Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-gi-oh! Arc-V
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Autore: Selena Leroy    29/03/2017    1 recensioni
Il progetto "Les Enfant Terrible" aveva uno scopo: dare alla luce una nuova generazione più consapevole, più capace e più ambiziosa della precedente. Non era rimasto molto, d'altronde, agli ultimi superstiti di un pianeta arso vivo dalla Peste, un nuovo morbo che infesta il pianeta uccidendo qualunque creatura esistente si trovi sul suo cammino.
Yuya Sakaki è una di queste speranze, cresciuta assieme al padre e alla medicina. Ha solo sedici anni, ma il suo quoziente intellettivo supera di gran lunga quello delle sue normali coetanee; con il suo amico di sempre, quel ragazzo di nome Yuto segretamente innamorato di lei, continua una battaglia che però sembra persa in partenza.
E la situazione, per lei, volgerà inaspettatamente verso il peggio; alla morte improvvisa del padre, le decisioni di un uomo mai visto né sentito e che risponde al nome di Leo Akaba, la porteranno via dal suo luogo natio, dai suoi affetti e dai suoi amici, e in quella solitudine imposta da estranei, nelle cui menti si cela un segreto dalle cupe ombre, tutto ciò che le rimane da fare è lottare, e continuare quella ricerca ora così preziosa. Se farlo o meno da sola, dipenderà solo da Reiji Akaba...
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Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akaba Reiji/ Declan Akaba, Yuto, Yuya Sakaki
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
Capitoli:
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CAPITOLO I

Li chiamavano scherzosamente les enfant terible, ma era opinione comune che, in quei bambini strappati dalla loro infanzia in nome di una scienza sempre avida di nuove vite che potessero scarnificarsi per lei, non vi fosse più nulla che ricordasse la spensieratezza tipica di una gioventù libera dagli affanni delle responsabilità. Era sicuramente questa l'impressione che si avvertiva nell'incrociare lo sguardo argenteo di Yuto, incastonato in quei lineamenti tesi continuamente su quell'espressione meditabonda che denunciava l'ininterrotto riflettere verso problemi che mai un diciottenne avrebbe dovuto porsi.

Non erano poche le decisioni drastiche che aveva preso nella sua vita, Yuto, e mille di queste si erano rivelate ciniche nel loro semplice porsi scontate al fronte di un’umanità che pretendeva di essere salvata da qualcosa che per la prima volta non aveva scatenato con le sue stesse mani, ma tra queste trovò davvero arduo trovare corrispettivi che si adeguassero al paragone di quello che si apprestava a compiere, l’obbligo posto su di lui perché aveva sempre dato la priorità ad un rigore che prediligeva un’obbedienza anche ad ordini scomodi e malvagi nel loro esistere e nel loro agire su quella terrà già crudele senza l’intervento di ulteriori forze che ne arrestassero ulteriormente i brevi sprazzi di felicità concessi con una reticenza che aveva del miracoloso anche nel manifestarsi in un semplice sorriso.

Realizzare se stesso come la fonte distruttrice di quella luce così pura e così rara, nel mare di tenebre sempiterne avvolte intorno alla triste realtà che recepiva ogni giorno, era per lui fonte di angosciante attesa, il lento scandire dei secondi cadenzato dalla paura frapposta alla bramosia di voler rivedere quegli ardenti pozzi rossi aprirsi e incatenarsi a lui, il terrore di vedere le sue mani infrangersi sulla felicità di colei che amava di più al mondo a ucciderlo al passare di quegli istanti perduti nella contemplazione del delicato viso diafano ancora privo di qualunque segno di coscienza.

Destinato fin da quando aveva memoria verso quella sacra missione che vigeva senza l’intervento di alcun dio a manifestarsi dietro vane parole, aveva assistito al lento mutarsi di se stesso in quell’adulto affannato che stringeva tra le sue esili mani il destino di tante vite affidategli  con la sadica consapevolezza che si sarebbero spezzate come fili di ragnatela esposti al vento mefitico che li avrebbe inevitabilmente tramutati in cenere.  

Era solo questo, ormai... un cervello improntato ad usare miseri umani deposti sull’altare sacrificale come vittime di una ricerca che ormai aveva scacciato con sadica dissennatezza qualunque limite etico provasse a rallentarne i rapidi sviluppi. E a questo sciagurato essere era stato concesso un unico spiraglio di speranza, un’unica fonte di felicità di cui necessitava più dell’aria per non finire schiacciato da quella stessa scienza che non mancava un secondo di elogiarlo come figlio prediletto. Sembrava quasi che il destino non fosse lieto di questo suo ricercare per se delle ali in grado di sollevarlo almeno in parte dalla grettezza di quella asettica dimensione in cui sostava giornalmente; maledire se stesso e tutte le divinità che si prestavano ad udire tutti i suoi singulti mortificanti era l’unico sforzo che si sentisse in dovere di fare, ma mai come in quel momento avvertì su se stesso i limiti che la sua natura poneva a fronte di una natura che dimostrava la sua supremazia ridendo sguaiatamente dell’immensa impotenza che affliggeva gli uomini incapaci di ribellarsi alle leggi che fin dalla notte dei tempi erano state imposte con il preciso proposito di non rendere gli esseri umani troppo vanagloriosi e stupidi. La riottosità con cui molti recepivano un insegnamento dettato da tutte le divinità provenienti dai cieli più disparati era sempre stata fonte di stupore per colui che aveva sempre avuto a che fare con una morte fin troppo rapida nel suo agire, ma solo in quel frangente poté davvero comprendere quali sentimenti spingessero davvero gli umani a desiderare di più di quanto mai fosse possibile loro concedere. L’amore, la più grande forma di potere che portava la razionalità a spiegazzarsi i pensieri che nulla avevano di coerente e di logico, folleggiava sulle menti di quanti desideravano per assurdo che mai nulla di male potesse accadere a coloro che carpivano i loro cuori con la promessa di ricambiare con sentimenti altrettanto ardenti.

 

***

 

Yuya aveva visto la morte manifestarsi superba con quelle lacrime vermiglie silenziose nel calcare i volti tumefatti di chi accettava rassegnato l’idea che il suo viaggio verso l’oltretomba sarebbe stato prossimo e inevitabile. Emissari di quella dea funerea ormai ingorda e incapace di definirsi soddisfatta, emblema di quel male dal semplice nome impronunciabile che tanto si divertiva a correre nel mondo per vedere quante vittime riusciva a causare, rimarcavano l’ennesimo fallimento portato avanti dalla sua incapacità, l’ennesima sconfitta che la prostrava al suolo con le urla silenziose che reclamavano di poter rendere manifesta una sofferenza che invece era costretta a soffocare, le lacrime incastonate dietro quella maschera ferrea che le era stata obbligatoriamente imposta.

Si chiamava les enfant terrible il progetto che vedeva il riunirsi di quei poveri fanciulli privati della loro infanzia in nome di quel sentimento di rivalsa che prevaleva sull’uomo quando numerose perdite infierivano come lo schiocco di una frusta su un orgoglio incapace di accettare l’impossibilità di tendere alla perfezione, e l’averla rinchiusa lì, in quell’aula gremita di bambini disorientati quanto lei sulle aspettative nascoste dietro occhi bramosi che li scrutavano con famelica attenzione, l’avevano inevitabilmente resa colpevole di ogni passo falso, di ogni insolvenza nata dall’incalzare di quel sangue che inutilmente si tentava di arrestare.

Eppure l’aveva vista ancora, la morte, e non era più in una goccia rossastra attratta dal suolo, ma un animale di ferro urlante che con crudeltà si era spinto su di loro fino a rendere l’impatto inevitabile. La rivedeva ancora, quella misteriosa automobile nera, ammantata del colore scuro di colei che era la sua padrona, avanzava sicura lì dove volerla renderle omaggio. Il volto di suo padre proteso su di lei per proteggerla nel constatare l’inevitabilità dell’urto, le parole di scusa che le aveva sussurrato all’orecchio prima che lo stridore del ferro coprisse ogni altro suono, le braccia che la stringevano con forza per non lasciarla andare; erano questi i ricordi che avevano segnato il suo ingresso nell’oblio, il mondo nero che l’aveva accolta con la violenza di uno schiaffo al perdere consapevolezza di cosa fosse vero e di cosa invece era frutto dei deliri della sua mente. Veli inspessiti da voluta ignoranza avevano coperto l’emergere lontano delle sirene, il fischio acuto che si era fatto sempre più vicino mentre al suo fianco non avvertiva altro che l’immobilità innaturale, il mancato segno di vita di colui che invece doveva esserle vicino, di colui che l’aveva messa al mondo e che aveva fatto di tutto per farcela restare.

Le voci che si erano mostrate disperate alla vista dello spaventoso incidente adesso non le sentiva più, inghiottite dal sonno fattole scandere da Morfeo sulla sua anima ormai sfinita dalla speranza sempre più flebile di rivedere suo padre, di poter ancora sentire la sua voce, di poterlo ancora avere vicino, di avere la possibilità di vivere ancora con lui... non aveva bisogno di sentire quello che Yuto, afflitto accanto al suo capezzale, aveva da dire, la verità si rifletteva trionfa nelle sue iridi luminose con la tristezza a rendere maggiormente manifesto quanto non aveva il coraggio di riferirle.

Forse era il legame che avevano condiviso a renderla consapevole di quella indissolubile verità, ma sentiva fin nel profondo che suo padre, l’uomo più importante della sua vita, non c’era più, che non avrebbe mai più potuto assolvere la missione di proteggerla, missione che lui decantava con il coraggio vantato dagli eroi omerici nelle  loro numerose conquiste.

Priva di ogni forza, sguarnita da qualunque difesa contro l’ennesimo colpo voluto dal destino, l’unica cosa che poté fare fu l’accettare il conforto silenzioso del suo migliore amico, l’abbraccio fraterno che le dava la sicurezza di cui si sentiva tanto sfornita. Racchiusa in quel morbido bozzolo inumidito dalle lacrime calde che calcavano il viso pallido, sentì al momento distante la spaventosa solitudine che sibillina si affacciava sulla sua stanza, strega attirata dal nuovo mondo che inevitabilmente lei avrebbe dovuto costruire.

 

***

 

 “Dimmi, per caso hai perduto completamente il senno... padre?”

Accese di un sospetto che le riluceva più delle ametiste, le iridi di Reiji Akaba scrutavano la figura del proprio genitore con l’odio a focalizzarsi sulla sua figura, un sentimento di astio sgorgato fuori dall’apparire di un uomo che mai si sarebbe dovuto avvicinare nelle loro vite, non con quei documenti e non con le decisioni che inevitabilmente comportavano.

Il piccolo Reira, opportunamente nascosto dietro le gambe del proprio fratello maggiore, tremò visibilmente all’udire la voce possente del ragazzo, un tremore che veniva dalla sua speciale capacità di percepire con il semplice intuito quali sentimenti agitavano il cuore delle persone al suo fianco. Una capacità che il piccolo avrebbe preferito rinnegare più e più volte, nella consapevolezza che l’ignoranza non sempre è un male a cui sfuggire, soprattutto se quello di cui si desidera il rinnegamento è un dolore accecante capace di raccapricciare tutti i sogni dorati che solitamente dovrebbero rifulgere nelle menti dei bambini.

Ma sapeva bene che, una volta resasi evidente, era difficile veder sfumare l’ira che adesso attecchiva nel suo animo impedendone il lucido ragionamento, così come era consapevole della difficoltà con cui solitamente il ragazzo più grande poteva rendersi così irraggiungibile alla sua voce.

D’altro canto, se in Reira il tremore aveva preso possesso di lui nel medesimo istante in cui suo fratello aveva iniziato a riscaldarsi, Leo Akaba non lasciava trasparire dal suo volto alcun sentimento, gli occhi che scrutavano in maniera impassibile il figlio, come di chi osserva uno sconosciuto mentre compie azioni insolite di alcun interesse per la sua persona.

“So perfettamente quanto ti alletti l’idea che io vada ai matti a far loro compagnia... ma vorrei almeno sapere quale scusa accamperai per giustificare un azione così sciocca e puerile”

Il diffidarsi a vicenda, come nemici che scandagliano il terreno alla ricerca di un punto debole su cui infierire, non era certamente qualcosa di tipico in un rapporto genitoriale, ma che vi fosse qualcosa del padre e del figlio in loro due era, ormai, da escludere a priori. Non quando le liti erano diventate quasi insostenibili, capaci di essere represse solo alla visione di coloro che ancora dovevano credere agli Akaba come di una famiglia felice e pronta a dimostrare la loro bontà anche, soprattutto in quel momento di grande crisi. Un mucchio di melensaggini che sparivano nello spazio di una quotidianità libera da ogni obbligo e convenzione.

Una quotidianità che di solito si asteneva dalla presenza di qualunque uomo al di fuori della stessa famiglia Akaba... ma non quel giorno, non quel dì in cui il padre aveva accolto, contro ogni buon ragionevole motivo a giustificazione delle sue azioni, un uomo tarchiato nello studio in cui elaborava, nella segretezza di una mente criptica nel suo agire e zelante nel suo posarsi a fronte di problemi di scarsa soluzione, quanto potesse essere utile alla crociata che vedeva tra le sue fila sempre meno uomini. Un uomo adesso fuori dalla loro villa, custode della preziosissima firma di Leo Akaba, marchio inconfondibile che aveva appena segnato l’importante decisione accolta dalle orecchie di Reiji con la costernazione e con lo sgomento a rendere ancor più incredibili le parole appena pronunciate. Parole di cui esigeva, in quel momento, l’immediata chiarificazione, a fronte di un’inspiegabilità che sfociava nei limiti della follia. Che la follia fosse uno dei sintomi più famosi della peste, poi, era qualcosa che metteva ancora più in guardia le persone da eventuali atteggiamenti giudicabili anormali.

“Credo che in molti approverebbero il mio atteggiamento puerile, se andassi a raccontare in giro che hai appena deciso di adottare una perfetta sconosciuta”

“Spero allora che siano in pochi quelli a ragionare come te, perché ciò che tu descrivi come un atto di follia io lo vedo come un gesto di enorme generosità!”

Fu una risata ad accogliere parole altrimenti altisonanti, una risata greve nell’ironia che il ragazzo non sapeva esprimere altrimenti. I ricordi passati di una vita devoluta unicamente alla ricerca, prima e dopo il morbo, con dei ragazzi bramanti un amore e un affetto sempre passati in secondo piano di fronte al dovere e al lavoro, incapaci di catturare quell’uomo anche quando non era nel suo studio a meditare misteri dall’arcana decrittazione, cancellarono con la violenza di uno schiaffo tutto quello che poteva accostarsi a quell’uomo nella blanda definizione di sentimento. Asettico come il mondo in cu aveva scelto di vivere, cose come la generosità e il bene non erano concetti appianabili alle rughe severe di cui il suo volto si sfregiava, non quando vi era a mancare un secondo fine in grado di riequilibrare quanto si era appena perduto. E per un uomo severo come Leo, anche il tempo era qualcosa che bisognava guadagnare per essere meritevoli di condividerlo con lui.

“E dimmi, uomo generoso, mia madre è a conoscenza di quello che hai in mente di fare? O hai intenzione di metterla di fronte all’atto compiuto... come stai facendo con me?”

L’amore materno non era qualcosa che Reiji sentiva in dovere di dubitare, la donna nascondeva dietro la rigida facciata da opportunista un cuore in grado di riempirsi dell’immenso amore che entrambi, sia lui che Reira, avevano abbondantemente ricevuto. Guardare alla freddezza e al distacco di Leo come la causa scatenante del suo cambiare da donna felice a donna severa non aveva giustificazioni o ipotesi campate per aria, ma aride certezze focalizzate su una realtà incapace di nascondergli un dettaglio, un particolare o una minuzia catturabile dallo scuro sguardo nascosto dietro le lenti. Arguire, dunque, che il marito incapace aveva a sua disposizione una nuova arma per ferirla dava alla sua mente accaldata e ai suoi pensieri febbrili nuovi incitamenti a quella follia iraconda che agitava il suo cuore accelerato.

“Che tu ci creda o no, Himika è già perfettamente a conoscenza di questa storia. E ha accettato. Ha compreso, al contrario tuo, che ho delle ottimi motivi per agire come sto agendo”

L’oscurantismo in cui albergavano le sue ragioni, parole mancate che lo avevano privato di qualcosa che lui mai avrebbe potuto intuire, destabilizzarono per alcuni secondi la faconda sicurezza distesasi sul suo volto dal dissiparsi dell’ombra dell’avvocato. Debolezza, forse lieve, ma capace di creare una crepa laddove Leo poteva imperversare nell’arcigna decisione di concludere lì quanto non aveva neppure intenzione di incominciare.

“Yusho Sakaki era un mio grandissimo amico, e anche un brillante scienziato. Anche se gli anni e la peste ci hanno diviso, portandoci a lavorare per città differenti, questo non sminuisce il legame di sincero affetto che ci legava; gli avevo promesso, anni fa, che se qualcosa fosse accaduto a impedirgli di accudire la figlia, io sarei intervenuto, che lo avrei aiutato esattamente come lui avrebbe fatto nel caso qualcosa fosse successo a me. E non sarà certo per la tua sciocca stizza che metterò a tacere una promessa, non sarebbe da Leo Akaba”

Era l’uscita di scena che aspettava. Voltare le spalle al suo stesso figlio, lì fermo come un animale ferito che tenta inutilmente di digrignare i denti contro l’oppressore che già ha ottenuto quello che voleva, non lo riempiva di orgoglio nei confronti di se stesso; nulla di quanto facesse contro di lui poteva davvero compiacerlo o dargli una giusta dose di soddisfazione. Amare i suoi figli era una verità che rimaneva silente nel suo petto, mascherato da un rigore che lui stesso si era autoimposto a fronte di sentimenti capaci di minare come il vento su castelli di carta tutto il lavoro di una vita. La scienza non era più un semplice divagare della mente al fronte di scoperte in grado di regalargli fama e benessere, non da quando ogni singolo neurone fisicamente in grado di agire era stato devoluto alla ricerca contro ogni bacillo della Peste. Era errato ripetersi di avere ancora tempo, di possedere uno spazio ancora sufficientemente vasto per lasciar scorrere quello che la sua razionalità sentiva in obbligo di soffocare, ma la corsa che tutti quanto stavano facendo per trovare la strada giusta non poteva vederlo in un posto che non fosse la prima linea, primo precursore di una guerra che non avrebbe risparmiato vittime e oppressori. In quel momento, non poteva fare altro che sperare, pregare un dio ormai evidentemente inesistente di concedergli la possibilità di compiere quanto ancora aveva solo in serbo di fare.

“Non c’entra nulla Ray?”

Stupore e sorpresa riuscirono finalmente a colpirlo, quel volto protagonista di un’indifferenza che sfociava nell’imperturbabilità più accanita, e il grigio delle iridi dilatate venne incontro allo sguardo pungente di chi non ricercava più l’arma più affilata per infliggere del male, ma il semplice constatare di pensieri indecifrabili nella suppositio di dubbi cangianti in una varietà di risposte totalmente private al giovane studioso. L’ineffabilità di un nome impronunciabile derivava dal potere che esso possedeva di evocare spettri dal glaciale effetto, abili nel far appassire con l’ombra della morte qualunque traccia di gioia e felicità contenuta all’interno del cuore di ogni persona. O, almeno, all’interno del cuore di Leo e di Reiji. Il silenzio che circondava una figura ormai esistente solo nelle numerose foto incorniciate sparse per la casa non era sinonimo di oblio, ma di tacito dolore che riposava silenzioso nella consapevolezza di non poter mai guarire del tutto.

“Se credi davvero che io voglia vedere in Yuya una sostituta per tua sorella... allora comprendo perfettamente perché tu mi creda un folle. Ma sei in errore, figlio: io ho amato Ray, la amo tutt’ora, e non c’è minuto, non c’è secondo in cui io non la pensi. Non potrò mai sostituirla con qualcuno... tantomeno con la figlia del mio migliore amico. Arrenditi, Reiji. Non c’è nulla che tu possa fare per venir meno a questa mia decisione. Fa buon viso a cattivo gioco... e non usare mai più Ray per le nostre beghe quotidiane, per favore”

E, detto questo, Leo Akaba calcò a passi veloci il lungo corridoio che lo avrebbe allontanato da suo figlio. 

 

   
 
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