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Autore: Jo_The Ripper    05/04/2017    2 recensioni
«E sai perché morirai? Perché mi devi una morte, Molly Hooper. Mi devi la morte di Sherlock Holmes.»
La caratteristica più profonda e universale di tutti gli psicopatici è l’assenza di rimorsi. Non hanno il concetto di colpa. Non hanno coscienza morale. Uno psicopatico intenzionato a uccidere si serve di qualsiasi mezzo per ingannare la vittima al fine di toglierle la vita.
E quando arrivi al livello finale del Grande Gioco non puoi tirarti indietro. Tutto quello che puoi fare è continuare la partita, ponendo sul piatto della bilancia sentimenti nascosti nell’angolo più buio di un Palazzo Mentale, un fantasma riemerso dalle profondità di un passato perduto nel tempo e l’ombra di una nemesi a lungo creduta sconfitta.
«Il grande Sherlock Holmes, che ha la capacità di esaminare il mondo sotto la potente lente del suo microscopio cerebrale, che individua schemi e tracce laddove gli altri vedono solo trame abbozzate, ora sta facendo i conti con gli effetti dell’essere umano.»
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eurus Holmes, Jim Moriarty, John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 1

Gli occhi impiegarono qualche minuto a focalizzarsi sull’ambiente circostante. Era steso prono su un divano e qualcosa di morbido gli premeva sulla guancia. Con un movimento ancora impacciato e lento, gettò a terra l’oggetto: un orso di pezza.
Si tirò a sedere, massaggiandosi le tempie e studiando meglio la stanza in cui riconobbe la casa di John.
Sherlock scattò in piedi reagendo con prontezza all’iniziale stordimento, e si recò di filato verso il piano superiore.
John era riverso sul letto, un braccio a coprirgli gli occhi, l’altro steso lungo il corpo. Nel sonno mugolava qualcosa di incomprensibile. Gli si avvicinò e cominciò a strattonarlo senza cerimonie.
«John, svegliati adesso!» Il dottore non diede segno di risposta, si limitò a voltargli le spalle, girandosi dal lato opposto. Sherlock si accigliò, non aveva tempo per quei capricci da ragazzino intenzionato a marinare la scuola.
Tolse lo spazzolino da denti dal bicchiere posto sulla mensola del bagno e lo riempì di acqua fredda. Tornò nella stanza e ne rovesciò il contenuto con poca grazia sul viso dell’amico che sussultò annaspando alla ricerca di aria.
«Gesù, ma cosa diavolo succede?!» Esclamò toccandosi la pelle per controllare cosa ci fosse sulla sua faccia. «Mi hai fatto venire un infarto!»
«Non abbiamo ancora finito.» Replicò il detective senza scomporsi, non curandosi della sua indignazione. Gli lanciò un asciugamano e uscì dalla porta.
John si asciugò il viso mentre cercava di far riemergere, senza successo, qualche ricordo dalla sua mente annebbiata. Di sicuro Sherlock aveva ragione. Eurus non avrebbe mollato la presa tanto facilmente, non dopo il colpo di coda di suo fratello.
L’imprevedibilità, la reazione umana… li avevano salvati. Ma a quale prezzo?
Lo spettacolo sarebbe continuato con un piano B, era pronto a scommetterci tutto. Per questo non riusciva a scacciare quel presentimento, quella sensazione che qualcosa di nefasto stesse incombendo su di loro.

Quando entrò nel salotto, il detective era in ginocchio, intento ad armeggiare con una tavola del parquet. John lo guardò perplesso.
«Che stai combinando?»
Sherlock sollevò la tavola e ne estrasse due cellulari, porgendone uno al dottore che se lo rigirò tra le dita.
«C’è una specie di prato fiorito sotto al mio pavimento? Cos’ altro è nascosto? Soldi? Pistole? Mine antiuomo? Così, giusto per sapere dove non devo camminare.»
Il detective si rimise in piedi, stirandosi il retro dei pantaloni, dubbioso.
«Come potrebbe esserci un prato fiorito qui sotto?»
John sollevò gli occhi al cielo, esasperato.
«Prato fiorito è un gioco per computer che consiste nel… beh, lascia stare. Piuttosto, dove credi sia Mycroft?»
«Con tutta probabilità, ancora prigioniero.» Rispose Sherlock sbrigativo.
«Non pensi che lei abbia… insomma…»
Lui scosse il capo.
«Non era il suo obiettivo. La morte di Mycroft non avrebbe alcun effetto. Non adesso.»
John annuì, tranquillizzato. L’ipotesi di Sherlock era più che attendibile. Questo però non affrancava la situazione in cui si trovavano da altre domande.
«Perché riportarci a Londra, allora?»
«La scelta di casa tua non è una coincidenza.»
John sospirò mentre con lo sguardo seguiva l’amico sedersi sul divano con le dita a sostenere il mento, la mente già lanciata in una catena di ragionamenti e scenari che lui non sarebbe mai riuscito a dipingere nella loro complessità. Poteva solo offrirgli blandi suggerimenti, piccoli memento che l’avrebbero aiutato a rimanere focalizzato sul problema.
«Ricorda che è qualcosa che ha a che fare con te, quindi il campo si restringe.» Sherlock aggrottò le sopracciglia.
«Non parliamo di un qualcosa, John, pensavo che fosse chiaro ormai.» Continuò lui ma lo vide limitarsi a scrollare le spalle. A volte, per quanto fosse il suo amico più caro, la sua mente tendeva a cadere in uno stato di preoccupante letargia. Probabilmente era ancora scosso e provato dagli eventi precedenti il loro risveglio. Si apprestò quindi a chiarirgli il concetto. «Piuttosto di un chi. Un nuovo contesto emotivo.»
Il dottore si morse il labbro inferiore, in apprensione.
Il campanello della porta trillò all’improvviso, facendolo sussultare.
Quando lasciò Sherlock per aprire la porta, non si aspettava di trovarsi davanti un pony express che reggeva un pacco. Non a quell’ora.
«È lei John Watson?»
«Sì, ma…» Non completò la frase poiché Sherlock si precipitò a toglierglielo dalle mani.
«Chi te l’ha dato?»
Al tono minaccioso della domanda e all’occhiata gelida del detective, il galoppino sollevò le mani in segno di resa.
«Cosa vuoi che ne sappia, amico. Questo è arrivato in centrale con alta priorità di consegna e a me dicono solo dove portarli. Allora, me la mette una firma, sì o no?» chiese poi rivolto a John. Il medico firmò e rientrò in casa.

Sherlock, busto curvato verso il tavolo e cipiglio assorto, era intento ad esaminare l’esterno.
«Inutile fare supposizioni sul mittente.» Disse John. «Aprilo con cautela.»
«Non è una bomba, se è questo che temi.» Asserì Sherlock mentre lo liberava dell’incarto esterno. «Direi piuttosto materiale organico.»
«Materiale organico?» Ripeté l’altro disorientato a quell’affermazione, poi vide.
All’interno della scatola di plastica, con fori laterali su ogni lato, stava un topolino bianco.
L’animale si sollevava sulle zampe, toccando la superficie trasparente della sua gabbia. Si muoveva con circospezione, utilizzando le sensibili vibrisse per comprendere le dimensioni degli anfratti nei quali si trovava.
Spaventato, impaurito, in trappola.

Sherlock conosceva ciò che stava avvenendo nel proprio organismo, le reazioni di liberazione dell’adrenalina, pronta a legarsi ai suoi recettori modificando l’assetto biochimico: frequenza cardiaca elevata, respirazione superficiale, temperatura corporea in calo, metabolismo del glucosio aumentato. Le labbra si aprirono impercettibilmente, come a voler catturare più aria possibile nei polmoni. Strinse i pugni e deglutì.
«Un topo?» L’espressione del dottore era sempre più sconcertata.
Sherlock si schiarì la voce, stimolando le corde vocali a produrre un suono forte e deciso.
«Un mus musculus gentilis
«La tassonomia non mi aiuta a capire, Sherlock.»
«Sì, Sherlock, aiutalo a capire. Comincia a dedurre.» Il viso di Eurus apparve nello schermo del televisione sito nel soggiorno. La sua voce era carica dell’arroganza di chi è dieci passi avanti.
Il gatto che si divertiva a giocare con il topo.
Sherlock inspirò con forza dal naso. La rabbia, quel veleno strisciante e insidioso, gli si stava riversando nel sangue. Si volse verso il dottore, traendo un respiro profondo.
«Questo è il comune topo da laboratorio, John.»
Gli occhi del medico si spalancarono, la consapevolezza non ci mise molto a farsi strada nella sua mente. Pronunciò un solo nome.
«Molly.»
«Molly Hooper.» Confermò Sherlock in un mormorio appena percettibile.
«È perfettamente al sicuro, per ora.» Un sorriso sprezzante tirava i lineamenti di sua sorella. «Purtroppo non potrò trattenermi a lungo, un ospite sta per arrivare. Sappiate che il nostro piccolo esperimento è appena cominciato e che seguiranno ulteriori istruzioni.»
Lo schermo tornò nero, la comunicazione interrotta di colpo.
John imprecò. Sherlock si alzò bruscamente facendo cadere la sedia con un tonfo sul pavimento. Sbatté le mani sul tavolo, il capo piegato in avanti. Rimproverò se stesso per quella mancanza di risolutezza che metteva in luce quell’illusione di controllo che si era allenato ad esercitare per tutta la vita. Quello era il momento meno adatto per cedere alla fragilità ed al tentennamento.
I suoi sensi attenti, combattendo contro la frustrazione crescente, registrarono dei passi affrettati sulle scale farsi più vicini. Un pugno batté più volte contro la porta.
John aprì e, di fronte a lui, Lestrade ansimava vistosamente.
«Dove diavolo eravate finiti?! Sto provando a contattarvi da una vita! Si tratta di Molly!» Sbraitò a gran voce.
«Lo sappiamo. Lo abbiamo appena scoperto.» Biascicò John con lo sguardo basso. L’espressione di Greg era allibita.
«Molly era di turno questa mattina e nel tardo pomeriggio aveva un appuntamento in un pub con dei vecchi colleghi della facoltà di medicina. È quindi facile intuire che la telefonata per la richiesta di sostituzione sia arrivata quando era ancora nel locale. Prenderla lì o all’uscita sarebbe stato impossibile per due ragioni: numero uno, troppe variabili di incertezza tra cui i convitati, con cui sarebbe rimasta tutto il tempo - ergo sorvegliata - e gli altri avventori, persone ancora sobrie che avrebbero potuto notare qualcosa di strano. Numero due, per arrivare prima al Barts di certo avrà chiesto un passaggio direttamente ai suoi amici senza avvalersi di un taxi. L’unica opzione possibile rimane quella che sia stata presa in ospedale, un luogo poco frequentato la notte e con una sorveglianza scadente da mettere fuori gioco con facilità.» Sherlock snocciolò la sua tesi volgendosi verso di loro, prima che Lestrade cominciasse a recriminare sul perché non si fossero messi tempestivamente in contatto con lui.
Si sforzò di mantenere lo sguardo granitico e la posa rigida, i tratti distintivi della sua preferita maschera di glaciale supponenza. Una compostezza fittizia, un fallimentare tentativo di dissimulazione della tensione che provava.
«Sì, l’hanno presa al Barts. Il suo turno era appena cominciato.»
Il detective occhieggiò l’orologio.
«Quindi è scomparsa approssimativamente da due ore. Ho bisogno di esaminare la scena.»
L’ispettore fece un cenno affermativo. «Seguitemi, l’autopattuglia ci sta aspettando.» Sherlock scese le scale a due a due ma, prima di entrare in auto, Lestrade lo afferrò per il braccio, fronteggiandolo.
«So che sei coinvolto in questa storia e so che ora non mi dirai né come né perché. Ma stavolta non si tratta di te. Si tratta di Molly. Una donna innocente la cui unica colpa è stata trattarti con la gentilezza che pensava meritassi.» La sua presa si fece più salda, lo sguardo ancora più intenso. «Se dovesse accaderle qualcosa a causa tua non basteranno tutte le forze del governo britannico a tenerti al sicuro. Dovrai prepararti ad affrontare le conseguenze.»
Sherlock gli afferrò le dita che serravano il suo braccio e, con un movimento deciso, si liberò dalla stretta. Non interruppe mai il contatto visivo e, l’ispettore Lestrade, nonostante si fosse lasciato trasportare dal suo carattere sanguigno, rivide nello sguardo del detective quelle emozioni che condivideva.
Collera, tormento, un’incertezza che le circostanze non potevano permettergli di avere.
«Lo so.» Rispose duro il consulente.
Senza aggiungere altro entrarono in auto e si diressero alla volta dell’ospedale.

***

Dal velo ottenebrato dei suoi sensi avvertì sotto di sé la vibrazione di un veicolo in movimento. Non sapeva quanto fosse durato quel primo sonno, tutti i suoi sensi superarono il confine tra incoscienza e consapevolezza e riuscì, non senza difficoltà iniziale, ad aprire gli occhi: era all’interno del bagagliaio di un’auto. Giaceva sul lato con le labbra dischiuse, poggiate sul tessuto fibroso del linoleum. I granelli di polvere stavano formando una pasta all’interno della sua bocca, mischiandosi con saliva. La gola bruciava per la congestione dovuta allo sforzo di quelle grida soffocate dall’anestetico. Le luci dei lampioni si susseguivano veloci attraverso i finestrini, gettando ombre fugaci sui sedili anteriori. Si sentiva confusa e il cuore le batteva furiosamente nel petto. Fece forza sulle braccia per rimettersi in piedi ma lo spazio era troppo ristretto e aveva le mani legate dietro la schiena. Provò a ruotare i polsi per liberarsi ma più li muoveva, più il laccio di plastica le si conficcava nella carne. Sibilò dal dolore e una stilla di sudore freddo le colò lungo la tempia. Lottò contro il panico crescente, che sobillava alla sua mente i ricordi delle autopsie che aveva effettuato sulle vittime di rapimento. Un nodo di angoscia le serrava il petto, un singhiozzo convulso si fece strada all’interno della laringe.
Ma lei non poteva arrendersi, non era quello il momento. Fece un respiro profondo e si concentrò su ciò che aveva appreso da lui, facendo constatazioni razionali date le circostanze.
I dettagli, quelli erano importanti. Chiuse gli occhi e si focalizzò su rumori, suoni, odori.
«Studia l’ambiente, sfruttalo a tuo vantaggio.» La figura di Sherlock, dai contorni evanescenti appena abbozzati dal suo cervello, l’iniziò a guidare verso una possibile strategia.
Lo spazio di movimento era tale da riuscire a farla sedere.
«Qual è il punto migliore in cui attaccare una persona?» Sherlock arcuò un sopracciglio a quella domanda e raddrizzò la schiena assumendo un atteggiamento di impudente saccenteria.
«Osserva, Molly. Cosa vedi davanti a te?»
«La portiera del bagagliaio.» Indicò lei.
«Questo quindi cosa ci dice?»
«Che quando la aprirà per portarmi fuori, dovrà abbassarsi verso di me.»
Sherlock sollevò l’angolo delle labbra in un sorriso di approvazione.
«Tutti gli organi importanti sono concentrati lungo la linea mediana del corpo, questo lo sai benissimo, Molly. Plesso solare, costole, regione inguinale, tutti punti che, se colpiti con un calcio ben assestato, dovrebbero metterlo fuorigioco abbastanza da permetterti di scappare.»
«C’è solo un problema, Sherlock.» Lui la invitò a continuare con un cenno del capo. «La forza.» Il detective ci rifletté brevemente, prima di liquidare la cosa con un cenno della mano.
«Questo è opinabile. Se avessi prestato più attenzione durante le lezioni di fisica invece di perderti nei tuoi sciocchi sogni ad occhi aperti, Molly, allora sapresti che non è la forza ad essere importante, ma la relazione tra massa e velocità. Colpi veloci che devono trasformare l’energia potenziale delle tue gambe in energia cinetica.»
Molly riaprì gli occhi ed indirizzò un silenzioso grazie allo Sherlock della sua mente che, nonostante i toni saputi e saccenti e le ammonizioni costanti, le aveva dato un barlume di speranza.
L’auto stava rallentando, doveva agire in fretta. Si armò di coraggio e si mise in posizione: schiena ben ferma contro il sedile, le dita che facevano presa sulla moquette, il bacino come punto di leva. Sollevò le gambe verso il torace e si tenne in pronta. La macchina si fermò, strusciando le ruote su quello che, dal rumore, sembrava pietrisco. Udì il leggero click metallico della cintura di sicurezza che veniva sganciata, e l’allarme iniziare a suonare ad intervalli regolari. La portiera si aprì. Il momento era arrivato.
Inspirò riempiendo i polmoni di aria, contrasse i muscoli, richiamò a sé ogni briciola di coraggio presente nel suo essere.
Ma non riuscì mai a sferrare il colpo.
La mano dell’uomo calò alle sue spalle come un rapace notturno, ricoprendole il viso con il fazzoletto pregno di narcotico che ovattò di nuovo le sue urla.
Utilizzò le sue forze rimanenti per contrastarlo, dimenando le gambe, provando a scansarsi ma di nuovo non ce la fece.
Le palpebre si abbassarono e dopo fu solo silenzio.

***

Il parcheggio antistante l’ospedale contava quattro auto della polizia, i cui lampeggianti illuminavano la scena come se fosse pieno giorno. Sherlock scese dalla volante e si avviò veloce verso l’interno, seguito da John e da Lestrade. Nel corridoio che dava sull’obitorio, il sergente Donovan interrogava la guardia.
«Pensaci bene, hai visto qualcuno di sospetto aggirarsi qui intorno?»
L’uomo scosse il capo e si passò una mano sul viso, contrito.
«No signora, non ho visto nessuno.»
Sherlock si avvicinò e prese rapido il bicchiere di caffè sulla scrivania. Lo annusò e poi spostò lo sguardo su di loro, un lampo di pura irritazione gli balenò negli occhi.
«Stai perdendo tempo a interrogarlo, se avessi osservato avresti subito capito che quest’uomo è stato drogato.»
«A questo siamo arrivati anche noi, Holmes, grazie tante! Intendevo sapere se ha visto qualcosa prima di perdere conoscenza.» Puntualizzò Sally.
«Questo è un lavoro eseguito da criminali più competenti di tutta Scotland Yard messa insieme, non si saranno lasciati alle spalle alcuna traccia. Non deve essere stato difficile entrare all’interno del cucinino e versare il narcotico nella caraffa di caffè. Vi suggerirei di andare subito a svuotarla. Anzi, Donovan, potresti bere anche tu e far entrare definitivamente in fase R.E.M. quel poco che rimane della materia grigia nel tuo cervello.» Rispose e lei lo guardò in tralice, furiosa, ma ebbe il buon senso di non replicare, probabilmente ammansita dal cenno dell’ispettore capo.
La guardia, intanto, cominciò a blaterare quanto fosse dispiaciuto e come non avrebbe dovuto permettere una cosa del genere.
«John, per favore, fallo stare zitto e allontanalo. Lestrade, porta fuori i tuoi uomini, qui non sono necessari.» Ordinò il detective mentre esaminava l’interno dell’anticamera. Le scarpe dalla suola di gomma di Molly avevano lasciato delle strisce nere sul pavimento laddove si era dibattuta, le cartelle erano sparpagliate a terra. Sherlock si abbassò e notò delle fibre bianche, cadute nel mucchio di carte. Entrò all’interno del laboratorio e cercò una pinza per poterne prendere una, dopodiché accese una lampada alogena e la esaminò.
«Ho lasciato la guardia con gli altri agenti, tu hai trovato qualcosa?» Domandò John di ritorno.
«Delle fibre bianche dall’odore di alcol. Chi ha preso Molly ha utilizzato un fazzoletto imbevuto di etere.» Concluse Sherlock.
«Etere? Ma è vecchia scuola.» Osservò Lestrade entrato anche lui all’interno del laboratorio.
«Volatile, estremamente infiammabile, tossico. Utilizzato come solvente in varie industrie: farmaceutica, materiale plastico e nella produzione di metanfetamina.» Affermò il consulente imbustando la fibra per la scientifica. «Le telecamere?» Chiese poi. L’ispettore capo si strinse nelle spalle e scosse la testa.
«Non hanno ripreso nulla, sono andate fuori uso per tre minuti.»

Sherlock se l’aspettava. Ad occhi chiusi ripercorse le mosse del rapitore: si era introdotto all’interno e, complice l’abilità nell’uso della tecnologia degli uomini di Eurus, era riuscito a passare inosservato grazie all’interruzione del segnale delle telecamere. Un minuto era più che sufficiente per addormentare una persona minuta come Molly. Poi l’aveva trascinata fuori verso il suo veicolo, ma dove poteva averlo lasciato? Il parcheggio all’entrata del Barts era riservato alle ambulanze e quello interno ai dipendenti. La morgue, al contrario, affacciava direttamente sulla strada ed aveva un piccolo spazio riservato alle auto delle pompe funebri che venivano a prendere i corpi.
Aveva capito.
Corse fuori, seguito a ruota dal medico e dall’ispettore.
Prese a camminare, gli occhi puntati sulla strada, finché, poco più avanti l’entrata dell’obitorio, notò uno spazio asciutto sull’asfalto altrimenti bagnato.
«C’era un grosso veicolo parcheggiato qui.» Iniziò a tracciarne le dimensioni in larghezza e lunghezza per poi esprimere la sua congettura. «Utilizzando le misure della traccia e dell’interasse e, applicando una tolleranza del 5% per tener conto degli effetti di zona d’ombra e asciugatura della pioggia, direi che il rapitore guida un SUV, probabilmente uno Chevi suburban o un Ford.»
«Diramo subito un avviso per rintracciare questo tipo di veicolo.» Lestrade stava per telefonare ma venne bloccato dal detective.
«Mi occuperò io di questo, tu dovresti informare la famiglia di Molly e cercare tra le persone che potrebbero avercela con lei.»
Greg incrociò le braccia, stizzito e irritato.
«Credi che sia stupido, Sherlock? Che questo sia un caso come gli altri e che debba aspettarmi una richiesta di riscatto mentre me ne sto seduto alla scrivania? Ce l’hanno con lei perché mirano a te, idiota! Dovresti darmela tu una stramaledetta lista!» Esclamò spazientito, per poi socchiudere gli occhi e fare un respiro pesante.
«Greg…» Iniziò John la cui intenzione era quella di rabbonirlo e calmare le acque, ma l’ispettore allungò la mano, facendogli segno di non aggiungere altro. Sherlock, invece, lo fissava con un cipiglio cupo.
«Penserò io alla famiglia di Molly.» Disse infine con aria rassegnata.
Il consulente annuì. «C’è anche un’altra cosa che vorrei facessi per me.»
«Cosa?»
«Mio fratello.»
John fece scattare gli occhi verso di lui, studiò il viso del suo amico che appariva fosco e impensierito. Greg assentì.
«Ti manderò i dettagli tramite sms, mentre io e John prendiamo un taxi.»
«Posso farvi accompagnare dalla volante…»
«Non è necessario.» Lo interruppe il detective. Poi gli voltò le spalle e si accinse ad andare verso la postazione riservata ai taxi. Watson scambiò un’occhiata di intesa con Lestrade, prima di separare le loro strade.
«Chiederlo a lui sarebbe pretendere troppo, quindi… Tienimi informato, John. E buona fortuna.»
«Anche a te, Greg.»

***

La luce della torcia le illuminava il viso. Le labbra dischiuse, i lineamenti morbidi, il ritmo lento del respiro nel suo sonno artificiale. Con un paio di tronchesi tagliò le manette di plastica che le stringevano i polsi, sui quali si erano ormai formati ematomi ed escoriazioni sulla pelle altrimenti liscia e perfetta. Le pose una piccola torcia laddove le braccia si intersecavano con il tronco, un registratore dall’altra parte e un telefono satellitare poggiato sullo stomaco.
Le sue dita si infilarono tra i capelli di Molly con reverenza, ne tracciarono l’intera lunghezza, si insinuarono nella curva dolce del collo, le sfiorarono la punta del naso e i contorni della guancia.
Il coperchio della bara si chiuse con un rumore soffice sotto la sua spinta.
Afferrò la pala e calò la prima zolla di terra, che si sparpagliò caotica sulla superficie di plastica.
«Dormi, piccino! Che le mormoranti fronde, il vento estivo con l’alito confonde, e dolci note la malia diffonde, in cerchio attorno a noi…»* Le canticchiò intenerito.
Era bella la sua Molly.
L’ultima parte di terra la seppellì completamente.
E lo sarebbe stata per sempre.

***
Disclaimer 2.0
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di: sir Arthur Conan Doyle, Mark Gatiss, Steven Moffat ed il network BBC. La trama si basa inoltre su una dichiarazione di Moffat stesso in merito all’episodio 4x03 e su un riadattamento degli episodi finali della stagione 5 di C.S.I. Las Vegas, diretti da Quentin Tarantino per la CBS Production.

La dichiarazione di Moffat è questa: “It was a rather boring one in retrospect. It was clever — Molly was actually trapped inside the coffin and they had to solve a puzzle to get her out. But while it was a clever puzzle and we liked it, we were the only ones who liked it. It was just another puzzle and it wasn’t something Eurus would be particularly interested in putting Sherlock through because she’s more interested in the emotional then why he’s clever. So we scrapped it and I’m glad we did because I rather like the replacement scene.”

* William Butler Yeats – Cusheen Loo

***
Altro giro, altra corsa!
Siamo qui riuniti a cercare di capire perché la Jo è una persona sadica che ha deciso di mettere nero su bianco le dichiarazioni di quel mattacchione di Stevie.
La risposta è: perché no?
Cosa c’è di meglio che infilare Sherlock in un nuovo contesto stressante e vedere come reagisce?
È anche vero che la sequenza della telefonata mi ha tolto dieci anni di vita, e questo potrebbe essere un buon modo per esorcizzarla e metabolizzarla (?).
Insomma, che ne dite? Sembra un progetto troppo azzardato che potrebbe inesorabilmente sfociare in un OOC? Non so. Sta di fatto che ieri ho terminato la storia, quindi… fatemi sapere, che sono ancora in tempo per correggere il tiro ;)
Grazie ancora a chiunque è passato a leggere, a seguire e a commentare, siete preziosi come la pizza senza ananas <3
Un bacio e alla settimana prossima ^^

  
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