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Autore: LaniePaciock    15/03/2017    3 recensioni
Liberamente ispirato al trentesimo film d’animazione Disney “La Bella e la Bestia”.
Genere: Commedia, Dark, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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N.d.A.: Xiao! 😃 Dopo tanto (troppo?) tempo sono tornata a scrivere e lo faccio su una storia che mi è stata proposta da Katia R e che da tempo immemore ho iniziato. Avevo fatto una promessa, ovvero che avrei pubblicato questa storia prima che uscisse il film live-action della Bella e la Bestia e così, anche se al pelo, eccomi qui! Vi avverto già da subito: ho iniziato a scrivere, ma 1) la storia non è ancora completa 2) probabilmente pubblicherò per il momento ogni 2 settimane perché sono un po’ incasinata (ultimo esame, tesi, cose del genere…)
Anyway, enjoy the story! 😉
Lanie  

Prologo
 
Erano passati anni dall’ultima volta in cui si era sentito così. O meglio, quel misto di scoraggiamento e rabbia gli erano sempre fluiti nelle vene insieme al sangue da quel maledetto giorno. Ma da qualche settimana… da qualche settimana c’era qualcosa di diverso, di nuovo. Qualcosa che non avrebbe mai creduto possibile essere ancora presente in lui. Qualcosa che non riusciva a definire e che rimaneva lì, latente, quasi invisibile, ma insieme pesante come un macigno. Poteva essere speranza? Poteva essere amore?
Grugnì rabbioso e si scagliò senza pensarci contro un mobile già a pezzi nella camera buia piena di oggetti distrutti. Schegge di legno volarono ovunque, arrivando anche a ferirlo alle mani e al viso. Lui però non sentì nulla. Tagli così se ne procurava in continuazione e non erano niente rispetto al dolore costante che provava da anni. Anzi erano quasi un sollievo, un modo per pensare ad altro.
Osservò distrattamente un frammento di legno incastrato tra il dito indice e il medio. Con l’altra mano lo tirò fuori con un solo movimento, senza neanche una smorfia, pensieroso. Doveva liberarsi di qualunque cosa stesse rinascendo in lui. Doveva liberarsene come si era appena liberato di quel pezzetto di legno nella sua carne. Non era più l’uomo di cinque anni prima. Non poteva più provare qualcosa di così… Come poteva definirlo? Normale?
Scosse la testa con decisione e si mise a camminare nervosamente per la stanza dove si era auto-rinchiuso da tempo. Era cambiato allo stesso modo in cui era cambiata la camera attorno a lui, rifletté. Anni prima quella era stata una bella stanza matrimoniale, grande, pulita, luminosa, con un morbido letto a baldacchino pieno di soffici cuscini, un ampio divano e mobili antichi. Ora non era altro che un buco sempre oscurato pieno di polvere, stracci e oggetti spaccati. Come lui, quella camera non era altro che una pallida eco di sé stessa.
Si scostò i capelli lunghi dagli occhi e grugnì. Era diventato un mostro. Una bestia. Aveva anche paura a guardarsi allo specchio. Non voleva sapere come si era ridotto, non avrebbe sopportato la vista delle carni pendenti e sfaldate che popolavano i suoi incubi.
In quel momento però il suo sguardo si bloccò su un pezzo di vetro appartenente a uno specchio che aveva distrutto tempo prima. Quasi come uno crudele scherzo del destino, vide uno scorcio del suo viso, solo parte del naso e uno dei suoi occhi. Per un attimo osservò quella sua iride blu, lampante come una lanterna contro la sua pelle grigiastra, così diversa da come la ricordava. L’elettricità che la pervadeva un tempo, era stata spenta, soffocata.
Non riuscì a reggere oltre lo sguardo di sé stesso e voltò la testa con rabbia, prendendo e scagliando nel contempo quel misero pezzetto di vetro dall’altra parte della stanza. Il bordo tagliente che lo ferì alla mano quasi lo fece sorridere. Abbassò lo sguardo: anche alla debole luce della Luna che illuminava la stanza poté vedere la sottile linea scura che si era formata sul suo palmo. Si sorprese a notare quanto i suoi occhi si fossero abituati all’oscurità dopo tutto il tempo che aveva passato al buio.
In un gesto involontario, chiuse la mano mentre un pensiero sconfortante lo sfiorava: sua figlia avrebbe visto quel taglio. E anche le altre ferite che si era procurato poco prima. La sua piccola avrebbe visto che ancora una volta non aveva saputo controllarsi, che nuovamente si era abbandonato a quella sua rabbia distruttrice che lo prendeva sempre più spesso. Aveva cercato in tutti i modi di trattenersi, ma era difficile, quasi impossibile a volte. Inoltre ora non c’era più solo la sua bambina a cui nascondere la cosa, c’era anche lei
Scosse di nuovo la testa con forza, questa volta per togliersi quella donna dalla mente, ma fu tutto inutile. I suoi occhi color nocciola con quelle pagliuzze verdi, il suo corpo sinuoso e atletico, il suo sorriso che poteva illuminare un mondo erano ormai costantemente nei suoi pensieri. Ed erano come un macigno nel suo petto.
Strinse la mascella fino a farsi male e ricominciò a camminare freneticamente su e giù per la camera, non facendo neanche attenzione ai detriti di precedenti distruzioni che calpestava. Non doveva più pensarla. Non poteva più permettersi di farlo. Se all’inizio forse era stata curiosità verso qualcuno di estraneo, un contatto con il mondo esterno che non fosse passato attraverso la sua famiglia o i domestici, ora non lo era più. Era altro. E non poteva farlo andare oltre. Perché qualunque oltre a cui avesse pensato, avrebbe voluto dire anche la speranza di altro. E lui di speranze non ne aveva più.
Sospirò pesantemente, d’improvviso distrutto, e andò ad appollaiarsi sul suo posto preferito sopra il davanzale della finestra. Gli piaceva stare lì, in bilico tra camera e vuoto, tra dentro e fuori. Era uno dei pochi momenti in cui, la notte, si concedeva di respirare un po’ d’aria pura, al riparo da occhi indiscreti.
Alzò gli occhi a osservare il cielo. La Luna era piena era quella sera, luminosa e senza neanche un velo di nuvole a farle da contorno. Poi qualcosa attirò di nuovo il suo sguardo verso l’interno della stanza, come un magnete. E infatti i suoi occhi trovarono subito il piccolo quadro inondato di luce lunare che troneggiava tranquillo sulla parete opposta della camera. Era l’unico oggetto là dentro che non avrebbe mai scalfito. Molto semplice, una cornice in metallo proteggeva nient’altro che un foglio da disegno. L’unica cosa rappresentata era lo schizzo di una rosa rossa, rigogliosa e sbocciata.
La rosa con il lungo gambo era piuttosto stilizzata, ma a lui sarebbe sempre sembrata un’opera d’arte. L’aveva creata sua figlia per lui quando si era ammalato, quando quell’incubo era iniziato. Quando era diventato il mostro, la bestia che era. Era una delle poche cose che riuscivano a ricondurlo alla ragione dalla furia che lo pervadeva. Gli bastava guardare quel fiore, pensare a sua figlia e all’improvviso la rabbia che lo aveva travolto scemava fino a lasciarlo spossato e un po’ imbarazzato per lo sfogo che aveva avuto. Era forse l’unica scintilla di speranza, quasi inconsapevole, che si permetteva di mantenere nella parte più profonda della sua testa e del suo cuore per non impazzire del tutto. Ma ora quella donna era arrivata a sconvolgere il suo già precario equilibrio.
Riportò lo sguardo fuori dalla finestra. Poi con un balzo improvviso si slanciò verso l’esterno, tenendosi con una mano al telaio della finestra e sfruttandolo come perno per arrivare ad attaccarsi alla parete. Quindi allungò una mano verso l’alto, si aggrappò al cornicione del tetto e si tirò su. L’aveva fatto così tante volte che ormai non sentiva più neanche lo sforzo.
Gli piaceva il tetto. Isolato, alto e praticamente insonorizzato. Aveva già fatto la prova. Nessuno poteva sentirlo da dentro la casa e nessuno poteva vederlo dai dintorni a causa delle alte ali laterali del tetto della villa. L’unico parte libera era davanti a lui, verso il mare. Da quel punto poteva vedere perfettamente la spiaggia oltre la collinetta davanti alla casa e la sottile spuma di mare notturna. Era l’unico posto in cui poteva sentirsi al sicuro dal mondo e libero dalle quattro mura che lo rinchiudevano tutto il giorno, tutti i giorni, da anni.
Il suo sguardo spaziò verso l’oceano e fece un respiro profondo. L’odore di salsedine lo avvolse, confortandolo. Allo stesso tempo però, quella vista magnifica gli diede una morsa allo stomaco. Non avrebbe mai potuto camminare su quella sabbia chiara insieme alla donna dei suoi pensieri o nuotare in quell’acqua fredda e cristallina con lei. Non avrebbe mai potuto fare nulla con lei.
Scosse la testa con furia. Doveva dimenticarla. Non avrebbe sopportato di veder nascere una nuova speranza, osservarla volare libera per poi guardarla spezzarsi e cadere davanti ai suoi occhi. L’aveva già vissuto troppe volte dall’inizio del suo personale incubo e non avrebbe potuto sopportarlo ancora. Non di nuovo. Non ora che era finalmente riuscito a rassegnarsi alla sua situazione.
Come un animale in gabbia, si mosse a passi veloci in cerchio sentendosi per la prima volta come rinchiuso su quel tetto. Quindi si bloccò e cacciò un urlo rabbioso verso la Luna, tutti i muscoli in tensione per lo sforzo. Forse questa volta lo avrebbero sentito anche da dentro la villa, ma non gli importava. Doveva buttare fuori la sua rabbia, la sua frustrazione, la sua malinconia, la sua impotenza verso la sua condizione.
Quando smise di urlare, diversi secondi dopo, le gambe gli cedettero e cadde seduto sul tetto, ansante. Si sentiva svuotato, stanco. Si rannicchiò su sé stesso, abbracciandosi le gambe e nascondendo la testa tra le ginocchia. Gli ci volle qualche secondo per accorgersi che stava silenziosamente piangendo mentre una domanda gli pulsava dolorosamente in testa. Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?
  
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