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Autore: Mushroom    14/04/2017    1 recensioni
"Quindi fa ciò che ritiene conveniente: sfrutta il muro che li separa, e decide di cementarne le fondamenta."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Titolo: Edge
Fandom: Supernatural
Pairing: /
Words: 1864
Genere: Gen
Rating: SAFE
Warnings: Drukness, Time line? What time line?, dialoghi imbarazzanti, cattivo utilizzo della timeline, pessimo utlizzo di angeli del signore, troppe parole spese in seghe mentali, inadeguatezza tematica & riciclo tematico.
Note:
1) Scritta per la prima settimana del COW-T, team Ysmaros
, con il prompt "Paura".
2) Si tratta più di una serie di considerazioni ambientate in un momento indefinito della serie. Avevo idea che potesse trattare temi che vanno al di là dell'ottava stagione ma la caratterizzazione non è adeguata per quello che succede dopo. Quindi prendete per decisamente accurato il "Time line? WHAT time line?"
3) Avevo un punto, ora non l'ho più. Neanche mi ricordo da quando è che non scrivo, boh, mi paiono anni, quindi perdonate la prosa. E il contenuto.

Grazie per essere passati di qui o/

*

 

Succede per caso, come sempre quando si tratta di questi momenti.

Ne ha una rosa, impressa nella mente, tra cui scegliere. Successioni di campi, panchine, nel verde o vicino a un lago; laghi, ancora, ma senza panchine, le mani sporche di sangue e nero. Strade, perché possono essere i contorni di una figura che esiste solo nella sua immaginazione, o la carne e le ossa di un’immagine reale, ma ci sono sempre tante strade. Una in cui compare insanguinato, in cerca di aiuto, e Dean non è meno propenso a darglielo di quando l’ha visto scomparire in mezzo all’acqua. A quel punto, conta poco, si dice tra sé, e stringe le labbra.

Castiel è semplicemente lì. Potrebbe usare quella frase per descrivere i loro incontri, e li riassumerebbe tutti. È lì e poi non c’è, nessun telefono a cui fare appello se anche volesse.

(E potesse. Eppure se potesse, sebbene non gli piaccia ricordarselo, sa che si imperiderebbe di comporne il numero. Non gli piace, a dirla tutta, quell'essere coscente che sì, non oserebbe, non potrebbe, non farebbe. Che stia tutto nel non fare.)

Rimane un po’ in piedi, a fissarlo, con quell’aria di chi ha camminato sulla terra troppo a lungo, ma che si porta dietro – sempre si porterà dietro – una sottile sensazione di sbagliato. Non che Cas sia sbagliato – per la terra, l’umanità e tutto quanto. Non che Dean pensi che sia sbagliato, ma Castiel non è fatto per quel pianeta. Per nessun pianeta.

Se Dean ha la sua misura di strade percorse, il suo numero di autostrade in cui guidare, di motel in cui dormire e case – poche, ma sicure. Bobby era sicuro e, sebbene non lo fosse, lo chiamava casa. Il Kansas doveva essere sicuro, e non lo era. Lisa era, beh, forse è meglio non pensare ancora una volta alle possibilità che sarebbe potuta essere – a cui guardare indietro, Cas ha millenni ha affilargli la grazia, universi in cui qualcosa è possibile e sarà possibile; la galassia, spazio in cui avvicinarsi a altri sistemi, ad altre stelle.

“Dean.”

Viene interrotto. Si è avvicinato, è seduto sulla sedia davanti a lui, gli occhi bassi sulla mano che Dean stringe intorno a una birra. “Hey” risponde, con un mezzo sorriso. Gliene offrirebbe un sorso, se non fosse ormai fermato dal vuoto della richiesta stessa. “Quale particolare ragione per questa gita trai mortali?”

Castiel gli offre uno sguardo inespressivo, e lo tiene sulla sua faccia mentre Dean fa spallucce, mentre prende un altro sorso di birra – un’altra da aggiungere alla collezione sul tavolo – e mentre, per qualche secondo, indugia tra il sorso successivo e l’altro ancora. “Sei ubriaco.”

“Non mi dire, Sherlock.”

C’è sempre questa cosa, riguardo al modo in cui Castiel sembra guardare il mondo. Ora, si potrebbe dire che lancia un’occhiata alle birre, e sarebbe accettabile, del tutto inerente al contesto. A Dean, però, perché è stupido e lo riconosce, sembra che possa fare a pezzi la materia. Che non ci sia solo la materia, in realtà. Magari, dietro a un paio di bottiglie e a una notte insonne, Cas riesca a vedere altro, oltre, e lo disturba. Non vuole che Cas veda niente, dell’uomo che non riesce a tenere insieme suo fratello, ancor meno se stesso.

Quindi rimangono lì, in silenzio, nessun cenno di cambiamento in una situazione di stallo che sarebbe imbarazzante per i migliori tra gli amici, e che Dean troverebbe normalmente piacevole. Se Cas fosse il tipo per le visite casuali, e non per quelle del giusto per informarti, la città sta per venire distrutta da un sigillo, buona fortuna, ci vediamo alla fine per cinque secondi quando avrete già risolto tutto. Gli scappa una smorfia.

E se, ovviamente, il non detto – la sensazione, sottopelle, che certo, ovviamente Cas è lì per qualcosa, e quel qualcosa, pur tenendolo giù, pur insabbiandolo con un altro poco di alcool, è Dean. È sempre stato Dean. La responsabilità gli cade sulle spalle come un macigno, e lo schiaccia come lo schiaccia l’idea che non doveva essere Sam a passarci, che doveva dire no fin dall’inizio. Chiaro e lineare.

Il fatto che Castiel sappia, che decida di agire di conseguenza, non cambia la situazione. Dean è a corto di parole, come non lo è mai stato in vita sua prima di quel momento, non con l’amico davanti a lui; e la barriera, il muro sottile che si crea, per la prima volta, gli mette paura.

“Quanto hai intenzione di rimanere?”

“Tutto il tempo necessario.”

“Per cosa?”

Lo sguardo di Castiel ora si alza. Diretto, affilato, il blu dei suoi occhi scuro, come se una tempesta si preannunciasse, e nuvole fossero arrivate in avvertimento. Rabbrividisce. Di nuovo, è come se Castiel vedesse ben oltre la sbronza. Sa che non riceverà nessun’altra risposta, così porta indietro le spalle e appoggia la birra.

“Stai aspettando che parli, sul serio?”

Castiel abbassa il mento. Gliel’ha visto fare altre volte, prima di fronteggiarsi con uno qualsiasi dei mostri incontrati fino a quel momento.

“Geez, l’influenza di Sam ti fa male.” Sogghigna “Ora, se volete unirvi e formare il circolo di sentimenti e coroncine di fiori, assicuratevi di non invitarmi” alza le mani, ci ripensa “Anzi, invitatemi. Farò dei video. Foto. Ricatterò Sam tutta la vita.”

Il suo interlocutore non se la beve. Fa quello che fa sempre quando Dean inizia a dire cose di quel tipo: lo ignora. “Un tempo era più semplice.” Commenta, e basta, e ora vorrebbe proprio sapere cosa era più semplice. Dean? La vita? L’essere una creatura fatta di puro intento celeste che va, viene e chissenefrega del resto?

Dean si morderebbe la lingua. L’ultima è ingiusta, è egoista. Dovendo essere onesto, in ogni caso, constata che era più semplice. Parlare, dice. Non che parlare sia mai necessario, tanto meno difficile, sarebbe difficile se ci fosse qualcosa di difficile di cui parlare, cosa che non è mai vera quando Dean Winchester entra in campo. Eppure, qualcosa scappa, forse perché è ubriaco. Forse perché a fare monologhi con te stesso ti annoi, dopo un po’.

“Non mi hai mai guardato diversamente.” Fa, e forse, considera, forse perché ha spazio a sufficienza per archiviare e sotterrare e distruggere ogni sentimento, prova, fatto che gli ricordi quando paura gli fa quello che ha appena detto, e il fatto che stia lentamente scomparendo.

Non si aspetta una reazione, quindi va avanti, una parte di lui che si morderebbe la lingua solo perché, se Cas è esplicitamente lì per parlare – Dio Cristo – allora lui non vuole parlare, si oppone, libero arbitrio e tutto quanto.  “Ogni volta che questo succede, dico. Tu che arrivi, piccolo discorso in mezzo, tutti felici e casa dopo la condivisione.”

“Perché?”

“Cosa?”

Si scambiano uno sguardo.

“Perché ti avrei dovuto guardare diversamente?”

Dean si blocca, non sa come spiegarlo. Sa solo che, se mai avesse urlato a Sam ciò che ha mai urlato a Cas, Sam avrebbe iniziato a trattarlo come una brocca rotta, e non come il fratello maggiore su cui contare. Che se avesse mai detto a suo padre – il loro rapporto non era fatto di parole, in ogni caso – quanto fosse terrorizzato, durante la prima caccia; quanto fosse terrorizzato, quando Sam, appena bambino, aveva ucciso un mostro a sangue freddo, là dove Dean aveva esitato. Lo avrebbe reso vulnerabile. Essere vulnerabile, potersi permettere di indugiare in un lusso simile, non era nel suo carattere, tanto meno nel suo stile di vita.

A Cas non è mai sembrato importare. Dean era Dean, fine del discorso, semplice quanto era semplice.

“Sei veramente qui solo per tenermi la manina?”

Castiel indugia, nella misura in cui un angelo riesce ad indugiare: a stento, e mettendo in discussione l’orgoglio che dice non appartenere alla sua progettazione. Poi stira le labbra. Dice: “Qualcosa del genere”. Sembra non essere tutto, ma non importa. “Mi mancano le nostre chiacchierate.”

“Beh” Dean sbuffa “Il tuo contributo alla conversazione sono occhiate cattive.”

Si acciglia. “Non sono io quello circondato da bottiglie, Dean.”

“E non sono io quello a cui hanno fritto il cervello, tra i due.” Sputa, sorprendendosi del rancore nelle sue parole. Nell’estensione in cui non era colpa di Cas, perché non puoi impedire a qualcuno di farti il lavaggio del cervello, c’è ancora quel sentimento pungente, quel fastidio che si riconduce alla trafila di bugie a cui è stato sottoposto in passato; e che, candidatamene, non aveva mai messo in dubbio, perché è Cas di cui si sta parlando.

L’altro serra la mascella. La reazione che si aspettava è diversa, meno pronunciata, meno tenuta nell’angolo della difensiva. Crede, nel corso degli anni, di non aver mai visto Castiel assumere una posizione difensiva.

“Puoi ancora parlarmi.” È l’unico commento. Come per dire, ho il cervello fritto, ma puoi ancora venire da me con i tuoi problemi. Quando non ha senso, visto la moltitudine di angeli in cerca di vendetta che non è ancora riuscito a levarsi fuori dalle palle. Tagliando fuori la parte in cui, per meritarselo, ha fottuto il paradiso a un livello così nuovo che pure le armate celesti non sanno più come organizzarsi per combatterlo. Libero arbitrio. È come insegnare la poesia ai pesci.

“Lo so.”

Silenzio. Dean deglutisce, gli occhi che si concentrano su una spalla di Castiel, invece che sul tavolo, o sulle birre, o su quell’angolo delizioso di libreria che Cas ha dietro di sé. Studia le pieghe del trench coat, e pensa quello che non vuole pensare, perché è ubriaco, quindi che si fotta tutto, pure l’ordine dei suoi pensieri. Pensa “Il silenzio non mi piace” e lo dice, a voce alta, cristallino, con tutte le implicazioni di questo mondo.

Guarda Castiel dritto negli occhi, nella speranza di riconoscere l’amico che ci ha sempre trovato, quello con cui poter essere l’essere umano spregevole che è, perché, agli occhi di qualcosa di così grande, un piccolo essere umano è un piccolo essere umano, minuscolo e inutile e macchiato dai peccati; ed essendo tutti uguali, essendo Dean uguale ad altri sei miliardi, forse a Castiel non importava, non vedeva la differenza, se uno in più si lamentava di un padre che non ha mai ascoltato le sue preghiere. Eppure, alla fine, quando lo trova, quando vede la scintilla di complicità, quella che normalmente gli avrebbe fatto vomitare quanto il senso di colpa abbia smesso di cullarlo in sogni pieni di incubi, preferendo l’insonnia; quanto inadeguato, miserabile e solo si senta, con suo fratello pronto a morire; quanto abbia paura, dal fatto di non poter parlare, di non potergli concedere una briciola di quello stupido essere umano che è, perché Castiel è lì, fuori dal nulla, ed è lì per lui, e come questo no lo collochi più in un mare di signor nessuno. Ancora, come sappia di non meritare un briciolo di quell’attenzione, di quel conforto.

Quindi fa ciò che ritiene conveniente: sfrutta il muro che li separa, e decide di cementarne le fondamenta.

Per il resto della serata, Castiel rimane fermo come una statua di sale, a guardare l’unico uomo per cui abbia seguito un ordine cadere addormentato in un sonno ubriaco.

   
 
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