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PRIMA
PARTE
“Stige,
figlia di Oceano, generò,
unita a Pallante,
Rivalità e
Vittoria dalle belle
caviglie,
dentro il palazzo di
lui,
e Potere e Forza
generò,
illustri suoi figli,
lontano dai quali
Zeus non c’è
casa né sede,
né
c’è via per cui ad essi il Dio
non comandi,
ma
sempre presso Zeus che tuona profondo hanno
la loro dimora”.
-
Esiodo
La prima volta che incrociai il
suo sguardo, mi trovavo nella mensa della scuola, di fronte alla
vetrina in cui
erano esposti i piatti del giorno. Non ero mai stata una che si metteva
in
mostra; ero per lo più un volto anonimo di una popolare
scuola del Massachusetts,
Stati Uniti. Ovviamente non
avevo scelto io di frequentarla. Diciamo che grazie – o
dovrei dire, a causa –
dei quattrini di mio padre godevo di ottimi privilegi ed in uno di
quelli era
compresa la scuola. Nessuno, tuttavia, mi conosceva, né
aveva ancora capito che
fossi la figlia del senatore. Questo, perché avevo sempre
portato una falsa
identità. Per tutti ero Nicole Parker. In realtà
il mio nome era Janel
Rothenberg. Comunque, con un vassoio alla mano, scrutavo il menu,
facendo
oscillare gli occhi dalle zucchine gratinate alle carote bollite.
Inutile dire
che non avessi molta scelta. Perciò optai per una semplice
insalata verde mista
a qualcosa che ricordava vagamente la mozzarella. Il punto non era
certo cosa
mangiai quel giorno o come condii il suddetto piatto.
«Signorina Parker, veda di darsi una mossa. La fila
è lunga e gradirei chiudere
la cucina il più presto possibile», mi fece notare
la cuoca, una donna alta e
dai capelli rossastri, probabilmente unti e odoranti di
frittura.
Cercai di fare un sorriso e posati i palmi alle estremità
del vassoio, lo alzai
facendolo oscillare a causa della mia poca grazia, cosa che mi fece
spalancare
gli occhi per lo spavento. Dio solo sapeva che cosa sarebbe accaduto se
avessi
lasciato cadere il pranzo.
Non potevo certo permettermi di
fare una figura pietosa in mezzo ad una mensa gremita di studenti.
Sarei
divenuta lo zimbello all’istante.
«Oh, Court, guarda chi
c’è...», fece Samantha Byron,
piazzandosi davanti a me.
Samantha era una spilungona dai capelli e dalla carnagione scura, seno
giunonico e tacchi vertiginosamente alti. Courtney Sullivan, sua amica
più
stretta, era la sua antitesi. I capelli color biondo platino,
probabilmente
tinti, le ricadevano sulle spalle in maestosi boccoli. Per quanto
riguardava
gli occhi erano di un colore simile al caramello, per non parlare della
loro
forma; tutti le attribuivano il soprannome “occhi da
cerbiatto” e naturalmente
ad una bellezza sconvolgente come quella della Sullivan non poteva che
aggiungersi un incarnato diafano, quasi porcellaneo. Al contrario di
Samantha,
quella mattina indossava una mise sportiva che le calzava alla
perfezione. Dei
semplici jeggings color verde petrolio le fasciavano le gambe lunghe e
slanciate ed una maglia, anch’essa semplice, monospalla,
lasciava intravedere
un pezzo di pelle; per concludere l’opera ai piedi calzava
delle sneakers.
Bisogna dunque far presente che Sam e Courtney erano nate per dare il
tormento
agli studenti - ed io, sfortunatamente non ero un'eccezione - anche se
non mi
spiegavo bene il perché. Insomma, ero convinta che se
avessero saputo di chi
fossi figlia, mi avrebbero trattata come una di loro, ma io non avevo
nessuna
intenzione di far saltare la mia copertura per poter entrare nelle loro
grazie.
Anzi, avevo intenzione di distaccarmi il più possibile da
loro.
«Oh, guarda chi è
arrivata!»,
replicai io a tono.
«Samantha Byron con il suo
metro
e novanta sproporzionato e la sua spalla destra Courtney Sullivan.
Spero che vi
siate passate qualche malattia spalmandovi quell’intruglio
che tanto vi
ostinate a chiamare lucidalabbra».
Non mi spiegavo proprio perché lo portassero identico.
Neanche fossero sorelle
da potersi scambiare gli oggetti.
Samantha ridusse gli occhi a due fessure, senza scomporsi di una
virgola.
L'intento era che finisse per
incazzarsi e gonfiasse le guancie come una bambolina di porcellana,
quale era.
Giusto per il gusto di provocarla.
Lentamente inclinò la testa da un lato, come se stesse
meditando qualcosa. E ne
ebbi la conferma quando il vassoio che tenevo in mano si
rovesciò sulla
sottoscritta, sporcando e ungendo T-shirt e jeans e costrigendomi a
fare un
salto indietro per la sorpresa.
Non le avrei mai dato la
soddisfazione di dimostrarmi umiliata, anche se sentivo gli occhi
cominciare a
pizzicare.
Boccheggiai più di una volta mentre sentivo gli occhi di
tutti i presenti
addosso a me ed un “oh”
generale.
Feci un rapido giro della sala finché i miei occhi di un
comune color castano
tendenti al nocciola non andarono ad incatenarsi in quelli di un
ragazzo che
non avevo mai notato prima. Il cappuccio della felpa nascondeva i
capelli ma da
quel che potei intravedere dal volto non vi scorsi alcuna emozione;
appariva
del tutto indifferente.
Courtney scoppiò a ridere istericamente, con tanto di mano
davanti alla bocca,
cosa che la fece sembrare ancora più gallina di quanto
fosse. Dal canto mio,
non sapevo cosa fare perché mai era capitato che Samantha
arrivasse a tal
punto. Solitamente i nostri litigi si concludevano con qualche
battibecco e
nulla di più.
«Mi sa proprio che ti serve una doccia, Parker»,
sentii urlarmi da dietro.
Quando mi voltai per vedere il proprietario di quella voce, feci
comparire un
sorriso sulle labbra, che tremarono leggermente. Colton Byron.
Quarterback
della squadra di football nonché ragazzo più
popolare dopo Samantha. Non a caso
i due erano fratelli gemelli. Quella mattina uno dei due Byron
non l’avrebbe
certo passata liscia. Fortunatamente, nella caduta, si era salvata la
bottiglietta di succo d’arancia rossa che prontamente
afferrai da terra e
svitai, mentre percorrevo a grandi falcate la distanza che mi separava
da
Colton.
«Ehi, sfigata, che vuoi fare?», chiese con fare
ironico facendo sghignazzare i
suoi compagni di squadra.
Con un sorriso che sembrava uscito da una pubblicità di
dentifrici sbiancanti,
rovesciai il contenuto sui capelli del ragazzo, impregnando anche la
maglietta
e causando dei mormorii lì attorno, con gemiti di
apprezzamento annessi da
parte di alcune ragazze “nitrito” di seconda.
Scattò in piedi come scottato ed
il suo sguardo slittò da me alla folla curiosa che osservava
la scena alcuni
godendo.
«Non sai in che guai ti sei andata a cacciare,
Parker», mi minacciò, puntandomi
contro un indice.
Mi strinsi nelle spalle, sentendo un nodo alla gola che mi impediva di
deglutire e schivando i pezzi di lattuga al suolo, mi allontanai da
lì,
fuggendo nel cortile per dare sfogo alle mie emozioni.
*
* *
Avevo sempre adorato il retro
della scuola, non molto lontano dal campo di football. Vi era una rampa
di
gradini che la squadra solitamente usava per tenersi in forma; tuttavia
dopo
pranzo non vi andava nessuno. Era il posto dove preferivo rifugiarmi a
comporre
musica, disegnare o scattare fotografie per l’annuario. In
quel posto, tutto il
resto si annullava.
Quella mattina, dopo aver subìto quella vera e propria
umiliazione e dopo
essermi riscattata a mio modo, corsi come sempre sul gradino
più alto e poggiai
la schiena contro il muro di cemento.
Infilai le cuffiette nelle orecchie ed azionai la riproduzione casuale.
Infine,
pescai dalla borsa a tracolla la mia adorata macchina fotografica,
iniziando a
cercare con lo sguardo il soggetto perfetto. Chiusi un occhio e portai
la
macchinetta dinanzi a quello aperto mentre ondeggiavo dal campo da
football al
prato falciato del collegio. Scattai qualche foto bozza al gruppo di
cheerleaders, intente a provare una piramide. Anche se Samantha ne
faceva
parte, l’annuario ed il giornalino scolastico per me erano
molto importanti
perciò mettevo sempre i rancori da parte in quelle
circostanze.
Dal momento che non c’era nulla di interessante da
immortalare, posai la macchinetta
accanto a me e cominciai a canticchiare qualche stralcio di canzone,
chiudendo
gli occhi.
«Lo sai che stai occupando il mio posto?».
Sussultai nell’udire quella voce e d’istinto mi
scivolò una cuffietta sulla
gonna di raso blu. Aprii gli occhi di scatto e schiusi le labbra in
un’espressione alquanto sorpresa. Perché quello
strano ragazzo che avevo
intravisto in mensa per puro caso, adesso mi stava rivolgendo la
parola? Ma
cosa più importante, chi diavolo era per interrompere il mio
attimo di relax?
«Scusa?», replicai, facendo una smorfia e
arricciando il naso.
Il ragazzo sospirò e prese a guardarmi da sotto le lunghe
ciglia, indicando con
un cenno del mento il posto in cui ero comodamente seduta.
«Stai occupando il mio posto. Ti dispiace andare a rilassarti
qualche rampa più
in là?».
Annuii. «Sì che mi dispiace. Questo»
– dissi, alludendo al posto –
«è sempre
stato il mio rifugio. Perciò sei tu a dover
sloggiare».
Lo sconosciuto si morse un labbro, reprimendo una specie di sorriso e
poi si
scompigliò i capelli. Come se non fossero già
disordinati per conto loro.
«Aspetta...». Tamburellò il dito sul
mento con aria assorta. «Sei la ragazza
della mensa». D’un tratto vidi i suoi occhi
illuminarsi.
In quel momento desiderai che un varco si aprisse proprio sotto di me e
mi
risucchiasse.
Addio tentativi di passare
inosservata. Girai il viso verso destra senza rispondere ed incrociai
le
braccia al petto.
«Be’, che aspetti? Comincia pure a farti beffe di
me...», cominciai. «Sono
sicura che non aspetti altro».
Lo sconosciuto sgranò gli occhi e si inumidì le
labbra. Cercai di non mostrare
segni di cedimento e fare così la figura della deficiente
totale.
«Cosa ti fa pensare che vada dietro a queste sciocchezze? In
tutta onestà, Strange,
vorrei che liberassi il mio
posto e che ognuno riprendesse ad ignorarsi come un attimo
fa».
Un attimo... mi aveva chiamata “Strange”?!
Solo allora decisi di osservarlo, spinta da un istinto ignoto. La prima
cosa
che notai furono i suoi occhi, di un sorprendente colore scuro, due
iridi
profonde e quasi imperscrutabili che alla luce del sole sembravano
quasi
brillare oltre che inquisirmi.
Indossava la tipica camicia
collegiale, solo che appariva abbastanza sgualcita; le maniche di
quest’ultima,
infatti, erano state arrotolate sugli avambracci e la cravatta era
allentata
insieme al bottone del colletto, che lasciava intravedere il colore
della sua
pelle scura. I capelli castani, ancora, apparivano disordinati e gli
davano un
tocco di ribellione e mistero. Quanto alle labbra, infine, erano
leggermente
rosse, segno che le mordeva spesso. Probabilmente fu il suo sguardo a
spingermi
ad alzarmi; detestavo essere fissata con piglio accusatorio e
interrogativo.
Subito un quesito destò la mia attenzione: dove cavolo era
stato nascosto quell'Adone
fino a quel momento? Dovevo complimentarmi con lui per il lavoro
perfetto
dell’anonimato e magari avrebbe potuto anche darmi qualche
dritta dato che io
stavo fallendo miseramente.
«Strange?». Non mi spiegavo ancora
perché la sua voce giungesse alle mie
orecchie ovattata. Non fino a quando persino la sua mano venne
sventolata
davanti ai miei occhi, facendomi sobbalzare. Non potevo crederci. Gli
avevo
appena fatto un’attenta radiografia e lui, a giudicare dal
ghigno che gli si
era formato sulle labbra, se n’era accorto.
Che figura...
Arrossii fino alla punta dei capelli e mi schiarii la voce quasi
istintivamente.
«Se tu hai finito di fissarmi come se volessi saltarmi
addosso da un momento
all’altro, io procederei con le
presentazioni».
Presi fuoco ancor di più, se possibile. Infine, scossi la
testa con veemenza,
saltando in piedi. Per poco non feci fare un volo alla mia adorata
macchina
fotografica ed al mio i-Pod.
Adesso che ero in piedi il ragazzo che avevo davanti mi era sembrato
ancora più
alto. Non che ci volesse molto per superarmi visto il mio metro e
settanta
scarso.
Lui, in ogni caso, alzò le mani con i palmi rivolti verso di
me. Sembrava
essere rimasto sorpreso dalla mia reazione.
«Vorrà dire che rimarrai 'strange', fino a che non
scoprirò il tuo nome».
Non avevo intenzione di fermarmi un minuto di più.
«Non servirà neanche
Strange,
stanne sicuro. Tu ed io non ci siamo mai incrociati né ci
incroceremo
mai».
Raccolsi frettolosamente la mia roba mentre sentivo il suo sguardo
insistente perforarmi
la schiena.
«Ho detto qualcosa di male?», chiese, mordendosi di
nuovo il labbro e
accigliandosi leggermente.
Finsi un sorriso. «Non sei tu. Sono io. Devo
andare», lo congedai, saltando giù
dalla rampa alla velocità della luce, rischiando di rompermi
l’osso del
collo.
«Ehi, aspetta!», sentii chiamarmi da dietro. Non mi
voltai.
«Strange, hai dimenticato...».
Quelle parole mi arrivarono come un sussurro in
lontananza. Non importava.
Di qualunque cosa stesse parlando non importava.
«...ciondolo»,
concluse in un
sussurro il ragazzo a nessuno in particolare.
*
* *
Purtroppo quella non fu la prima
ed ultima volta che mi ritrovai a conversare con lui.
Era capitato una seconda volta nell’aula del professor
Roberts ed una terza
volta al corso della professoressa Kingsley.
In realtà, non sapevo che per anni l’avessi avuto
nella stessa classe e che mai
mi fossi accorta di lui e viceversa.
Probabilmente troppo presi dal voler risultare asociali, nessuno dei
due si era
accorto dell’altra. E ad onor del vero, mi stava
più che bene, quella
condizione.
Da quel fatidico incontro dietro la scuola, più di una volta
quegli occhi color
pece avevano popolato i miei sogni e più volte mi ero
ritrovata davanti piccoli
flash del suo ghigno.
Avevo ammesso già la prima volta che avesse un bel sorriso.
Per non parlare del
fatto che qualche volta avesse cercato addirittura di braccarmi in
corridoio o
di attirare la mia attenzione ma io ero sempre riuscita ad evitare ogni
contatto ed ogni incontro.
Lo ignoravo bellamente e ne andavo fiera. Eppure lui sembrava non
desistere dal
volermi parlare.
Era un mercoledì pomeriggio
ed
ero nel laboratorio di fotografia per sviluppare gli ultimi scatti, che
ritraevano gli allenamenti di football e di cheerleading. Non riuscivo
proprio
a spiegarmi come a tutti gli studenti potesse piacere quella roba.
Troppo
concentrata nelle mie faccende non mi accorsi che avevano bussato alla
porta
prima che questa venisse spalancata, facendo entrare un fascio di luce
che
sicuramente avrebbe deteriorato ogni fotografia appesa e da poco
sviluppata.
«Merda», sussurrai, correndo a chiuderla
velocemente e ad inveire contro il o
la pezzente che stava tentando di rovinare il mio lavoro.
Mi arrestai quando notai con rammarico che era stato proprio quel lui ad avermi interrotto. Sbuffai e mi
strofinai gli occhi, sorridendo stancamente. «Che
vuoi?».
Sapevo che prima o poi il momento di affrontarlo sarebbe arrivato e
stava
accadendo proprio in quel momento. Alla fine, dove sarei potuta fuggire
senza
aver raccolto prima tutte le mie cose?
«Speravo di poterti trovare qui, Strange»,
iniziò tenendo le braccia incrociate
e scrutando l’ambiente con gli occhi. Decisi di chiudere la
porta dietro di
lui. Per nulla al mondo avrebbe rovinato i miei scatti perfetti con la
sua
improvvisa quanto indesiderata comparsa.
«Il fatto è che sei così prevedibile!
È bastato chiedere a Peyton Jeffrey ed
eccoti qui». Sorrise.
Quella pettegola...
Mi appuntai di andarla ad uccidere, una volta uscita da quella stanza.
Annuii,
mordendomi l’interno guancia e presi a trafficare con le foto
appese al filo.
Era più un’occasione per distrarmi dai suoi occhi
ipnotici.
«E così è questo che fai, dopo ogni
lezione», commentò, passando in rassegna le
foto già sviluppate.
«Senti, si può sapere cosa diavolo vuoi dalla
sottoscritta? È da quel maledetto
giorno in mensa che per puro caso ho incrociato il tuo sguardo che
adesso ti
ritrovo sempre tra i piedi. Dannazione, non so neanche il tuo
nome!», sbottai,
in preda ad una crisi isterica.
Le sue labbra lentamente formarono una “o” perfetta
ed io repressi l’istinto di
strapparmi i capelli. Era una distrazione bella e buona, quel tizio.
«Strange...»
«Ti ricordo che sei stata
proprio
tu a non voler che ci presentassimo come si deve. E comunque io so il
tuo
nome».
Non mi stupivo più di tanto.
«E allora perché continui a chiamarmi
“Strange”?», mormorai abbassando gli
occhi al suolo.
«Perché ci ho fatto l’abitudine.
Dài, non stiamo a puntualizzare. Avanti... so
che vuoi chiedermelo. Non ti mangio, mica!»,
esclamò aprendo le braccia in un
gesto ampio.
Avevo capito che alludeva al suo nome. Ma io non ero ancora sicura di
volerlo
sapere. Presi a torturarmi il labbro inferiore ed a ticchettare con un
piede
per terra.
«Te l’ho
già detto. Non mi
interessa».
«Bene. Vorrà dire che non risponderò
alle tue domande».
Fece per andarsene ed io mi trovai ad esclamare come
un’idiota: «Aspetta!».
Nonostante la luce soffusa, riuscii ad intravedere
l’ombra di un sorriso.
Un sorriso vero. Nulla a che vedere con quello del primo giorno.
Voltandosi
nella mia direzione, dei ciuffi ribelli gli finirono davanti agli occhi
ed io
strinsi la presa sul labbro. Chiusi gli occhi e sospirai.
«Come ti chiami, di grazia?». Strinsi i denti
mentre pronunciavo quella
domanda.
«Ce ne hai messo di tempo, cara la mia Strange»,
rispose palesemente ironico e
con fare teatrale.
Repressi un sorrisetto e sviai lo sguardo per non farglielo capire.
Ero una pessima attrice.
«Non c’è bisogno che lo nascondi.
L’ho visto, sai?», mi canzonò, facendomi
l’occhiolino.
Alzai gli occhi al soffitto mentre affiorava un secondo, prepotente,
sorriso.
«Comunque, piacere, sono Weston Carter», aggiunse,
tendendo una mano nella mia
direzione, a separarci solo il tavolo da lavoro.
La afferrai, anche se un po’ restia e la strinsi.
Deglutii. «Nicole Parker».
Ogni volta che mi presentavo non riuscivo a guardare l’altra
persona negli
occhi. Avevo paura che potesse leggere nel mio sguardo che stessi
mentendo. Non
potevo permettermi una cosa del genere.
«È interessante?», mi
domandò, seguendo la mia traiettoria, verso il soffitto.
«Cosa?», replicai assente. Era così
bello e confortevole stringere la sua mano
grande e calda.
«Il soffitto, dico. Lo fissi in continuazione».
«Ah. Be’...». Per la prima volta in vita
mia, rimasi a corto di parole. Non mi era
mai successo, neanche con Samantha, Courtney o Colton.
«Facciamo che me lo dici un’altra volta,
okay?», venne in mio aiuto.
Contemporaneamente increspò le labbra in un gesto quasi
impercettibile. Lo
ringraziai mentalmente e fissai le nostre mani ancora intrecciate.
«Che ne dici se mi lasci andare la mano?», proposi,
sentendo le gote andare in
fiamme.
«Ma Strange, fino a prova
contraria, sei tu che sei arpionata alla mia».
Quel ghigno. Quel detestabile ed
– adorabile – ghigno che mi
mandava fuori di testa. Dovevo uscire di lì.
Staccai violentemente la mia mano dalla sua e cominciai a mettere a
posto
tutto, alla velocità di Speedy Gonzales.
«Non ho detto che dovevi staccarti»,
affermò, dopo un po’, aggrottando la
fronte.
«Ora rispondimi. Cosa diamine vuoi da
me?». Mi fermai e posai i palmi sul
tavolo di compensato.
«Non vedevo l’ora che mi facessi questa
domanda».
Ignorai la sua espressione gongolante e gli feci cenno di continuare.
«Vedi... », cominciò, mutando
completamente umore.
Era la prima volta che lo vedevo
sotto quella strana luce. Sciolsi l’intreccio delle mie
braccia, lasciandole
cadere lungo i fianchi e rimasi sorpresa. Era davvero a disagio? Lo
stesso
ragazzo dal ghigno derisorio e l’aspetto da bad boy?
Assurdo.
«C’è una ragazza»,
continuò, torturandosi i capelli. Persi un battito. In
quella scuola c’erano praticamente più vagine che
altro, mi ritrovai ad
ammettere un attimo dopo.
«Carter», soffiai, impaziente.
«Arriva al punto. Ho da
fare».
«Sì, dicevo... c’è questa
ragazza che mi piace da un po’ ma è come se non
volesse cedere al mio fascino. Voglio dire... alla mia vecchia scuola
le
ragazze si strappavano i capelli pur di attirare la mia attenzione. Ma
lei, lei
fa la difficile, diciamo».
Non sapevo se scoppiare a ridergli in faccia o spronarlo a continuare.
Nel
dubbio, non fiatai.
«Non per vantarmi», soggiunse, accompagnando la
frase con un gesto della mano.
Sgranai gli occhi e sarcasticamente affermai: «Mai
pensato».
«In ogni caso, vorrei che tu mi dessi una mano».
Io, cosa?! Mi strozzai con la mia stessa saliva.
«Cosa?!». Alzai la voce di un’ottava.
«E poi, chi sarebbe questa ragazza tanto
difficile?».
Carter mi fissò a lungo senza lasciar trapelare alcuna
emozione. Era ritornato
ad essere lo stesso ragazzo della prima volta.
«Courtney Sullivan».
Mi sfuggì un singulto strozzato. Poi presi a tossire
convulsamente.
Quando incrociai di nuovo i suoi occhi, vidi che era serio e mi
scrutava con un
sopracciglio inarcato.
Per chi cazzo mi aveva presa? Per una scema? E poi, sì, feci
quello che avevo
cercato di evitare. Scoppiai a ridergli in faccia. Fino alle lacrime.
«Bell’amica», sentii dire tra
sé e sé, tra una mia risata e l’altra.
«Ma io non sono tua amica. Né lo sarò
mai».
Okay, non volevo risultare così cattiva, però...
va bene, non sapevo neanche io
cosa mi avesse spinto a fare l’antipatica.
«Devo andare, a proposito», conclusi bruscamente,
prendendo la borsa con
l’occorrente e posizionandola in spalla.
«Nicole?».
Era la prima volta che pronunciava il mio nome. E provai una fitta
inspiegabile
al petto sapendo che non era neppure quello vero. Sentii di conseguenza
la
presa ferrea sul mio braccio e con uno strattone mi allontanai.
Carter sbatté le palpebre parecchio confuso:
«Okay, cosa è successo?».
«Niente».
«Strange...».
«Smettila di chiamarmi così», sbottai,
alterandomi.
«Va bene, va bene... Nicole», si corresse.
«Cosa ti costa aiutarmi?», domandò
incredulo.
Ma faceva sul serio? Mi sforzai come al solito di fare un sorriso e
mantenere
la calma. «Insomma... hai visto anche tu cosa è
successo quel maledetto giorno
in mensa, vero?!».
«Dannazione, lo sapevo, lo sapevo. Sapevo che era tutto un
piano di Samantha
per farmi sentire una cretina. Dovevo continuare ad ignorarti. Stupida.
Stupida. Stupida», ripetei a me stessa come se fossi
posseduta. E addio
tentativi di risultare pacata.
«Nicole, ehi... Nicole», tentò di
chiamarmi. Ma io avevo già inforcato la porta
e mi stavo allontanando, scuotendo la testa.
«Senti, voglio che tu mi lasci in pace, okay? Spero che possa
far innamorare
quella stronza e spero che ti faccia soffrire come ha fatto con me e
tante
altre persone».
«Nicole... ma che stai dicendo?», sbottò
anche lui, ora visibilmente incazzato.
Pure? Ero io quella che
c’era
cascata.
«Sai, cosa? Sei uguale a lei. Fareste proprio una bella
coppia», sibilai con il
mio tono più freddo.
Poi, iniziai a correre verso il dormitorio, mentre lacrime traditrici
mi
appannavano la vista.
*
* *
Peyton Jeffrey altri non era che
la mia unica vera amica lì al collegio. Era completamente
diversa da me.
Ciononostante avevamo legato sin dal primo giorno, durante il discorso
di
benvenuto della preside. Era l’unica a conoscenza della mia
vera identità e
l’unica di cui riuscissi a fidarmi. Per questo le raccontai
quanto accaduto con
Weston Carter. Inizialmente mi strinse forte tra le braccia,
permettendomi di
sfogarmi, poi cominciò a chiedermi scusa perché
in parte si sentiva in colpa
per aver svelato a West che mi trovavo in laboratorio, per ultimo mi
disse che
secondo lei avevo frainteso tutto e che comunque Carter non sembrava
interessato minimamente ad una come Courtney. Ero consapevole comunque,
che lo
diceva con la speranza di farmi stare meglio. Anche se io sapevo
– tutti
sapevano – che
Courtney Sullivan fosse
una delle ragazze più belle del collegio. Rimaneva il fatto
che fossi,
inspiegabilmente, rimasta delusa da Weston Carter. Non mi aspettavo
affatto che
si potesse invaghire di una come lei. Tutti erano al corrente che si
comportasse da stronza, arrivando a risultare peggio di alcuni ragazzi.
Forse,
però, Carter non era da meno. Chi mi garantiva, in fondo,
che fosse un bravo
ragazzo? A stento sapevo il suo nome.
Era anche colpa mia se non sapevo altro di quel maledetto.
Me ne stavo in biblioteca insieme a Peyton, quando un ragazzino di
prima si
avvicinò avvisandomi che la preside Chamberlain desiderasse
vedermi.
Non mi scomposi perché sapevo di non aver fatto nulla e che
Ven, la preside,
era una cara amica di mio padre. Naturalmente anche i collaboratori
scolastici
erano a conoscenza di chi fosse il mio tutore e quindi io. Anche se
tutti si
impegnavano a mantenere il segreto.
«Psst... che hai combinato?», bisbigliò
la mia amica, dandomi un colpetto con
il gomito.
Scrollai le spalle: «Faccende di papà,
presumo».
«Chiamami. Dopo», mimò con le labbra
facendo il gesto del telefono. Annuii e
seguii il ragazzino verso la presidenza. In tutta sincerità,
ignoravo persino
la sua posizione.
«Sicura che non ti sia cacciata nei guai?», si
informò il ragazzino.
«Certo». Decisi di mettere fino al discorso ed
affrettai il passo.
L’ufficio della preside Chamberlain ricordava molto quello
della centrale di
polizia di mio zio Wayne. C’era un’enorme vetrata
che in quel momento era
nascosta da una di quelle tendine tipiche delle stazioni di polizia; si
tirava
un filo e quella si chiudeva.
Bussai prendendo un respiro
«Avanti», rispose
la voce bonaria
di Ven.
Mi chiusi la porta alle spalle e sussultai quando vidi chi vi era
seduto su una
delle sedie.
Non lo vedevo dal nostro pseudo – litigio e non riuscivo a
capire che effetto
mi avesse fatto rivedere i suoi occhi così belli.
«Buongiorno» mormorai educatamente, prendendo
posto. Carter non si voltò a
guardarmi. Notai che non aveva smesso di toccarsi i capelli in quel suo
solito
tic nervoso.
«Ciao, Nicole. Ti starai chiedendo perché ti abbia
convocata qui, immagino»,
disse, ravviandosi i capelli neri e folti.
«Infatti».
«Be’... il signor Carter ha affermato che tu non
molto tempo fa abbia perduto
una cosa che sicuramente ha un valore importante».
Frugò nel cassetto della scrivania prima di tirar fuori un
ciondolo.
Mi si gelò il sangue nelle
vene.
Lui sapeva, allora.
Aveva senza dubbio guardato
l’interno del ciondolo. Me la consegnò ed io la
strinsi talmente forte da far
diventare le nocche bianche e da rischiare che mi bucassi la pelle. Dannazione.
«Nicole...», fece la preside. Ma io ormai non la
stavo più ad ascoltare. Non
potevo credere di essere stata così disattenta.
Maledizione!
«No», scossi la
testa. «Non è
possibile».
«Nicole, respira. Non è successo niente. Non era
questo il motivo principale
per cui ti ho mandata a chiamare».
Anche se a fatica, trassi un sospiro di sollievo. Non ero nei guai.
Menomale.
«Come seconda cosa, vorrei
affrontare con te l’accaduto della mensa. Mi è
stato riferito dal signor Byron
che tu abbia versato una bibita su di lui e che abbia
insultato gravemente
la sorella».
Sospirai. Ovviamente Colton aveva rigirato la frittata a suo favore.
«In realtà, è stata sua sorella a
cominciare. E sì, è assolutamente vero che io
abbia commesso quell’azione ma a mia discolpa posso dire che
sia stata sempre
sua sorella ad iniziare, rovesciandomi il contenuto del mio vassoio
addosso. È
stata legittima difesa».
«Nicole, sai bene che se c’è un
problema, di qualsiasi tipo, devo venirlo a
sapere subito. Così non mi aiuti e passi dalla parte del
torto. Ci sono dei
testimoni».
Chi, Courtney? Guardai istintivamente il ragazzo seduto accanto a me.
«Mi spiega cosa c’entra Carter in tutto
ciò?».
«È il testimone di cui ti parlavo. Insieme alla
signorina Sullivan».
Detto questo, avvicinò il
microfono collegato all’altra sala ed ordinò alla
segretaria di far entrare la
suddetta ragazza.
Mi cadde il mondo addosso. Letteralmente. Un colpo di pistola alla
tempia
avrebbe fatto meno male.
Courtney Sullivan entrò con un sorriso perfido stampato sul
volto. Al che mi
chiesi se Carter non avesse i prosciutti davanti agli occhi per non
accorgersi
di quanta cattiveria aleggiasse nella sua amata.
«Prego, Courtney, siediti», la invitò
Ven.
Subito ella prese una sedia e la trascinò tra me e Carter.
Dopo essersi seduta
ammiccò verso di lui e gli strinse la mano in una presa
possessiva. Poi mi
squadrò con aria di sufficienza. Repressi un conato di
vomito. Ripensai a
quando avevo stretto la sua mano per la prima volta e a quanto avessi
trovato
piacevole il suo contatto. E pensare che Courtney fosse così
fortunata da
neanche rendersene conto...
«Dunque? Sono in punizione?», mi informai,
fintamente annoiata. Più che altro
cercavo di evitare le smancerie dei due piccioncini.
Ven passò in rassegna prima me e poi loro e dal suo sguardo
costernato capii
che stava per dire qualcosa che non avrebbe mai voluto dire.
«Sì, Nicole. Dovrai aiutare Kyle Grayson a
falciare il giardino della scuola».
Conoscevo Kyle solo di vista ma avevo sentito dire da alcune persone
che fosse
vagamente interessato a me.
Vidi con la coda dell’occhio Carter stringere i pugni sotto
al tavolo tanto
impercettibilmente che pensai di essermelo solo immaginato.
«E quando inizierebbe questa tortura?», chiesi
alzando lo sguardo verso la
preside.
«Domani pomeriggio, dopo le lezioni».
Annuii e mi alzai.
«Posso andare?».
Ven si strofinò un pollice sulle labbra con aria assorta e
decretò che fosse la
Sullivan a doverci lasciare da soli. Lei, dopo aver stampato un bacio
sulle
labbra a Carter sculettò fuori dall’ufficio. In
quanto alla preside, ci disse
di attenderla un minuto mentre andava a prendere alcuni documenti in
archivio.
«Vedo che ce l’hai fatta anche senza il mio
aiuto», iniziai, giusto per rompere
il silenzio.
«Alla fine sì. Court è fantastica.
Migliora dopo che impari a conoscerla,
sai?».
«Stento a crederci», replicai ironica.
«Parli tanto di lei ma tu sei la prima ad avere
pregiudizi». Il suo tono ora
era tagliente. Non sembrava esserci traccia del Carter che avevo
conosciuto
allora.
«Saranno affari miei».
«Sei stata tu a volere che le cose andassero
così», sospirò, quasi risentito.
Alzò gli occhi al soffitto e scrollò la testa.
Era bipolare o cosa...?
«Io? Io?! Sono forse stata io a chiederti di farmi conoscere
uno dei ragazzi
più belli della scuola?».
«Mi devi spiegare dove è il problema se frequento
Courtney».
«Non c’è alcun problema,
Carter», scandii, gelida.
Prese un profondo respiro. «Chi è quella della
foto nel ciondolo?».
Rimasi senza parole. L’aveva vista, dunque. Strinsi il
ciondolo tra le dita,
chiudendole a pugno e stringendo tanto da farmi male. Carter se ne
accorse
perché inarcò le sopracciglia non riuscendo a
spiegarsi il mio gesto. Cominciai
a battere la gamba a terra nervosamente, sperando che Ven tornasse al
più
presto. Iniziavo a pensare che l’avesse fatto di proposito, a
lasciarci da
soli.
«Ti verrà un buco alla mano se stringi un
po’ più forte», azzardò.
Oh, che pensiero premuroso...
«Magari», borbottai, infastidita.
Per una manciata di minuti nessuno disse più niente.
«Sabato do una festa, se ti va di venire».
Feci un sorriso ironico. «Che pensiero gentile. Ma passo,
grazie».
Schioccò la lingua sul palato, palesemente irritato.
«Sei impossibile».
«Mi hanno detto di peggio».
Alludevo a Samantha e alla sua
ragazza, se non si fosse capito.
«Andiamo... lo sai che lo fanno solo per
provocarti».
Perché doveva difenderle? Perché non chiudeva
quella maledetta bocca?!
Scrollai le spalle, fingendo noncuranza. «Chi se ne
fotte».
«Nicole...» iniziò in tono ammonitore,
stroncato tuttavia dalla porta
cigolante.
Finalmente la preside era rientrata tenendo in mano alcune cartelline.
«Scusate ragazzi se vi ho fatto attendere».
Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia blu ed incrociai le
braccia
al petto.
«Be’? Avrei da fare», le feci presente.
«A proposito, Kyle sa già che devi raggiungerlo
domani».
Ven alzò gli occhi dalla
cartellina per godersi la mia reazione. Il fatto era che non ebbi una
vera e
propria reazione. Mi limitai ad annuire.
«Uhm, esattamente cosa dovrei indossare?».
«Una tuta da lavoro. Te la farò consegnare
più tardi in camera».
«Okay. Finito?», chiesi impaziente, alzandomi. Mi
ignorò.
«Weston, per quanto riguarda te, ho ricevuto lamentele da
vari professori»,
chinò gli occhi per leggere sul foglio alcuni nomi e poi
continuò:
«...Kingsley, Jefferson, Roberts, Samuels».
Scrollò il capo, come se non capisse dove volesse andare a
parare. «E...?».
«E devi iniziare a studiare o sarò costretta ad
assegnarti un tutor».
«Ho da fare il pomeriggio. Non posso perder tempo a
studiare».
Roteai gli occhi pensando alle tante cose che avrebbe dovuto fare.
«Tuo zio è stato
molto chiaro
quando ti ha lasciato qui. Mi sarei dovuta prendere cura di te e
intendo
rispettare la mia promessa».
«Che si fotta pure lui».
Ridacchiai non riuscendo a trattenermi notando l’espressione
esasperata della
preside.
«C’è poco da ridere, Nicole.
Perché sarai tu la sua tutor se non vedrò impegno
da parte sua», concluse indicandolo con un cenno.
Smisi di ridere, rischiando di strozzarmi con la mia stessa saliva:
«C–cosa?».
Vidi Carter mordersi un labbro con l’intento di non ridere.
Pessimo, pessimo attore. Lo avrei ucciso.
«Ciao, Ven». Si alzò ed si
avvicinò alla porta. Poi si rivolse a me. «Ciao,
Strange».
Sbuffai e subito dopo, Ven mi fece notare che avevo un sorriso che
andava da un
orecchio all’altro.
Stupido, stupido, Carter.
*
* *
Era finalmente giunto sabato, il
che voleva significare niente lezioni. Durante la settimana avevo
dovuto
aiutare Grayson e scontare la mia punizione che continuavo a sostenere
fosse
ingiusta. In quel lasso di tempo avevo imparato a conoscere Kyle. Non
era
affatto così pervertito come veniva descritto. Si era
rivelato un buon
confidente, alla fine. Anche se inizialmente avevo dovuto lanciargli
una sfilza
di occhiatacce per dei commenti poco carini sul mio conto, sapevo che
lo diceva
solo per provocare una mia reazione e non potevo negare che mi desse
fastidio;
così gli
avevo subito intimato di
smetterla. E così era stato.
Ad ogni modo, adoravo il sabato.
Non solo perché le lezioni si concludevano, ma
perché potevo dormire fino a
tardi senza dover incrociare per i corridoi la nuova coppietta che era
andata a
costituire uno dei più importanti gossip del campus.
Non a caso ero stata pregata da
più di una persona di dedicare loro un articolo in prima
pagina nella sezione
apposita. Ovviamente mi ero rifiutata di farlo. Non esisteva che mi
riducessi a
tanto.
Peyton si era rivelata essere in accordo con me per quanto riguardava
la
faccenda “punizione” e molte volte insisteva
perché mi accompagnasse al luogo
d’incontro. Io sostenevo che si fosse presa una cotta per
Kyle che dal canto
suo non sembrava disdegnare. Sarei stata felice se un giorno si fossero
messi
insieme.
Mi rigiravo da una parte all’altra del letto, incapace di
riprendere sonno. Avevo
dimenticato di spegnere la sveglia la sera prima e mi ero svegliata
presto.
D’altra parte non riuscivo a smettere di pensare
all’invito di Carter. Non
sapevo se accettare o rinchiudermi in camera fino alla fine del weekend.
«Hai finito di muoverti e fare casino? Quel letto
cigola!», si lamentò Peyton
con voce arrochita dal sonno.
«Mi dispiace, Pey».
Un attimo dopo, si udì uno sbuffo e in poco tempo Peyton si
era volatilizzata
accanto a me, sdraiandosi e reggendosi su un gomito.
«Notte insonne?».
«Secondo te dovrei andare alla festa di West?»,
domandai, mordendomi l’unghia
del pollice nervosamente.
«Nic! Quel figo ti ha invitata ad una festa e tu non mi hai
detto nulla?! Ma
certo che ci devi andare. Non capita tutti i giorni una simile
occasione».
«È che ho come l’impressione che ci sia
qualcosa di losco sotto. Ho paura che
sia un’altra trovata di Courtney e Samantha per vendicare il
fratello».
«E a te cosa importa? Ti è sempre scivolato tutto
addosso. Cosa è cambiato
adesso?». Peyton si accigliò. Poi come se avesse
avuto un’illuminazione divina,
annuì: «È per Carter».
Non me la sentii di negare. Non era necessario.
«La domanda è: lui ti piace?».
«Non lo so. Non credo».
«E allora dovresti andare alla festa. Chiedi a Kyle di
accompagnarti».
«Cosa? E a te non darebbe fastidio?», chiesi
sgranando gli occhi per la sua
bizzarra proposta.
Lei di risposta si strinse nelle spalle: «No».
«Per favore, Pey! Facciamo così: ci andiamo tutti
e tre insieme. Che te ne
pare?».
«Cosa?! Non sono stata invitata».
«Oh sì, invece», ribattei.
«Dovremmo trovare un vestito adatto».
«Secondo te a che serve avere un padre importante? Ci penso
io», risposi
strizzandole l’occhio.
Peyton mi abbracciò forte.
«È per questo che sono fortunata ad avere
te».
«Raggiungi Kyle e chiediglielo. Forza... che
aspetti?».
«Secondo te dovrei farlo?», chiese, mordendosi il
labbro.
Sorrisi. «Ovvio. Vestiti, dài».
«Ti voglio bene, Nicole».
«Anch’io, Peyton.
Anch’io».
*
* *
Non sapevo bene dove fosse l’alloggio di Carter o dove si
tenesse la fantomatica
festa, così mi affidai all’esperienza di Kyle
Grayson. Subito dopo essere
uscita Peyton, digitai il numero di Grant, tuttofare di mio padre e
amico di
famiglia.
Dopodiché cominciai a
spiegargli
la situazione e lui ridendo mi disse che fossi una folle. Anzi, che
fossimo due
folli; Peyton compresa. Lui sosteneva che la sua piccola e
cioè io, fossi già
perdutamente innamorata di Weston Carter. Io pensavo invece che avesse
preso un
enorme abbaglio. Comunque, mi assicurò che entro le quattro
del pomeriggio avrei
ricevuto quanto richiesto. Mi fidavo di Grant e del suo buon gusto, ma
più di
tutto mi fidavo ciecamente di Madame Kendrick, la mia stilista
personale. Entro
le quattro, avremmo avuto i vestiti più belli di tutto il
collegio. Riattaccai
con la scusa di dover anticipare un po’ di compiti e dopo
aver indossato dei
leggins con una maglia lunga ed essermi fatta una coda alta, decisi di
uscire
fuori a fare un po’ di jogging.
Con le cuffie alle orecchie in riproduzione casuale, il resto si
annullò ed
iniziai a correre.
Peyton mi aveva raggiunta al laghetto situato nei giardinetti della
scuola e in
fibrillazione mi aveva confermato che Kyle avesse accettato
l’invito. Mi aveva
raccontato anche che spinta da una gioia improvvisa gli era saltata al
collo e
lui anche se all’inizio un po’ sorpreso, le aveva
lasciato un bacio sulla
guancia che l’aveva fatta arrossire.
Ero felice per lei. Inutile negarlo.
«Sei sicura che ci si possa fidare di questa Madame Kersick?».
«Kendrick», la corressi. «E comunque
sì, vedrai. I nostri vestiti saranno i più
belli».
«Oh, sono così felice, Nic!»,
esclamò, abbracciandomi. Ultimamente lo faceva
spesso. Ruffiana...
«Sono contenta. Te lo meriti».
«Anche tu. Spero che un giorno tu possa trovare un ragazzo
bravo che ti ami per
davvero».
Storsi il naso in una smorfia: «Sai che non credo a queste
cose».
«Leggi i romanzetti della Austen ma non credi
nell’amore. Sei consapevole di
essere un controsenso umano, amica?». Rise.
«Che ci vuoi fare? Sono
complicata».
«Credimi, lo sanno tutti».
*
* *
Rincasammo insieme e dopo esserci
fatte la doccia, sentimmo bussare alla porta. Peyton si
infilò velocemente una
vestaglia e le pantofole e corse ad aprire.
«Signorina Parker, signorina Jeffrey, questo pacco
è per voi. Mi è stato
chiesto esplicitamente di consegnarlo a Nike»,
annunciò il custode Randy.
Peyton si aprì in un ampio sorriso, afferrando i vestiti in
una presa
possessiva. Io dal bagno, scossi la testa, ridendo.
Tipico della mia amica. Sentendo il soprannome affibbiatomi da Grant in
persona,
mi sfuggì un sorriso fugace. Quell’uomo era un
po’ come un secondo padre. Era
colui che c’era sempre stato; anche più di mio
padre. Un giorno aveva esordito
che mi avrebbe chiamata a quel modo poiché secondo gli
antichi Greci era il
nome della dea della vittoria. Ella incarnava anche il trionfo, ma non
li
procurava, bensì li sanciva, ponendo la corona
d’alloro sulla testa del
vincitore.
Comunque, non aspettavo altro che di vedere quanto si fosse superata
Rose
quella volta. Quella donna era un guru della moda.
Sentii Peyton ringraziare Randy e correre ad aprire il pacco con il suo
nome.
Il vestito che Rose aveva scelto per la mia amica era di un colore blu
elettrico che avrebbe messo sicuramente in risalto la sua carnagione.
Era senza
spalline, corto che scendeva a tubo e che si prolungava solo dalla
parte di
dietro. La parte che copriva il seno invece era color argento decorato
con
sfiziosi brillantini, mentre sull’estremità di
sotto vi era ricamata una
simpatica fantasia floreale.
Peyton era radiosa mentre lo contemplava.
Infine, diedi un’occhiata al mio ed ebbi la stessa reazione
della mia amica.
Non mi spiegai perché Grant avesse fatto recapitarmi proprio
quel vestito,
quello che avevo usato alla cena di debutto in società di
papà. Era piuttosto
semplice in effetti. Anch’esso era corto, smanicato, color
madreperla con
leggere sfumature di rosa tendente quasi al bianco. Dietro era
completamente
aperto lasciando intravedere una buona parte di schiena ed una porzione
dei
fianchi. Un po’ più su del seno sinistro vi era
una cucita una rosa che secondo
Rose e Molly, la mia tata
significava: «Sono fedele e degno di te».
Poteva sembrare una sciocchezza ma per me era importante. Dopo aver
indossato i
nostri vestiti, chiesi a Peyton di truccarmi leggermente e legai i
capelli in
una morbida treccia che ricadeva al lato della spalla.
La mia amica, invece, li arricciò un po’ facendoli
ricadere ondulati lungo le
spalle. Ad opera finita, fissavamo le nostre immagini riflesse nello
specchio.
«Ricordami di abbracciare Madame Kendrick», mi
confidò. Risi e pescai la
macchina fotografica per immortalare il momento.
«Siamo bellissime».
«Sì, lo siamo», concordò.
Dopo aver sentito il clic dello scatto, udimmo bussare alla porta.
Doveva
essere Kyle. Giusto in tempo.
Andai ad aprire io, essendo stata pregata da Peyton.
Lo salutai con un accenno di sorriso: «Ciao, Kyle».
«’Bomba, Nic! Sei uno splendore»,
ammiccò, facendomi ridere e fare una
giravolta su me stessa.
«Aspetta di vedere lei, allora». Mi feci da parte
per farlo entrare e la
reazione fu inaspettata. Appena incrociò lo sguardo di
Peyton, lei chinò gli
occhi a terra per celare l’imbarazzo.
Schiuse le labbra e fece uno strano movimento contorto con le
sopracciglia:
«Sei... sei bellissima, Jeffrey».
Io unii le mani e feci un verso di adorazione. Poi, quatta quatta
agguantai la
macchinetta e scattai una foto che sarebbe finita dritta in prima
pagina.
Peyton fissava il pavimento con aria innamorata, un angolo della bocca
era
rivolto verso l’alto; Kyle invece aveva la bocca semiaperta e
gli occhi
leggermente spalancati. Anche lui la guardava con sguardo sognante.
Il flash li fece voltare di
scatto per lo stupore, verso la sottoscritta.
«Ehi, ma tu non eri quella che: “Non credo a questa
roba”! - mi riprese lei.
«Vorrà dire che stasera farò uno
strappo alla regola».
«Allora, signorine, che ne dite di andare?». Kyle
alzò i gomiti perché noi vi
ci aggrappassimo.
Pregai di non fare brutte figure con quei tacchi che Rose mi aveva
consigliato
di indossare. Non li usavo da un po’ e avrei anche potuto
aver dimenticato come
si camminavano, per quanto ne sapevo.
Chiusi a chiave la stanza e mi strinsi nel giacchetto a tre quarti
azzurro che
avevo deciso di mettere per non morire di freddo. Sfortuna volle che
quella
sera menasse un’arietta dispettosa che mi solleticava la
pelle nuda.
«Sicura che non vuoi che torniamo a prenderti qualcosa di
più pesante?», si
accertò per la millesima volta la mia amica, notando che
battevo i denti.
«N –no... d–dentro s–si
starà b–bene. S–spero».
«Sei proprio testarda! Ti prenderai un malanno».
Feci un breve sorriso mentre entravamo nel dormitorio dei ragazzi.
Avevo cominciato a sentire la musica ad alto volume due dormitori fa.
Dovevo
ammettere che non era affatto il mio genere. Per me quelle erano solo
urla ammassate
a formare una sottospecie di lamento infinito.
«Che gusti orrendi», commentai, avvicinandomi
all’orecchio di Peyton che
scoppiò a ridere.
«Stasera però non conta, vero?».
«Vero».
«Hai già trovato il tuo lui?»,
si
informò alzando la voce di tre ottave per sovrastare il
fracasso.
Sbuffai e le diedi un pizzicotto.
«Lascia perdere, Pey. Anzi, non credo si stata una buona idea
venire».
Detto ciò andai a sedermi su un divanetto poco affollato.
«Ehi, che fai?!», sbottò sconcertata
come se avessi fatto un errore madornale.
«Mi siedo?», replicai ovvia.
«Ma come... non vieni a ballare?»,
domandò dispiaciuta sporgendo il labbro
inferiore in fuori.
«Divertiti con Kyle. È la vostra
serata!», le risposi.
«Sei sicura? Non mi va di lasciarti da sola».
«Me la caverò. L’ho sempre
fatto».
Peyton mi strinse una mano come a darmi conforto e poi scomparve tra la
folla a
ballare con Kyle.
Sospirai, chiedendomi che diavolo fossi andata a prendere in quel posto.
«Bevi?». Sentii
chiedermi da
qualcuno.
Scossi la testa: «Acqua».
Lo sconosciuto rise di gola: «Vai ad una festa per bere
acqua? Caspita se sei
strana».
Mi strinsi nelle spalle. Strana.
Già.
Peccato che chi volevo mi chiamasse così era
chissà dove a fare chissà cosa.
Neanche stessi parlando del
diavolo, mi ritrovai a sentire la sua voce roca e fottutamente
carezzevole.
«Strange?!».
Persi uno, due, tre, quattro battiti. Spalancai gli occhi e mi portai
una mano
sul petto, per lo spavento. Infine, rabbrividii.
«Carter», sussurrai avvampando vistosamente.
«Che... cosa cazzo ci fai qui?». Solo io avevo
udito il tono aggressivo e
notato la vena del suo collo ingrossarsi?
Cinque, sei, sette...
«Be’, mi hai invitata. Sono venuta»,
tentai di sdrammatizzare.
Otto, nove, dieci...
Si strofinò una mano sulla fronte: «Cazzo, avevi
detto che non saresti
venuta!», annuì come uno psicopatico:
«Sì, lo hai detto».
«Sono con Peyton e Kyle», dissi semplicemente,
desiderando però farmi piccola,
piccola.
«Chi li ha invitati?».
Deglutii. Mi stava mancando l’aria. Sentivo gli occhi umidi e
non credevo fosse
per il fumo che aleggiava lì attorno.
Indietreggiai.
Continua a
contare, Nicole, conta! Undici, dodici, tredici
respiri.
«Amore, auguri!»,
esclamò una
voce civettuola arpionandosi ad una spalla di Carter, prima di farlo
voltare e
cominciare a baciarlo aggressivamente, con tanto di lingua.
Uno, due, tre passi indietro.
Scrollai il capo e scacciai con un gesto fluido le lacrime.
«Non sapevo che... oh», annuii tra me e me.
Perché non mi aveva detto che fosse il suo compleanno? Non
gli avevo preso neppure
un regalo!
«Non ci credo! Sei la Parker?!», fece sorpresa
Courtney. Aveva un tubino nero
piuttosto scollato davanti che metteva in risalto tutta la
mercé.
«Già».
«Colton!». L’interessato la raggiunse,
facendo finta di nulla. Non mi aveva
ancora notata.
«È la Parker. Guardala. L’avresti mai
detto? È più bella di Sammy
doo, stasera». Lanciai un’occhiata
furtiva a Sammy doo che si
spiaccicava addosso ad un ragazzo, apparentemente ignara di tutto.
Presi a fissare Courtney con aria
dubbiosa non accorgendomi che Byron stesse osando osato troppo
allungando le
mani sul mio fondoschiena. Fu un attimo, ma scorsi un lampo negli occhi
di
Carter.
«Leva le mani di qui, stronzo», dissi, mollandogli
uno schiaffo sonoro. Colton
prese a massaggiarsi la parte lesa mentre mi giurava con gli occhi
vendetta.
«Tutto bene, Nic?». Peyton mi raggiunse insieme a
Kyle.
«Vuoi che gli spacchi la faccia?», si
offrì quest’ultimo.
Negai. Niente risse. Non volevo rovinare certo un compleanno. Non a
causa mia e
non quello di Carter.
«Ce ne andiamo, Nicole?».
«Se volete, potete restare. Io... mi gira la testa. Vorrei
andare a togliermi
questi dannati trampoli».
«Ti accompagniamo. Non è indicato camminare da
sola per il collegio di sera».
Annuii. Poi incrociai lo sguardo di Weston che stringeva
possessivamente il
fianco di Courtney e piegai un angolo della bocca in giù.
Ero delusa.
Disgustata. Qualcosa del genere.
«Buon compleanno, Carter e... scusami. Per tutto».
Non seppi perché glielo
confessai, la sua espressione era indecifrabile come al solito,
tuttavia mi
ricordai della prima volta che i miei occhi si erano incatenati ai suoi
come
calamite. E mi scivolò lungo la guancia una lacrima.
Galeotta! Speravo
vivamente che non l’avesse notata. Odiavo piangere davanti
agli altri.
Infine, voltai su me stessa desiderando raggiungere l’uscita
per riprendere a
respirare. In tutti i sensi.
«Stai bene,
Nicole?», mi chiese
Peyton per l’ennesima volta.
Per l’ennesima volta risposi di sì, tirando su con
il naso e affondando la
testa nel cuscino.
«Andrà bene», bisbigliai mentre crollavo
esausta tra le braccia di Morfeo.
*
* *
Cancellare la parola
“festa” dal
mio vocabolario e dalla mia fantomatica agenda? Fatto. Dopo la sera
precedente
non avrei voluto più sentirne parlare. La bottiglia di vodka
che Peyton si era
trascinata fino al dormitorio, ora giaceva a terra riversa su stessa,
vuota. Un
po’ come me. Una me riversa sul water a pagare i postumi di
una sbronza
insensata.
«Maledetto. Maledetto destino. Maledetto lui, lei ed io
stessa!», imprecai
mentre vomitavo persino la bile.
«Nic, Kyle ti manda queste. In realtà le manda
Ven, ma fa lo stesso». Peyton
fece capolino nel bagno e posò le pastiglie sul marmo del
lavandino.
«Come hai potuto permetterlo, Pey? Non dovevo
ubriacarmi».
«Nicole, stavo messa peggio di te. L’unica
differenza è che io reggo meglio
l’alcol», si giustificò.
«Aiutami», strascicai le parole mentre mi tenevo la
testa con le mani.
Probabilmente avevo anche la febbre.
Peyton mi condusse sul letto e mi rimboccò le coperte.
«Sento freddo, Pey».
«Lo so. Hai la febbre alta. Già deliri».
«Fai smettere questo mal di testa», la supplicai.
«Se non prendi le pastiglie non posso farci
niente», mi avvisò.
«Come sta?», sentii dire da una voce che riconobbi
come quella di Kyle.
«Influenzata. Prova a farle prendere
l’aspirina».
«Nooo»,
mormorai, «perché non mi
vuole, Kyle? Perché?», dissi con voce rotta
afferrandogli il braccio.
«È da ieri notte che è in questo
stato», sentii dire da Peyton.
«Dovremmo chiamarlo?».
Non distinsi più le voci.
«Sei impazzito? È colpa sua se è
ridotta così. Sua e di quella mongoloide di
Courtney».
«Kyle... secondo te sono brutta?».
«Ma no. Che vai farneticando?».
«Allora non lo sono abbastanza», ribattei
strizzando gli occhi.
«Sai che ti dico? Vado a chiamarlo»,
decretò Peyton, battendo le mani.
Chiamare chi? Perché non la
smettevano di urlarsi a vicenda?
«Carter, ti odio», sussurrai, stringendo in un
pugno il lenzuolo bianco, prima
di cadere in un sonno senza sogni.
Al mio risveglio sentii una mano
calda terribilmente familiare che mi sfiorava i capelli in un gesto
delicato e
rilassante. Mi ricordò in un modo assurdo quando a farlo era
Molly, la tata che
mi aveva cresciuta. Subito dopo avvertii il sudore che mi teneva
attaccati alla
pelle i vestiti. Aprii gli occhi ed un mal di testa allucinante si
impossessò
della mia testa. Mi alzai su un gomito aspettandomi di trovare Peyton
ed invece
quasi non urlai quando scoprii che accanto a me c’era proprio
Weston Carter.
Arrossii. Mi aveva sentita delirare? Peyton era nei guai. Grossi guai.
«Carter?», feci confusa con voce impastata dal
sonno, dall’alcol e dalla
febbre. Dovevo avere un aspetto orribile.
«Buongiorno bella addormentata», disse sorridendo.
I sorrisi veri erano rari ma
li adoravo. Specialmente i suoi.
«Che ci fai qui?».
Non aveva smesso un attimo di accarezzarmi i capelli.
«Aspettavo che ti sentissi meglio. Senti... Nicole, ti devo
delle scuse»,
iniziò. Udii una vena mortificata nella voce ma diedi la
colpa alla febbre ed
al post–sbornia.
Strizzai gli occhi più forte per evitare di piangere e
scandii:
«Carter, vattene. Ti
prego».
«Strange...».
«Vattene, vattene, vattene!», gridai tempestandogli
il petto di pugni. Volevo
che provasse almeno la metà di ciò che avevo
provato io. Ovviamente non gli
feci nulla, più che altro mi feci male io.
«Non esiste, tesoro», rispose, lasciandomi un bacio
su una tempia.
Perché? Perché doveva complicarmi la vita a quel
modo?
«No, no. Lasciami. Che vuoi da me?!», tentai di
divincolarmi dalla sua presa
esasperata. Le lacrime ormai erano inarrestabili.
«Solo il tuo perdono».
Mi strinse più forte e mi cullò tra le sue
braccia. Non opposi resistenza. Era
inutile. Rimasi lì, a sfogarmi impregnandogli la camicia di
gocce salate.
«Eri bellissima ieri sera,
Strange. Scusami se mi sono comportato da vero coglione»,
sussurrò al mio
orecchio facendomi correre un brivido lungo la spina dorsale. Quella fu
l’ultima cosa che sentii prima di avvertire un freddo sia
fisico che interiore.
*
* *
Giurai che non mi sarei presa
più
una sbornia in vita mia. Mi svegliai lunedì con due
profonde e visibili
occhiaie, gli occhi arrossati per la febbre e per le lacrime e la pelle
del
viso irritata a causa del trucco che non mi ero levata sabato sera.
Non vedevo la luce del sole da sabato pomeriggio e ne avevo
dannatamente
bisogno. Stavo letteralmente mettendo radici in casa. Proprio per
quello, mi
lavai almeno per mezz’ora, pulii il viso alla ben e meglio e
indossai una mise
sportiva.
Alle sei in punto già correvo per il cortile del collegio.
Dopo due ore di corsa
rigeneranti, mi fermai alla fontanella per rifocillarmi e riprendere
fiato. La
sbornia era stata smaltita del tutto e non riuscivo a capire se avessi
sognato
Carter o se quello che mi sembrava avessi sognato fosse accaduto
davvero. Non
vedevo i miei amici da sabato notte e sinceramente non morivo dalla
voglia.
Come aveva potuto Peyton lasciare che Carter si intromettesse nei miei
problemi, quando lui ne era la maledetta causa!? Tornai al dormitorio
giusto in
tempo per farmi una seconda doccia ed indossare la divisa scolastica.
Solo
mentre infilavo i libri nella borsa, sbiancai. Mi ero completamente
dimenticata
di dover scrivere ben due relazioni per la professoressa Kingsley. Mi
diedi uno
schiaffo in fronte e cominciai a meditare in cerca di una buona scusa.
Potevo optare per la verità.
“Uhm, prof, sa c’è uno stronzo qui a
scuola che mi ha fatto fare la fine degli
ubriaconi e sì, frequenta questo corso e no, non ha
ripassato nulla. Quindi
assolutamente positivo, mi toccherà fargli da tutor. Ma,
ehi... io non ho
ancora fatto la mia, di relazione».
Sicuramente mi avrebbe creduto. Siccome ero un portento come attrice!
Sbuffai
ed emisi un gemito di frustrazione.
Tutta colpa di West.
Chiusi la porta a chiave, capendo solo mentre svolgevo quella azione
che Peyton
non fosse rincasata e che con tutta probabilità avesse
passato la notte tra le
braccia di un certo biondino.
Non riuscivo ad avercela con loro fino in fondo. Mi ero affezionata
anche a
Kyle ultimamente. Semmai avrei dovuto scusarmi per avergli dovuto
rifilare i
miei deliri febbrili.
Raggiunsi correndo l’aula del professor Roberts guadagnandomi
un’occhiata
curiosa dai miei compagni, i quali non riuscivano a spiegarsi come la
prima
della classe avesse potuto commettere un ritardo. Be’, la
prima della classe,
stava cominciando a toccare la vita con mano per la prima volta nella
sua
esistenza.
Naturalmente stetti zitta. Mormorai solo un misero: “Mi
dispiace. Non si
ripeterà più”.
Ero convinta che quel mantra sarebbe stato trasgredito molto presto.
«E quindi mi stai dicendo
che non
hai potuto scrivere la relazione perché...?».
Gli attimi più brutti della mia vita furono quelli, nella
classifica diversa da
quella delle sbornie.
«Perché...», sospirai, «Sono
andata ad una festa. Sono tornata a casa ferita e
mi sono consolata con dell’alcol. Infine si è
scoperto che avevo anche la
febbre e quindi, eccomi qui».
La professoressa Kingsley per la prima volta sorrise e mi diede una
pacca
amichevole sulla spalla, lasciandomi perplessa.
«Era ora che trasgredissi un po’ le regole.
L’importante è che non diventi
un’abitudine».
«Certo che no. Le assicuro che ho chiuso con la vodka per
almeno altri
vent’anni».
«Dicevo anche io così dopo la mia prima sbornia.
Dicevo di non volerne neanche
sentire l’odore. Non hai idea di quante altre ce ne furono,
poi. Hai solo
diciassette anni in fondo».
«La ringrazio per la clemenza, professoressa. E
può starne certa, non berrò più
neanche un goccio, almeno per il momento».
Con un’ultima risata mi congedò, ricordandomi
dell’incontro con Ven.
Immaginavo per cosa fosse. Maledetto Carter. Di
nuovo.
*
* *
«Siamo d’accordo,
Nicole?»,
concluse Ven, dopo aver illustrato il programma a me e ad un Carter
mezzo
addormentato.
«No», rispose West, al posto mio.
«Non importa, Weston. Nicole, confido in te».
Faceva male. Molto male. Carter
corse via rifilando una scusa assurda. Io, rimasta con Ven, decisi di
sfogarmi.
«Devo proprio?».
«Ne guadagneremo tutti», affermò
risoluta. «A te servono quei crediti ed a me
serve un favore da un’amica. A Carter serve passare
l’anno ed a me serve –
ancora – avere
l’appoggio di suo zio».
«Ne guadagni di più tu, Ven. Perché
proprio io?».
«Perché mi fido».
Alzai gli occhi al cielo: «Come farò con la sua
fidanzata psicopatica?».
«Se ti creerà problemi, vien –
»
La interruppi bruscamente, finendo la frase per lei: «...
“Vieni a parlarne con
me”. Sì, ho capito. Me l’avrai detto
ottocento volte».
«Non l’hai mai fatto, però».
«No, infatti».
«Sei ostinata come tuo padre».
«Ad ognuno il proprio. Ven, potrei chiederti di affidare
questo compito a
Peyton?», provai con l’ultimo tentativo che mi era
rimasto.
«Ha la mia stessa media e non ha molte lezioni extra. Per
favore, se non
funziona, allora accetterò questa missione. Ma, cerca di
venirmi incontro».
Ven trasse un profondo respiro ed annuì, anche se un
po’ restia: «Faremo così.
Ma ti avverto, alla prima insufficienza, ti vengo a cercare».
L’abbracciai di slancio.
«Grazie, Ven, grazie!».
«Janel?».
Trasalii. Non sentivo più quel nome come mio. Ero Nicole
ormai. O Strange, a
seconda dei punti di vista.
«Nicole», puntualizzai.
«Già, Nicole... voglio bene anche a te come voglio
bene a Carter. Sai che prima
o poi dovrai affrontarlo, vero? Qualsiasi cosa sia successa tra voi
due».
Annuii. Ne ero al corrente ma avevo paura.
«Andrà bene» ripetei più a me
stessa che a lei, pentendomene subito dopo.
L’ultima volta che l’avevo detto ero finita riversa
sul water a vomitare
l’anima. Diciamo che io ed i mantra non andavamo proprio
d’accordo.
*
* *
«Come hai potuto farlo,
Nicole?!», mi urlava contro un’allarmata Peyton.
«Mi dispiace, okay? Era un’emergenza. Se non
andrà bene, accetterò la cosa. Ma
promettimi che ci proverai».
Non aveva preso bene la notizia della tutor. Continuava a ribadirmi che
fossi
pazza e lei con me perché alla fine, dovendo scontarsi
alcune cosette, aveva
dovuto accettare. Nello stesso istante bussarono alla porta.
«Chi diavolo è alle sette di sera?», si
lamentò Peyton trascinandosi ad aprire.
Io stavo ancora infilandomi il pigiama.
«Carter?! Che ci fai qui?».
Peyton aveva alzato il tono di
proposito perché io sentissi. Mi chiusi in bagno dopo averle
fatto segno di
riferirgli che non c’ero.
Appoggiai l’orecchio alla porta ed ascoltai la conversazione.
«Non c’è Nicole?»
«No, mi dispiace. È... è andata...
aveva un appuntamento», inventò.
Brava, Peyton, adesso sì
che
erano guai amari.
«Un... appuntamento?», ripeté come se la
cosa lo sorprendesse parecchio. Lo
immaginai con il solito cipiglio scettico.
«Già. Un ragazzo del mio corso. Sai, mi ha chiesto
se gliela facevo conoscere».
Mi schiaffai una mano in
faccia.
«Oh, e non sai quando torna?», continuò
e dal tono capii che era nervoso. Ah,
merda, merda, merda.
«Non credo torni. Però domattina vi vedrete a
lezione. Devo comunicargli
qualcosa... dirgli che sei passato? Non so...»
Che cosa...? Mi morsi la lingua. Ahi,
che male! Che diavolo stava combinando?
«No, no. Lascia perdere», mormorò con
tono quasi assente.
Mi faceva quasi pena. Quasi.
Prima che potesse andarsene, Peyton pensò bene di sferrargli
il colpo finale.
«Quand’è che non hai impegni,
quindi?».
Oh, no. No, no. Lui non... oh, merda.
Lo immaginai accigliarsi e scuotere la testa: «Che?»
«Pensavo stessi con
Grayson».
Peyton scoppiò a ridere ed io sbattei sonoramente la testa
contro il muro
producendo un tonfo.
«Cos’è stato?».
Nonostante tutto sentii l’impulso di ridere.
«Kyle. Sta... ehm... cioè...».
Brava, fai la finta pudica.
«Ah, ho capito. Scusa se vi ho interrotti. Allora... uhm,
vado».
«Carter, intendevo per le lezioni comunque».
«Che vuoi dire? Come sai delle lezioni?»
domandò, allarmandosi di colpo.
«Perché ti
dovrò fare da tutor».
Boom. Feci cadere uno flacone di
shampoo che produsse un tonfo sordo.
«Sicura che Kyle stia bene?».
«Ma sì. È solo impaziente, sai
com’è...», disse con un tono malizioso.
Doveva
proprio rendere tutto un po’ più... a luci rosse?
Carter si schiarì la gola, a disagio. «Dicevamo...
pensavo fosse Nicole a
dovermi dare lezioni».
Peyton annuì: «Sai, per la storia del ragazzo...
insomma, probabilmente poi
potrebbe ingelosirsi e Nicole vorrebbe evitare situazioni
spiacevoli».
Quanto avrei voluto avere uno spioncino per verificare la sua reazione.
«Certo, capisco. In fondo, se ne sarebbero venute a creare
anche con Courtney.
Non scorre buon sangue tra di loro».
«Vero. Be’, non scorrerebbe buon sangue neanche tra
me e la tua ragazza se lei
fosse andata a letto con il mio primo amore».
Boom. Scivolai contro la parete.
L’avrei ammazzata. Quello era troppo.
«Sì? Io... non avevo idea». Che tono era
quello? Che cazzo di tono era quello?
Mortificato? Grave? Cosa?!
«Non potevi saperlo».
«Peyton, secondo te mi ha perdonato?».
Pensai si stesse grattando nervosamente il braccio o si stesse
scompigliando i
capelli.
«Non credo, Carter. Ha bisogno di tempo. L’hai
ferita. Doppiamente rispetto a
Travis».
«Travis?».
«L’ex», si ritrovò a precisare.
«Non era mia intenzione».
«Non lo è mai. Devo andare, Carter. Passa domani
pomeriggio verso le tre,
magari riesci a beccarla».
«No, preferirei non vederla per il momento. Le puoi dire solo
che sono
realmente dispiaciuto e che be’... avrei voluto che le cose
tra di noi fossero
andate diversamente».
Peyton, diglielo. Digli di fermarsi.
«Dovrebbe tornare a momenti. È meglio che
chiariate subito» propose allora la
mia amica.
«Be’, se dovesse tornare presto, dille di andare al
laghetto». Percepii come
una nota speranzosa nelle sue parole.
«Lo farò».
«Grazie, Jeffrey».
Poi la porta venne chiusa. Ed io ripresi a respirare.
*
* *
Se andai al laghetto? No, non lo feci ma qualcuno mi disse che lui ci
avesse
sperato fino all’ultimo minuto. Mi sentivo un po’
stronza ad essermi comportata
così, quindi quello stesso giorno mi recai da Ven per
comunicarle che avrei
preso il posto di Peyton come tutor. Avevo solo bisogno di tempo prima
di
riprendere la mia solita routine. Anche se adesso all’interno
di questa c’era
un carattere del tutto nuovo.
«Sei sicura? Sai che non ti costringerei mai a fare qualcosa
contro il tuo
volere».
«Ven, facciamolo».
Via il dente, via il dolore, no?
«Questa è la mia bambina!».
Avevo appena confermato la mia
condanna a morte o alla disperazione in questo caso.
Folle ed
incosciente ragazza.