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Autore: Briseide    13/04/2005    4 recensioni
Così con un ultimo sorriso di scuse,avevo raccolto tutta la mia roba in uno scatolone,e avevo chiuso la porta dell’uscio materno alle mie spalle. Quando il suono della serratura che scattava risuonò alle mie orecchie,mi sentii stranamente leggera,nonostante lo scatolone ricolmo di una parte della mia vita che stringevo tra le mani.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come disegnare un uccello

Ad una prima analisi,non c’era niente che non andasse nella mia vita. E ad una seconda analisi,non c’era niente che andasse come volevo io. Ero in quella situazione di stallo da lunghi anni ormai,e iniziavo a farci l’abitudine,e a trovare quasi piacevole crogiolarmi nel pensiero di quello che avrei potuto fare per migliorarla. Ma ero decisamente troppo pigra per potermi rimboccare le maniche e mettermi al lavoro,soprattutto quando pensavo che in fin dei conti,quello lo facevo ogni giorno.
Esatto,detta così,non è il massimo come prospettiva di vita,ma avevo finito i miei studi classici anni addietro con la ferma convinzione di poter fare finalmente quello che avevo in mente dai miei lontani dieci anni. Avevo reso felici i miei genitori,ora era il mio turno.
Così senza troppi drammi avevo reso noto alla famiglia che non era nei miei programmi conseguire una laurea in medicina e salvare vite umane ogni singolo giorno,così come non era in progetto ottenere una toga da avvocato e litigare con chi tentava di salvarsi la pelle da un matrimonio,o di non finire dietro ad una cella per il resto della sua esistenza. Quelle erano strade che non mi interessavano minimamente. Mi sentii dire di essere un egoista,di pensare solo al mio bene…il che infondo non era una bugia così grande,ma usciva dalla bocca dei miei genitori e sapevo che non lo avrebbero mai detto a voce alta e di fronte a qualche estraneo se avessero creduto che fosse vero. Quindi non mi feci problemi neanche a scrollare le spalle e spiegare che tutto quello sarebbe stato un problema per chi aspirava al nobel per la pace,non per chi voleva fare la disegnatrice nella vita.
Si,la disegnatrice. Avevo letto un infinità di libri per bambini durante la mia infanzia e raramente avevo trovato un illustrazione degna del nome. Quando esponevo ad alta voce la mia indignazione al riguardo,i miei genitori sorridevano e mi accarezzavano una o due volte la testa,convinti di aver messo al mondo una figlia polemica,niente di più. D’altra parte perché fare caso a tutti i fogli pieni di schizzi e colori che spargevo nella mia camera durante i miei momenti di creatività? A rimetterli in ordine c’era la donna di servizio,quindi non avevano mai neanche dovuto rimproverarmi e indicarmi i “fogliacci” con un dito,ordinandomi di metterli a posto nei cassetti o più semplicemente di buttarli,se erano troppi.
Questa loro indifferenza ai miei veri interessi non gliel’ ho mai perdonata. Erano così felici quando riportavo a casa un nove sulla versione di latino,ma della mia personale raffigurazione del ratto di Proserpina non ne volevano proprio sapere.
Gli ho regalato nove su nove,ho raggiunto ottimi voti persino nelle materie che trovavo più insopportabili,con tanta fatica e caparbietà che alla fine,con il diploma tra le mani uscii da quella stanza con un sorriso che mi illuminava il viso come pochi lo facevano,in quei tempi. Ecco,gli avevo lasciato una scatola colma di nove e stavo per mettere tra le loro mani un diploma con il massimo dei voti. Avevo fatto il mio dovere e in cambio avrei preso quello che mi spettava.
Così con un ultimo sorriso di scuse,avevo raccolto tutta la mia roba in uno scatolone,e avevo chiuso la porta dell’uscio materno alle mie spalle. Quando il suono della serratura che scattava risuonò alle mie orecchie,mi sentii stranamente leggera,nonostante lo scatolone ricolmo di una parte della mia vita che stringevo tra le mani.
“Quanti ne hai di quelli?”.
“Approssimativamente una ventina,in garage”.
Impallidì,prima di scendere dal cofano della macchina e venirmi incontro.
Lance Fordman.
Senza aprire bocca di nuovo e imprecare contro la mia vita così intensa e piena di ricordi,aveva lasciato le chiavi inserite nella macchina e la possibilità di posare il primo scatolone che avevo tra le braccia,per andare ad aiutarlo con gli altri,oppure la possibilità di mettere in moto e scappare,andare dove più mi sarebbe piaciuto,con la sua macchina e un pezzo della mia vita nel sedile posteriore. Ero certa che se avessi scelto la seconda possibilità,quando sarebbe riemerso dal garage con uno scatolone in mano e non mi avrebbe più trovata,sarebbe scoppiato a ridere,mi avrebbe augurato di fare un buon viaggio,avrebbe sperato che mi sarei concessa di essere felice e si sarebbe augurato che trattassi bene la sua macchina. Dopodiché avrebbe riportato lo scatolone in garage,e sarebbe andato in giro a cercare una macchina usata da comprare,per spedirmi un giorno,quando avrebbe scoperto la mia residenza-e lo avrebbe fatto,oh si,ne era capace,-il conto,sperando in cuor suo che invece di un assegno con i soldi per la macchina nuova,gli spedissi indietro quella vecchia. E forse per renderlo felice e ringraziarlo lo avrei fatto,nonostante amassi e gli invidiassi quella macchina con ogni fibra del mio essere. Non aveva niente di speciale,ma rappresentava me stessa e il mio fedele amico Lance,conosciuto all’angolo di un bar un giorno,per caso. Se non avessi visto il blocco di schizzi uscire fuori dalla sua borsa e le sue mani sporche di grafite,forse l’avrei lasciato andare via e avrei sprecato l’incontro più importante della mia vita fino ad allora. D’altra parte ogni volta che dicevo queste cose,lui si limitava ad annuire,a cancellare con il dito una sfumatura troppo scura sul suo foglio,e a ricordarmi che se lui non avesse visto il pennello cadere in terra e la mia rappresentazione personale del ratto di Proserpina fargli compagnia,si sarebbe perso l’incontro più fortunato di tutta la sua esistenza fino a quel giorno.
Il vecchio Lance,era stato l’unico oltre ai miei genitori a vedere quel disegno,e anche l’unico a non dire assolutamente niente al riguardo,tenendolo tra le mani e sotto gli occhi. Gliene fui grata,e quel silenzio era stato molto più utile delle parole di false e annoiate congratulazioni che mi ero sentita rivolgere dai miei genitori. Congratulazioni,poi,neanche mi stessi sposando.
Quel silenzio durò qualche minuto,più lui guardava quel foglio,più io carpivo ogni pensiero e sensazione che gli passava per la mente. Era la prima volta che mi capitava,che qualcuno tra l’altro tenesse un mio disegno tra le mani-che non fosse stata la donna di servizio-e lo contemplasse così in silenzio. Mi fu molto utile con quello sguardo. Finalmente dopo anni che lo rimiravo da tutte le angolazioni possibili,nella disperata ricerca di quella imperfezione che sapevo esserci ma non riuscivo a trovare,capii dove si nascondeva l’errore.
“Forse dovrei alleggerire le occhiaie nei suoi occhi”.
“Si forse dovresti”.
Finalmente aveva alzato lo sguardo dal mio foglio,e potevo guardare direttamente i suoi occhi. Nocciola,con sfumature di cioccolato e un pizzico di vaniglia,quella luce chiara che aumentava l’aspetto avvolgente di quegli occhi. Mi piacquero subito i suoi occhi e il suo sguardo. I miei finirono inevitabilmente sulle sue mani: forti,dita lunghe e sottili,da pianista avrebbero detto i miei genitori. Sbagliato: da pittore. Affusolate e macchiate di segni di matita,abituate a cancellare e accartocciare,a pennellare e a sfumare. Guardai di sfuggita l’interno delle sue dita,i polpastrelli,scuri sulle punte: anche lui usava le dita per sfumare il colore della matita. Dopo quella visione,non potei fare a meno di sorridergli. Allungò una mano verso di me,piegando appena le labbra in uno di quelli che poi sarebbero diventati i suoi famosi sorrisi obliqui,e io la strinsi. Aveva una presa solida ma gentile,sicura ma non era un imposizione.
“Lance”.
“Kathrine”.

°°°

Mi aveva guardata in faccia per lunghi minuti,senza muovere un muscolo,o battere ciglio,o anche solo sospirare. E io mi ero concentrata a lungo nei suoi occhi,senza mai abbassare i miei,con un leggero sorriso che mi copriva il viso,e le mani incrociate al petto,con le dita che stropicciavano un lembo della mia camicia estiva.
“Sei sicura di quello che fai?”.
Annuii convinta. Per i miei genitori quella era stata una novità,non sapendo che erano ben quattro lunghi anni che rimuginavo su quella idea,e ogni secondo in più che ci pensavo,cresceva l’impazienza e l’idea mi piaceva sempre di più,fino a farmi battere il cuore forte,fortissimo,e tra i miei disegni in quella stanza riuscivo persino a respirare un’aria nuova,diversa. Forse quella della libertà. Sapevo che Lance mi avrebbe appoggiata,anche se stava facendo tutte quelle storie. Non voleva dirmelo apertamente,perché gli piaceva tenermi sulle spine. Lo faceva sempre. Quando ogni volta ci incontravamo all’angolo di quel bar,mi salutava con un bacio sulla fronte,e non si premurava di nascondere quel sorriso a tratti malizioso,a tratti impaziente lui stesso,ma non voleva mai dirmi niente. Per tutta la strada finivo con l’insistere e il pregarlo di dirmi qualcosa,nonostante ogni volta a pochi centimetri di distanza da quell’angolo di strada mi promettessi e mi imponessi di non pregarlo e non insistere,di non dargli soddisfazione,di essere paziente,fosse stato anche solo per i colori che aveva usato. Ma Lance era impassibile,e mi copriva anche gli occhi con le mani,prima di farmi entrare e lasciarmi guardare.
E ogni volta rimanevo a bocca aperta per il suo ultimo disegno,che fosse assolutamente impeccabile o che fosse imperfetto,a me lasciava sempre qualche sensazione che puntualmente non sapevo descrivere,se non dopo qualche minuto per riprendermi. Poi Lance mi porgeva qualcosa da bere e attendeva. Aspettava sempre il primo sorso,in genere bastava quello a farmi riprendere. Così mi voltavo verso di lui e lo guardavo negli occhi. “Credi che il colore sia troppo forte?”.
“Credo che la piuma sia troppo pesante”.

Mi allontanai da quei pensieri,quando ancora di fronte a me,Lance si decise a dare segni di vita e aprendosi in un sorriso,si inumidì le labbra con la punta della lingua,prima di mettere le mani in tasca come suo solito quando era giunto ad una conclusione.
“Credo che tu abbia fatto un ottima scelta,Kat”.
Fu allora che gli saltai al collo,felice come una bambina,facendolo ridere. Ero sempre felice quando appoggiava i miei progetti,e lui era sempre molto contento di vedermi ridere come una bambina e saltargli in braccio. Mi strinse quanto bastava per farmi capire che mi voleva un gran bene,e mi lasciò andare,posandomi in terra con delicatezza. Era sempre molto gentile e delicato nei modi,Lance. I tratti della sua matita o del suo pennello potevano essere sottili o spessi,lievi o decisi,ma quando si trattava di interagire con il mondo,ogni gesto diventava una carezza,non era mai aggressivo,si limitava ad essere forte quando c’era bisogno per non essere spazzato via dal vento e non essere aggredito a sua volta. Con me era sempre molto delicato,anche quando finivamo con il litigare. L’impulsiva sanguigna ero io,che mi infervoravo e finivo con l’alzare la voce. Mi adorava anche per quello,l’ ho sempre pensato e infondo l’ ho sempre saputo.
“Hai scelto il colore?”.
“Quale colore?”.
“Per le pareti".
“Pensavo all’azzurro”.
Soppesò le mie parole e rifletté sulla mia scelta,mentre apriva lo sportello della macchina e si metteva al posto di guida,cercando con la mano le chiavi in tasca. Era troppo assorto nei suoi pensieri per ricordare che le aveva già inserite. Io mi sedetti accanto a lui,spostando di poco il sedile per stare più comoda. Mentre Lance pensava a pareti azzurre,io mi voltai a guardare gli scatoloni dietro di me. Sentii un pizzico pungermi il cuore,e solleticarmi la pelle. Una stretta gentile allo stomaco e un respiro più veloce degli altri. Un sapore tenue e soffice tra le labbra,forse quello di un addio. Il tutto si fece più intenso quando vidi la porta della mia vecchia casa farsi sempre più lontana,ma durò un attimo. Quando Lance si fermò al semaforo aspettando che scattasse il verde,ero già tornata a guardare avanti a me,con il cuore in palpitazione,questa volta per l’emozione e un sorriso diverso stampato sul volto. Si girò verso di me e con un sorriso,uno obliquo si,disse.
“Forse dovresti lasciarle bianche e sfumarle di azzurro tenue”.
“Si forse dovrei”.
Gli sorrisi,convinta che ancora una volta,mi avesse detto la cosa giusta. Chiusi gli occhi per un istante,immaginandomi pareti bianche sfumate di azzurro. Le avrei sfumate come sapevo fare io,e Lance mi avrebbe aiutato come sapeva fare lui. Nel complesso mi piacque molto. Sorrisi. “Si. Credo che mi rappresentino di più”.
“Credo anch’io”.
Il semaforo divenne verde e senza drammi né paure svoltammo a destra,verso la ferramenta. Solo con il materiale giusto ci saremmo poi potuti dirigere verso quella che sarebbe stata la mia nuova casa.

°°°

Il suono acuto del tintinnio delle chiavi mi scosse da quei pensieri. Era la prima volta che ci facevo caso e fu impressionante. Fece lo stesso effetto anche a Lance,a dire dallo sguardo che mi lanciò. Le infilai nella serratura e girai più volte,con mano tremante. A ripensarci ora,fu tutto molto sciocco,reagire in quel modo intendo,ma diamine,avevamo solo vent’anni.

Solo vent’anni. Già. A vent’anni,con il diploma classico,avevo lasciato la mia casa,trovato lavoro in un bar,che preferii chiamare così per non creare ulteriori scandali e marasmi in famiglia,avevo iniziato a studiare per diventare una disegnatrice e avevo una nuova casa,comprata da un vecchio signore troppo anziano e solo per poter godere della bellezza di quella casa,ora che per lui era troppo vuota. Io non avevo molti soldi a disposizione al momento,ma quella casa era ormai entrata a far parte della mia vita e quell’uomo dovette leggermelo negli occhi. Disse che gli ricordavo molto sua moglie da giovane e con quella scusa abbassò il prezzo della vendita.
Ero sicura che non assomigliassi affatto a sua moglie,anzi probabilmente ero l’opposto. Ma ero giovane,impaziente di iniziare a vivere come speravo io,e mi ero innamorata di quella casa,che già in qualche modo sentivo mia. Gli regalai un mio schizzo. Come io ero innamorata della sua casa,lui si era innamorato di quell’abbozzo di disegno. Non era niente di speciale,Lance doveva ancora vederlo. Quando ero passata di lì,mi stavo dirigendo all’angolo per vedermi con lui,e avevo i miei disegni tra le mani. Lui aveva posato i suoi occhi stanchi nei miei e poi aveva guardato i miei disegni. E quello gli era piaciuto,così tanto che mi aveva chiesto di poterlo vedere da vicino. Gli tremavano le mani per l’emozione e in un certo senso ne fui lusingata. Mi disse che era bellissimo. “E’ solo uno schizzo veloce,quella gabbia è imperfetta…non l’ ho finito”.
Precisai sorridendo imbarazzata. Ero sorpresa,eccome se lo ero.
“Non è finito?”.
Mi domandò altrettanto sorpreso lui. Scossi la testa,spalancando gli occhi. Guardai il foglio,forse avevo aggiunto qualcosa e me ne ero dimenticata. Ma era così come lo avevo lasciato la sera prima,incompleto e imperfetto. Indicai il foglio con un dito.
“No. Manca l’uccello”.
Seguii i suoi occhi spostarsi dai miei,al mio dito,al foglio,a quello che c’era disegnato. Ma non vidi alcun lampo di comprensione nei suoi occhi. Fissò la gabbia vuota ancora per qualche secondo. Poi tornò a guardare me,con un sorriso malinconico,ma ancora luminoso,adombrato forse dalla stanchezza della vita. Alzò le spalle,e con quel gesto mi fece chiaramente capire che per lui quel disegno non mancava di nessun particolare,le cose stavano così punto. Eppure,io sapevo che la gabbia era vuota,perché l’uccello non lo avevo ancora disegnato. Ero dovuta uscire per andare a lavorare al “bar” quella sera,non avevo più avuto tempo. Lo guardai incerta.
“La gabbia è vuota”. Silenzio. “Non c’è l’uccello”. Ripetei.
Annuì. Annuì più volte,molto gentilmente,sempre sorridendo,anche se il sorriso di quel momento era solo un pallido eco di quello di prima.
“Tornerà. O forse deve ancora arrivare. O magari è già stato nella gabbia e non ha più bisogno di tornarci”.
Allora sorrisi. Non mi accorsi neanche che lo stavo facendo,ma sorrisi,e capii che quel disegno era perfetto così com’era,non c’era bisogno di alcun uccello. Aveva ragione lui. E allora glielo regalai,lo feci spontaneamente,prima che lui potesse chiedermelo con quegli occhi neri. Non mi importava quanto sarebbe costata quella casa: io l’avrei comprata così come gli stavo regalando quel disegno. Lo presi in mano per guardarlo un ultima volta e salutare la gabbia in attesa di un padrone,così come quella casa dopotutto,e glielo porsi.
“Vuole aspettarlo lei?”.
Sgranò gli occhi come un bambino di fronte ad una montagna di cioccolata. Lo prese con mano tremante e gli occhi umidi di gratitudine. Lo strinse tra le mani e lo rimirò un’altra volta. Si era proprio innamorato. Mi guardò di nuovo poi,quasi come se si aspettasse una conferma,come se si volesse assicurare che glielo regalavo io,sul serio,che non lo stavo prendendo in giro e non lo avrei voluto indietro. Scrollai le spalle sorridendo,gli ero grata di avermi fatto capire che l’uccello c’era eccome,solo che era da un’altra parte. Io non lo avrei mai capito,sarei stata giorni e giorni su quel foglio cercando di disegnare un uccello che non c’era e non sarei mai stata soddisfatta di quello che sarebbe venuto fuori. Perché volevo mettere qualcosa in un posto che non era il suo. No,non me lo meritavo proprio quel disegno,e tantomeno l’uccello.
“Io non posso aspettarlo,non ho tempo. E comunque non credo che verrebbe. Forse lei gli è più simpatico”.
Mi ringraziò un infinità di volte in quella mattina,prima che lo salutassi,con la promessa che ci saremmo sentiti per definire un prezzo,naturalmente non poteva occuparsene lui,ci avrebbe pensato suo figlio.
Non deponeva a mio favore,forse non ce l’ avrei mai fatta.
Mi sbagliavo.
Quella casa fu mia ad un prezzo molto accessibile. Il figlio dell’uomo mi diede le chiavi di casa con un espressione tutt’altro che felice. Mi disse che non c’erano state ragioni,né modo di far ragionare suo padre. Non aveva voluto dargli retta,né alzare il prezzo,in caso lo aveva anche abbassato. Il tutto perché diceva di non volere tanti soldi,non sapeva cosa farsene. Ora aveva altro da fare piuttosto che contare i soldi in banca,doveva aspettare che un tale uccello tornasse e non voleva altre distrazioni.
Aveva anche aggiunto che io meritavo quella casa più di chiunque altro,che anche se non assomigliavo a sua moglie,io avrei saputo abitarla,e su quel davanzale della finestra del soggiorno si posavano sempre degli uccellini di prima mattina: aveva detto a suo figlio di riferirmi di fare attenzione quando la aprivo o mi affacciavo la mattina,perché quando sarebbe tornato,avrebbe mandato l’uccello da me per salutarmi,per farmi vedere quanto era bello e perfetto,e per dirmi che mi aveva perdonato per averlo voluto costringere ad entrare in quella gabbia.
Sorrisi al giovane e presi le chiavi,con uno scoppio di malinconia,gioia,euforia e gratitudine nel cuore.

°°°

Quando la porta si richiuse alle mie spalle,mi mancò il respiro. Non credevo che sarebbe stato così elettrizzante mettere piede nella mia nuova casa. Forse lo pensavo perché non avrei mai immaginato che mi sarei innamorata di quella casa,che l’avessi ottenuta regalando un mio schizzo al proprietario.
Poggiai per terra la vernice e gli attrezzi necessari comprati in ferramenta poco prima,iniziando a camminare per quel breve corridoio. Era stretto,le pareti ancora bianche lo illuminavano di lato,e ogni stanza aveva la porta aperta,quasi volesse invitarmi ad entrare e darmi il benvenuto. Poggiando una mano sulla porta di una delle stanze,ebbi come l’impressione che fosse opera del mio vecchio amico e del suo uccello. Aveva lasciato le porte aperte,come a dedicarmi la sua gratitudine e a dirmi chiaramente che quella casa era la mia. E forse volle anche augurarmi di trovare milioni di porte lungo la mia strada,volle invitarmi ad aprirle tutte,una dopo l’altra,anche solo per affacciarmi e stabilire se il contenuti potesse interessarmi o meno. Sapevo che insieme alla sua gabbia ora vuota,ma domani,un giorno,chissà,stava sperando che imparassi ad aprire una porta e a chiuderne un'altra,con tutto il dolore e il timore del caso. Lance si era fermato nel corridoio,ero sicura che si fosse appoggiato al muro con le braccia conserte,emozionato quanto me,ma non lo avrebbe dato poi molto a vedere. Non so quanto tempo avrei impiegato a conoscere la mia nuova casa,ma sapevo che sarebbe rimasto lì,con la stessa pazienza e lealtà per la quale non mi aveva seguito prima,quando eravamo entrati.
Sapeva che era la mia prima vera casa,e come lo era diventata,gli avevo raccontato con le lacrime agli occhi e un euforica felicità dell’incontro col vecchio,dell’uccello e delle parole di suo figlio. E lui aveva riso con me,mi aveva lasciato come sempre un bacio sulla fronte e mi aveva regalato tre nastri adesivi per chiudere gli scatoloni. Sapeva anche,il vecchio Lance,che dovevo gustarmela da sola quell’essenza e quelle sensazioni. Che la prima a sfiorare le pareti con le mani e sentirne la consistenza dovevo essere io. Che spettava a me per prima aprire una porta e scoprire una stanza. Che avevo io la precedenza di aprire ogni credenza e ogni finestra,di alzare lo sguardo su ogni soffitto e di sedermi per terra,scegliere quale stanza adibire a mio studio personale,quale insomma riempire di fogli e di colori,di matite e di pennelli,di confondere con un esplosione di colori e avvolgere in un turbinio di idee ed emozioni. Allora si era appoggiato alla parete,e aveva aspettato.

Quella casa non era una reggia,non aveva un giardino enorme o un terrazzo spropositato. Aveva un certo numero di stanze e ognuna di quelle aveva il suo spazio e la sua precedente vita,che lentamente,senza traumi né violenze o imposizioni,io avrei smantellato,fino a farla diventare un tenue e dolce ricordo,per riempirla con la mia. Dovevo solo scegliere una stanza dove dormire e una dove disegnare e dipingere. Tutto il resto non avrebbe fatto differenza,ci avrei vissuto e l’avrei coinvolto nel mio caos e nella mia vita.
Così lasciai a me decidere dove dormire e dove dipingere. Ad una me che di sicuro avrebbe avuto ragione,e avrebbe escluso da quell’incarico l’amica Logica e la sorella Coerenza.
Inspirai a fondo e lasciai che l’aria e le sensazioni guidassero i miei passi. Non sapevo di preciso dove stessi andando,ma l’odore e la luce mi ispiravano a sufficienza per muovere le mie gambe. Fu così che raggiunsi una porta,l’ultima del corridoio,ed entrai. Capii subito dove mi trovavo.
Nella mia stanza.
Sarebbe stata quella la mia stanza,perché c’era una finestra davanti al letto,e quando mi sarei svegliata la mattina avrei aperto gli occhi sul mondo là fuori,il sole mi avrebbe illuminato il volto e la pioggia bagnato i vetri e inondato la stanza di quel grigiore così malinconico che portava con se. E avrei potuto catturare quelle immagini e quelle tonalità e quelle giornate,imprigionandole tra il foglio e la matita. Avrei ricevuto un ispirazione ogni mattina,e quando sarei stata troppo assonnata,mi avrebbe offerto una valida occasione per alzarmi e correre a prendere foglio e matita.
La guardai di nuovo. Aveva il soffitto alto,e le pareti bianche,presto sfumate di azzurro. Non ebbi neanche bisogno di chiudere gli occhi per vedervi appesi in disordine e in un ordine tutto mio,ogni singolo schizzo e disegno che sarebbe uscito fuori dalle mie mani e dalla mia testa.
Un’alba lì,in alto a destra,quando sarei stata così emozionata o triste da non riuscire a dormire.
Una giornata di pioggia laggiù,un po’ più in basso,quando avrei confuso le mie lacrime con le sue gocce e avrei dipinto quel giorno con tutta la riconoscenza di chi ha voglia di piangere e ha l’occasione di non essere la sola a bagnare il proprio viso.
E Lance,appoggiato al muro,sarebbe comparso proprio sopra al letto,perché quel posto era il suo,e lo sarebbe sempre stato,perché ogni pittore deve rendere merito al proprio ispiratore,e sapevo che lo avrei potuto disegnare in mille modi diversi,in ogni cambio di posizione,in ogni sfumatura dei suoi occhi nocciola,in ogni inclinazione del suo sorriso obliquo,con ogni macchia sulle sue mani.
E un giorno avrei aperto la finestra e avrei trovato l’uccello lì,impettito in tutta la sua bellezza e fierezza di essere lì a salutarmi,a portarmi i saluti del vecchio e il suo perdono,con un cinguettio e un battito di ali per il semplice ed irriverente gusto di farmi notare che era fuori dalla gabbia. Allora gli avrei sorriso e inchinato il capo in gesto di scuse e sarei corsa a prendere un foglio e una matita per ritrarlo così com’era libero,senza gabbie. Forse glielo avrei fatto vedere e forse avremmo fatto pace una volta per tutte.
La mia stanza. Le sorrisi e mi inchinai al suo cospetto,ringraziandola di essersi mostrata ai miei occhi e di avermi accettato lì,tra le sue mura. Chissà ci c’era prima di me. Come l’aveva tratta,con cosa l’aveva riempita e come l’aveva vissuta. Ma adesso era mia. Mia. Mia. Mia.
Uscii in fretta e raggiunsi il corridoio. Mi fermai bruscamente: vidi Lance,con le braccia conserte,appoggiato alla parete con le gambe incrociate e i suoi occhi vagavano per quelle pareti. Forse aveva già deciso da dove cominciare. Si voltò verso di me e mi sorrise.
“L’ hai trovata?”.
“Si”.
“Forse potremmo cominciare a dipingere quella”.
“Si,forse dovremmo”.

Fine

  
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