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Autore: JacquelineKeller01    05/03/2017    2 recensioni
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Lea ha diciassette anni quando torna nella sua città natale in seguito ad alcuni problemi familiari. Tutto ciò che vuole, dopo un anno intero passato a guardarsi le spalle, è recuperare il rapporto con suo padre e un po' di sano relax. Ma sin da subito il destino sembra prendere un'altra piega.
Isaac è l'essere più irritante che Lea abbia mai incontrato nella sua vita, con quella sua arroganza e i repentini cambiamenti di umore, porterà novità e scompiglio nella vita della giovane.
Tra un rapporto che fatica ad instaurarsi, vecchie ferite non ancora del tutto sanate ed un patrigno che sembra darle la caccia, Lea si ritroverà ad affrontare sentimenti che non sapeva essere in grado di provare, specialmente non per uno come Isaac Hall.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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21 Giugn 2012, Harpool Bay.

«Condoglianze, figliolo.» Esclamò Sam, il fornaio, poggiandogli una mano sulla spalla.
Isaac forzò un sorriso triste, tornando poi, immediatamente, a fissare la lapide davanti a se. La cerimonia era finita da una mezz'ora oramai, ma c'era ancora metà della città ferma in fila indiana, impaziente di porgli le proprie condoglianze. Avrebbe voluto che suo padre fosse lì in quel momento, così si sarebbero rivolti a lui e lo avrebbero lasciato libero di crogiolarsi nella sua disperazione, invece suo padre era disperso in chissà quale bar, ubriaco marcio, forse più del solito. Forse era morto anche lui. Una parte di Isaac lo desiderò disperatamente. Era tutta colpa sua se sua madre si era uccisa, era tutta colpa sua se lo aveva abbandonato.
«Hey!» La voce di Aiden lo riportò bruscamente alla realtà e lo spinse a ragionare più lucidamente. Era deploverevole anche solo pensare una cosa del genere. «Come stai?»
Isaac si strinse nelle spalle. Stava male, ma non voleva ammetterlo, ma, allo stesso tempo, sapeva benissimo che il suo migliore amico lo avrebbe capito lo stesso, da quella semplice insaccata di spalle. Era sempre stato migliore di lui nel comprendere le sue emozioni. «Voglio andarmene!»
«Mancano solo una trentina di persone, non ci vorrà molto.»
«Che si fottano! Voglio andarmene adesso.»
«Andiamo non fare il bambino, sarà come togliersi un cerotto.»
«Fottiti anche tu!» Ringhiò, cercando all'interno della tasca del chiodo il pacchetto delle sigarette. Se ne portò una alle labbra. «Sappi che me ne andrò con o senza di te.»

Alla fine Aiden si era convinto e si era lasciato trascinare dal suo migliore amico via da quel cimitero.
Si erano rifugiati sul retro di Betsy, un locale poco fuori città, in cui aveva lavorato per anni Soraya. Isaac gli aveva raccontato che spesso sua madre se lo era portato con se al lavoro pur di non lasciarlo solo con suo padre e di come si divertisse a girare per la cucina e scambiare le etichette alle bottigliette delle spezie. Più di una volta durante il racconto, Aiden aveva sentito lo stomaco chiudersi in maniera dolorosa; quello era un posto speciale, l'unico ricordo materiale che gli rimaneva della madre e l'unico che suo padre non avrebbe mai potuto distruggere.
«Un giorno lavorerò qui, sai? Prenderò il posto di mia madre, non in cucina certo, altrimenti chiuderemmo i battenti prima ancora di aprirli, ma lavorerò qui.» Biascicò Isaac, portandosi la bottiglia della vodka alle labbra. Non sapeva neanche da dove l'avesse tirata fuori, ma sospettava avesse forzato la serratura del magazzino lì affianco. Di certo, la cosa non lo avrebbe sorpreso. «Come deve esserci sempre uno Stark a Grande Inverno, dovrà sempre esserci un Hall da Betsy.»
Aiden annuì in assenso, sebbene non lo stesse veramente ascoltando. «E che cosa farai?»
«Suonerò.»
«Suonerai?»
«Sì, mia madre dice che ho la voce di un angelo.» Prese un lungo sorso di vodka, poi scoppiò a ridere. «Diceva.» Si corresse.
«Non dovresti bere così tanto.» Esclamò il giovane, avvicinandosi all'amico per allontanarlo dall bottiglia, ma l'altro, sebbene avesse più alcool che ossigeno in corpo, fu abbastanza veloce da allontanare la boccia prima che potesse prenderla.
«Non dovresti rompermi così tanto i coglioni.»
«Lo dico per il tuo bene.»
«Perché ti preoccupi così tanto per me?»
Aiden assottigliò lo sguardo, fissando il migliore amico di traverso.
Sapeva bene fosse l'alcool a parlare, ma era comunque infastidito dalla leggerezza che Isaac stava usando per affrontare quella conversazione. «Sai benissimo che mi sono trovato nella tua stessa situazione.» Ringhiò, stringendo le mani in due pugni.
Isaac scoppiò in una fragorosa risata. «Stai seriamente mettendo il mio dolore sullo stesso piano del tuo? Ho perso mia madre, Aiden. Tu solamente tuo fratello, se non sbaglio hai una sorellina che ti avanza.»
Non ebbe neanche il tempo di realizzarlo che il suo pugno colpì violentemente il naso del ragazzo che gli sostava di fronte. Dopo qualche passo barcollante all'indietro, cadde rumorosamente a terra, imprecando. Il giovane si prese qualche istante per placare la rabbia, poi lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Mi dispiace.» Singhiozzò il suo migliore amico, poggiando il capo contro la sua spalla. «Non volevo dirlo, è che sono così arrabbiato. Sono sempre costantemente arrabbiato, non so neanche più come gestire questa situazione.»
Aiden strinse le sue braccia attorno alle spalle del ragazzo, stringendolo più vicino a se. Quando lo sentì ricambiare con decisione l'abbraccio, percepì i battiti del suo cuore aumentare esponenzialmente.
Quella tra i due non era mai stata una vera e propria amicizia, almeno non da parte sua. Sin da quando erano bambini, aveva sempre saputo di avere qualcosa di diverso rispetto agli altri bambini, un qualcosa che per anni aveva sempre tentato di tenere nascosto; solo durante l'adolescenza aveva veramente capito che cosa quel sentirsi diverso significasse davvero.
Isaac tirò su con il naso un'ultima volta, prima di puntare gli occhi azzurri nelle sue iridi scure. Aiden trattenne il respiro e, come prima, non realizzò neanche di aver baciato il suo migliore amico prima che questo lo spintonasse violentemente all'indietro.
«Ma sei impazzito?» Domandò l'altro, pulendosi convulsamente le labbra con la manica del chiodo.
«Mi dispiace.» Balbettò il ragazzo, preda dell'imbarazzo più totale. «Non ho idea di cosa mi sia preso.»
«Te lo dico io che cosa ti è preso.» Sputò acidamente Isaac, muovendo un ennesimo passo all'indietro. «Ti è preso che sei un dannatissimo finocchio e che dovresti farti curare. Sei totalmente contro natura, Aiden. Mi fai schifo.»
Aiden percepì quelle parole come lame. Un pugno nello stomaco gli avrebbe fatto meno male, seppure la sensazione di oppressione e dolore fosse la stessa in entrambe le situazione.
Sentì immediatamente il forte impulso di dover vomitare e, se le sue gambe non fossero corse via di volontà propria, probabilmente lo avrebbe fatto.

28 Agosto 2016, Harpool Bay.

Dopo il suo ultimo incontro con Aiden, Isaac non era stato capace di smettere di pensarci un solo momento.
I ricordi dell'ultima sera passata assieme avevano affollato la sua mente e si era sentito ancora più in colpa di quanto non avesse fatto negli ultimi quattro anni. Aiden non se le meritava le sue parole d'odio, e neanche il fatto che fosse ubriaco e nel periodo peggiore della sua vita giustificava un tale accanimento. 
La sera prima, dopo essere letteralmente scappato da casa Wilson, aveva sentito il bisogno di distruggere qualsiasi cosa gli si parasse davanti ma non lo aveva fatto. Aveva infilato i pantaloncini della tuta e si era buttato in strada. Aveva corso fin quando non aveva sentito i polmoni bruciare ed il petto dolere al minimo respiro.
Gestire gli attacchi di rabbia, ultimamente, si stava rivelando più difficile del previsto. Il disastro in casa ed i lividi che Patrick si era portato adosso per giorni e giorni, ne erano la prova.
Lo odiava. Odiava essere arrabbiato, era come se il ragazzino di sedici anni, stupido e ferito, non se ne fosse mai andato ed Isaac non aveva mai sopportato quello spocchioso figlio di puttana.
Il mattino seguente, si era svegliato con una febbre da cavallo ma, seppur con non poco sforzo, si era alzato dal letto e si era recato nell'officina dove lavorava. Suonare nei locali gli apportava un sostanzioso stipedio, ma non abbastanza da provvedere a due persone e a tutte le spese che mantenere una casa richiedeva. Inoltre stava anche risparmiando qualcosa per riuscire ad infilare suo padre in una comunità che riuscisse a rimetterlo completamente a nuovo, in sintesi: aveva bisogno di ogni singolo centesimo che i suoi due lavori gli davano.
Quando era rientrato a casa, a pomeriggio oramai inoltrato, si era addormentato di sasso con ancora tutti i vestiti a dosso. 
Al suo risveglio era notte fonte e Lea era seduta a terra accanto al suo letto.
«Buongiorno bella addormentata.» Esclamò, dandogli un leggero buffetto sul naso. Aveva un sorriso spento, ma era bella lo stesso.
«Hey...» Biascicò, stroppiacciandosi gli occhi. Gli faceva male tutto e sarebbe tornato volentieri a dormire, ma decise che era il caso di fare uno sforzo. «Da quanto tempo sei qui?»
«Abbastanza da sapere che parli nel sonno.» Disse, poggiando il mento sul materasso. «Abbiamo fatto una conversazione molto interessante, molto più interessanti di quelle che facciamo quando sei sveglio.»
«Come mai sei qui?»
«L'aria in casa mia era decisamente opprimente e poi volevo portarti un pezzo di torta.»
Isaac annuì, portandosi, a fatica, a sedere. Aveva tutti i muscoli indolenziti e si sentiva la testa estremamente pensante. Doveva avere la febbre terribilmente alta e chissà magari anche qualche allucinazione, forse Lea non era davvero lì.
«Che torta?» Domandò poggiando il capo contro la testiera.
«La torta del mio compleanno, idiota.» Esclamò stizzita la giovane, portandosi le braccia conserte sotto il seno.
Solamente la sera prima, allo scattare della mezzanotte, le aveva mandato un messaggio con i suoi auguri. Possibile che se ne fosse dimenticato?
«Nel cassetto...» Biascicò, indicandole pigramente il comodino. «C'è una cosa per te.»
Lea aveva espressamente chiesto che non le venissero fatti regali per il suo compleanno. Non ricordava tempo e secolo che ne avesse avuti e quindi non ne sentiva affatto la mancanza, poi dopo aver scartato quello della madre era sicura di non volerne per il resto della vita, ma stranamente l'idea che Isaac si fosse preso la briga di prenderle qualcosa la emozionava ed imbarazzava parecchio.
Lei non aveva nemmeno idea di quando lui compisse gli anni...
«E' la cosa più bella che mi abbiano mai regalato.» Esclamò la giovane, sporgendosi per potergli circondare il collo con le braccia e stampargli un piccolo bacio sulla guancia. «Grazie.»
«Sono felice che ti sia piaciuto, Bambi.»
«Come avrebbe potuto altrimenti?» Domandò, rigirandosi tra le mani il CD tra le mani. 
Era davvero il regalo più bello che le avessero mai fatto e a renderlo tale non era l'oggetto in se, quanto il fatto che fosse stato fatto e registrato solamente per lei. Dentro quel disco c'erano delle canzoni che appartenevano solamente a lei, e  per la prima volta in vita sua si rese conto di aver, finalmente, qualcosa per cui valesse veramente la pena essere gelosa.

«Hai bisogno di una mano per scavalcare?» Domandò Isaac, portandosi una mano alla gola gonfia e dolente. 
Lea scosse il capo, puntandogli un dito contro il petto. «Vedi di restare a letto. Domani mattina vengo a portarti qualcosa di caldo e qualche medicina, così vediamo di abbassare la febbre, ma tu non azzardarti ad uscire di casa neanche per scherzo. Sono stata chiara?»
Il giovane rise, annuendo. Sapeva di non poterla avere vinta contro di lei e quell'aria da dura che non avrebbe spaventato neanche un gattino.
Attese che Lea fosse tornata con i piedi per terra, prima di rivolgerle un'ultimo saluto e prendere la terribile decisione di scendere a bere qualcosa di fresco in cucina. 
Ad ogni passo sentiva dolorose scosse partirgli dalla pianta del piede fino alla punta dei capelli, per non parlare della testa: il suo cervello sembrava sbattere contro le pareti del cranio ad ogni suo minimo movimento.
Seduto all'isola della cucina, stranamente lucido, c'era suo padre; stava mangiando un Yogurt, cosa ancora più strana, e sembrava anche abbastanza in forma. Lo salutò con un cenno del capo, prima puntare lo sguardo sulla credenza alla ricerca di un bicchiere.
«Era la figlia di Michelle Wilson quella nella tua stanza?» Domandò l'uomo, con voce roca.
Isaac neanche la ricordava più la voce di suo padre da sobrio.
«Si, perché?»
«Non mi piace quella ragazza. E' come sua madre.»
«Non la conosci neanche.»
«Fidati di me, ragazzo. Quella lì è uno tsunami, distrugge tutto ciò che tocca.» 
Il ragazzo prese un profondo respiro, stringendo forte i pugni. «Non la conosci neanche.» Sillabò.
«Peter Wilson sta covando una serpe in seno, farebbe bene a metterla per strada prima che gli si rivolti contro.»
«Pensi di sapere sempre tutto di tutti, vero?» Sbottò infine, sbattendo un pugno contro il piano in granito della cucina.
Non aveva neanche più sete.
«Io non parlo, figliolo, ma osservo e so quello che dico. Non mi sono mai sbagliato. Ricordi quando ti ho messo in guardia su quel finocchio del tuo amico, non hai voluto credermi e guarda adesso... dovresti ringraziarmi.»
«Non smetterò di parlare con Lea Wilson a causa dei vaneggiamenti di un ubriacone.» Esclamò risoluto, riprendendo la via verso la sua stanza.
«Quando ti spezzerà il cuore non dirmi che non ti avevo avvertito.»
Ci mancava solo che prendesse lezioni di vita da suo padre. Aveva davvero toccato il fondo.
   
 
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