattimento frenetico (anche qui: non so quanto sia credibile, e non tanto che Zoro sbaragli un gruppo di ometti ottusi, ma che Usop sia presente e faccia qualcosa di determinante), comunque sia, sul momento mi sembrò plausibile.       
A voi l’ardua sentenza (pietàààààààà).         
Ok, bando alle ciance, vi ringrazio.  
Timorosamente,
Lynx96


 
  
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