Note:
Salve
a tutti! Vorrei darvi qualche piccola precisazione prima di lasciarvi
alla
lettura di questa mia creatura. La OS è una songfic, ma le
canzoni sono state
scelte dopo la stesura del racconto. Quindi diciamo che non ne sono
stata
propriamente ispirata, anzi, ho penato molto nel ricercare testi che potessero essere
adatti ad ogni tema
dei vari paragrafi. Perché questa scelta? Non so, in
realtà avevo voglia di mettere
in risalto il panorama del cantautorato italiano che spesso viene poco
considerato. Io ho iniziato ad apprezzarlo da pochi anni, ma devo
ammettere che
adesso ne sono veramente innamorata. Detto questo, bando alle ciance e
buona
lettura!
“A
John Watson piacevano le donne.”
A
John Watson piacevano
le donne.
Mai
aveva avuto dubbi a
riguardo.
Gli piacevano. Le adorava.
Ma
non ne aveva mai amata una.
“Dieci
ragazze
per me, posson bastare
Dieci
ragazze
per me, io voglio dimenticare
Capelli
biondi
d’accarezzare e labbra rosse sulle quali morire
Dieci
ragazze
per me, solo per me.”
(“Dieci
ragazze”; Lucio Battisti)
***
1.
Bambole.
Aveva
circa sette anni quando iniziò a rubare le
bambole di sua sorella Harriet. Non che fossero difficili da trovare:
la
maggiore dei Watson era quel tipo di persona a cui non piaceva
accumulare
cianfrusaglie inutili, né amava particolarmente circondarsi
di oggetti o
ricordi del passato. Nonostante fosse più grande di lui di
soli cinque anni
aveva già raggiunto un livello di maturità molto
elevato rispetto alla media.
John si sorprendeva sempre nell’osservare quanto la camera di
sua sorella fosse
spoglia e francamente priva di qualsiasi cosa che mettesse in mostra
anche solo
un particolare della sua forte personalità. Non fu quindi
difficile per lui
scovare in poco tempo un unico scatolone non troppo gelosamente
nascosto sotto
al letto ad una piazza e mezzo che ogni notte raccoglieva i sogni di
Harry.
Quando
lo aprì per la prima volta un’espressione di
giubilo si fece subito strada sul suo volto: una decina di Barbie se ne
stavano
perfettamente riposte al suo interno, accatastate di fianco a due o tre
diari
che, di contro, non stuzzicarono per nulla la sua curiosità.
Ma quelle Barbie. Erano tutte belle,
slanciate, bionde. Sì, il biondo era sicuramente il suo
colore preferito, in
fatto di capelli. Sua madre era sempre stata una bionda cenere
naturale, ed era
veramente bellissima. Sua sorella era una stronzetta dalla
tonalità leggermente
più scura, ma nonostante la giovane età si poteva
tranquillamente affermare che
fosse bella in egual modo. Suo padre era l’unico castano
della famiglia e
sarebbe morto nel giro di sei anni ma questo lui ancora non lo sapeva. Non lo poteva neanche immaginare.
Era
quindi con sincera allegria che quasi ogni
pomeriggio, appena tornato da scuola, John prendeva le Barbie e le
osservava
minuziosamente, quasi come se dovesse prepararsi per un compito di
anatomia
applicata. Le svestiva con cura di tutte le loro belle vesti,
studiandone
lentamente le forme ma trattandole con una quasi reverenziale
gentilezza. Gli
piacevano. Le adorava. Le
immaginava
reali e di rimando sorrideva come un ebete. Un ragazzino dalla libido
precoce,
John Watson. “Sei solo un porco in miniatura!” gli
urlava Harriet, ogni volta
che immancabilmente lo coglieva sul fatto. Senza farsi troppi problemi
si
levava quasi sempre le ciabatte ed iniziava a tirargliele dietro, dando
vita ad
una scorribanda per la casa in cui finivano sempre per rompere
qualcosa. Ma non
le tolse mai da lì, né cercò un altro
nascondiglio per lo scatolone.
John
amava sua sorella. John amava suo padre e sua
madre. Erano una famiglia felice e, di riflesso, lui era un bambino
felice. Ed
allora rideva, rideva e rideva ancora. In cuor suo pensava che avrebbe
riso per
sempre. Perché è questo che fanno le persone
felici, no? Ridono. Non pensano
molto. Ridono e basta.
***
“Acqua
azzurra, acqua chiara
Con
le mani posso finalmente bere
Nei
tuoi occhi innocenti
Posso
ancora ritrovare
Il
profumo di un amore puro,
puro
come il tuo amor.”
(“Acqua
azzurra, acqua chiara”; Lucio Battisti)
2.
Jane.
Durante
l’ultimo anno delle medie l’interesse di
John nei confronti delle bambole di sua sorella era notevolmente
scemato,
facendosi sostituire da un incessante pensare. Un pensare catartico,
contemplativo, fin troppo riflessivo. Ed il soggetto di tali pensieri
era
sempre lo stesso: Jane.
I
suoi amici giocavano con le figurine, lo
incastravano in una noiosa partita a calcetto al doposcuola, lo
ossessionavano
con l’ultimo fumetto uscito in edicola. Ma lui pensava a
Jane.
Sua
madre impastava i suoi biscotti al cioccolato
preferiti, lo rimproverava per l’ultimo brutto voto preso
alla verifica di matematica,
gli comprava i jeans che tanto aveva desiderato mesi prima. Ma lui
pensava a
Jane. Ai suoi lunghi boccoli biondi, quasi sempre raccolti in una
treccia
all’apparenza infinita. Il modo in cui la muoveva,
ondeggiando appena la testa
mentre cercava di prendere appunti durante la lezione. I raggi di sole
che la
facevano risplendere quasi di vita propria. Oh,
Dio.
Sua
sorella era sempre più isterica, lo riprendeva
per qualsiasi cosa facesse, lo occhieggiava continuamente con sguardi
di
commiserazione e superiorità. Ma non gli importava, lui
pensava a Jane. Ai suoi
vestiti di buona fattura che rivestivano il suo corpo snello e ben
proporzionato. Al modo maniacale con cui coordinava sempre il colore
delle
scarpe a quello dei calzini di fino cotone che usualmente indossava.
Alle sue
unghie piuttosto non curate, ma comunque lunghe e fini.
Suo
padre, immerso in un tacito silenzio, iniziava a
sentirsi fiacco, stanco e dolorante. John non lo sapeva, lo ignorava.
Quindi
pensava a Jane. Alla sua bocca sempre sorridente, a quei denti
bianchissimi e
perfettamente allineati, quasi surreali. Ad i suoi occhi azzurri e
grandi,
racchiusi e incorniciati da un viso tondo ma allo stesso tempo ben
delineato. Pensava a Jane. Non
sapeva bene il
perché. John non era il tipo da porsi troppe domande,
soprattutto perché non
credeva di essere in grado di rispondersi. Non ancora, perlomeno.
Ma
poi una mattina suo padre non fu più capace di
alzarsi dal proprio letto. Lui, da quel momento, non
pensò più a Jane. Un istante fu
abbastanza per dimenticarsi per
sempre del sentimento più candido e dolce che avesse mai
provato.
***
“Betty
ha
talento
Sa
ballare con
l’amore e la violenza
Si
fa prendere e
lasciare
Che
cos’è la
vita senza una dose di qualcosa
Una
dipendenza
Vive
bene, vive
male
Non
conosce
differenza
Fra
la morte di
una rosa e l’adolescenza
Fra
il fiorire
di una rosa e la decadenza.”
(“Betty”;
Baustelle)
3.
Il principio.
La
sua prima volte fu qualcosa che essenzialmente
non aveva proprio programmato. John Watson aveva quindici anni e suo
padre era
morto da qualche tempo. Non si ricordava quando. Non lo voleva
ricordare, in
realtà. In casa sua ormai non si rideva più tanto
spesso e l’unica cosa che
riusciva a farlo stare almeno un po’ tranquillo era starsene
fuori casa il più
tempo e il più frequentemente possibile.
L’immagine di sua madre immersa nel
suo lutto eterno era un qualcosa che però lo perseguitava in
qualunque angolo
della città decidesse di andare. La vedeva sempre,
sì: reclinata davanti alla
foto di suo padre, le mani giunte in una preghiera perennemente
silenziosa.
Intorno a lei solo pece quasi tangibile, un buco nero che sembrava
fagocitarla
ogni giorno di più. John pensava.
Pensava
che sua madre sarebbe morta di crepacuore.
Il buco nero l’avrebbe presa, l’avrebbe mangiata e
non gli avrebbe nemmeno
restituito ossa o brandelli di carne sui quali spendere pianti di
cordoglio.
Non che ciò potesse rincuorarlo, pensava. Ma quella precisa
sera non pensò. Non
pensò a niente.
Era
un qualunque sabato di un qualunque Inverno di
un qualunque anno dopo la morte di suo padre. Uscì di fretta
da casa, salutando
sua madre, o perlomeno ciò che ne rimaneva.
“Mamma
esco.” Silenzio.
“Mamma
non so quando torno.” Silenzio.
“Mamma.”
Silenzio. Solo, soltanto silenzio.
Quindi
uscì. In tasca lo stipendio da cameriere
part-time riscosso il giorno precedente, nel cuore un freddo
più tagliente
delle pericolose lastre di ghiaccio formatesi sull’asfalto.
Camminando a passo
svelto raggiunse in pochi minuti una delle zone più
malfamate della città e
senza dare troppo nell’occhio si mise ad osservare
attentamente tutte le
prostitute presenti sul ciglio opposto della strada. Dopo qualche
minuto di
riflessione scelse la più giovane, la più ben
vestita, la più magra, la più
alta, la più carina. La
più bionda.
“Quanto
vuoi?” le disse senza esitare, dopo essersi
avvicinato in maniera abbastanza sospetta.
“Cinquanta
bocca, cento servizio completo. Ma visto
che sei così giovane e carino potrei farti uno sconto,
ragazzino.” gli rispose
con un sorriso beffardo, quasi di scherno. John trattenne a stento una
polemica
constatazione sul fatto che ella non potesse avere che qualche anno in
più di
lui.
“Non
lo voglio, lo sconto.” rispose invece,
guadagnandosi un’occhiata sorpresa della Barbie. Occhiata che
durò giusto il
tempo di un battito di ciglia, in realtà. Poi con fare
sicuro lo prese per
mano, conducendolo in un vicolo praticamente limitrofo. Un luogo buio,
triste e
maleodorante. Ma a John non importava. A John andava bene,
sì. Andava bene così.
La
scopò senza problemi, come se non avesse fatto
altro nella vita. Andare con le prostitute; in realtà non ci
aveva mai pensato.
La scopò in maniera meccanica, piegandola a novanta contro
il muro, tirandole
giù mutandine dall’estensione estremamente ridotta
e la gonna di jeans
assurdamente corta. Non la baciò, non la annusò,
non la accarezzò. Le aprì le
gambe e con disinvoltura s’infilò il preservativo
che si era procurato in
giornata. Poi la penetrò con calma, assaporando appieno la
sensazione di
scivolamento dentro quella carne morbida e incredibilmente scivolosa.
La Barbie
sembrò apprezzare e ansimò appena. John non
sapeva se fingeva. Non gli importava.
Venne
dopo poche spinte, sconcertato dalla quantità
e dall’intensità di sensazioni fisiche che era
stato in grado di provare. Solo
a quel punto si concesse di accasciarsi un poco sulla sua schiena, con
il
chiaro intento di prendere fiato. Un odore di rosa muschiata gli invase
le
narici in un secondo. Paradossalmente quel dolce sentore lo
nauseò più del
puzzo di fogna che aleggiava intorno a loro, rendendo quel vicolo un
fetido
luogo altrimenti da evitare. Trattenne a stento un conato di vomito e
si staccò
dal corpo della ragazza velocemente, sfilandosi il condom e
ricomponendosi alla
meglio. La guardò.
Lei
lo guardò. Uno sguardo vacuo, due occhi azzurri
che sembravano capaci di risplendere anche nel buio di quella notte
incredibilmente fredda e scura. Era bella, sì. Ma ormai
anche quella
superficiale variabile non aveva più alcuna importanza. Non
sapeva nemmeno il
suo nome. Non gli importava.
Si
frugò nelle tasche dei pantaloni e, senza
proferire parola, le porse un foglio da cento sterline abbastanza
stropicciato.
Lei lo prese, lo guardò. Si girò.
“Ciao.”
disse rivolto alla sua esile schiena. Ma non
ricevette risposta.
***
“Il
carretto
passava e quell’uomo gridava ‘gelati!’
Al
ventuno del
mese i nostri soldi erano già finiti
Io
pensavo a mia
madre e rivedevo i suoi vestiti
Il
più bello era
nero e coi fiori non ancora appassiti
All’uscita
di
scuola i ragazzi vendevano libri
Io
restavo a
guardarli cercando il coraggio per imitarli
Poi
sconfitto
tornavo a giocare con la mente e i suoi tarli
E
la sera al
telefono tu mi chiedevi ‘perché non
parli?’
L’universo
trova
spazio dentro me
Ma
il coraggio
di vivere, quello, ancora non c’è.”
(“I
giardini di
Marzo”; Lucio Battisti)
3.
La vanità.
Era
Inverno. Nel suo cuore in realtà era sempre
Inverno. Sua madre era morta. Infarto, dicevano i dottori.
“Cuore spezzato in
maniera non molto metaforica.”, pensava lui. Gli ultimi anni
era stato
letteralmente uno strazio. John era stato lo spettatore principale
della
decadenza di una famiglia un tempo felice, serena. Una famiglia che
ormai
sembrava lontana, distante anni luce. Si era spesso meravigliato di
come le
cose ad un certo punto della vita potessero deliberatamente prefiggersi
di
andare male; di male poi in peggio. Ed è noto come si suol
dire, no? Al peggio non
c’è mai fine.
Quindi
aveva sotterrato sua madre vicino alla tomba
di suo padre. Sua sorella, nel tempo intercorso tra la morte e il
funerale, si
era trasferita dalla fidanzata di turno della quale John non ricordava
neanche
il nome. Era solo. Completamente solo. Una solitudine particolare,
viscerale.
Ma, paradossalmente, era calmo. Tranquillo.
Silenzioso.
Mike
Stamford, suo compagno d’Università
nonché
coinquilino ormai da un anno, aprì all’improvviso
la porta della sua camera
senza neppure bussare.
“John!”
il suo sguardo roteò velocemente nel
perimetro della stanza per poi posarsi su di lui, trovandolo seduto sul
letto
in maniera perfettamente composta. “Amico. Tutto
ok?”
“Certo.”
rispose pacatamente, accennando un sorriso.
“Che c’è?”
“C’è
quella tipa. Insomma, la bionda. Adesso mi
sfugge il nome..”
“Emma?”
gli venne subito in mente, senza pensarci su
neanche un po’.
“Sì,
ecco. Dice che ti ha chiamato duemila volte e
alla duemila e uno senza risposta è venuta qui ad appurare
se sei ancora vivo o
no.” gli sfuggì una mezza risata.
“Testuali parole, eh.” aggiunse poi,
scrollando le grosse spalle.
“Uhm.
Un po’ tragica.”
“Già.
È quello che ho pensato anch’io e per questo
è
ancora alla porta. Che faccio?”
“Falla
venire. Grazie, Mike.” gli donò un lieve
accenno di sorriso. “E scusa se non ho sentito il campanello.
Stavo.. ehm,
stavo pensando.” fu l’unica cosa che gli venne da
dire. La verità, insomma.
Mike
lo guardò un attimo, giusto il tempo per
riflettere su cosa fosse il caso di dire o no. Sapeva della morte di
sua madre,
ma sapeva anche quanto lui fosse restio a parlare di fatti personali.
Quindi alla
fine non disse niente e John, mentalmente, lo ringraziò una
seconda volta.
“No
problem, John.” fu l’ultima sua frase prima di
congedarsi con un occhiolino d’intesa, lasciandosi alle
spalle la porta della
camera aperta. La figura di Emma Sigel apparve in prossimità
dello stipite nel
giro di qualche secondo, sostituendo quella ben più robusta
del suo caro amico.
Emma
era onestamente una ragazza niente male, John
doveva ammetterlo. Ma la verità era che aveva
deliberatamente ignorato le sue
chiamate per giorni ed aveva archiviato le sue mail senza neanche
leggerle. La
verità era che aveva messo il suo contatto in
modalità silenziosa forse neanche
tre ore prima di quella sua improvvisata. Eppure eccola lì,
la dolce e
assillante Emma. Una Barbie dal carattere troppo insicuro, per gli
standard di
John. Dotata di un bel fisico, di occhi grandi e azzurri che ti
facevano
deglutire appena. Era giovane, snella. Bionda.
“Te le scegli con lo stampino.”,
sentì una voce rimbombare direttamente
dentro la sua scatola cranica. La scacciò con un battito di
ciglia più intenso.
“John.”
gli disse, avvicinandosi un poco e chiudendo
la porta con veemenza. Rimprovero nella sua voce, tensione nei suoi
arti. Aveva
paura di perderlo. Credeva di amarlo, forse. John lo sapeva. Ma a John
non
importava.
Quindi
semplicemente si alzò dal letto. Le si
avvicinò con cautela, poggiandole leggermente una mano sul
collo, saggiando di
poco la morbidezza della sua pelle vagamente abbronzata. Le
respirò appena
sulla bocca rossa di lucidalabbra e carnosa di natura, spingendola
verso sé
stesso per mezzo di una lieve pressione sul suo fondoschiena. Emma
sussultò di
rimando ed allora lui premette la propria bocca sulla sua e
aspettò. La Barbie
fece uscire qualche millimetro di lingua dalla sua cavità
orale ed il preciso
pensiero che si affacciò nella mente di John in
quell’istante fu che il più era
fatto. Sì, pensò.
Pensò
che l’avrebbe spogliata. Che avrebbe guardato
quel perfetto corpo curato e totalmente depilato perché Emma
sapeva benissimo
che lui ci teneva, che a lui piaceva così. E lei lo faceva;
faceva quasi tutto,
per John.
Pensò
che l’avrebbe stesa sul letto e che dopo
qualche bacio con la lingua l’avrebbe finalmente scopata,
magari preparandola
un po’. Beandosi della sua eccitazione liquida già
sicuramente presente. Faceva
questo effetto alle ragazze, John Watson. Onestamente non sapeva il
perché, ma
ormai era una costante che aveva appurato col passare del tempo. Aveva
ventitré
anni ma aveva scopato tanto, molto. Forse
troppo.
Ma
non amava. Non aveva mai amato. Sicuramente non
amava Emma Sigel. Ma la baciò lo stesso, la toccò
lo stesso. La penetrò lo
stesso, quasi ipnotizzato dall’atto. Perché
solo in quel preciso momento. Solo ansimando con ardore sul
suo collo,
tirandole leggermente i capelli. Solo dando sfogo alla sua libido con
quella
che non gli sembrava altro se non l’ennesima bambola della
sua vita. Soltanto
raggiungendo il culmine del piacere fisico, John non pensò. Non pensò più a niente.
***
“E
mentre
marciavi con l’anima in spalle
Vedesti
un uomo
in fondo alla valle
Che
aveva il tuo
stesso identico umore
Ma
la divisa di
un altro colore
Sparagli
Piero,
sparagli ora
E
dopo un colpo
sparagli ancora
Fino
a che tu
non lo vedrai esangue
Cadere
in terra
a coprire il suo sangue
E
se gli sparo
in fronte o nel cuore
Soltanto
il
tempo avrà per morire
Ma
il tempo a me
resterà per vedere
Vedere
gli occhi
di un uomo che muore.”
(“La
guerra di
Piero”; Fabrizio de Andrè)
4.
Conflitto latente.
La
guerra lo aveva cambiato in maniera profonda, ma
non sicuramente nel modo in cui avrebbe pensato la maggior parte della
gente. Arruolarsi
nell’esercito dopo essersi laureato era stata una scelta che
gli era sovvenuta
alla mente in maniera praticamente spontanea e lineare, senza troppe
ansie o
emozioni. Non era stato un sacrificio, né un atto
d’onore: voleva scappare.
Voleva andarsene, lasciarsi tutto alle spalle e provare a vivere una
vita
diversa. Era stata una scelta dettata dal suo proverbiale egoismo. Tutto qui.
La
guerra lo aveva sorpreso più di quanto lui stesso
avrebbe potuto inizialmente pensare. John era abituato alla morte. John
ci
conviveva praticamente da sempre, con la morte. John pensava che
sarebbe morto
anche lui, prima o poi. Ci pensava continuamente, ma non in
Afghanistan. Paradossalmente
l’Afghanistan, ponendolo in prima persona davanti
all’incubo della morte, gli
aveva tolto un sacco di pensieri. Era quasi ironico il fatto che fosse
andato alla
ricerca della vita e del suo significato proprio là dove
più regnavano morte e
distruzione: nelle macerie, nell’inferno di città
devastate. Proprio lì, dove
la guerra uccideva gli uomini e con essi i loro sogni, i loro amori e
le loro
speranze, lui si era sentito vivo. Vivo come mai prima. La guerra come orrore. La guerra come
amore. L’amore per la guerra.
Tutto
ciò lo aveva anestetizzato come una dolce
droga sedativa, come una delle sue migliori scopate. A John Watson
continuavano
a piacere le donne, ma sin dal primo tentativo di approccio aveva
appurato che
le arabe non facevano proprio per lui. “Belle donne, per
l’amore del cielo.”,
pensava. Ma quei capelli terribilmente scuri e spessi. Quella pelle
abbronzata
e quasi coriacea. Quegli occhi neri come pozzi profondi e infiniti.
Quell’odore
persistente di incenso, sandalo e sabbia. Nessuna Barbie, in
Afghanistan. Ma
non gli era importato. Per la prima volta, non gli era importato per
niente.
John
Watson ormai era un uomo. Era un medico, era un
soldato. Anelava lo scontro e sfidava la morte, la distruzione ed il
caos. Il
campo di battaglia era la sua nuova casa. I suoni delle armi la musica
di
sottofondo delle sue giornate. “Papà,
mamma.”, pensava ogni tanto. “Che
tristezza, la mia vita.”
Pensava,
ma poco. Pochissimo.
***
“Però,
(che cosa
vuol dire però?)
Mi
sveglio col
piede sinistro, quello giusto.
Forse
già lo sai
che a volte la follia
Sembra
l’unica
via per la felicità
C’era
una volta
un ragazzo chiamato pazzo
E
diceva sto
meglio in un pozzo che su un piedistallo
Oggi
ho messo la
giacca dell’anno scorso
Che
così mi
riconosco ed esco
Io,
un tempo era
semplice
Ma
ho sprecato
tutta l’energia per il ritorno
Un
ultimo
sguardo commosso all’arredamento
E
chi si è
visto, s’è visto.”
(“Altrove”;
Morgan)
5.
La fenice.
Quando
John fece ritorno in Inghilterra tutto era di
nuovo ed inevitabilmente cambiato. Tutto.
Non era più un ragazzo pieno di possibilità nel
mondo. Non era più un soldato,
una macchina da guerra al servizio dell’Inghilterra e di Sua
Maestà. Era solo
John Watson, un rispettabile reduce claudicante, squattrinato e solo.
In realtà
non era arrabbiato. Pensava. Pensava che in un certo qual modo che le
cose
forse, semplicemente, dovevano andare in quella maniera. In maniera triste.
Era
solo, sì. Quello era il suo destino. Era solo
praticamente da sempre e ciò che amava.. beh, ciò
che amava finiva per distruggersi,
finiva per morire. Harriet era morta.
Harriet era morta nell’attesa di un fegato che non sarebbe
arrivato mai. Perché
era un’alcolista, perché non se lo meritava.
Beveva come una spugna da quasi
vent’anni, Harriet Watson. Beveva da quando loro padre era
morto.
Era
Inverno, Harry era morta e lui lo sapeva. Sapeva
che sua sorella sarebbe morta, prima o poi. Quindi non pianse.
Sospirò. E pensò.
Pensò
finché una mattina non incontrò Mike Stamford.
John era ormai solito dedicarsi a lunghe passeggiate mattutine, un
po’ per la
noia e un po’ perché ritrovarsi coinvolto nel caos
cittadino lo faceva sentire
parte integrante di un qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Ma si sorprese
non poco
quando la figura robusta del suo vecchio amico gli si sedette accanto
nella sua
panchina preferita del parco in cui ogni giorno passava una buona
mezzora del
suo tempo.
“John.
John Watson!” lo salutò in maniera solare,
regalandogli sensazioni piacevoli che da non poco erano in lui
più che sopite.
Quindi gli raccontò tutto.
Gli
raccontò di come si fosse ferito in Afghanistan,
di come la sua carriera nell’esercito fosse completamente
andata a puttane nel
giro di qualche secondo. Lo sparo, il buio, il nulla. Gli
raccontò di come
fosse tornato a casa. Senza averla, in realtà, una casa. Gli
raccontò di come
fosse difficile riabituarsi alla vita civile, soprattutto senza
possedere nemmeno
la base di un qualcosa da cui poter ricominciare. Senza soldi,
famiglia, amici.
John
pensò. Pensò finché Mike, dopo averlo
ascoltato
in maniera a dir poco migliore rispetto alla psicologa che da qualche
settimana
pagava profumatamente, non lo trascinò quasi a forza in un
obitorio ad
incontrare colui che a suo dire sarebbe stato il perfetto coinquilino
per lui.
Pensò finché non vide il suddetto perfetto
coinquilino frustare con assurda
veemenza un povero cadavere, blaterando ipotesi e teorie sperimentali
sugli
orari di apparizione di lividi post-mortem.
“Questo
è un pazzo.”, pensava. “Questo
è un folle.”,
avrebbe voluto dire a Mike, il quale però era troppo
impegnato a lanciargli
sorrisetti ambigui e occhiatine saccenti per accorgersi della sua
assoluta
incredulità.
Poi
lo sconosciuto si girò, lo guardò; anzi, lo fissò. Lo fissò
con due occhi freddi
come il ghiaccio, un sorriso obliquo e tirato. John deglutì
in silenzio,
assoggettato dall’aurea di tale figura.
Sherlock,
così si chiamava. Sherlock Holmes.
Sherlock
continuò a guardarlo, studiandolo. Il tempo
di un botta e risposta blando e dalla sua bocca uscì
metà dei fatti privati che
nemmeno un quarto d’ora prima aveva vomitato addosso a Mike.
Dedusse metà della
sua vita, senza battere ciglio. Questo è..
“Straordinario.”
fu l’unica cosa che John Watson alla fine riuscì a
dire.
***
“Lo
so
La
vita è
tragica
La
vita è
stupida
Però
è
bellissima
Essendo
inutile
È
solo immagine
È
tutta estetica
Io
penso che la
vita non è niente e provo a vivere.”
(“La
vita”;
Baustelle)
6.
Stasi.
Era
Estate e faceva molto caldo. A John Watson continuavano
a piacere le donne, ma non scopava più così
spesso. “Ah, la vecchiaia.”,
pensava di sfuggita ogni tanto. Ma in realtà non si sentiva
vecchio. In realtà
non era neanche più zoppo. In realtà aveva quasi
raggiunto i quaranta ma non
riusciva ad individuare nella sua vita un periodo in cui si fosse
sentito più
attivo e energico di quanto si sentiva in quel momento. Sereno,
forse.
Ma
le donne. Ah, le donne. Non lo desideravano più
come tempo addietro.
“Non
posso accettare la tua vita sconsiderata.”, gli
aveva detto Jeanine, circa due mesi prima. “Non voglio essere
il tuo
tappabuchi.”, gli aveva urlato Carrie, chiudendogli la porta
del suo
appartamento direttamente in faccia. “Non sopporto quel tuo
amico strambo.”,
gli aveva scritto in un messaggio Eliza.. o forse era Sarah? Beh, non
lo
sapeva. In fondo non poteva fare alcuna differenza, ormai.
Il
fatto principale, l’unica costante che accomunava
tutti gli epiloghi delle sue penose storie sentimentali, era Sherlock.
Sì, era
sempre colpa di Sherlock, in un modo o in un altro.
John
andava a cena fuori il giovedì sera e il suo
coinquilino lo tempestava di messaggi all’apparenza deliranti
su un presunto
serial killer individuato tramite GPS telefonico nelle vicinanze del
ristorante
in cui si apprestava a mangiare. John provava ad andare a teatro ed
eccolo lì,
già, proprio all’entrata del luogo, intento a
blaterare supposizioni riguardo
intrighi mafiosi e omicidi annessi. John provava a portarsi a letto
qualcuna e
subito il telefono squillava: “John,
vieni subito se puoi.”, e dopo circa un secondo, “John, vieni anche se non puoi.”
E
lui andava, certo che andava. Prendeva le sue
cose, si scusava in maniera studiatamente mortificata e nel giro di
poco tempo
finiva per ritrovarsi nelle situazioni più assurde che la
sua vita - Sherlock - avesse mai
deciso di
presentargli davanti. E non gli importava niente di Jeanine, Carrie,
Eliza,
Sarah o chicchessia. Non gli era mai importato, in fondo.
“Le
relazioni sentimentali sono sopravvalutate, John.”,
sentiva una voce, la profonda voce del suo amico investigatore,
ripetere a mo’
di litania dentro la sua annebbiata testa. Ma John non lo sapeva, non
ci
rifletteva. Non sapeva se Sherlock avesse ragione o no
poiché, in quel periodo,
non pensava più. John agiva e basta; agiva con Sherlock. Agiva per Sherlock.
***
“Di
lacrime poi
si bagnò
Il
regno che ho
chiesto a te, ed ora
Ho
i ricordi
chiusi in te
La
tristezza
dentro me
Tra
due mani, le
mie
Sono
i cieli
neri che io so
Non
si
scioglieranno più.”
(“Cieli
neri”;
Bluvertigo)
7.
Lutto eterno.
Fu
l’anno più freddo di tutta la sua vita. Fu un
anno glaciale, quello in cui Sherlock morì. John Watson non
credeva che fosse
possibile sopravvivere con così tanto freddo fuori e dentro
il suo cuore. Era
fermo davanti alla tomba di Sherlock e pensava. La pioggia lo aveva
infradiciato completamente, ma lui pensava. “Mi manchi
Sherlock. Mi mancherai
per tutto il tempo che mi resta da vivere. Mi mancherai.. per sempre.”
E
non lo sapeva, cazzo. Non sapeva più come fare a
smettere di pensare. Lo aveva dimenticato, lo aveva rimosso. Sherlock
Holmes
aveva preso tutto, di lui. Quasi come se fosse stato un cubo di Rubik
da
rimettere insieme; quasi come se ormai non ci fossero neanche
più, i pezzi da
rimettere apposto. Quasi come se anche John in parte fosse
lì, sepolto anche
lui sotto metri di terra dentro quella stupida bara.
Provò
a scopare, ritornando ad essere per una sera
il ragazzino sconvolto dalla morte del padre e dal presagio di morte
della
madre di venti e passa anni prima. Andò da una prostituta,
la portò in un motel
e la osservò a lungo nuda, distesa sul letto. Era bella.
Giovane. Alta. Bionda.
Ma
lui vedeva capelli mossi, mediamente corti e neri
come la pece. Zigomi alti e abbastanza scavati. Pelle lattea
dall’aspetto quasi
innaturale. Occhi azzurri, grigi, indefinibili a parole concrete. Mani
quasi
scheletriche dotate di dita assurdamente lunghe. Un corpo magro, privo
di forme
morbide da toccare. Vedeva solo ossa, nervi, pelle e muscoli. Vedeva Sherlock. Non ci poteva credere.
Non ci poteva neanche pensare.
“Che
c’è? Non ti piaccio?” gli disse in
maniera
impaziente la Barbie in attesa sul letto, risvegliandolo dai suoi
pensieri. “Sì
che mi piaci.”, pensò. “A me piacciono
le donne. Mi sono sempre piaciute le
donne.”, pensò, ma non lo disse.
“Scusa.”
le disse invece nel momento in cui la
riportò nel luogo da dove l’aveva prelevata. Si
scusò, sì. Non l’aveva scopata,
in realtà non l’aveva neanche sfiorata. Decise
comunque di lasciarle cinquanta
sterline per il disturbo, o forse semplicemente per sentirsi meno
patetico.
“Fai pace col cervello, vecchio.” fu il flebile
sussurro che gli arrivò in
risposta, a cui non fece più di tanto caso.
Tornò
nel nuovo appartamento che non riusciva ancora
a catalogare come proprio e si masturbò con ferocia,
sentendosi male, un male
che mai aveva provato prima. Un malessere interno dilagante che gli
faceva
dolore le ossa, il cuore, il cervello e pure il cazzo. Quindi si
masturbò, venne
e pianse. Poi, senza nemmeno spogliarsi o pulirsi, si lasciò
andare ad un sonno
senza sogni. Un sonno che sapeva un po’ di morte. Ci sperava,
forse.
***
“Disorientato
ogni qualvolta mi intrometta in argomenti
O
in un gruppo
di persone attente
Scopro
che alla
fine non comunico sul serio
Non
capisco e
per primo non intendo, fraintendo, mistifico e rinuncio
È
arduo
rinunciare alle persone per cui vivo
Senz’altro
è più
sensato ritenere che la folla è la vera solitudine
E
le amicizie
svaniscono d’incanto al cambiare dei contesti
Sono
nato per
proseguire? O per seguire l’istinto?”
(“So Low - L'Eremita”;
Bluvertigo)
8.
Mary.
Mary
Morstan era perfetta. Mary gli piaceva davvero
tanto. Era dolce, bella, colta. Era
bionda. John l’adorava, l’apprezzava
davvero. Adorava il modo in cui tirava
indietro il suo folto ciuffo di capelli, incastrandoselo dietro
l’orecchio
destro. Adorava ascoltarla parlare di libri a lui sconosciuti, film
ormai
dimenticati dai più, musica indie di alto livello. Adorava
il luccichio che
aveva negli occhi mentre osservava il mondo; un mondo che, senza
sforzarsi
troppo, lei riusciva a guardare con incredibile positività e
curiosità. Sì,
Mary aveva un’anima limpida, un fascio di luce che illuminava
tutto ciò che le
si avvicinava. Tutto, tranne lui.
John
pensava.
Pensava che Mary sarebbe stata perfetta, se semplicemente lui non fosse
stato
John Watson. Se solo fosse stato un altro luogo. Un altro tempo. Un’altra vita.
Sì,
in un’altra vita
l’avrebbe potuta sposare, ne era certo. In un’altra
vita avrebbero potuto avere
una casa, un giardino, dei figli e magari anche un cane. In
un’altra vita
avrebbe potuto prenderla, stringerla, baciarla dolcemente e dirle che
l’amava.
L’amava da morire.
E
non l’avrebbe
scopata. In un’altra vita ci avrebbe fatto l’amore.
Per sempre.
Ma
quella che
stava vivendo non era un’altra vita. Quella era la sua solita
vita. “Una vita
triste.”, pensava. “Papà. Mamma.
Harriet. Sherlock.
Una vita così triste, senza voi.”
Mary
lo guardava,
seduta in maniera composta davanti a lui. A stento tratteneva i
singhiozzi. Era
una donna orgogliosa e gli piaceva anche per questo. Gli ricordava un
po’ sua
sorella Harriet. “Allora è finita,
John?” lo disse piano, quasi come se alzando
il tono della voce il fatto potesse diventare improvvisamente reale.
“Sì.” lo
disse forte perché semplicemente, per quanto potesse fare
male, era reale. Lo
era e basta.
John
non poteva
tornare indietro. Non poteva salvare suo padre dal tumore ai polmoni
che
l’aveva mangiato dall’interno in maniera subdola e
silenziosa nel giro di pochi
mesi. Non poteva curare il cuore spezzato di sua madre per mezzo di
cerotti
immaginari e abbracci; ci aveva provato, ma non era bastato. Non era
stato
abbastanza. Non poteva strapparsi il fegato e donarlo a sua sorella,
salvarla
dalla sua autodistruzione incessante. Non poteva e basta.
Ma
Sherlock.
John lo avrebbe potuto salvare. Se fosse arrivato
prima. Se fosse riuscito a convincerlo. Se fosse semplicemente stato
insieme a
lui. Se. Ma. Forse.
La
verità era
che non aveva salvato nemmeno lui. Era stato capace solo di guardarlo
cascare
da quel maledetto edificio e sfracellarsi al suolo. Sherlock Holmes era
solo
carne spezzata, dopo. Era sangue, ossa rotte, occhi sbarrati. Il suo
incredibile cervello sparso sul marciapiede come gelatina. Che spreco.
Che
orrore. Che vuoto.
“Mary,
non lo
puoi riempire questo vuoto. Ne puoi solo essere fagocitata.”,
pensava, mentre
la osservava andarsene dal locale immersa in un tacito silenzio.
“Mary.
Morirai anche tu, prima o poi.”
***
“Tu
sei lontana,
non mi senti
Ti
ho cercata
dappertutto ed ho trovato solo gente, solo ghiaccio
Qualche
briciola
di pane per i merli che son come perle nere nella neve maledetta
Tu
non temere,
sei a casa
Noi
non ci
lasceremo mai
E
anche se fosse
sarà il Tempo, non sarà
l’Eternità
Ed
abbi cura un
po’ di te
E
scusa, sto per
attaccare adesso
Sì,
è la musica
che ho scritto, eccola qua, modellata su di te, sulle tue
complessità
È
per il finale
della Temporalità
Quando
tutto
cesserà, guerra o pace, passerà
Tu
non la senti
Non
importa, ciò
che conta è che mi pensi qualche volta
Che
tu mangi,
che non pianga
E
che non siano
violentati dalla vita (perché tanto è limitata) i
tuoi occhi di smeraldo.”
(“Il
finale”;
Baustelle)
9.
Fantasma.
John
Watson era
sopravvissuto, in un certo qual modo. Era andato avanti, esattamente
come aveva
sempre fatto per tutta la sua vita, vivendo quell’Inverno del
cuore che con gli
anni aveva perfettamente imparato a conoscere. Lavorava, mangiava,
pisciava.
Camminava, beveva una birra al pub con Mike, guardava qualche stupido
programma
alla televisione. Dormiva. Dormiva
un
sacco. Dormiva perché solo allora riusciva a smettere di
vedere Sherlock. A non
vederlo ovunque.
A
John piacevano
le donne. Le desiderava ancora, certo. Ma non le notava più.
C’era
lui, c’era
sempre e solo lui. John lavorava e Sherlock era lì, seduto
sulla poltrona
davanti alla sua scrivania nell’ambulatorio in cui ormai da
quasi un anno e
mezzo passava la maggior parte del suo tempo. Ogni fottuto giorno era
lì,
cazzo. Lo guardava con occhietti saccenti e appena un paziente faceva
il suo
ingresso nella stanza lui si alzava e iniziava a gironzolargli intorno,
con il
suo tipico sguardo annoiato stampato in faccia e quella frenesia che
John
conosceva fin troppo bene. “Che
noia, John.”,
sembrava dirgli. Ma non parlava.
John
mangiava
noodle in scatola davanti alla televisione il sabato sera e Sherlock
era ancora
lì, cazzo! Disteso sul suo divano di terza scelta, vestito
dei suoi usuali
vestiti classici, inevitabilmente scalzo. Guardava il programma,
guardava lui.
Roteava gli occhi in maniera melodrammatica. “Davvero,
John?”, avrebbe detto così, certo. John
poteva quasi
sentirlo e allora, d’istinto, annuiva. “Lo sai che
adoro queste stupide
fiction, Sherlock. Mi distraggono.”, pensava. Ma non parlava.
Sherlock sbuffava
appena di rimando, strusciandogli i piedi usualmente gelidi sulle
cosce. John
lo osservava qualche secondo in più del dovuto e poi
riportava la sua
attenzione sullo schermo a colori.
John
camminava
nel parco e Sherlock era proprio lì, accanto a lui. E
già quel particolare
stonava in maniera stridente, e già quella constatazione gli
faceva deglutire
forte quantità enormi di saliva inesistente. Sherlock non
avrebbe mai camminato
accanto a lui per così tanto tempo. Così
simmetrico. Così vicino. Per ore.
Sherlock, il vero Sherlock,
correva. Divagava a grandi falcate approfittando della lunghezza delle
sue
gambe assurdamente, dannatamente,
infinite. Sherlock poi, tutto ad un tratto, si fermava. Colto da non
sapeva
quale folgorazione improvvisa, sorpreso da qualche tipo di particolare
sicuramente insignificante agli occhi di tutto il resto della
popolazione
londinese. Quindi andava a destra, andava a sinistra, andava ovunque!
Ma non
lì. Non sicuramente accanto a lui.
Per
ore, cazzo.
Sherlock,
il
vero Sherlock, era morto. Un anno e sei mesi erano passati e John era
calmo,
tranquillo. Quieto. John Watson sopravviveva con
l’inquietante e disarmante
consapevolezza di non aver nient’altro da perdere. No, non
c’era davvero più
nulla.
***
“Seguir
con gli
occhi un airone sopra il fiume e poi ritrovarsi a volare
E
sdraiarsi
felice sopra l’erba ad ascoltare un sottile dispiacere
E
di notte
passare con lo sguardo la collina per scoprire dove il sole va a dormire
Domandarsi
perché quando cade la tristezza infondo al cuore
Come
la neve,
non fa rumore
E
guidare come
un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto
difficile morire
E
stringere le
mani per fermare qualcosa che è dentro me, ma nella mente
tua non c’è
Capire
tu non
puoi, tu chiamale se vuoi emozioni.”
(“Emozioni”;
Lucio Battisti)
10.
Il
sole tramonta comunque.
John
Watson non
sapeva il motivo per il quale aveva deciso di recarsi al 221B di Baker
Street,
quel preciso giorno. Era Primavera. I fiori cominciavano a sbocciare,
gli
uccellini parevano trillare odi di felicità
all’unisono. In qualche maniera li
sentiva ed in qualche altra maniera riuscivano a scaldare almeno un
po’ il suo
arido cuore. Perché se c’era, se fosse stato
possibile trovare anche solo un
lato positivo in quella sua profonda solitudine, esso sarebbe
sicuramente stato
il modo in cui ormai avvertiva il mondo. I suoi paesaggi. Gli animali.
La
natura.
Un
giorno - non
troppo lontano da quel preciso giorno - si era pure ritrovato a
commuoversi nel
guardare un tramonto. Non gli era mai successo prima. I fatti, le
persone, la
politica: tutto questo aveva perso senso, non aveva più
alcuna importanza. Ma
non un tramonto, non un’alba. Non un giorno che in un modo o
nell’altro era
passato e che in qualche maniera gli aveva donato
un’indescrivibile bellezza.
La bellezza della vita fine a sé stessa, forse.
Ma
quel preciso
giorno non ci pensava. Quel preciso giorno uscì per la sua
usuale camminata
mattutina e, come molte altre volte aveva fatto, decise che essa
sarebbe stata
guidata dal vento leggermente tiepido che aleggiava su tutta la
città, un vento
che sembrava spingerlo dolcemente verso Est. Imboccò
svariate vie traverse,
sorprendendosi di come Londra stesse ancora metaforicamente dormendo
nonostante
fosse ormai rischiarata da un fievole sole di Marzo. Dopo circa mezzora
di
camminata arrivò al parco e lì fu avvolto da un
calore interno sempre maggiore,
quasi come se improvvisamente qualcosa fosse cambiato. Non sapeva cosa.
Si
guardò attorno e pensò.
Pensò
che è
davvero agrodolce il modo in cui certi ricordi non scompaiano ma
semplicemente
sbiadiscono, lasciandosi dietro una scia di malinconia inopportuna,
fastidiosa.
Ormai da mesi non vedeva più il fantasma di Sherlock e,
anche se non l’avrebbe
mai ammesso ad alta voce, gli mancava. Gli mancava terribilmente.
Si
mise a sedere
sulla sua panchina preferita, sospirando appena. Gli mancava una
proiezione
della sua mente. “Provo la mancanza di una fottuta
allucinazione.”, pensava.
Si
era commosso
ad osservare un tramonto, un giorno. Lo ricordava bene, sì.
Lo ricordava perché
mai si era sentito così spezzato, così dilaniato
da sentimenti contrastanti e
incompatibili. Si era sentito bene, si era sentito male. Bene
perché la
bellezza non gli era mai parsa una cosa così semplice,
tangibile e vicina più
di ogni altra donna che avesse mai avuto, più di ogni altra
donna che avesse
anche solo desiderato. Male perché poi il suo sguardo si era
spostato dal tramonto,
scivolando appena verso la sua
sinistra e accanto a lui, come sempre, aveva trovato la figura di
Sherlock.
Sherlock, sì, che fissava l’orizzonte insieme a
lui. Sherlock, che con fare
distratto si asciugava una lacrima e poi lo fissava. Sherlock, il suo Sherlock, che sembrava quasi
volergli dire: “Sono morto. Sono morto prima di potermi
rendere conto della
bellezza del mondo.” Ma, ovviamente, non parlava. Non poteva
parlare. Non
avrebbe mai più parlato.
John
avrebbe
voluto dirgli che aveva ragione, che non si può morire
così, sfracellandosi al
suolo senza prima aver visto un tramonto, averlo visto davvero.
“Tu guardi, ma
non osservi.”, gli diceva sempre Sherlock, quando era ancora
in vita, quando
ancora respirava. Ma John in quel momento sapeva. Sapeva che anche
l’investigatore, nonostante la sua incredibile intelligenza,
avrebbe avuto
ancora tante cose da osservare. Molto probabilmente troppe cose da
capire.
John
avrebbe
voluto dirgli che i fatti più importanti spesso e purtroppo
si capiscono quando
è troppo tardi. Quando, semplicemente, non
c’è più tempo. Quando non
c’è più
niente.
John,
quel
preciso giorno, in quel preciso momento, avrebbe voluto dirgli che
doveva stare
attento. Che la bellezza, quella vera, è un’arma a
doppio taglio che può ferire
fino alla morte. “Esattamente come te, Sherlock.”,
lo pensò in quell’attimo. Ma
non lo disse.
Fu
quindi con
una brutale mancanza nel cuore che corresse il suo percorso mattutino,
andando
contro vento e ritrovandosi in poco tempo di fronte al 221B.
***
“Ritornerai,
lo
so ritornerai
E
quando tu
sarai con me
Ritroverai
tutte
le cose che non volevi vedere intorno a te
E
scoprirai che
nulla è cambiato
Che
sono restato
l’illuso di sempre
E
riderai, quel
giorno riderai
Ma
non potrai
lasciarmi più.”
(“Ritornerai”;
Bruno Lauzi)
11.
Un crescendo.
Era
Primavera,
quindi. L’erba cresceva, le piante fiorivano e gli animali
erano in fermento.
Fu forse per via di questa
variabili che John Watson si ritrovò a salire i diciassette
gradini che lo
separavano dal suo ex appartamento a due a due, colto da
un’improvvisa frenesia
quasi sconsiderata. Dopo aver provato a suonare il campanello ed aver
appurato
che la signora Hudson non era evidentemente in casa era stato in
realtà un po’
esitante. Tale esitazione era però svanita nel giro di
qualche secondo nello
stesso istante in cui si era tirato fuori dalle tasche il mazzo di
chiavi del
221B che mai aveva ridato indietro. Chiavi che, inconsapevolmente o no,
per
tutti quegli anni aveva continuato a portarsi appresso ogni giorno.
“Stupido.
Sciocco.”, si disse mentalmente, sentendosi quasi un intruso.
Ma tale
sensazione durò giusto il tempo di arrivare in cima agli
scalini. Inspirò aria
a gran boccate. Sospirò, un sospiro che sembrò
riempirgli i polmoni di pura
nostalgia in formato gassoso. Soltanto allora varcò la
soglia.
John
sapeva di
per certo che la signora Hudson non aveva affittato
l’appartamento a nessuno,
durante quegli anni. Più volte si era domandato il
perché e le risposte che gli
erano sovvenute per tale quesito erano state generalmente tre: forse
per motivi
personali, magari per il costo mensile dell’affitto ancora
troppo elevato
rispetto alla media del quartiere. Forse perché non voleva,
semplicemente.
Quest’ultima opzione risultò per lui essere quella
più valida nello stesso
istante in cui posò gli occhi sull’arredamento:
niente era veramente cambiato.
Forse solamente l’odore aleggiante, non più pregno
di sentori chimici ma solo
di polvere e vecchiaia. Già, una vecchia casa piena di
vecchi ricordi.
Nient’altro.
John
Watson non
si sorprese più di tanto quando il suo sguardo si
posò su quelle che un tempo
erano state le loro due poltrone,
ritrovandole perfettamente statiche e allineate nella stessa posizione
in cui
l’aveva lasciate anni addietro. E Sherlock era lì,
certo che era lì.
“Stupido.”, si disse. “Stupido uomo
autolesionista.” Ma voleva vederlo. Almeno
un’ultima volta, anche solo un’ultima volta.
Lì, nel luogo in cui tutto era
stato e nel quale niente sarebbe stato più.
John
lo guardava
e per una volta non pensava. Lo osservava e basta, beandosi di
quell’immagine
eterea, quasi soprannaturale nella sua estrema perfezione. I dettagli
dei suoi
usuali abiti, la spigolosità delle sue forme. Era seduto in
maniera composta,
raccolto in un silenzio palesemente riflessivo. Perché
Sherlock era così,
davvero; pensava, pensava, pensava sempre!
Con quella sua fronte alta leggermente corrucciata, gli occhi
chiusi in
maniera decisa ma rilassata. La sua pelle assurdamente diafana, quel
collo
magro e lungo. Invitante, forse. E poi le sue mani, cazzo!,
quelle mani. Dita lunghe dall’aspetto aristocratico; mani
da pianista, magari anche da amante. Mani che John, ormai, non poteva
più
toccare. Mani sprecate.
“Ho
sbagliato,
Sherlock.”, pensava sconvolto da quella visione
drammaticamente reale, troppo reale.
“Ho sbagliato, sì. Il
tramonto più bello, l’alba più
magnifica.. sono nulla, in confronto a te. In
confronto a tutto ciò che eri. A tutto ciò che
saresti potuto essere.”
Sentì
i propri
occhi inumidirsi appena e si costrinse a cacciare indietro le lacrime.
John non
voleva piangere, non in quel momento. Non davanti alla consapevolezza
che ormai
tutto era finito, sì, quello era e doveva essere
l’epilogo di quel qualcosa che
in tutti quegli anni aveva continuato ad infestare la sua mente come un
tarlo
affamato di dolore ed angoscia. Doveva metterci un punto. Doveva
disinfestare
la sua anima.
Fece
quindi un
passo verso la poltrona, un passo esitante ma allo stesso tempo deciso.
In
quello stesso istante Sherlock sbarrò gli occhi, quasi come
se avesse potuto
udire lo spostamento di aria e polvere che John aveva provocato. Il
moro lo
guardò, con quel suo tipico sguardo indecifrabile. John
deglutì appena,
incatenando gli occhi a quelli della sua personale allucinazione fatta
uomo.
Quanto avrebbe voluto parlargli. Quanto avrebbe voluto toccarlo e
saggiare la
consistenza del suo corpo come mai aveva fatto prima. John avrebbe
voluto che
fosse vero. Che potesse essere vero. Ma
non poteva.
Sherlock
si alzò
dalla seduta, ovviamente senza proferire parola. John si era sempre
chiesto il
perché quella sua patetica proiezione mentale
dell’investigatore non fosse mai
stata capace di sillabare anche solo uno stupido
“ciao”. Gli
mancava la voce di Sherlock, temeva di
non ricordarsela più. Quindi senza pensarci troppo fece
altri due passi in
direzione del moro. “Sherlock.” fu un sussurro
senza fiato, quello che gli uscì
dalla bocca. “Mi manchi.” si concesse di
aggiungere, dandosi dello stupido
subito dopo. Parlava da solo, cazzo.
Ma
poi un
sussulto. Un qualcosa che lo lasciò pietrificato, che gli
tolse letteralmente
il respiro. Sherlock si avvicinò a sua volta e John
poté distintamente
avvertire un nitido scricchiolio proveniente dalle assi di legno sotto
i suoi
piedi. Sherlock si avvicinò ancora e John si sconvolse
davanti al lieve sentore
di un sommesso respiro arrivatogli sulla pelle da circa trenta
centimetri di
distanza. Ma i fantasmi della mente non respirano, no? Le allucinazioni
non
hanno fiato.
Un
altro passo e
tutto era estremamente caldo, strano, vero.
Troppo vero.
“John.”
gli
sussurrò, quasi sulla bocca. “Sei mancato anche a
me.”
E
John temette
di cadere. John, in quel preciso istante, pensò di essere
veramente impazzito,
di aver perso l’ultimo barlume di sanità mentale
rimastogli. E si maledì. Maledì
tutto.
“Non
adesso.”,
pensava. “Non ora che credevo di stare meglio. Non ora che
finalmente è
arrivata la Primavera.”
Indietreggiò
di
un poco. Si sentì mancare. Chiuse gli occhi.
Respirò profondamente. Li riaprì.
Ma
Sherlock era
ancora lì. Sherlock, che lo guardava con uno sguardo
esitante, palesemente
preoccupato. Sherlock, che sembrava respirare. Sherlock, che sembrava
vivo. VIVO.
“John.”
un altro
sussurro, questa volta articolato in una tonalità
leggermente più alta. Ma John
Watson non lo sentì. La sua coscienza l’aveva
appena abbandonato ed il suo
corpo era ormai in procinto di lasciarsi cadere rovinosamente sul
parquet del
221B.
***
“Nei
tramonti
dentro gli occhi tuoi
E
lungo i viali
di Parigi o di Los Angeles
Ritrovo
il
mondo, nei fiori di campo e nei passeri se nevica
Li
vedo campare
senza niente da mangiare
Osservo
Dio, lo
lascio fare
Certe
notti da
nevrastenia, da soffocare
Apro
la finestra
e volo via, si fa per dire
Come
la ginestra
nata sulla pietra lavica
Mi
vedo lottare
come mosca nel bicchiere
Eppure
Dio, lo
lascio fare
La
morte non
esiste più, non parla più, non vende
più
Mio
folle amore
La
vita non
uccide più i nostri baci, i nostri sogni e le parole
Il
tempo non le
imbianca più e non si seccano a lasciarle stese al sole
Stringimi
le
mani, non è niente, che la guerra passerà
Certi
Inverni
freddi, certi guai, mi fan paura
Prego
nel
restare ancora qui, mi illudo ancora
Poi
improvvisamente arrivi tu, sorridi
E
penso che non
ho più timore
Lascio
correre
il dolore, non c’è più
E
niente muore.”
(“La
morte non esiste
più”; Baustelle)
12.
Sherlock.
Era
Estate
inoltrata. Era una delle più calde della sua intera vita, a
voler essere
pignoli. John Watson non sapeva come si potesse sopravvivere a tali
temperature
tropicali a Londra, se protratte per più di qualche giorno.
Ma in qualche modo
ce l’avrebbero fatta. In qualche modo, loro,
ce la facevano sempre.
Fu
con un
sorriso a trentadue denti che fece il suo ingresso nel 221B, armato di
una
scarsa spesa composta prevalentemente da gelati e ghiaccioli. Non si
meravigliò
affatto di trovare Sherlock nella stessa identica posizione in cui
l’aveva
lasciato circa trenta minuti prima.
“Joooohn.”
cantilenò, disteso sul pavimento e per una volta privo di
camicia, intento a
sventolarsi svogliatamente con una rivista di gossip trovata
chissà dove.
“John. Ho caldo.” aggiunse poi l’ovvio,
senza degnarlo di uno sguardo. John
trattenne una risata di rimando, dirigendosi a passo spedito verso il
freezer
per posizionarci le compere. Aprì la scatola dei ghiaccioli
e senza pensarci
troppo ne prese uno alla fragola e uno al limone.
“John.
Il mio
prezioso cervello va a fuoco.” continuò
l’altro appena lo sentì ritornare nella
stanza, scandendo l’ultima parola della frase con veemenza.
“Ho capito, ho
capito. Tieni.” gli rispose in fretta, porgendogli il
ghiacciolo alla fragola
già scartato. Sherlock allungò la mano per mezzo
di un movimento scenicamente
lento e sofferente, finendo poi per mettersi a studiare lo stecco rosa
con
sguardo circospetto.
“Non
hai mai
mangiato un ghiacciolo?” dedusse John dopo qualche secondo,
trattenendo appena
un risolino. Un ‘no’ secco fu la risposta lapidaria
dell’altro. Sherlock studiò
l’oggetto mangereccio ancora per qualche secondo, giusto il
tempo di far sì che
si iniziasse a sciogliere copiosamente. Poi, senza più
esitare, iniziò a
leccare con gusto e subito uno sguardo compiaciuto si
affacciò sul suo volto.
“Perché
non ho
mai mangiato un ghiacciolo, John?” sillabò in
maniera estremamente seria,
continuando a leccare le gocce che colavano sullo stecco e sulle sue
mani.
“Cosa vuoi che ne sappia, io?” gli rispose John
divertito, andandosi finalmente
a sedere sulla sua poltrona, ma
senza
mai staccare gli occhi da quella scena
che nella sua semplicità e assurdità
gli faceva battere il cuore più
velocemente di quanto chiunque, Sherlock compreso, potesse immaginare.
Perché
Sherlock
era lì, davvero. Sherlock aveva caldo e mangiava un
ghiacciolo per la prima
volta nella sua strana vita. Sherlock era
vivo. Il suo cranio era integro, gli ossi ben saldi, il
cervello
esattamente dove doveva essere. Il sangue scorreva veloce nelle sue
vene, il
cuore batteva regolarmente ed il suo respiro aumentava in maniera
esponenziale
la temperatura già alta della stanza. Ed era sudore reale
quello che scorreva
copioso sulla sua fronte bagnandogli i capelli, lucidando la sua pelle
bianca e
disegnando rivoli scomposti su tutto il suo magro petto. Evitando di
soffermarsi
troppo sulle cicatrici che disturbavano la perfezione della sua cute,
John lo
osservò; John ormai lo osservava sempre.
Le
attenzioni di
Sherlock verso il ghiacciolo si estinsero però nel lasso di
qualche minuto e,
all’improvviso, John si ritrovò da osservatore ad
essere osservato. “Perché mi
guardi così, John?” mormorò appena,
incatenando inevitabilmente i suoi occhi.
Perché.
John sorrise abbassando un attimo lo sguardo, sentendosi quasi a
disagio.
John
avrebbe
voluto dirgli tante, troppe cose. Avrebbe potuto sproloquiare per ore,
presentandogli il salato conto di anni interi passati a riflettere su
cose che
lo avevano quasi fatto marcire come carne in putrefazione. Anni di
follia, anni
di vuoto. “Senza te, Sherlock. Una vita senza te.
Capisci?”, pensò. Ma non lo
disse.
John
avrebbe
voluto dirgli che la vita lo spaventava ancora, in un certo qual modo.
Perché
Sherlock non era morto, certo, ma prima o poi lo sarebbe stato. Come
tutti.
Come John stesso. Ma, Dio!, se
c’era
una cosa che ormai aveva capito era che quella stessa vita che tanto
gli aveva
tolto ad un certo punto, magicamente, gli aveva fatto regalo. Un regalo
inaspettato, un regalo che forse un uomo come John Watson non credeva
di
meritarsi davvero. “Te. La vita mi ha dato te. Due
volte.”, pensò. Ma non lo
disse.
Quindi
lo
osservò ancora, in silenzio. C’erano veramente
troppe cose dire. C’erano
veramente troppe cose da fare. Si alzò, avvicinandosi a
quella meravigliosa
creatura seduta per terra, rovistandosi nelle tasche dei pantaloni e
tirandone
fuori un fazzoletto di carta. Con movimenti lenti ma coincisi si
avvicinò alla
sua faccia, asciugandolo delicatamente da tutto il succo di fragola
misto a
sudore che gli aveva inevitabilmente imbrattato bocca, guance e collo.
Poi,
senza rifletterci più di tanto, si chinò un poco,
quel tanto basta per
stampargli un bacio a fior di labbra e assaporare un gusto acre e dolce
allo
stesso tempo. “La giusta sintesi di ciò che sei,
Sherlock.”, lo pensò. Ma non
lo disse.
“Sei
buffo,
Sherlock.” gli soffiò invece sulla bocca,
annusandolo appena. “E puzzi anche un
po’.” aggiunse, non riuscendo a trattenere una
risata. Sherlock lo occhieggiò
di rimando, donandogli uno sguardo serio e obliquo. John si perse in
quegli
occhi profondi, quasi alieni. John si perse nella grassa risata che nel
giro di
qualche secondo l’altro produsse, dopo essersi odorato appena
e aver
bisbigliato un “hai perfettamente ragione.” John
si perse. Anzi, si era già perso da tempo. Ma non
gli importava; non più,
ormai. Perché a John Watson piacevano le donne. Non aveva
mai avuto dubbi a
riguardo e mai gli avrebbe avuti. Ma lo sapeva, lo aveva capito. Lo
aveva
accettato.
“Ti
amo,
Sherlock.” lo disse piano, talmente piano che inizialmente si
domandò se
l’altro lo avesse sentito. Ma la risata di Sherlock si spense
all’improvviso e
il suo sguardo ritornò ad essere serio, concentrato.
Riflessivo, come sempre.
John sapeva che Sherlock Holmes non era il massimo, con le parole. Non
era il
suo campo, proprio no. Quindi non si aspettò risposta.
Quindi si avvicinò
ancora, stringendolo fortemente, intrappolandolo in un abbraccio quasi
disperato.
Ed il battito cardiaco di Sherlock, a quel punto, parlò per
lui.
“Ti
amo,
Sherlock. Ti amerò per sempre.”
John
lo disse,
semplicemente, senza pensare. E dentro di sé rideva, rideva
di cuore.
“Dieci
ragazze per me,
però io muoio per te.”
THE
END
Note:
Allora,
rieccomi
qua! Non voglio essere prolissa, ma ci tengo davvero tanto a questo
lavoro
nonostante lo reputi un po’ controverso per via dei temi
narrati. Lo so, sono
una persona tragica e drammatica (come Emma Sigel, forse :P)
però credo che
alla fine queste idee, questi pensieri, possano accumunare molte
persone. La morte,
la paura della morte, la solitudine. Forse l’unica vera
prostituta di
questo racconto in realtà è John Watson, e
non tutte le donne che ha sfruttato per riempire il vuoto che si
sentiva
dentro. Detto questo, spero che il finale dolce e tenero vi possa aver
fatto
piacere; in realtà non era programmato, poteva finire
malissimo, ma l’ispirazione
va da sé.. Basta, ora
la smetto davvero di
annoiarvi. Spero vi sia piaciuta, fatemi sapere.
A
presto,
AintAfraidToDie