Anime & Manga > Full Metal Alchemist
Segui la storia  |       
Autore: My Pride    06/06/2009    11 recensioni
«C'è qualcosa. Qualcosa d'oscuro, in me, che non comprendo. Ma quando ci riuscirò, forse capirò anche perché mi hanno risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che li hanno incontrati tempo addietro»
«Roy... ti supplico» riprovò Hughes, sentendo le lacrime minacciare di rigargli il volto.
«Non supplicarmi, Maes», disse sorridendo. «Non sono Dio»
[ Seguito de «Il bacio del vampiro» ]
[ INCOMPIUTA - Un giorno verrà aggiornata (forse) ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il figlio delle Tenebre_Act 6
ATTO SESTO. CUORE DI UOMO, CUORE DI DEMONE


Nei pressi di Sheerness, 1891

    «Coraggio, Roy, questo testo non è molto difficile», lo invogliò comprensivo il Sindaco, nascondendo un sorrisino al di sotto dei folti baffi neri.
    Seduto al tavolo della cucina, fra tomi, fogli e stilografiche, squadrava il volto concentrato del bambino che aveva adottato e che, a due anni di distanza da quando era stato portato nel villaggio, aveva fatto notevoli progressi per quanto riguardava lo studio dell'inglese. C'erano ancora alcune lacune, certo, ma riusciva ad intrattener un discorso senza dover richiedere l'aiuto del Sindaco o di suo fratello, che spesso gli insegnava a sua volta qualcosa. Adesso si trovavano tutti e tre seduti lì, chi intento a ridacchiare e chi invece a far vagare distratto lo sguardo sulla cucina, osservando la governante che si affaccendava per preparare la cena.
    Ad un certo punto, il moretto sbuffò, abbandonando la stilografica e poggiandosi con il viso sul bordo del tavolo e i fogli, guardando con i suoi occhi d'onice quello verde del Sindaco.
 «Non lo riesco a traducere», borbottò, sentendo intorno a sé delle risate.
    Il fratello scese dalla sedia e gli si accostò, poggiandogli le mani sulle spalle e il mento sulla testa, come per vedere ciò che c'era scritto sui fogli.
«Si dice tradurre», lo corresse divertito, ridacchiando come il padre. «E poi hai saputo leggere cose più difficili, perché con questa non ci riesci?»
    Si aggiunse alle risate generali anche la governante, che rigirava lo stufato mentre cercava di contenere l'ilarità, lasciando per poco il mestolo per tagliare le cipolle e le carote. Non mise voce in capitolo, troppo divertita dalla piccola baruffa che si era creata fra i due fratelli, che si prendevano in giro dimentichi ormai dello studio. Furono ben presto richiamati dal Sindaco, che li ammonì con lo sguardo, ma si scorgeva una nota divertita anche nel suo occhio verde.
    «Maes, tu riconcentrati sul latino», disse al figlio in tono spassoso. «E tu, Roy, leggi ad alta voce il testo e traducilo, forza»., asserì, ottenendo da entrambi uno sbuffo indicante la loro noia.
    «Che lingua inutile, il latino», si lagnò Maes, ritornando ciondolante alla sua sedia per immergersi nuovamente nel suo studio sulle declinazioni. Un'altra occhiata lo ammonì, ma lui rispose con una linguaccia.
    Il signor Hughes alzò gli occhi al soffitto, sconsolato, riportando la sua attenzione sul moretto che mazzicava qualche parola muovendo appena le labbra, come se non fosse sicuro di ciò che stava leggendo o della pronuncia. Dopo varie prove e correzioni, giunse a fine lettura, passandosi frustato una mano fra i capelli scuri scompigliandoseli, guardando con le sopracciglia corrugate il Sindaco.
    «È troppo lunga...» si lamentò, ma lo sguardo dell'uomo non ammetteva repliche. Così, sbuffando ancora una volta, e premurandosi che si sentisse bene il suo disappunto, prese con due mani il libro portandoselo dinnanzi agli occhi, come per leggere meglio. Assottigliò lo sguardo, la fronte concentrata. «“Trascorsero la nottata... fra gli alberi, da uno dei quali Don Cosciotte...”»
    «Chisciotte, Roy, Chisciotte», ridacchiò il Sindaco, correggendolo subito. Il bambino gonfiò le guance, arrossendo fin sopra alle orecchie mentre sentiva che anche gli altri due proruppero in sonore risate che lo fecero vergognare ancora di più.  «Dai, continua», lo spronò l'uomo, con un sorriso.  Nonostante lo sguardo d'onice vagasse imbarazzato tutt'intorno, una volta incassata la testa nelle spalle lui ricominciò a tradurre il testo, stando attento a non alzare in nessun modo lo sguardo.
    «“...da uno dei quali Don Chisciotte...”» riprese, calcando di proposito il nome. «“...strappò un ramo... secco... che poteva far l'uso di lancia, e vi... vi applico?”» domandò interrompendosi, cercando aiuto nell'occhio del Sindaco.

  Lui sorrise maggiormente, sorreggendo il mento sui dorsi delle mani.
«Applicò», concesse, vedendo il moretto annuire.
    «“...vi applicò la punta di ferro che... tolse... a quella che gli si era rotta...”»
Continuò a leggere e a tradurre fino all'ora di cena, sbagliando solo qualche parola e provocando di tanto in tanto piccoli scoppi d'ilarità ai presenti, che lo correggevano divertiti.
    Quando finalmente i piatti furono serviti abbandonò i libri andando con gli altri in sala da pranzo, dove si sedettero tutti, governante inclusa, a consumare la cena, spesso ridendo e scherzando. Passarono ben presto le undici, e alzandosi, il Sindaco sbadigliò sonoramente, guardando i due bambini che quasi sonnecchiavano. La governante stava radunando i piatti sporchi, canticchiando silenziosa un vecchio motivetto della sua gioventù, arzilla come nel pomeriggio.
    «A dormire, bambini, coraggio», disse loro l'uomo, dando una piccola e leggera pacca sulle schiene di entrambi, accompagnandoli fino alle scale. «Domani riprenderemo gli studi, ora riposate».
    «Non possiamo evitare di studiare almeno domani?» chiese Maes, alzando lo sguardo verso di lui per guardarlo, gli occhi smeraldo brillavano speranzosi.
 A dargli man forte si aggiunse anche il moretto, quasi sbattendo graziosamente le ciglia, e a quegli sguardi, il Sindaco non seppe resistere. Annuì divertito, sentendo subito gli strilletti dei due bambini, che gli si avvinghiarono alle gambe.
    «Grazie, papà!» esclamò Maes, sorridendogli.
    «Grazie, grazie!» fece a sua volta Roy, stringendosi ancora di più.
    Ridendo, l'uomo fece mollare delicatamente la presa ad entrambi, scompigliando i capelli di uno e dell'altro con fare affettuoso.
«Ora a letto, però, prima che cambi idea», disse, con un cipiglio falsamente ammonitore.
    I due bambini risero e annuirono, tirandogli l'orlo della camicia per farlo chinare, e gli baciarono le guance prima di correre su per le scale, verso la camera che dividevano. L'uomo li seguì con lo sguardo finché non sparirono dalla sua vista, traendo un lungo sospiro mentre ritornava mesto nella sala da pranzo, il volto cupo e pensante. Pensava a quel lontano giorno in cui aveva accolto con sé il moretto che adesso si trovava ai piani superiori, pronto ad addormentarsi insieme al figlio. Era stata una buona idea, la sua, quella di portarlo con sé? Più ci rifletteva, più credeva che lo fosse, anche se spesso aveva il terrore di specchiarsi negli occhi del bambino, troppo scuri per essere innocenti. E anche quando lo trovava a borbottare in un'altra lingua si spaventava senza una ragione.
    Aveva passato due mesi ad andare e venire da Sheerness, nel tentativo di incontrarsi con alcuni suoi compagni cacciatori e parlarne con loro, cercando di capire se fosse mai possibile che una Sua vittima potesse rinascere dopo secoli e portare scompiglio. Non avevano saputo aiutarlo più di tanto, e i consigli che riceveva erano sempre gli stessi. Ucciderlo prima che arrivasse ai diciott'anni, l'età in cui era spirato prematuramente secoli addietro. Ma come poteva anche solo pensarlo, ora che gli si erano affezionati tutti? Era soltanto un bambino, in fondo. Chi sarebbe mai stato quel mostro che avrebbe ucciso un bambino innocente che non aveva mai fatto del male a nessuno? Non voleva essere lui, no di certo. Avrebbe trovato il modo per farlo sfuggire da quella vita, avrebbe fatto sì che la maledizione non si compisse e lo lasciasse libero di vivere, qualsiasi scelta avesse mai fatto.
    Fu l'occhiata incuriosita dalla governante
che reggeva gli ultimi piatti fra le grandi mani a ridestarlo parzialmente dai suoi pensieri. «Qualcosa l'angustia, Sindaco?» chiese, inclinando infantilmente la testa di lato. «Ha quasi una faccia da funerale, adesso.»
    Lui le sorrise stanco, sedendosi su uno dei piccoli divanetti presenti nella sala.
«Tra pochi giorni partirò per un altro dei miei viaggi», le disse, guardandola di sottecchi. «Bada tu hai bambini, e mi raccomando, attenta a Roy».
    «Ci penserò io alla sua istruzione, non si preoccupi».

    «Non mi riferivo solo a questo», quasi si ritrovò a confessare, scuotendo piano la testa. «Cerca di tenerlo d'occhio, se succede qualcosa di strano manda subito qualcuno a Sheerness. Sarò alla solita locanda, sarà facile trovarmi».
    «Ma perché dovrebbe succedere qualcosa, Sindaco?» domandò ancora una volta lei, sbattendo accigliata le palpebre, come se non capisse l'angoscia che traspariva adesso dal suo viso.
    L'uomo non rispose, si limitò solo a sospirare nuovamente. Scosse piano la testa mentre si alzava, andando verso la soglia della sala da pranzo.
«Te lo spiegherò a tempo debito», mormorò solo, con voce spenta. «Vado a distendermi un po' per adesso, buonanotte».
    Lei annuì, con i piatti ancora fra le braccia.
 «Buonanotte, Sindaco», rispose a sua volta, andando verso la cucina.
    Il Sindaco
le gettò appena un'occhiata, dirigendosi a passo mogio all'ingresso per salire poi le scale e attraversare il corridoio del piano superiore, passando per la camera dei bambini. Era socchiusa e l'aprì un po', vedendo la testolina scura del figlio balzare fuori dalle coperte, mentre il moretto era invece in piedi, accanto alla finestra. Guardava fuori, pensieroso, il volto sorretto nel palmo della mano destra. Alla luce della luna che filtrava, la sua pelle sembrava d'alabastro, pallida e argentata, quasi irreale.
    Richard dilatò gli occhi, incapace di crederci, e ci mancò poco che lanciasse un grido quando il bambino si voltò verso di lui. L'onice che caratterizzava i suoi occhi era opaco, spento, come se stesse dormendo in piedi. Sembrava sonnambulo. Il bianco del suo volto era innaturale, le strane luci che giocavano fra i suoi capelli d'ebano creavano un'illusione di movimento non indifferente, come se un alito di vento si fosse librato nella stanza. Ma durò solo un attimo; difatti sbatté le palpebre, guardandosi intorno. Localizzata la sua figura oltre la porta, Roy si accigliò, strofinandosi il dorso della mano sul viso; t
Tornò al suo letto senza dire una parola, coricandosi come se nulla fosse successo.
    L'inquietudine del Sindaco, però, non scomparve. Quell'immagine perdurò nella sua mente per tutta la notte, persino il mattino seguente sul suo volto si scorgevano le tracce dello stupore e quasi dello spavento. Guardò i due bambini fare tranquilli colazione mentre chiacchieravano, ma non mise parola nei loro discorsi, nemmeno quando tentavano di coinvolgerlo. Era troppo preso a squadrare il volto del moretto, che appariva quello di un qualsiasi bambino. Perché allora, la sera addietro, gli era apparso una creatura ultraterrena? La risposta ben sapeva che era semplice, ma non voleva fare i conti con la realtà.
    La consapevolezza gli piombò addosso come un macigno quando, una volta usciti, lo salutarono allegri come al solito mentre correvano dai compagni di gioco. Nell'incontrare per pochi attimi gli occhi scuri del bambino, e nel perdersi in quel dolce quanto funesto sorriso che gli illuminava innocentemente il volto, non poté non sentire una stretta al cuore.
    Alzò lo sguardo al cielo, l'occhio cieco fissò l'azzurro pallido del mattino senza davvero farlo, mentre le sopracciglia si corrugarono dalla preoccupazione.
«Oh, Signore, che cosa ho fatto».


    Hughes riaprì piano gli occhi, scoprendo di trovarsi sotto le lenzuola del suo letto, nella sua camera. Si drizzò a sedere e si ravvivò i capelli all'indietro, allungando a tentoni un braccio verso il comodino per rimettersi gli occhiali sul naso, in modo da veder meglio le figure.
    Accanto a lui c'era la figura ancora placidamente addormentata della moglie, con i corti capelli ad incorniciarle il viso sprofondato nel mite torpore del sonno. Sorrise appena, scostando piano le coperte per poggiare i piedi oltre il bordo del materasso, sondando con lo sguardo la sua stanza per trovare gli abiti da indossare. Una volta trovati, si rialzò, recuperandoli per andare al catino e darsi una sciacquata.
    Vestito di tutto, con le sue armi ben accordate alla cintola, gettò un'altra occhiata al viso della sua bella Glacier, riavvicinandosi per baciarle fuggevolmente una guancia quando si fu chinato su di lei. In silenzio, senza far rumore, attraversò il corridoio che lo separava dalla camera della figlia, lanciando uno sguardo all'interno e trovando anche lei addormentata. Un altro piccolo sorriso gli solcò le labbra mentre scendeva lentamente le scale di casa e, aperta la porta d'ingresso, uscì nella placida brezza del primo mattino che portava con sé l'odore d'umidità.
    Si guardò circospetto intorno e, dopo aver appurato che ancora nessuno aveva lasciato le proprie case per cominciare la giornata lavorativa, si incamminò su per la stradina sterrata e un po' tortuosa, alla volta dell'Abbazia. Avevano portato il prete lì non più di qualche ora prima, lasciandolo legato su una delle panche dinnanzi all'altare, in modo che vedesse sempre la grande croce in legno sopra di esso. Più volte, durante la notte, aveva ripetuto a se stesso che era stata una crudeltà, ma aveva preferito ascoltare Jean Havoc piuttosto che il suo cuore. Forse perché, inconsciamente, anche lui cominciava a credere che ciò che stavano facendo era tutto vano.
    Giunse ben presto alle porte borchiate della Chiesa, poggiando entrambe le mani sui due portoni in quercia per aprirli lentamente, facendo entrare un guizzo di luce seguito da un sinistro cigolio prima che se li richiudesse alle spalle. Lui era ancora lì, assolutamente immobile come l'avevano lasciato. Avvicinandosi, gli vide le mani legate abbandonate in grembo, il busto stretto dalle corde e fissato alla panca era rilassato, nonostante i muscoli visibilmente in tensione; aveva gli occhi chiusi, che tremavano lievemente sotto le palpebre come se fosse sul punto di svegliarsi. Il volto era ancor più pallido del giorno addietro, e le guance d'alabastro sembravano quasi scavate, nell'imitazione d'un uomo che non mangiava da molto. A completare il tutto, i lunghi capelli neri gli ricadevano lisci sulle spalle, quasi a sfiorare le mani immote, dalle unghie semi trasparenti e vitree.
    Si sentì un emerito verme, vedendolo ridotto in quello stato. E nonostante il gelo che irradiava quel corpo immortale e le stesse tenebre che sembravano avvolgerlo, gli picchiettò appena una spalla, forse nel tentativo di svegliarlo. Ebbe appena una reazione, ma non si mosse. Il riposo diurno? O astinenza da sangue? Quanto tempo poteva resistere un vampiro, senza il suo nutrimento? Non sarebbe riuscito ad azzardare un'ipotesi, ma qualcosa nella sua mente si mosse.
    Hughes trasse un lungo sospiro, sfilando il coltello dal fodero che aveva appeso alla cintola; avvicinata la lama ad un dito, ne incise la carne, facendo così in modo che una stilla di sangue fuoriuscisse dal taglio, sporcandogli immediatamente la pelle. Incurante del debole dolore che si stava espandendo nel suo corpo, avvicinò il polpastrello al volto del vampiro sopito, assicurandosi che inspirasse a fondo quel sentore di ruggine. Colpì in pieno anche i suoi sensi, ma cercò di non dare di stomaco e di non dargli peso. Dopo poco, sentì un fremito sempre più crescente da parte di quel corpo che sembrava senza vita, un piccolo spasmo quasi involontario che lo riportò nel regno degli umani.
    Un annusare insistente, un altro brivido; la piccola lingua rosea del moro guizzò fra le sue labbra e cominciò a lappare piano, con colpetti minuti e quasi insicuri come quelli d'un cucciolo di gatto, il sangue che stillava dalla ferita, avvolgendo ben presto il dito con frenesia.
    Il volto di Hughes divenne un'indecifrabile maschera d'emozioni, mentre assisteva. Quello che dapprima era un fievole approccio era diventato quasi un contatto intimo, erotico e lussurioso, un intenso succhiare che sembrava non voler avere fine. E quel senso di drammaticità che provava raggiunse presto il suo culmine massimo quando il vampiro cominciò a mordicchiare fugacemente la pelle, sfiorandola appena con i canini. Ritrasse immediatamente il dito non appena avvertì un ammorbidimento da parte di quelle labbra, osservando il sangue slavato che gli macchiava la pelle e la sottile scia di saliva come se non si capacitasse lui stesso di quel che era successo. E se il sangue, per i vampiri, era come il vino? Di quest'ultimo, se è d'ottima annata se ne assaggia ancora. Era così anche per il sangue? Non voleva nemmeno provare a chiederglielo.
    Maes ricevette finalmente uno sguardo, nonostante gli occhi d'onice completamente neri e assenti, come se quel poco sangue che gli aveva appena donato non fosse abbastanza. Si ritrovò a deglutire nell'osservare il suo volto, nell'osservare qualche goccia del suo stesso sangue che gli macchiava appena le labbra, donandogli colore.
    «Perché l'hai fatto?» chiese il moro in un bisbiglio, facendolo deglutire.
    Stando attento a non perderlo d'occhio, Hughes aggirò lui e la panca, sedendosi al suo fianco anche se parecchio distante per evitare sorprese.
«Il motivo sfugge a me quanto a te», si sentì in dovere di dirgli, alquanto a disagio. «So solo che, anche se in questa forma, resti pur sempre mio fratello».
    Un senso di vuoto calò nel petto del vampiro, che ebbe la sensazione del suo viso in frantumi. Mosse appena le braccia, con lo sguardo puntato sulle mani legate.
«Ti supplico, Maes, non dire certe cose», mormorò, quasi inespressivo. «Mi fai stare solo più male».
    «Che dovrei dire o fare, allora?» domandò l'altro, accorato. «Dovrei abbandonarti al tuo destino?»
    Roy non rispose. Si limitò a detergersi via con la lingua il sangue che gli macchiava le labbra, gustandone inconsciamente, e quasi con lussuria, il piacevole sapore. Un sapore imperfetto in quanto umano, ma perfetto nella sua imperfezione. Non avrebbe saputo dargli una definizione migliore. Emise un gemito languido, come se non stesse solo assaggiando del sangue; compiuto quel gesto all'apparenza semplice e innocuo, voltò appena la testa in direzione del Sindaco, rivolgendogli un sorriso tirato ma al contempo così luminoso, che sembrò far risplendere le vetrate della Chiesa e i candelabri spenti da anni.
«Non so nemmeno io qual è il mio destino», sospirò mesto. «Guardami», soggiunse, sorridendo ancor di più, amaramente. «Per anni ho seguito la strada del Signore, e alla fine mi sono ritrovato a vivere la dannazione eterna... è un supplizio che non ha né un inizio né una fine, Maes».
    «La colpa è mia, Roy, solo mia».
    «Sono stato io ad andarmene, quella notte», andò in sua difesa, chinando la testa. «Non ho voluto ascoltarti, ho preferito accontentare la voce supplichevole che sentivo».
    «Quale voce?» chiese stranito l'altro, sbattendo le palpebre. «Non mi hai mai parlato di voci».
    Un ennesimo sospiro sfuggì dalle labbra del vampiro.
«Sentivo delle voci, dieci anni fa», confessò, sempre senza guardarlo. «Le sentivo allora come le sento tutt'oggi... considerami pazzo, ma è stata una di quelle voci, a spingermi in quella radura e... beh, a rendermi ciò che adesso sono».
    Calò d'improvviso un silenzio imbarazzato, nella vuota cappella. Nessuno dei due parlava né si guardava negli occhi. Erano come in una sorta di bizzarra intesa che realmente così non era, come se le parole aleggiassero fra loro in muti quesiti. Più guardava il moro, più Maes Hughes si sentiva impotente. Si ritrovò a domandarsi ancora una volta che sarebbe successo se invece del prete fosse andato lui stesso, dieci anni prima, in quella radura.
    «Probabilmente non sarebbe cambiato nulla», rispose il moro, come se gli avesse letto nel pensiero. Gli gettò una rapida occhiata e, notando lo sguardo color smeraldo del Sindaco confuso e accigliato, si affrettò a voltarsi e a guardare altrove con finto interesse, stando attento a non soffermarsi sulla grande croce di legno posta sopra l'altare. «Mi dispiace, a volte mi succede inconsapevolmente», si scusò, sulla difensiva. «Non violerò più l'intimità della tua mente, perdonami».
    Spiazzato da quella nuova rivelazione, il Sindaco sbatté più volte le palpebre, come se non se ne capacitasse. Ci mise un po' per riacquistare la sua solita calma, e si arrischiò a sporgersi verso di lui per poggiargli una mano sulla spalla, rivolgendogli un piccolo e stiracchiato sorriso stentato.
«Devo stare attento a quello che penso, allora», buttò lì, cercando di scherzare, e si sentì anche un perfetto idiota. Sebbene fosse suo fratello, quella creatura che aveva davanti, non doveva assolutamente dimenticare che era pur sempre un vampiro, un figlio delle Tenebre. Stava amabilmente chiacchierando con lui come se nulla fosse. Ci mancava solo che lo invitasse a prendere il the delle cinque.
    Scosse stupidamente la testa, ridiventando di colpo serio. I suoi occhi smeraldo tradivano nervosismo e timore.
«Sto per farti una domanda che forse ti metterà in conflitto con l'altro te stesso, Roy, ma cerca di rispondere», disse, con un tono che quasi non ammetteva repliche. Come stordito da un colpo ricevuto, il vampiro moro ci mise un po' per capire le sue parole. Difatti annuì a fatica, quasi boccheggiando senz'aria. Hughes trasse un altro lungo sospiro prima di rialzarsi in piedi, cominciando a camminare avanti e indietro sul pavimento di marmo impolverato, con i suoi passi che risuonavano nell'immensità della cappella. «Voglio sapere come distruggerli, e voglio conoscere il luogo del loro riposo diurno», fece, schietto e risoluto.
    Gli occhi color pece del moro si dilatarono dalla sorpresa. Se avesse avuto le mani libere, se le sarebbe sicuramente portate entrambe alla bocca. Cominciò ad agitarsi, respirando affannosamente, lo sguardo ancora dilatato per la sete che non placava completamente da due giorni e che lo stava martoriando.
«Non posso, Maes, non posso», bisbigliò, accorato e quasi spaventato. «Comprendimi, non posso rivelartelo... non posso». Sempre più inquieto, prese a sfregare l'intero corpo contro le corde ancora intrise d'acquasanta, nel vano tentativo di liberarsi, come se volesse fuggire via da quel luogo.
    «Devo saperlo, Roy. Lo faccio per tutti quelli che sono morti», riprese il Sindaco, ferreo. «Ti ho lasciato scegliere di dirmelo di tua spontanea volontà, ma ti estorcerò le informazioni che voglio con qualunque mezzo, se non vuoi collaborare».
    «Da quando sei diventato così?» Una domanda sussurrata, gli occhi ingigantiti dalla confusione.
    «Da quando ho visto tutte quelle persone, e persino mio padre, morire», rispose prontamente l'altro. «Da quando mi è piombata addosso la consapevolezza di ciò che erano i miei avi. Quindi parla», soggiunse imperativo, con il volto inespressivo.
    Un oscuro oblio solcò le polle scure del vampiro. Il labbro superiore si ritrasse; i canini spuntarono oscenamente, luccicando.
«Non posso dirtelo, cazzo!» ruggì, imprecando inconsapevolmente, lasciando che dalle sue labbra scaturisse un urlo disumano e gutturale che infranse le grandi e antiche vetrate, facendole cadere sotto forma di pioggia violenta sul pavimento di marmo.
    Il grido sembrò trapassare le orecchie di Hughes, che strinse gli occhi portandosi le mani contro i timpani, nel tentativo di proteggerli dall'eco che si protendeva ancora. Il respiro d'entrambi era accelerato per motivi differenti e i cuori sembravano battere all'unisono, quasi all'impazzata: nessuno dei due però, sembrava consapevole della forza e del potere che rivaleggiava riecheggiando per il controllo, della strana tensione che era salita dalle viscere della terra stessa. Poi, pian piano, tutto cessò e il grido s'affievolì, e persino il prete parve calmarsi, tanto che si accasciò in avanti sulla panchina, e sarebbe sicuramente caduto, se non fosse stato legato.
    «Non posso, non posso», ripeté in un mormorio sordo, gorgogliante. «Perché non capisci. Non posso, lui non me lo perdonerebbe mai».
    Hughes ci mise un po' per riprendere il controllo e per capire che aveva parlato. Si massaggiò le orecchie, in cui sentiva un fastidioso e prolungato fischio, guardando parzialmente il volto immoto del vampiro.
«Non fai altro che ripeterlo», disse, quasi disgustato. «Lui, lui, lui. Aveva dunque ragione Jean, sei diventato uno schiavo o un servo di sangue?»
    Uno sguardo stranito sondò il viso del vampiro, prima che parlasse.
«Il mio Signore non beve spesso il mio sangue», rispose con semplicità inaudita, come se non si rendesse conto di ciò che diceva. «Spesso è lui stesso ad offrirmi il suo».
    Il volto del Sindaco si contrasse, a quelle parole.
«Dio, Roy, ma ti senti?!» esclamò d'un tratto, incredulo. «Con quale calma puoi dire una cosa del genere?! Con quale calma puoi dire che ti nutri del sangue di quella creatura dannata?!»
    «Perché ormai sono un mostro anche io, Maes! Solo e unicamente un mostro!» tuonò, ferendo ancora una volta con la sua possente voce l'aria circostante. «Lussuria, piacere, peccati, assassinii! Fanno tutti parte del mio essere, non c'è più nulla che io possa fare per cambiare questa mia natura!»
    I battiti ripresero veloci, il suo respiro sembrava quello rombante d'un cavallo al galoppo. Per non guardare Hughes si concentrò intensamente su una delle panche di legno, cercando di calmare l'opprimente angoscia che sentiva invadergli il petto da quando era stato svegliato dal suo sonno diurno. Avrebbe voluto riposare, magari accanto al suo Signore, come capitava di rado, ma per lui non c'era pace nemmeno in quell'Inferno.
    «Mi hai strappato al mio riposo, Maes», disse d'improvviso, con un tono di voce pacato e distaccato, quasi inespressivo. «Mi hai strappato al mio riposo e pretendi di carpire da me i segreti dei miei padroni... la punizione non è la morte per chi rivela certe ubicazioni, sai?» Gli occhi scuri guizzarono rapidi verso la sua figura, guardingi e quasi febbrili, con lo sguardo vacuo e spaventoso d'un folle. «Se ti farai ammazzare, dopo che li avrai scovati, sarò io a partire secoli di tormenti senza poter trovare una qualsiasi sorta di pace... non tu», concluse sibillino.
    Sorpreso da quel modo di parlare, così freddo e distante, così diverso dal tono ovattato e quasi dolce che era solito usare quand'era ancora umano e che aveva usato all'inizio, Hughes non riuscì a spiccicare una parola. Boccheggiò come un pesce fuor d'acqua, deglutendo, e più fissava quelle polle scure che lo incatenavano allo sguardo, più sentiva il respiro venir meno. Vide il lampo di terribili immagini solcare i suoi occhi verdi, il sangue che scorreva a fiumi e corpi maciullati d'esseri umani, persino folli e proibiti baci da bocche munite di zanne; vide lapidi e bare, occhi dorati che passavano con un guizzo, vite vissute in epoche lontane; croci d'argento appese a colli bianchi che sfrigolavano sui petti marmorei e nudi, tombe mortali inchiodate da catene di ferro e argento e...
    «Smettila», intimò, stringendosi nelle spalle e portandosi entrambe le mani alle braccia, strofinandole furiosamente su di esse come se avesse freddo, il corpo scosso da brividi incontrollati.
    Un piccolo sorriso, privo d'espressione, dardeggiò sulle labbra del moro, che dopo poco si lasciò sfuggire una risata così limpida che parve come l'acqua sgorgante d'un ruscello.
«Questo è solo un assaggio», mormorò, ammaliante. «I giochi con il mio Signore sono molto più interessanti di questi scherzetti innocui. Sangue e passione non hanno mai limite, in sua compagnia».
    Hughes restò muto a guardarlo, perso nel contemplare quei profondi occhi scuri. Il vampiro aveva ormai sostituito l'uomo, ma lui sembrava quasi non farci più caso. Quella che aveva dinnanzi era diventata solo una creatura splendida, una creatura che invocava il suo sangue a gran voce. Prometteva lussuria e dolcezza, tormento e terrore.

    “Vieni da me, Maes. Vieni da me. Posso darti cose che nemmeno immagini... La sua voce sondò la sua mente come se stesse parlando, nonostante non avesse minimamente mosso le labbra, ancora atteggiate ad un sorriso bonario.
    Incerto e non, Hughes mosse qualche passo verso di lui dimentico del mondo circostante, di tutto ciò che era mortale. Voleva solo abbandonarsi al piacevole tepore che quella muta voce gli stava offrendo, voleva essere stretto in quel suo abbraccio fatale, voleva assaporare con lui mille peccati.
Lo chiamava silenzioso promettendogli tutto e niente, adescandolo con quegli occhi scuri che rassomigliavano a due perfette perle nere; e sarebbe sicuramente caduto nel tranello se un pugno non l'avesse colpito in pieno viso.
    Sbatté smarrito le palpebre, quasi carponi sul pavimento. Alzando lo sguardo, vide gli occhi cerulei di Havoc, accompagnato dal quasi inseparabile amico Breda, i cui fulvi capelli erano scompigliati, forse dalla brezza di fuori. Era intento a fissare il prete, come se fosse incredulo.
«Com'è che dicevi? Mai guardare negli occhi un vampiro?» lo canzonò il biondo, porgendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi.
    Dopo una fuggevole occhiata al moro, il cui volto aveva quasi assunto un cipiglio indispettito, l'afferrò, tenendosi la testa senza dar peso al formicolio che si stava propagando dalla guancia colpita.
«Quest'attimo di disattenzione poteva costarmi caro», si incolpò, dando le spalle a tutti, forse per riprendersi dallo stato in cui era caduto. Avrebbe dovuto rendersene conto prima, che stava provando ad ammaliarlo.
    «Ci pensiamo noi qui, torna a casa», gli disse Breda con voce stanca. «Non credo possa muoversi, legato in quel modo».
    Un'aspra e crudele risata galleggiò nella cappella quando il vampiro udì quelle parole, una risata che fece accapponare la pelle dei tre uomini. Li squadrò tutti con i suoi occhi color pece, sorridendo.
«Lasciatemi al mio riposo diurno e tornate alle vostre faccende mortali», disse, con voce struggente e sensuale, simile a quella d'un amante comprensivo. «Prima che faccia completamente buio, probabilmente sarò già sparito».
    «Sta bluffando», fece Havoc in risposta, seppur angosciato, e, nonostante stessero eseguendo involontariamente il suo ordine controllandolo con la coda dell'occhio mentre si allontanavano, la sensazione che quella muta minaccia s'avverasse imperversò in loro, divampando come una pira alimentata dalla legna.
    Il vampiro avrebbe trovato un modo per liberarsi, qualcosa gliene dava la certezza. E lui doveva evitarlo.



ATTO SESTO. FINE



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
  
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Full Metal Alchemist / Vai alla pagina dell'autore: My Pride