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Autore: Dandelionx    03/04/2017    0 recensioni
Nicole Parker e Weston Carter frequentano gli stessi corsi ma non si sono mai rivolti la parola, troppo concentrati a preservare il loro anonimato. Due facce della stessa medaglia, un evento spiacevole in mensa, fugaci sguardi e irriverenti battute, un incontro del tutto casuale ed ecco che Nike inizia a ritrovarselo ovunque, come se all'improvviso fosse diventato la sua ombra. Lei lo evita, poiché non ha alcuna intenzione di farsi irretire da quell'aria di guai e mistero che il ragazzo sembra portare con sé, ma tutti i suoi tentativi si riveleranno vani perché, si sa, arriva sempre un momento nella vita in cui ragione e sentimento si scontrano e l'uno ben presto dovrà cedere il passo all'altro.
E non resterà che giocare a carte scoperte.
Dal testo:
«Lo sai che stai occupando il mio posto?».
[...]
«Scusa?».
«Stai occupando il mio posto. Ti dispiace andare a rilassarti qualche rampa più in là?».
«Sì che mi dispiace. Questo» – dissi, alludendo al posto – «è sempre stato il mio rifugio. Perciò sei tu a dover sloggiare».
[...]
«Sei la ragazza della mensa».
Addio tentativi di passare inosservata.
Genere: Commedia, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Shivers

____________________

 

PRIMA PARTE

 

“Stige, figlia di Oceano, generò, unita a Pallante,

Rivalità e Vittoria dalle belle caviglie,

dentro il palazzo di lui,

e Potere e Forza generò,

illustri suoi figli,

lontano dai quali Zeus non c’è casa né sede,

né c’è via per cui ad essi il Dio non comandi,

 ma sempre presso Zeus che tuona profondo hanno la loro dimora”.

-          Esiodo

 

 

 

La prima volta che incrociai il suo sguardo, mi trovavo nella mensa della scuola, di fronte alla vetrina in cui erano esposti i piatti del giorno. Non ero mai stata una che si metteva in mostra; ero per lo più un volto anonimo di una popolare scuola del Massachusetts, Stati Uniti. Ovviamente non avevo scelto io di frequentarla. Diciamo che grazie – o dovrei dire, a causa – dei quattrini di mio padre godevo di ottimi privilegi ed in uno di quelli era compresa la scuola. Nessuno, tuttavia, mi conosceva, né aveva ancora capito che fossi la figlia del senatore. Questo, perché avevo sempre portato una falsa identità. Per tutti ero Nicole Parker. In realtà il mio nome era Janel Rothenberg. Comunque, con un vassoio alla mano, scrutavo il menu, facendo oscillare gli occhi dalle zucchine gratinate alle carote bollite. Inutile dire che non avessi molta scelta. Perciò optai per una semplice insalata verde mista a qualcosa che ricordava vagamente la mozzarella. Il punto non era certo cosa mangiai quel giorno o come condii il suddetto piatto. 
«Signorina Parker, veda di darsi una mossa. La fila è lunga e gradirei chiudere la cucina il più presto possibile», mi fece notare la cuoca, una donna alta e dai capelli rossastri, probabilmente unti e odoranti di frittura. 
Cercai di fare un sorriso e posati i palmi alle estremità del vassoio, lo alzai facendolo oscillare a causa della mia poca grazia, cosa che mi fece spalancare gli occhi per lo spavento. Dio solo sapeva che cosa sarebbe accaduto se avessi lasciato cadere il pranzo.

Non potevo certo permettermi di fare una figura pietosa in mezzo ad una mensa gremita di studenti. Sarei divenuta lo zimbello all’istante. 
«Oh, Court, guarda chi c’è...», fece Samantha Byron, piazzandosi davanti a me. Samantha era una spilungona dai capelli e dalla carnagione scura, seno giunonico e tacchi vertiginosamente alti. Courtney Sullivan, sua amica più stretta, era la sua antitesi. I capelli color biondo platino, probabilmente tinti, le ricadevano sulle spalle in maestosi boccoli. Per quanto riguardava gli occhi erano di un colore simile al caramello, per non parlare della loro forma; tutti le attribuivano il soprannome “occhi da cerbiatto” e naturalmente ad una bellezza sconvolgente come quella della Sullivan non poteva che aggiungersi un incarnato diafano, quasi porcellaneo. Al contrario di Samantha, quella mattina indossava una mise sportiva che le calzava alla perfezione. Dei semplici jeggings color verde petrolio le fasciavano le gambe lunghe e slanciate ed una maglia, anch’essa semplice, monospalla, lasciava intravedere un pezzo di pelle; per concludere l’opera ai piedi calzava delle sneakers. Bisogna dunque far presente che Sam e Courtney erano nate per dare il tormento agli studenti - ed io, sfortunatamente non ero un'eccezione - anche se non mi spiegavo bene il perché. Insomma, ero convinta che se avessero saputo di chi fossi figlia, mi avrebbero trattata come una di loro, ma io non avevo nessuna intenzione di far saltare la mia copertura per poter entrare nelle loro grazie. Anzi, avevo intenzione di distaccarmi il più possibile da loro.

«Oh, guarda chi è arrivata!», replicai io a tono.

«Samantha Byron con il suo metro e novanta sproporzionato e la sua spalla destra Courtney Sullivan. Spero che vi siate passate qualche malattia spalmandovi quell’intruglio che tanto vi ostinate a chiamare lucidalabbra». 
Non mi spiegavo proprio perché lo portassero identico. Neanche fossero sorelle da potersi scambiare gli oggetti. 
Samantha ridusse gli occhi a due fessure, senza scomporsi di una virgola.

L'intento era che finisse per incazzarsi e gonfiasse le guancie come una bambolina di porcellana, quale era.

Giusto per il gusto di provocarla. Lentamente inclinò la testa da un lato, come se stesse meditando qualcosa. E ne ebbi la conferma quando il vassoio che tenevo in mano si rovesciò sulla sottoscritta, sporcando e ungendo T-shirt e jeans e costrigendomi a fare un salto indietro per la sorpresa.

Non le avrei mai dato la soddisfazione di dimostrarmi umiliata, anche se sentivo gli occhi cominciare a pizzicare. 
Boccheggiai più di una volta mentre sentivo gli occhi di tutti i presenti addosso a me ed un “oh” generale. Feci un rapido giro della sala finché i miei occhi di un comune color castano tendenti al nocciola non andarono ad incatenarsi in quelli di un ragazzo che non avevo mai notato prima. Il cappuccio della felpa nascondeva i capelli ma da quel che potei intravedere dal volto non vi scorsi alcuna emozione; appariva del tutto indifferente.
Courtney scoppiò a ridere istericamente, con tanto di mano davanti alla bocca, cosa che la fece sembrare ancora più gallina di quanto fosse. Dal canto mio, non sapevo cosa fare perché mai era capitato che Samantha arrivasse a tal punto. Solitamente i nostri litigi si concludevano con qualche battibecco e nulla di più.
«Mi sa proprio che ti serve una doccia, Parker», sentii urlarmi da dietro. Quando mi voltai per vedere il proprietario di quella voce, feci comparire un sorriso sulle labbra, che tremarono leggermente. Colton Byron. Quarterback della squadra di football nonché ragazzo più popolare dopo Samantha. Non a caso i due erano fratelli gemelli. Quella mattina uno dei due Byron non l’avrebbe certo passata liscia. Fortunatamente, nella caduta, si era salvata la bottiglietta di succo d’arancia rossa che prontamente afferrai da terra e svitai, mentre percorrevo a grandi falcate la distanza che mi separava da Colton. 
«Ehi, sfigata, che vuoi fare?», chiese con fare ironico facendo sghignazzare i suoi compagni di squadra. 
Con un sorriso che sembrava uscito da una pubblicità di dentifrici sbiancanti, rovesciai il contenuto sui capelli del ragazzo, impregnando anche la maglietta e causando dei mormorii lì attorno, con gemiti di apprezzamento annessi da parte di alcune ragazze “nitrito” di seconda. Scattò in piedi come scottato ed il suo sguardo slittò da me alla folla curiosa che osservava la scena alcuni godendo.
«Non sai in che guai ti sei andata a cacciare, Parker», mi minacciò, puntandomi contro un indice. 
Mi strinsi nelle spalle, sentendo un nodo alla gola che mi impediva di deglutire e schivando i pezzi di lattuga al suolo, mi allontanai da lì, fuggendo nel cortile per dare sfogo alle mie emozioni.

                                         

* * *

Avevo sempre adorato il retro della scuola, non molto lontano dal campo di football. Vi era una rampa di gradini che la squadra solitamente usava per tenersi in forma; tuttavia dopo pranzo non vi andava nessuno. Era il posto dove preferivo rifugiarmi a comporre musica, disegnare o scattare fotografie per l’annuario. In quel posto, tutto il resto si annullava. 
Quella mattina, dopo aver subìto quella vera e propria umiliazione e dopo essermi riscattata a mio modo, corsi come sempre sul gradino più alto e poggiai la schiena contro il muro di cemento. 
Infilai le cuffiette nelle orecchie ed azionai la riproduzione casuale. Infine, pescai dalla borsa a tracolla la mia adorata macchina fotografica, iniziando a cercare con lo sguardo il soggetto perfetto. Chiusi un occhio e portai la macchinetta dinanzi a quello aperto mentre ondeggiavo dal campo da football al prato falciato del collegio. Scattai qualche foto bozza al gruppo di cheerleaders, intente a provare una piramide. Anche se Samantha ne faceva parte, l’annuario ed il giornalino scolastico per me erano molto importanti perciò mettevo sempre i rancori da parte in quelle circostanze. 
Dal momento che non c’era nulla di interessante da immortalare, posai la macchinetta accanto a me e cominciai a canticchiare qualche stralcio di canzone, chiudendo gli occhi. 
«Lo sai che stai occupando il mio posto?».
Sussultai nell’udire quella voce e d’istinto mi scivolò una cuffietta sulla gonna di raso blu. Aprii gli occhi di scatto e schiusi le labbra in un’espressione alquanto sorpresa. Perché quello strano ragazzo che avevo intravisto in mensa per puro caso, adesso mi stava rivolgendo la parola? Ma cosa più importante, chi diavolo era per interrompere il mio attimo di relax? 
«Scusa?», replicai, facendo una smorfia e arricciando il naso. 
Il ragazzo sospirò e prese a guardarmi da sotto le lunghe ciglia, indicando con un cenno del mento il posto in cui ero comodamente seduta. 
«Stai occupando il mio posto. Ti dispiace andare a rilassarti qualche rampa più in là?».
Annuii. «Sì che mi dispiace. Questo» – dissi, alludendo al posto – «è sempre stato il mio rifugio. Perciò sei tu a dover sloggiare».
Lo sconosciuto si morse un labbro, reprimendo una specie di sorriso e poi si scompigliò i capelli. Come se non fossero già disordinati per conto loro.
«Aspetta...». Tamburellò il dito sul mento con aria assorta. «Sei la ragazza della mensa». D’un tratto vidi i suoi occhi illuminarsi. 
In quel momento desiderai che un varco si aprisse proprio sotto di me e mi risucchiasse.

Addio tentativi di passare inosservata. Girai il viso verso destra senza rispondere ed incrociai le braccia al petto. 
«Be’, che aspetti? Comincia pure a farti beffe di me...», cominciai. «Sono sicura che non aspetti altro».
Lo sconosciuto sgranò gli occhi e si inumidì le labbra. Cercai di non mostrare segni di cedimento e fare così la figura della deficiente totale. 
«Cosa ti fa pensare che vada dietro a queste sciocchezze? In tutta onestà, Strange, vorrei che liberassi il mio posto e che ognuno riprendesse ad ignorarsi come un attimo fa».
Un attimo... mi aveva chiamata “Strange”?! 
Solo allora decisi di osservarlo, spinta da un istinto ignoto. La prima cosa che notai furono i suoi occhi, di un sorprendente colore scuro, due iridi profonde e quasi imperscrutabili che alla luce del sole sembravano quasi brillare oltre che inquisirmi.

Indossava la tipica camicia collegiale, solo che appariva abbastanza sgualcita; le maniche di quest’ultima, infatti, erano state arrotolate sugli avambracci e la cravatta era allentata insieme al bottone del colletto, che lasciava intravedere il colore della sua pelle scura. I capelli castani, ancora, apparivano disordinati e gli davano un tocco di ribellione e mistero. Quanto alle labbra, infine, erano leggermente rosse, segno che le mordeva spesso. Probabilmente fu il suo sguardo a spingermi ad alzarmi; detestavo essere fissata con piglio accusatorio e interrogativo.
Subito un quesito destò la mia attenzione: dove cavolo era stato nascosto quell'Adone fino a quel momento? Dovevo complimentarmi con lui per il lavoro perfetto dell’anonimato e magari avrebbe potuto anche darmi qualche dritta dato che io stavo fallendo miseramente.
«Strange?». Non mi spiegavo ancora perché la sua voce giungesse alle mie orecchie ovattata. Non fino a quando persino la sua mano venne sventolata davanti ai miei occhi, facendomi sobbalzare. Non potevo crederci. Gli avevo appena fatto un’attenta radiografia e lui, a giudicare dal ghigno che gli si era formato sulle labbra, se n’era accorto. 
Che figura... 
Arrossii fino alla punta dei capelli e mi schiarii la voce quasi istintivamente. 
«Se tu hai finito di fissarmi come se volessi saltarmi addosso da un momento all’altro, io procederei con le presentazioni». 
Presi fuoco ancor di più, se possibile. Infine, scossi la testa con veemenza, saltando in piedi. Per poco non feci fare un volo alla mia adorata macchina fotografica ed al mio i-Pod. 
Adesso che ero in piedi il ragazzo che avevo davanti mi era sembrato ancora più alto. Non che ci volesse molto per superarmi visto il mio metro e settanta scarso. 
Lui, in ogni caso, alzò le mani con i palmi rivolti verso di me. Sembrava essere rimasto sorpreso dalla mia reazione. 
«Vorrà dire che rimarrai 'strange', fino a che non scoprirò il tuo nome». 
Non avevo intenzione di fermarmi un minuto di più. 
«Non servirà neanche
Strange, stanne sicuro. Tu ed io non ci siamo mai incrociati né ci incroceremo mai». 
Raccolsi frettolosamente la mia roba mentre sentivo il suo sguardo insistente perforarmi la schiena. 
«Ho detto qualcosa di male?», chiese, mordendosi di nuovo il labbro e accigliandosi leggermente. 
Finsi un sorriso. «Non sei tu. Sono io. Devo andare», lo congedai, saltando giù dalla rampa alla velocità della luce, rischiando di rompermi l’osso del collo. 
«Ehi, aspetta!», sentii chiamarmi da dietro. Non mi voltai. 
«Strange, hai dimenticato...».
Quelle parole mi arrivarono come un sussurro in lontananza. Non importava. Di qualunque cosa stesse parlando non importava. 
«...ciondolo», concluse in un sussurro il ragazzo a nessuno in particolare.

 

* * *

Purtroppo quella non fu la prima ed ultima volta che mi ritrovai a conversare con lui.
Era capitato una seconda volta nell’aula del professor Roberts ed una terza volta al corso della professoressa Kingsley.
In realtà, non sapevo che per anni l’avessi avuto nella stessa classe e che mai mi fossi accorta di lui e viceversa.
Probabilmente troppo presi dal voler risultare asociali, nessuno dei due si era accorto dell’altra. E ad onor del vero, mi stava più che bene, quella condizione.
Da quel fatidico incontro dietro la scuola, più di una volta quegli occhi color pece avevano popolato i miei sogni e più volte mi ero ritrovata davanti piccoli flash del suo ghigno.
Avevo ammesso già la prima volta che avesse un bel sorriso. Per non parlare del fatto che qualche volta avesse cercato addirittura di braccarmi in corridoio o di attirare la mia attenzione ma io ero sempre riuscita ad evitare ogni contatto ed ogni incontro.
Lo ignoravo bellamente e ne andavo fiera. Eppure lui sembrava non desistere dal volermi parlare.

Era un mercoledì pomeriggio ed ero nel laboratorio di fotografia per sviluppare gli ultimi scatti, che ritraevano gli allenamenti di football e di cheerleading. Non riuscivo proprio a spiegarmi come a tutti gli studenti potesse piacere quella roba. Troppo concentrata nelle mie faccende non mi accorsi che avevano bussato alla porta prima che questa venisse spalancata, facendo entrare un fascio di luce che sicuramente avrebbe deteriorato ogni fotografia appesa e da poco sviluppata.
«Merda», sussurrai, correndo a chiuderla velocemente e ad inveire contro il o la pezzente che stava tentando di rovinare il mio lavoro.
Mi arrestai quando notai con rammarico che era stato proprio quel lui ad avermi interrotto. Sbuffai e mi strofinai gli occhi, sorridendo stancamente. «Che vuoi?».
Sapevo che prima o poi il momento di affrontarlo sarebbe arrivato e stava accadendo proprio in quel momento. Alla fine, dove sarei potuta fuggire senza aver raccolto prima tutte le mie cose?
«Speravo di poterti trovare qui, Strange», iniziò tenendo le braccia incrociate e scrutando l’ambiente con gli occhi. Decisi di chiudere la porta dietro di lui. Per nulla al mondo avrebbe rovinato i miei scatti perfetti con la sua improvvisa quanto indesiderata comparsa.
«Il fatto è che sei così prevedibile! È bastato chiedere a Peyton Jeffrey ed eccoti qui». Sorrise.
Quella pettegola...
Mi appuntai di andarla ad uccidere, una volta uscita da quella stanza. Annuii, mordendomi l’interno guancia e presi a trafficare con le foto appese al filo. Era più un’occasione per distrarmi dai suoi occhi ipnotici.
«E così è questo che fai, dopo ogni lezione», commentò, passando in rassegna le foto già sviluppate.
«Senti, si può sapere cosa diavolo vuoi dalla sottoscritta? È da quel maledetto giorno in mensa che per puro caso ho incrociato il tuo sguardo che adesso ti ritrovo sempre tra i piedi. Dannazione, non so neanche il tuo nome!», sbottai, in preda ad una crisi isterica.
Le sue labbra lentamente formarono una “o” perfetta ed io repressi l’istinto di strapparmi i capelli. Era una distrazione bella e buona, quel tizio.
«Strange...»

«Ti ricordo che sei stata proprio tu a non voler che ci presentassimo come si deve. E comunque io so il tuo nome».
Non mi stupivo più di tanto.
«E allora perché continui a chiamarmi “Strange”?», mormorai abbassando gli occhi al suolo.
«Perché ci ho fatto l’abitudine. Dài, non stiamo a puntualizzare. Avanti... so che vuoi chiedermelo. Non ti mangio, mica!», esclamò aprendo le braccia in un gesto ampio.
Avevo capito che alludeva al suo nome. Ma io non ero ancora sicura di volerlo sapere. Presi a torturarmi il labbro inferiore ed a ticchettare con un piede per terra.

«Te l’ho già detto. Non mi interessa».
«Bene. Vorrà dire che non risponderò alle tue domande».
Fece per andarsene ed io mi trovai ad esclamare come un’idiota: «Aspetta!».
Nonostante la luce soffusa, riuscii ad intravedere  l’ombra di un sorriso. Un sorriso vero. Nulla a che vedere con quello del primo giorno. Voltandosi nella mia direzione, dei ciuffi ribelli gli finirono davanti agli occhi ed io strinsi la presa sul labbro. Chiusi gli occhi e sospirai.
«Come ti chiami, di grazia?». Strinsi i denti mentre pronunciavo quella domanda.
«Ce ne hai messo di tempo, cara la mia Strange», rispose palesemente ironico e con fare teatrale.
Repressi un sorrisetto e sviai lo sguardo per non farglielo capire.
Ero una pessima attrice.
«Non c’è bisogno che lo nascondi. L’ho visto, sai?», mi canzonò, facendomi l’occhiolino.
Alzai gli occhi al soffitto mentre affiorava un secondo, prepotente, sorriso.
«Comunque, piacere, sono Weston Carter», aggiunse, tendendo una mano nella mia direzione, a separarci solo il tavolo da lavoro.
La afferrai, anche se un po’ restia e la strinsi.
Deglutii. «Nicole Parker».
Ogni volta che mi presentavo non riuscivo a guardare l’altra persona negli occhi. Avevo paura che potesse leggere nel mio sguardo che stessi mentendo. Non potevo permettermi una cosa del genere.
«È interessante?», mi domandò, seguendo la mia traiettoria, verso il soffitto.
«Cosa?», replicai assente. Era così bello e confortevole stringere la sua mano grande e calda.
«Il soffitto, dico. Lo fissi in continuazione».
«Ah. Be’...». Per la prima volta in vita mia, rimasi a corto di parole. Non mi era mai successo, neanche con Samantha, Courtney o Colton.
«Facciamo che me lo dici un’altra volta, okay?», venne in mio aiuto. Contemporaneamente increspò le labbra in un gesto quasi impercettibile. Lo ringraziai mentalmente e fissai le nostre mani ancora intrecciate.
«Che ne dici se mi lasci andare la mano?», proposi, sentendo le gote andare in fiamme.

«Ma Strange, fino a prova contraria, sei tu che sei arpionata alla mia».

Quel ghigno. Quel detestabile ed – adorabile – ghigno che mi mandava fuori di testa. Dovevo uscire di lì. Staccai violentemente la mia mano dalla sua e cominciai a mettere a posto tutto, alla velocità di Speedy Gonzales.
«Non ho detto che dovevi staccarti», affermò, dopo un po’, aggrottando la fronte.
«Ora rispondimi. Cosa diamine vuoi da me?». Mi fermai e posai i palmi sul tavolo di compensato.
«Non vedevo l’ora che mi facessi questa domanda».
Ignorai la sua espressione gongolante e gli feci cenno di continuare.
«Vedi... », cominciò, mutando completamente umore.

Era la prima volta che lo vedevo sotto quella strana luce. Sciolsi l’intreccio delle mie braccia, lasciandole cadere lungo i fianchi e rimasi sorpresa. Era davvero a disagio? Lo stesso ragazzo dal ghigno derisorio e l’aspetto da bad boy?
Assurdo.
«C’è una ragazza», continuò, torturandosi i capelli. Persi un battito. In quella scuola c’erano praticamente più vagine che altro, mi ritrovai ad ammettere un attimo dopo.
«Carter», soffiai, impaziente.

«Arriva al punto. Ho da fare».
«Sì, dicevo... c’è questa ragazza che mi piace da un po’ ma è come se non volesse cedere al mio fascino. Voglio dire... alla mia vecchia scuola le ragazze si strappavano i capelli pur di attirare la mia attenzione. Ma lei, lei fa la difficile, diciamo».
Non sapevo se scoppiare a ridergli in faccia o spronarlo a continuare. Nel dubbio, non fiatai.
«Non per vantarmi», soggiunse, accompagnando la frase con un gesto della mano. Sgranai gli occhi e sarcasticamente affermai: «Mai pensato».
«In ogni caso, vorrei che tu mi dessi una mano».
Io, cosa?! Mi strozzai con la mia stessa saliva.
«Cosa?!». Alzai la voce di un’ottava.
«E poi, chi sarebbe questa ragazza tanto difficile?».
Carter mi fissò a lungo senza lasciar trapelare alcuna emozione. Era ritornato ad essere lo stesso ragazzo della prima volta.
«Courtney Sullivan».
Mi sfuggì un singulto strozzato. Poi presi a tossire convulsamente.
Quando incrociai di nuovo i suoi occhi, vidi che era serio e mi scrutava con un sopracciglio inarcato.
Per chi cazzo mi aveva presa? Per una scema? E poi, sì, feci quello che avevo cercato di evitare. Scoppiai a ridergli in faccia. Fino alle lacrime.
«Bell’amica», sentii dire tra sé e sé, tra una mia risata e l’altra.
«Ma io non sono tua amica. Né lo sarò mai».
Okay, non volevo risultare così cattiva, però... va bene, non sapevo neanche io cosa mi avesse spinto a fare l’antipatica.
«Devo andare, a proposito», conclusi bruscamente, prendendo la borsa con l’occorrente e posizionandola in spalla.
«Nicole?».
Era la prima volta che pronunciava il mio nome. E provai una fitta inspiegabile al petto sapendo che non era neppure quello vero. Sentii di conseguenza la presa ferrea sul mio braccio e con uno strattone mi allontanai.
Carter sbatté le palpebre parecchio confuso: «Okay, cosa è successo?».
«Niente».
«Strange...».
«Smettila di chiamarmi così», sbottai, alterandomi.
«Va bene, va bene... Nicole», si corresse. «Cosa ti costa aiutarmi?», domandò incredulo.
Ma faceva sul serio? Mi sforzai come al solito di fare un sorriso e mantenere la calma. «Insomma... hai visto anche tu cosa è successo quel maledetto giorno in mensa, vero?!».
«Dannazione, lo sapevo, lo sapevo. Sapevo che era tutto un piano di Samantha per farmi sentire una cretina. Dovevo continuare ad ignorarti. Stupida. Stupida. Stupida», ripetei a me stessa come se fossi posseduta. E addio tentativi di risultare pacata.
«Nicole, ehi... Nicole», tentò di chiamarmi. Ma io avevo già inforcato la porta e mi stavo allontanando, scuotendo la testa.
«Senti, voglio che tu mi lasci in pace, okay? Spero che possa far innamorare quella stronza e spero che ti faccia soffrire come ha fatto con me e tante altre persone».
«Nicole... ma che stai dicendo?», sbottò anche lui, ora visibilmente incazzato.

Pure? Ero io quella che c’era cascata.
«Sai, cosa? Sei uguale a lei. Fareste proprio una bella coppia», sibilai con il mio tono più freddo.
Poi, iniziai a correre verso il dormitorio, mentre lacrime traditrici mi appannavano la vista.

 

* * *

 

Peyton Jeffrey altri non era che la mia unica vera amica lì al collegio. Era completamente diversa da me. Ciononostante avevamo legato sin dal primo giorno, durante il discorso di benvenuto della preside. Era l’unica a conoscenza della mia vera identità e l’unica di cui riuscissi a fidarmi. Per questo le raccontai quanto accaduto con Weston Carter. Inizialmente mi strinse forte tra le braccia, permettendomi di sfogarmi, poi cominciò a chiedermi scusa perché in parte si sentiva in colpa per aver svelato a West che mi trovavo in laboratorio, per ultimo mi disse che secondo lei avevo frainteso tutto e che comunque Carter non sembrava interessato minimamente ad una come Courtney. Ero consapevole comunque, che lo diceva con la speranza di farmi stare meglio. Anche se io sapevo – tutti sapevano –  che Courtney Sullivan fosse una delle ragazze più belle del collegio. Rimaneva il fatto che fossi, inspiegabilmente, rimasta delusa da Weston Carter. Non mi aspettavo affatto che si potesse invaghire di una come lei. Tutti erano al corrente che si comportasse da stronza, arrivando a risultare peggio di alcuni ragazzi. Forse, però, Carter non era da meno. Chi mi garantiva, in fondo, che fosse un bravo ragazzo? A stento sapevo il suo nome.
Era anche colpa mia se non sapevo altro di quel maledetto.


Me ne stavo in biblioteca insieme a Peyton, quando un ragazzino di prima si avvicinò avvisandomi che la preside Chamberlain desiderasse vedermi.
Non mi scomposi perché sapevo di non aver fatto nulla e che Ven, la preside, era una cara amica di mio padre. Naturalmente anche i collaboratori scolastici erano a conoscenza di chi fosse il mio tutore e quindi io. Anche se tutti si impegnavano a mantenere il segreto.
«Psst... che hai combinato?», bisbigliò la mia amica, dandomi un colpetto con il gomito.
Scrollai le spalle: «Faccende di papà, presumo».
«Chiamami. Dopo», mimò con le labbra facendo il gesto del telefono. Annuii e seguii il ragazzino verso la presidenza. In tutta sincerità, ignoravo persino la sua posizione.
«Sicura che non ti sia cacciata nei guai?», si informò il ragazzino.
«Certo». Decisi di mettere fino al discorso ed affrettai il passo.
L’ufficio della preside Chamberlain ricordava molto quello della centrale di polizia di mio zio Wayne. C’era un’enorme vetrata che in quel momento era nascosta da una di quelle tendine tipiche delle stazioni di polizia; si tirava un filo e quella si chiudeva.
Bussai prendendo un respiro

«Avanti», rispose la voce bonaria di Ven.
Mi chiusi la porta alle spalle e sussultai quando vidi chi vi era seduto su una delle sedie.
Non lo vedevo dal nostro pseudo – litigio e non riuscivo a capire che effetto mi avesse fatto rivedere i suoi occhi così belli.
«Buongiorno» mormorai educatamente, prendendo posto. Carter non si voltò a guardarmi. Notai che non aveva smesso di toccarsi i capelli in quel suo solito tic nervoso.
«Ciao, Nicole. Ti starai chiedendo perché ti abbia convocata qui, immagino», disse, ravviandosi i capelli neri e folti.
«Infatti».
«Be’... il signor Carter ha affermato che tu non molto tempo fa abbia perduto una cosa che sicuramente ha un valore importante».
Frugò nel cassetto della scrivania prima di tirar fuori un ciondolo.

Mi si gelò il sangue nelle vene. Lui sapeva, allora.

Aveva senza dubbio guardato l’interno del ciondolo. Me la consegnò ed io la strinsi talmente forte da far diventare le nocche bianche e da rischiare che mi bucassi la pelle. Dannazione.
«Nicole...», fece la preside. Ma io ormai non la stavo più ad ascoltare. Non potevo credere di essere stata così disattenta.
Maledizione!

«No», scossi la testa. «Non è possibile».
«Nicole, respira. Non è successo niente. Non era questo il motivo principale per cui ti ho mandata a chiamare».
Anche se a fatica, trassi un sospiro di sollievo. Non ero nei guai. Menomale.

«Come seconda cosa, vorrei affrontare con te l’accaduto della mensa. Mi è stato riferito dal signor Byron che tu abbia versato una bibita su di lui e che abbia insultato gravemente la sorella».
Sospirai. Ovviamente Colton aveva rigirato la frittata a suo favore.
«In realtà, è stata sua sorella a cominciare. E sì, è assolutamente vero che io abbia commesso quell’azione ma a mia discolpa posso dire che sia stata sempre sua sorella ad iniziare, rovesciandomi il contenuto del mio vassoio addosso. È stata legittima difesa».
«Nicole, sai bene che se c’è un problema, di qualsiasi tipo, devo venirlo a sapere subito. Così non mi aiuti e passi dalla parte del torto. Ci sono dei testimoni».
Chi, Courtney? Guardai istintivamente il ragazzo seduto accanto a me.
«Mi spiega cosa c’entra Carter in tutto ciò?».
«È il testimone di cui ti parlavo. Insieme alla signorina Sullivan».

Detto questo, avvicinò il microfono collegato all’altra sala ed ordinò alla segretaria di far entrare la suddetta ragazza.
Mi cadde il mondo addosso. Letteralmente. Un colpo di pistola alla tempia avrebbe fatto meno male.
Courtney Sullivan entrò con un sorriso perfido stampato sul volto. Al che mi chiesi se Carter non avesse i prosciutti davanti agli occhi per non accorgersi di quanta cattiveria aleggiasse nella sua amata.
«Prego, Courtney, siediti», la invitò Ven.
Subito ella prese una sedia e la trascinò tra me e Carter. Dopo essersi seduta ammiccò verso di lui e gli strinse la mano in una presa possessiva. Poi mi squadrò con aria di sufficienza. Repressi un conato di vomito. Ripensai a quando avevo stretto la sua mano per la prima volta e a quanto avessi trovato piacevole il suo contatto. E pensare che Courtney fosse così fortunata da neanche rendersene conto...
«Dunque? Sono in punizione?», mi informai, fintamente annoiata. Più che altro cercavo di evitare le smancerie dei due piccioncini.
Ven passò in rassegna prima me e poi loro e dal suo sguardo costernato capii che stava per dire qualcosa che non avrebbe mai voluto dire.
«Sì, Nicole. Dovrai aiutare Kyle Grayson a falciare il giardino della scuola».
Conoscevo Kyle solo di vista ma avevo sentito dire da alcune persone che fosse vagamente interessato a me.
Vidi con la coda dell’occhio Carter stringere i pugni sotto al tavolo tanto impercettibilmente che pensai di essermelo solo immaginato.
«E quando inizierebbe questa tortura?», chiesi alzando lo sguardo verso la preside.
«Domani pomeriggio, dopo le lezioni».
Annuii e mi alzai.
«Posso andare?».
Ven si strofinò un pollice sulle labbra con aria assorta e decretò che fosse la Sullivan a doverci lasciare da soli. Lei, dopo aver stampato un bacio sulle labbra a Carter sculettò fuori dall’ufficio. In quanto alla preside, ci disse di attenderla un minuto mentre andava a prendere alcuni documenti in archivio.


«Vedo che ce l’hai fatta anche senza il mio aiuto», iniziai, giusto per rompere il silenzio.
«Alla fine sì. Court è fantastica. Migliora dopo che impari a conoscerla, sai?».
«Stento a crederci», replicai ironica.
«Parli tanto di lei ma tu sei la prima ad avere pregiudizi». Il suo tono ora era tagliente. Non sembrava esserci traccia del Carter che avevo conosciuto allora.
«Saranno affari miei».
«Sei stata tu a volere che le cose andassero così», sospirò, quasi risentito. Alzò gli occhi al soffitto e scrollò la testa.
Era bipolare o cosa...?
«Io? Io?! Sono forse stata io a chiederti di farmi conoscere uno dei ragazzi più belli della scuola?».
«Mi devi spiegare dove è il problema se frequento Courtney».
«Non c’è alcun problema, Carter», scandii, gelida.
Prese un profondo respiro. «Chi è quella della foto nel ciondolo?».
Rimasi senza parole. L’aveva vista, dunque. Strinsi il ciondolo tra le dita, chiudendole a pugno e stringendo tanto da farmi male. Carter se ne accorse perché inarcò le sopracciglia non riuscendo a spiegarsi il mio gesto. Cominciai a battere la gamba a terra nervosamente, sperando che Ven tornasse al più presto. Iniziavo a pensare che l’avesse fatto di proposito, a lasciarci da soli.
«Ti verrà un buco alla mano se stringi un po’ più forte», azzardò.

Oh, che pensiero premuroso...
«Magari», borbottai, infastidita.
Per una manciata di minuti nessuno disse più niente.
«Sabato do una festa, se ti va di venire».
Feci un sorriso ironico. «Che pensiero gentile. Ma passo, grazie».
Schioccò la lingua sul palato, palesemente irritato. «Sei impossibile».
«Mi hanno detto di peggio».

Alludevo a Samantha e alla sua ragazza, se non si fosse capito.
«Andiamo... lo sai che lo fanno solo per provocarti».
Perché doveva difenderle? Perché non chiudeva quella maledetta bocca?!
Scrollai le spalle, fingendo noncuranza. «Chi se ne fotte».
«Nicole...» iniziò in tono ammonitore, stroncato tuttavia dalla porta cigolante.
Finalmente la preside era rientrata tenendo in mano alcune cartelline.
«Scusate ragazzi se vi ho fatto attendere».
Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia blu ed incrociai le braccia al petto.
«Be’? Avrei da fare», le feci presente.
«A proposito, Kyle sa già che devi raggiungerlo domani».

Ven alzò gli occhi dalla cartellina per godersi la mia reazione. Il fatto era che non ebbi una vera e propria reazione. Mi limitai ad annuire.
«Uhm, esattamente cosa dovrei indossare?».
«Una tuta da lavoro. Te la farò consegnare più tardi in camera».
«Okay. Finito?», chiesi impaziente, alzandomi. Mi ignorò.
«Weston, per quanto riguarda te, ho ricevuto lamentele da vari professori», chinò gli occhi per leggere sul foglio alcuni nomi e poi continuò: «...Kingsley, Jefferson, Roberts, Samuels».
Scrollò il capo, come se non capisse dove volesse andare a parare. «E...?».
«E devi iniziare a studiare o sarò costretta ad assegnarti un tutor».
«Ho da fare il pomeriggio. Non posso perder tempo a studiare».
Roteai gli occhi pensando alle tante cose che avrebbe dovuto fare.

«Tuo zio è stato molto chiaro quando ti ha lasciato qui. Mi sarei dovuta prendere cura di te e intendo rispettare la mia promessa».
«Che si fotta pure lui».
Ridacchiai non riuscendo a trattenermi notando l’espressione esasperata della preside.
«C’è poco da ridere, Nicole. Perché sarai tu la sua tutor se non vedrò impegno da parte sua», concluse indicandolo con un cenno.
Smisi di ridere, rischiando di strozzarmi con la mia stessa saliva: «C–cosa?».
Vidi Carter mordersi un labbro con l’intento di non ridere.
Pessimo, pessimo attore. Lo avrei ucciso.
«Ciao, Ven». Si alzò ed si avvicinò alla porta. Poi si rivolse a me. «Ciao, Strange».
Sbuffai e subito dopo, Ven mi fece notare che avevo un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Stupido, stupido, Carter.

 

* * *

Era finalmente giunto sabato, il che voleva significare niente lezioni. Durante la settimana avevo dovuto aiutare Grayson e scontare la mia punizione che continuavo a sostenere fosse ingiusta. In quel lasso di tempo avevo imparato a conoscere Kyle. Non era affatto così pervertito come veniva descritto. Si era rivelato un buon confidente, alla fine. Anche se inizialmente avevo dovuto lanciargli una sfilza di occhiatacce per dei commenti poco carini sul mio conto, sapevo che lo diceva solo per provocare una mia reazione e non potevo negare che mi desse fastidio; così  gli avevo subito intimato di smetterla. E così era stato.

Ad ogni modo, adoravo il sabato. Non solo perché le lezioni si concludevano, ma perché potevo dormire fino a tardi senza dover incrociare per i corridoi la nuova coppietta che era andata a costituire uno dei più importanti gossip del campus.

Non a caso ero stata pregata da più di una persona di dedicare loro un articolo in prima pagina nella sezione apposita. Ovviamente mi ero rifiutata di farlo. Non esisteva che mi riducessi a tanto.
Peyton si era rivelata essere in accordo con me per quanto riguardava la faccenda “punizione” e molte volte insisteva perché mi accompagnasse al luogo d’incontro. Io sostenevo che si fosse presa una cotta per Kyle che dal canto suo non sembrava disdegnare. Sarei stata felice se un giorno si fossero messi insieme.
Mi rigiravo da una parte all’altra del letto, incapace di riprendere sonno. Avevo dimenticato di spegnere la sveglia la sera prima e mi ero svegliata presto. D’altra parte non riuscivo a smettere di pensare all’invito di Carter. Non sapevo se accettare o rinchiudermi in camera fino alla fine del weekend.
«Hai finito di muoverti e fare casino? Quel letto cigola!», si lamentò Peyton con voce arrochita dal sonno.
«Mi dispiace, Pey».
Un attimo dopo, si udì uno sbuffo e in poco tempo Peyton si era volatilizzata accanto a me, sdraiandosi e reggendosi su un gomito.
«Notte insonne?».
«Secondo te dovrei andare alla festa di West?», domandai, mordendomi l’unghia del pollice nervosamente.
«Nic! Quel figo ti ha invitata ad una festa e tu non mi hai detto nulla?! Ma certo che ci devi andare. Non capita tutti i giorni una simile occasione».
«È che ho come l’impressione che ci sia qualcosa di losco sotto. Ho paura che sia un’altra trovata di Courtney e Samantha per vendicare il fratello».
«E a te cosa importa? Ti è sempre scivolato tutto addosso. Cosa è cambiato adesso?». Peyton si accigliò. Poi come se avesse avuto un’illuminazione divina, annuì: «È per Carter».
Non me la sentii di negare. Non era necessario.
«La domanda è: lui ti piace?».
«Non lo so. Non credo».
«E allora dovresti andare alla festa. Chiedi a Kyle di accompagnarti».
«Cosa? E a te non darebbe fastidio?», chiesi sgranando gli occhi per la sua bizzarra proposta.
Lei di risposta si strinse nelle spalle: «No».
«Per favore, Pey! Facciamo così: ci andiamo tutti e tre insieme. Che te ne pare?».
«Cosa?! Non sono stata invitata».
«Oh sì, invece», ribattei.
«Dovremmo trovare un vestito adatto».
«Secondo te a che serve avere un padre importante? Ci penso io», risposi strizzandole l’occhio.
Peyton mi abbracciò forte.
«È per questo che sono fortunata ad avere te».
«Raggiungi Kyle e chiediglielo. Forza... che aspetti?».
«Secondo te dovrei farlo?», chiese, mordendosi il labbro.
Sorrisi. «Ovvio. Vestiti, dài».
«Ti voglio bene, Nicole».

«Anch’io, Peyton. Anch’io».

 

* * *


Non sapevo bene dove fosse l’alloggio di Carter o dove si tenesse la fantomatica festa, così mi affidai all’esperienza di Kyle Grayson. Subito dopo essere uscita Peyton, digitai il numero di Grant, tuttofare di mio padre e amico di famiglia.

Dopodiché cominciai a spiegargli la situazione e lui ridendo mi disse che fossi una folle. Anzi, che fossimo due folli; Peyton compresa. Lui sosteneva che la sua piccola e cioè io, fossi già perdutamente innamorata di Weston Carter. Io pensavo invece che avesse preso un enorme abbaglio. Comunque, mi assicurò che entro le quattro del pomeriggio avrei ricevuto quanto richiesto. Mi fidavo di Grant e del suo buon gusto, ma più di tutto mi fidavo ciecamente di Madame Kendrick, la mia stilista personale. Entro le quattro, avremmo avuto i vestiti più belli di tutto il collegio. Riattaccai con la scusa di dover anticipare un po’ di compiti e dopo aver indossato dei leggins con una maglia lunga ed essermi fatta una coda alta, decisi di uscire fuori a fare un po’ di jogging.
Con le cuffie alle orecchie in riproduzione casuale, il resto si annullò ed iniziai a correre.


Peyton mi aveva raggiunta al laghetto situato nei giardinetti della scuola e in fibrillazione mi aveva confermato che Kyle avesse accettato l’invito. Mi aveva raccontato anche che spinta da una gioia improvvisa gli era saltata al collo e lui anche se all’inizio un po’ sorpreso, le aveva lasciato un bacio sulla guancia che l’aveva fatta arrossire.
Ero felice per lei. Inutile negarlo.
«Sei sicura che ci si possa fidare di questa Madame Kersick?».
«Kendrick», la corressi. «E comunque sì, vedrai. I nostri vestiti saranno i più belli».
«Oh, sono così felice, Nic!», esclamò, abbracciandomi. Ultimamente lo faceva spesso. Ruffiana...
«Sono contenta. Te lo meriti».
«Anche tu. Spero che un giorno tu possa trovare un ragazzo bravo che ti ami per davvero».
Storsi il naso in una smorfia: «Sai che non credo a queste cose».
«Leggi i romanzetti della Austen ma non credi nell’amore. Sei consapevole di essere un controsenso umano, amica?». Rise.

«Che ci vuoi fare? Sono complicata».
«Credimi, lo sanno tutti». 

 

* * *

Rincasammo insieme e dopo esserci fatte la doccia, sentimmo bussare alla porta. Peyton si infilò velocemente una vestaglia e le pantofole e corse ad aprire.
«Signorina Parker, signorina Jeffrey, questo pacco è per voi. Mi è stato chiesto esplicitamente di consegnarlo a Nike», annunciò il custode Randy.
Peyton si aprì in un ampio sorriso, afferrando i vestiti in una presa possessiva. Io dal bagno, scossi la testa, ridendo.
Tipico della mia amica. Sentendo il soprannome affibbiatomi da Grant in persona, mi sfuggì un sorriso fugace. Quell’uomo era un po’ come un secondo padre. Era colui che c’era sempre stato; anche più di mio padre. Un giorno aveva esordito che mi avrebbe chiamata a quel modo poiché secondo gli antichi Greci era il nome della dea della vittoria. Ella incarnava anche il trionfo, ma non li procurava, bensì li sanciva, ponendo la corona d’alloro sulla testa del vincitore.
Comunque, non aspettavo altro che di vedere quanto si fosse superata Rose quella volta. Quella donna era un guru della moda.
Sentii Peyton ringraziare Randy e correre ad aprire il pacco con il suo nome.
Il vestito che Rose aveva scelto per la mia amica era di un colore blu elettrico che avrebbe messo sicuramente in risalto la sua carnagione. Era senza spalline, corto che scendeva a tubo e che si prolungava solo dalla parte di dietro. La parte che copriva il seno invece era color argento decorato con sfiziosi brillantini, mentre sull’estremità di sotto vi era ricamata una simpatica fantasia floreale.
Peyton era radiosa mentre lo contemplava.
Infine, diedi un’occhiata al mio ed ebbi la stessa reazione della mia amica. Non mi spiegai perché Grant avesse fatto recapitarmi proprio quel vestito, quello che avevo usato alla cena di debutto in società di papà. Era piuttosto semplice in effetti. Anch’esso era corto, smanicato, color madreperla con leggere sfumature di rosa tendente quasi al bianco. Dietro era completamente aperto lasciando intravedere una buona parte di schiena ed una porzione dei fianchi. Un po’ più su del seno sinistro vi era una cucita una rosa che secondo Rose e Molly, la mia tata significava: «Sono fedele e degno di te».
Poteva sembrare una sciocchezza ma per me era importante. Dopo aver indossato i nostri vestiti, chiesi a Peyton di truccarmi leggermente e legai i capelli in una morbida treccia che ricadeva al lato della spalla.
La mia amica, invece, li arricciò un po’ facendoli ricadere ondulati lungo le spalle. Ad opera finita, fissavamo le nostre immagini riflesse nello specchio.
«Ricordami di abbracciare Madame Kendrick», mi confidò. Risi e pescai la macchina fotografica per immortalare il momento.
«Siamo bellissime».
«Sì, lo siamo», concordò.
Dopo aver sentito il clic dello scatto, udimmo bussare alla porta. Doveva essere Kyle. Giusto in tempo.
Andai ad aprire io, essendo stata pregata da Peyton.
Lo salutai con un accenno di sorriso: «Ciao, Kyle».
«’Bomba, Nic! Sei uno splendore», ammiccò, facendomi ridere e fare una giravolta su me stessa.
«Aspetta di vedere lei, allora». Mi feci da parte per farlo entrare e la reazione fu inaspettata. Appena incrociò lo sguardo di Peyton, lei chinò gli occhi a terra per celare l’imbarazzo.
Schiuse le labbra e fece uno strano movimento contorto con le sopracciglia: «Sei... sei bellissima, Jeffrey».
Io unii le mani e feci un verso di adorazione. Poi, quatta quatta agguantai la macchinetta e scattai una foto che sarebbe finita dritta in prima pagina. Peyton fissava il pavimento con aria innamorata, un angolo della bocca era rivolto verso l’alto; Kyle invece aveva la bocca semiaperta e gli occhi leggermente spalancati. Anche lui la guardava con sguardo sognante.

Il flash li fece voltare di scatto per lo stupore, verso la sottoscritta.
«Ehi, ma tu non eri quella che: “Non credo a questa roba”! - mi riprese lei.
«Vorrà dire che stasera farò uno strappo alla regola».
«Allora, signorine, che ne dite di andare?». Kyle alzò i gomiti perché noi vi ci aggrappassimo.
Pregai di non fare brutte figure con quei tacchi che Rose mi aveva consigliato di indossare. Non li usavo da un po’ e avrei anche potuto aver dimenticato come si camminavano, per quanto ne sapevo.
Chiusi a chiave la stanza e mi strinsi nel giacchetto a tre quarti azzurro che avevo deciso di mettere per non morire di freddo. Sfortuna volle che quella sera menasse un’arietta dispettosa che mi solleticava la pelle nuda.
«Sicura che non vuoi che torniamo a prenderti qualcosa di più pesante?», si accertò per la millesima volta la mia amica, notando che battevo i denti.
«N –no... d–dentro s–si starà b–bene. S–spero».
«Sei proprio testarda! Ti prenderai un malanno».
Feci un breve sorriso mentre entravamo nel dormitorio dei ragazzi.
Avevo cominciato a sentire la musica ad alto volume due dormitori fa. Dovevo ammettere che non era affatto il mio genere. Per me quelle erano solo urla ammassate a formare una sottospecie di lamento infinito.
«Che gusti orrendi», commentai, avvicinandomi all’orecchio di Peyton che scoppiò a ridere.
«Stasera però non conta, vero?».

«Vero».
«Hai già trovato il tuo lui?», si informò alzando la voce di tre ottave per sovrastare il fracasso.
Sbuffai e le diedi un pizzicotto.
«Lascia perdere, Pey. Anzi, non credo si stata una buona idea venire».
Detto ciò andai a sedermi su un divanetto poco affollato.
«Ehi, che fai?!», sbottò sconcertata come se avessi fatto un errore madornale.
«Mi siedo?», replicai ovvia.
«Ma come... non vieni a ballare?», domandò dispiaciuta sporgendo il labbro inferiore in fuori.
«Divertiti con Kyle. È la vostra serata!», le risposi.
«Sei sicura? Non mi va di lasciarti da sola».
«Me la caverò. L’ho sempre fatto».
Peyton mi strinse una mano come a darmi conforto e poi scomparve tra la folla a ballare con Kyle.
Sospirai, chiedendomi che diavolo fossi andata a prendere in quel posto.

«Bevi?». Sentii chiedermi da qualcuno.
Scossi la testa: «Acqua».
Lo sconosciuto rise di gola: «Vai ad una festa per bere acqua? Caspita se sei strana».
Mi strinsi nelle spalle. Strana. Già. Peccato che chi volevo mi chiamasse così era chissà dove a fare chissà cosa.

Neanche stessi parlando del diavolo, mi ritrovai a sentire la sua voce roca e fottutamente carezzevole.

«Strange?!».
Persi uno, due, tre, quattro battiti. Spalancai gli occhi e mi portai una mano sul petto, per lo spavento. Infine, rabbrividii.
«Carter», sussurrai avvampando vistosamente.
«Che... cosa cazzo ci fai qui?». Solo io avevo udito il tono aggressivo e notato la vena del suo collo ingrossarsi?
Cinque, sei, sette...
«Be’, mi hai invitata. Sono venuta», tentai di sdrammatizzare.
Otto, nove, dieci...
Si strofinò una mano sulla fronte: «Cazzo, avevi detto che non saresti venuta!», annuì come uno psicopatico: «Sì, lo hai detto».
«Sono con Peyton e Kyle», dissi semplicemente, desiderando però farmi piccola, piccola.
«Chi li ha invitati?».
Deglutii. Mi stava mancando l’aria. Sentivo gli occhi umidi e non credevo fosse per il fumo che aleggiava lì attorno.
Indietreggiai.

Continua a contare, Nicole, conta! Undici, dodici, tredici respiri.

«Amore, auguri!», esclamò una voce civettuola arpionandosi ad una spalla di Carter, prima di farlo voltare e cominciare a baciarlo aggressivamente, con tanto di lingua.
Uno, due, tre passi indietro. Scrollai il capo e scacciai con un gesto fluido le lacrime.
«Non sapevo che... oh», annuii tra me e me.
Perché non mi aveva detto che fosse il suo compleanno? Non gli avevo preso neppure un regalo!
«Non ci credo! Sei la Parker?!», fece sorpresa Courtney. Aveva un tubino nero piuttosto scollato davanti che metteva in risalto tutta la mercé.
«Già».
«Colton!». L’interessato la raggiunse, facendo finta di nulla. Non mi aveva ancora notata.
«È la Parker. Guardala. L’avresti mai detto? È più bella di Sammy doo, stasera». Lanciai un’occhiata furtiva a Sammy doo che si spiaccicava addosso ad un ragazzo, apparentemente ignara di tutto.

Presi a fissare Courtney con aria dubbiosa non accorgendomi che Byron stesse osando osato troppo allungando le mani sul mio fondoschiena. Fu un attimo, ma scorsi un lampo negli occhi di Carter.
«Leva le mani di qui, stronzo», dissi, mollandogli uno schiaffo sonoro. Colton prese a massaggiarsi la parte lesa mentre mi giurava con gli occhi vendetta.
«Tutto bene, Nic?». Peyton mi raggiunse insieme a Kyle.
«Vuoi che gli spacchi la faccia?», si offrì quest’ultimo.
Negai. Niente risse. Non volevo rovinare certo un compleanno. Non a causa mia e non quello di Carter.
«Ce ne andiamo, Nicole?».
«Se volete, potete restare. Io... mi gira la testa. Vorrei andare a togliermi questi dannati trampoli».
«Ti accompagniamo. Non è indicato camminare da sola per il collegio di sera».
Annuii. Poi incrociai lo sguardo di Weston che stringeva possessivamente il fianco di Courtney e piegai un angolo della bocca in giù. Ero delusa. Disgustata. Qualcosa del genere.
«Buon compleanno, Carter e... scusami. Per tutto». Non seppi perché glielo confessai, la sua espressione era indecifrabile come al solito, tuttavia mi ricordai della prima volta che i miei occhi si erano incatenati ai suoi come calamite. E mi scivolò lungo la guancia una lacrima. Galeotta! Speravo vivamente che non l’avesse notata. Odiavo piangere davanti agli altri.
Infine, voltai su me stessa desiderando raggiungere l’uscita per riprendere a respirare. In tutti i sensi.

«Stai bene, Nicole?», mi chiese Peyton per l’ennesima volta.
Per l’ennesima volta risposi di sì, tirando su con il naso e affondando la testa nel cuscino.
«Andrà bene», bisbigliai mentre crollavo esausta tra le braccia di Morfeo.

* * *

Cancellare la parola “festa” dal mio vocabolario e dalla mia fantomatica agenda? Fatto. Dopo la sera precedente non avrei voluto più sentirne parlare. La bottiglia di vodka che Peyton si era trascinata fino al dormitorio, ora giaceva a terra riversa su stessa, vuota. Un po’ come me. Una me riversa sul water a pagare i postumi di una sbronza insensata.
«Maledetto. Maledetto destino. Maledetto lui, lei ed io stessa!», imprecai mentre vomitavo persino la bile.
«Nic, Kyle ti manda queste. In realtà le manda Ven, ma fa lo stesso». Peyton fece capolino nel bagno e posò le pastiglie sul marmo del lavandino.
«Come hai potuto permetterlo, Pey? Non dovevo ubriacarmi».
«Nicole, stavo messa peggio di te. L’unica differenza è che io reggo meglio l’alcol», si giustificò.
«Aiutami», strascicai le parole mentre mi tenevo la testa con le mani. Probabilmente avevo anche la febbre.
Peyton mi condusse sul letto e mi rimboccò le coperte.
«Sento freddo, Pey».
«Lo so. Hai la febbre alta. Già deliri».
«Fai smettere questo mal di testa», la supplicai.
«Se non prendi le pastiglie non posso farci niente», mi avvisò.
«Come sta?», sentii dire da una voce che riconobbi come quella di Kyle.
«Influenzata. Prova a farle prendere l’aspirina».
«Nooo», mormorai, «perché non mi vuole, Kyle? Perché?», dissi con voce rotta afferrandogli il braccio.
«È da ieri notte che è in questo stato», sentii dire da Peyton.
«Dovremmo chiamarlo?».

Non distinsi più le voci.
«Sei impazzito? È colpa sua se è ridotta così. Sua e di quella mongoloide di Courtney».
«Kyle... secondo te sono brutta?».
«Ma no. Che vai farneticando?».
«Allora non lo sono abbastanza», ribattei strizzando gli occhi.
«Sai che ti dico? Vado a chiamarlo», decretò Peyton, battendo le mani.

Chiamare chi? Perché non la smettevano di urlarsi a vicenda?
«Carter, ti odio», sussurrai, stringendo in un pugno il lenzuolo bianco, prima di cadere in un sonno senza sogni.

Al mio risveglio sentii una mano calda terribilmente familiare che mi sfiorava i capelli in un gesto delicato e rilassante. Mi ricordò in un modo assurdo quando a farlo era Molly, la tata che mi aveva cresciuta. Subito dopo avvertii il sudore che mi teneva attaccati alla pelle i vestiti. Aprii gli occhi ed un mal di testa allucinante si impossessò della mia testa. Mi alzai su un gomito aspettandomi di trovare Peyton ed invece quasi non urlai quando scoprii che accanto a me c’era proprio Weston Carter.
Arrossii. Mi aveva sentita delirare? Peyton era nei guai. Grossi guai.
«Carter?», feci confusa con voce impastata dal sonno, dall’alcol e dalla febbre. Dovevo avere un aspetto orribile.
«Buongiorno bella addormentata», disse sorridendo. I sorrisi veri erano rari ma li adoravo. Specialmente i suoi.
«Che ci fai qui?».
Non aveva smesso un attimo di accarezzarmi i capelli.
«Aspettavo che ti sentissi meglio. Senti... Nicole, ti devo delle scuse», iniziò. Udii una vena mortificata nella voce ma diedi la colpa alla febbre ed al post–sbornia.
Strizzai gli occhi più forte per evitare di piangere e scandii:

«Carter, vattene. Ti prego».
«Strange...».
«Vattene, vattene, vattene!», gridai tempestandogli il petto di pugni. Volevo che provasse almeno la metà di ciò che avevo provato io. Ovviamente non gli feci nulla, più che altro mi feci male io.
«Non esiste, tesoro», rispose, lasciandomi un bacio su una tempia.
Perché? Perché doveva complicarmi la vita a quel modo?
«No, no. Lasciami. Che vuoi da me?!», tentai di divincolarmi dalla sua presa esasperata. Le lacrime ormai erano inarrestabili.
«Solo il tuo perdono».
Mi strinse più forte e mi cullò tra le sue braccia. Non opposi resistenza. Era inutile. Rimasi lì, a sfogarmi impregnandogli la camicia di gocce salate.

«Eri bellissima ieri sera, Strange. Scusami se mi sono comportato da vero coglione», sussurrò al mio orecchio facendomi correre un brivido lungo la spina dorsale. Quella fu l’ultima cosa che sentii prima di avvertire un freddo sia fisico che interiore.

* * *

Giurai che non mi sarei presa più una sbornia in vita mia. Mi svegliai lunedì con due profonde  e visibili occhiaie, gli occhi arrossati per la febbre e per le lacrime e la pelle del viso irritata a causa del trucco che non mi ero levata sabato sera.
Non vedevo la luce del sole da sabato pomeriggio e ne avevo dannatamente bisogno. Stavo letteralmente mettendo radici in casa. Proprio per quello, mi lavai almeno per mezz’ora, pulii il viso alla ben e meglio e indossai una mise sportiva.
Alle sei in punto già correvo per il cortile del collegio.

Dopo due ore di corsa rigeneranti, mi fermai alla fontanella per rifocillarmi e riprendere fiato. La sbornia era stata smaltita del tutto e non riuscivo a capire se avessi sognato Carter o se quello che mi sembrava avessi sognato fosse accaduto davvero. Non vedevo i miei amici da sabato notte e sinceramente non morivo dalla voglia. Come aveva potuto Peyton lasciare che Carter si intromettesse nei miei problemi, quando lui ne era la maledetta causa!? Tornai al dormitorio giusto in tempo per farmi una seconda doccia ed indossare la divisa scolastica. Solo mentre infilavo i libri nella borsa, sbiancai. Mi ero completamente dimenticata di dover scrivere ben due relazioni per la professoressa Kingsley. Mi diedi uno schiaffo in fronte e cominciai a meditare in cerca di una buona scusa.
Potevo optare per la verità.
“Uhm, prof, sa c’è uno stronzo qui a scuola che mi ha fatto fare la fine degli ubriaconi e sì, frequenta questo corso e no, non ha ripassato nulla. Quindi assolutamente positivo, mi toccherà fargli da tutor. Ma, ehi... io non ho ancora fatto la mia, di relazione».
Sicuramente mi avrebbe creduto. Siccome ero un portento come attrice! Sbuffai ed emisi un gemito di frustrazione.
Tutta colpa di West.
Chiusi la porta a chiave, capendo solo mentre svolgevo quella azione che Peyton non fosse rincasata e che con tutta probabilità avesse passato la notte tra le braccia di un certo biondino.
Non riuscivo ad avercela con loro fino in fondo. Mi ero affezionata anche a Kyle ultimamente. Semmai avrei dovuto scusarmi per avergli dovuto rifilare i miei deliri febbrili.
Raggiunsi correndo l’aula del professor Roberts guadagnandomi un’occhiata curiosa dai miei compagni, i quali non riuscivano a spiegarsi come la prima della classe avesse potuto commettere un ritardo. Be’, la prima della classe, stava cominciando a toccare la vita con mano per la prima volta nella sua esistenza.
Naturalmente stetti zitta. Mormorai solo un misero: “Mi dispiace. Non si ripeterà più”.
Ero convinta che quel mantra sarebbe stato trasgredito molto presto.

 

«E quindi mi stai dicendo che non hai potuto scrivere la relazione perché...?».
Gli attimi più brutti della mia vita furono quelli, nella classifica diversa da quella delle sbornie.
«Perché...», sospirai, «Sono andata ad una festa. Sono tornata a casa ferita e mi sono consolata con dell’alcol. Infine si è scoperto che avevo anche la febbre e quindi, eccomi qui».
La professoressa Kingsley per la prima volta sorrise e mi diede una pacca amichevole sulla spalla, lasciandomi perplessa.
«Era ora che trasgredissi un po’ le regole. L’importante è che non diventi un’abitudine».
«Certo che no. Le assicuro che ho chiuso con la vodka per almeno altri vent’anni».
«Dicevo anche io così dopo la mia prima sbornia. Dicevo di non volerne neanche sentire l’odore. Non hai idea di quante altre ce ne furono, poi. Hai solo diciassette anni in fondo».
«La ringrazio per la clemenza, professoressa. E può starne certa, non berrò più neanche un goccio, almeno per il momento».
Con un’ultima risata mi congedò, ricordandomi dell’incontro con Ven.
Immaginavo per cosa fosse. Maledetto Carter. Di nuovo.

 

* * *

«Siamo d’accordo, Nicole?», concluse Ven, dopo aver illustrato il programma a me e ad un Carter mezzo addormentato.
«No», rispose West, al posto mio.
«Non importa, Weston. Nicole, confido in te». Faceva male. Molto male. Carter corse via rifilando una scusa assurda. Io, rimasta con Ven, decisi di sfogarmi.
«Devo proprio?».
«Ne guadagneremo tutti», affermò risoluta. «A te servono quei crediti ed a me serve un favore da un’amica. A Carter serve passare l’anno ed a me serve – ancora –  avere l’appoggio di suo zio».
«Ne guadagni di più tu, Ven. Perché proprio io?».
«Perché mi fido».
Alzai gli occhi al cielo: «Come farò con la sua fidanzata psicopatica?».
«Se ti creerà problemi, vien – »
La interruppi bruscamente, finendo la frase per lei: «... “Vieni a parlarne con me”. Sì, ho capito. Me l’avrai detto ottocento volte».
«Non l’hai mai fatto, però».
«No, infatti».
«Sei ostinata come tuo padre».
«Ad ognuno il proprio. Ven, potrei chiederti di affidare questo compito a Peyton?», provai con l’ultimo tentativo che mi era rimasto.
«Ha la mia stessa media e non ha molte lezioni extra. Per favore, se non funziona, allora accetterò questa missione. Ma, cerca di venirmi incontro».
Ven trasse un profondo respiro ed annuì, anche se un po’ restia: «Faremo così. Ma ti avverto, alla prima insufficienza, ti vengo a cercare».
L’abbracciai di slancio.
«Grazie, Ven, grazie!».
«Janel?».
Trasalii. Non sentivo più quel nome come mio. Ero Nicole ormai. O Strange, a seconda dei punti di vista.
«Nicole», puntualizzai.
«Già, Nicole... voglio bene anche a te come voglio bene a Carter. Sai che prima o poi dovrai affrontarlo, vero? Qualsiasi cosa sia successa tra voi due».
Annuii. Ne ero al corrente ma avevo paura.
«Andrà bene» ripetei più a me stessa che a lei, pentendomene subito dopo. L’ultima volta che l’avevo detto ero finita riversa sul water a vomitare l’anima. Diciamo che io ed i mantra non andavamo proprio d’accordo.

* * *

 

«Come hai potuto farlo, Nicole?!», mi urlava contro un’allarmata Peyton.
«Mi dispiace, okay? Era un’emergenza. Se non andrà bene, accetterò la cosa. Ma promettimi che ci proverai».
Non aveva preso bene la notizia della tutor. Continuava a ribadirmi che fossi pazza e lei con me perché alla fine, dovendo scontarsi alcune cosette, aveva dovuto accettare. Nello stesso istante bussarono alla porta.
«Chi diavolo è alle sette di sera?», si lamentò Peyton trascinandosi ad aprire. Io stavo ancora infilandomi il pigiama.
«Carter?! Che ci fai qui?».

Peyton aveva alzato il tono di proposito perché io sentissi. Mi chiusi in bagno dopo averle fatto segno di riferirgli che non c’ero.
Appoggiai l’orecchio alla porta ed ascoltai la conversazione.
«Non c’è Nicole?»
«No, mi dispiace. È... è andata... aveva un appuntamento», inventò.

Brava, Peyton, adesso sì che erano guai amari. 
«Un... appuntamento?», ripeté come se la cosa lo sorprendesse parecchio. Lo immaginai con il solito cipiglio scettico.
«Già. Un ragazzo del mio corso. Sai, mi ha chiesto se gliela facevo conoscere».

Mi schiaffai una mano in faccia. 
«Oh, e non sai quando torna?», continuò e dal tono capii che era nervoso. Ah, merda, merda, merda.
«Non credo torni. Però domattina vi vedrete a lezione. Devo comunicargli qualcosa... dirgli che sei passato? Non so...»
Che cosa...? Mi morsi la lingua. Ahi, che male! Che diavolo stava combinando?
«No, no. Lascia perdere», mormorò con tono quasi assente.
Mi faceva quasi pena. Quasi.
Prima che potesse andarsene, Peyton pensò bene di sferrargli il colpo finale.
«Quand’è che non hai impegni, quindi?».
Oh, no. No, no. Lui non... oh, merda.
Lo immaginai accigliarsi e scuotere la testa: «Che?»

«Pensavo stessi con Grayson».
Peyton scoppiò a ridere ed io sbattei sonoramente la testa contro il muro producendo un tonfo.
«Cos’è stato?».
Nonostante tutto sentii l’impulso di ridere.
«Kyle. Sta... ehm... cioè...».
Brava, fai la finta pudica.
«Ah, ho capito. Scusa se vi ho interrotti. Allora... uhm, vado».
«Carter, intendevo per le lezioni comunque».
«Che vuoi dire? Come sai delle lezioni?» domandò, allarmandosi di colpo.

«Perché ti dovrò fare da tutor».
Boom. Feci cadere uno flacone di shampoo che produsse un tonfo sordo.
«Sicura che Kyle stia bene?».
«Ma sì. È solo impaziente, sai com’è...», disse con un tono malizioso. Doveva proprio rendere tutto un po’ più... a luci rosse?
Carter si schiarì la gola, a disagio. «Dicevamo... pensavo fosse Nicole a dovermi dare lezioni».
Peyton annuì: «Sai, per la storia del ragazzo... insomma, probabilmente poi potrebbe ingelosirsi e Nicole vorrebbe evitare situazioni spiacevoli».
Quanto avrei voluto avere uno spioncino per verificare la sua reazione.
«Certo, capisco. In fondo, se ne sarebbero venute a creare anche con Courtney. Non scorre buon sangue tra di loro».
«Vero. Be’, non scorrerebbe buon sangue neanche tra me e la tua ragazza se lei fosse andata a letto con il mio primo amore».
Boom. Scivolai contro la parete. L’avrei ammazzata. Quello era troppo.
«Sì? Io... non avevo idea». Che tono era quello? Che cazzo di tono era quello? Mortificato? Grave? Cosa?!
«Non potevi saperlo».
«Peyton, secondo te mi ha perdonato?».
Pensai si stesse grattando nervosamente il braccio o si stesse scompigliando i capelli.
«Non credo, Carter. Ha bisogno di tempo. L’hai ferita. Doppiamente rispetto a Travis».
«Travis?».
«L’ex», si ritrovò a precisare.
«Non era mia intenzione».
«Non lo è mai. Devo andare, Carter. Passa domani pomeriggio verso le tre, magari riesci a beccarla».
«No, preferirei non vederla per il momento. Le puoi dire solo che sono realmente dispiaciuto e che be’... avrei voluto che le cose tra di noi fossero andate diversamente».
Peyton, diglielo. Digli di fermarsi. 
«Dovrebbe tornare a momenti. È meglio che chiariate subito» propose allora la mia amica.
«Be’, se dovesse tornare presto, dille di andare al laghetto». Percepii come una nota speranzosa nelle sue parole.
«Lo farò».
«Grazie, Jeffrey».
Poi la porta venne chiusa. Ed io ripresi a respirare.

                         

* * *


Se andai al laghetto? No, non lo feci ma qualcuno mi disse che lui ci avesse sperato fino all’ultimo minuto. Mi sentivo un po’ stronza ad essermi comportata così, quindi quello stesso giorno mi recai da Ven per comunicarle che avrei preso il posto di Peyton come tutor. Avevo solo bisogno di tempo prima di riprendere la mia solita routine. Anche se adesso all’interno di questa c’era un carattere del tutto nuovo.
«Sei sicura? Sai che non ti costringerei mai a fare qualcosa contro il tuo volere».
«Ven, facciamolo».

Via il dente, via il dolore, no?
«Questa è la mia bambina!».

Avevo appena confermato la mia condanna a morte o alla disperazione in questo caso.

Folle ed incosciente ragazza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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