Capitolo 1. Excelsior
«Vuoi
scherzare? La domenica? Adoro la domenica, vivo per la domenica,
papà
compra l'arrosto al supermercato all'angolo, poi si mette la maglia e
guardiamo la partita. Sì, mi fa impazzire e sì,
ero negativo. Tu
neanche lo sapevi che la adoravo Lydia, ma è
così, solo che non
apprezzavo né lei né te prima...»
«Sbrigati, è ora di
andare!» disse una voce fuori dalla porta.
«Sì, arrivo! Solo
un momento...» lisciò la lettera spiegazzata e
riprese a leggere.
«Tutto questo l'ho perso, l'ho buttato via, ma anche tu l'hai
buttato via, possiamo recuperarlo. Io sto meglio ora e spero anche tu
e intendo apprezzare...» un insistente bussare lo interruppe
di
nuovo.
«Stiles, muoviti, sai che al dottore non piace
aspettare!»
Stiles prese un bel respiro, l'infermiere continuava a
interromperlo mentre lui faceva qualcosa d'importante,
guardò il
foglio di carta con la scritta “Excelsior” appeso
al muro e si
disse di pensare positivo.
Eichen House era una struttura
psichiatrica che sorgeva appena fuori città, immersa in un
grande
parco ricco di alberi e con un laghetto per le anatre. Stiles era
stato portato lì dopo che aveva quasi ucciso Jordan Parrish,
suo
collega di lavoro e amante di sua moglie. Non era stato facile
contenere la rabbia dopo aver visto lui e Lydia nudi nella doccia.
Da
quando però aveva iniziato il suo percorso di cura tutto era
cambiato, aveva sviluppato la sua filosofia di vita, Excelsior,
cioè
trasformare la negatività in energia positiva.
Quando stavano
insieme Lydia insisteva perché lui si rimettesse in forma,
così
aveva iniziato ad allenarsi. Correva ogni mattina attorno alla
struttura per almeno mezz'ora, poi passava ad altri tipi di esercizi
per rafforzare e definire i muscoli e infine tornava in stanza e
rileggeva ad alta voce il discorso che aveva scritto a Lydia, per non
rischiare di dimenticarlo quando si sarebbero rivisti.
Era una
routine ben collaudata a cui si univano tutte le altre
attività di
un ospedale, tra cui il momento di prendere le medicine – che
per
inciso, sputava di nascosto negli ultimi tempi – e le sedute
di
gruppo. Aveva preso sul serio le sedute di gruppo con il dottor
Fenris, non ne perdeva neanche una, era il momento che preferiva
della giornata.
Quel giorno però era diverso da tutti gli altri,
quel giorno era l'ultimo che passava lì e non c'era tempo
per la
seduta delle 12:00 perché suo padre era venuto a prenderlo
alle
11:00.
«Tecnicamente potrebbe portarlo via contro il nostro
parere, ma si assumerebbe una grande responsabilità davanti
al
tribunale e si stava abituando alla nostra routine» furono le
parole
del direttore, ma suo padre aveva ormai deciso.
«Non voglio che lui
si abitui alla vostra routine. Otto mesi sono lunghi abbastanza e io
ho già firmato il modulo di dimissione, andiamo
figliolo» disse lo
sceriffo mettendogli una mano sulla spalla. Stiles prese il borsone
con tutte le sue cose e lo seguì fuori dall'ospedale.
Si sentiva
incredibilmente positivo.
Il viaggio in macchina fu tranquillo, o
meglio, suo padre continuò a guardare fisso davanti a
sé,
ascoltando il notiziario sportivo alla radio. Stiles non capiva se
Noah si vergognasse di lui o se provasse vergogna per se stesso.
Scoprire che il suo unico figlio era affetto da un disturbo della
personalità non doveva essere stato piacevole per il vecchio
sceriffo, sapere di non essersene mai accorto forse era anche peggio.
Il paesaggio fuori dal finestrino era uguale a come lo ricordava,
eppure tutto gli sembrava diverso, come se non appartenesse
più
davvero a quei luoghi. Anche casa di suo padre aveva un odore poco
familiare e, nel momento esatto in cui mise un piede oltre la soglia,
avvertì la sensazione di chi guida la propria macchina dopo
averla
prestata a qualcuno.
«Eccoci qui» disse
Noah, liberandolo dal peso del borsone. «Non stare
lì impalato,
siediti dove vuoi ma ricordati di non toccare i miei
telecomandi».
Stiles si guardò intorno e vide accanto al divano
la curiosa composizione. In casa c'era un solo televisore, ma
lì sul
tavolino c'erano quattro telecomandi universali messi in fila sopra
un poster degli Eagles ripiegato. Doveva averlo staccato dalle pareti
della sua stanza, si vedevano ancora i pezzi di nastro adesivo
ingiallito agli angoli.
Suo padre tornò poco dopo con due
lattine, una di birra e una di coca cola.
«È come quando eri
piccolo, io bevo la birra e tu la bibita analcolica».
«Già. E
come stanno andando le cose, che mi racconti? La pensione è
ormai
vicina».
Noah bevve un sorso
di birra, poi prese alcune carte e si sedette accanto al figlio.
«Esatto! Finalmente
aprirò un ristorante specializzato in panini carne e
formaggio» gli
fece vedere lo schizzo del locale. Un progetto ambizioso, Stiles gli
aveva sempre sentito parlare di questo sogno ma non credeva che si
sarebbe mai deciso a fare il grande passo.
«E dove li trovi i
soldi?» chiese dubbioso.
«Li trovo, li trovo, tu non ti
preoccupare...»
Lo stipendio dello sceriffo di una piccola contea
non poteva bastare, non era mai bastato. Dopo la morte della moglie
Claudia, Noah era entrato nel giro delle scommesse. Era ovviamente
illegale, soprattutto per lui e per la carica che ricopriva, ma
nessuno poteva beccarti se eri il capo e sapevi come muoverti e con
chi trattare.
«Fai ancora
l'allibratore? Avevi promesso di smettere, non mi piace che tu mi
dica bugie, sai che non mi piace, mi fa andare fuori di
testa» si
passò una mano tra i capelli nervoso, ripetendo dentro di
sé
“excelsior”.
Era strano, ma fuori dalla clinica era più
difficile restare positivo.
«Tu invece che cosa hai intenzione di
fare?»
Stiles non vedeva l'ora che qualcuno glielo chiedesse. In
ospedale gli stavano insegnando a vivere il presente giorno dopo
giorno, ma lui non riusciva proprio a spegnere la parte del cervello
adibita alla costruzione di castelli in aria.
«Be', mi rimetterò
in sesto, riavrò il mio lavoro e poi se tutto
andrà come deve io e
Lydia torneremo insieme» disse con ritrovata
vitalità.
Noah fece
una smorfia e annuì con poca convinzione.
«Che c'è? Non era
questo lo scopo del mio ricovero? Guarigione e reinserimento nella
società. Io sono qui, sono pronto a farlo!»
schizzò in piedi come
una molla.
«Figliolo...» sospirò «Lydia
ha venduto la casa, se
n'è andata».
Stiles roteò gli occhi al cielo e sbuffò.
Sentir
parlare di lei come se fosse acqua passata lo metteva in crisi come
poche altre cose al mondo. Mezza parola e il suo umore cambiava
totalmente e allora perdeva le energie positive accumulate con
fatica, riprendeva a gesticolare, parlare in fretta e balbettare. Era
più forte di lui, Lydia era l'anello debole capace di
spezzare la
fragile catena del suo equilibrio mentale.
«Chiariamoci, tu non
sai niente del mio matrimonio, d'accordo papà? Ci sei? Il
nostro...
il nostro... il nostro matrimonio, noi siamo molto innamorati,
è
chiaro? Proprio come lo eravate tu e la mamma».
«Senti
Mieczyslaw, se n'è andata, non c'è più
ormai. Lydia se n'è
andata» insisté il padre.
La rabbia gli stava montando dentro.
Perché nessuno credeva in lui? Non ci provavano nemmeno a
dargli una
seconda possibilità!
«P-papà che stai facendo? Io... sai che ti
dico? Excelsior! Excelsior!»
«Che significa?» gli chiese
spazientito.
«Excelsior!»
continuò Stiles imperterrito. «Lo sai cosa
farò? Prenderò tutta
questa negatività e la userò come carburante per
trovare il lato
positivo, è questo che farò. E, prima che tu lo
dica, non è una
stronzata, non è una stronzata. Ci vuole impegno e questa
è la
verità» disse di nuovo sicuro di sé e
salì di sopra a fare una
doccia per scacciare via i brutti pensieri.
Excelsior, la sua
filosofia non lo tradiva mai, lei non l'avrebbe mai tradito.
Come
ogni mattina,
Stiles era già in piedi all'alba e si guardò allo
specchio per
l'ennesima volta da quando era tornato. Alla clinica gli specchi
erano proibiti, quindi vedeva di tanto in tanto il suo riflesso su
qualche finestra o su altre superfici lucide, ma niente era impietoso
come lo specchio del bagno di casa propria. Faticava un po' a
riconoscersi, era molto più magro, i capelli erano
più lunghi e
mossi, la barba era folta. Guardò gli occhi castani,
timoroso di
ritrovarvi la scintilla di follia che lo portava a spegnere il
cervello, ma il suo riflesso gli restituì l'immagine di un
uomo
stanco e tormentato. Chiuse gli occhi e respirò a fondo...
“Excelsior”...
Le immagini di quel che aveva fatto a
Parrish lo raggiunsero come dei flash e le note di una canzone
romantica risuonarono in lontananza. Strinse il lavandino fino a
sentire dolore alle mani, ma era insopportabile, come il rumore di
unghie sulla lavagna, a tutto ciò si univano i gemiti di sua
moglie
sotto la doccia...
D'istinto afferrò la prima boccetta a portata
di mano e la scaraventò contro la finestra, mandandola in
frantumi.
Quel rumore fece cessare tutto il resto, ma attirò anche suo
padre,
che fece capolino nella stanza con sguardo preoccupato.
«Mi... mi
dispiace papà» disse, mordendosi il labbro
inferiore. Non voleva
causare altri guai a suo padre, ma era stato più forte di
lui.
«Aggiusterai la
finestra al tuo ritorno, adesso muoviti, devi andare alla prima
seduta di terapia. Sono le condizioni del tribunale e poi, come hai
visto, ne hai ancora bisogno».
Stiles non voleva andare a quelle
sedute, il dottor Deaton aveva l'aria da saccente so-tutto-io e lo
punzecchiava di continuo, come se il suo scopo fosse quello di farlo
reagire in modo brusco. L'aveva visto un paio di volte quando si
trovava ad Eichen House e non aveva alcuna voglia di rivederlo nel
suo studio privato.
La
sala d'attesa era
piccola e di un asfissiante color sabbia smorto, la segretaria era
una ragazza carina acqua e sapone, lo accolse con un gran sorriso e
gli disse di accomodarsi.
C'erano tre file di sedie, alcuni
pazienti sfogliavano delle vecchie riviste con pigrizia, tranne una
donnetta tremante che gli rivolse uno sguardo carico di paura.
E
poi partì la canzone, proprio quella canzone, la canzone che
lo
torturava giorno e notte.
Tossì un paio di volte a disagio per
sciogliere il groppo alla gola, si mise seduto, poi si alzò,
poi si
mise di nuovo seduto. Alla fine della prima strofa tornò
davanti
alla segretaria.
«Scusi, questa canzone suona davvero?»
«Mettiamo della musica a volte» fu la risposta vaga
della
ragazza. Lui artigliò le dita al bancone.
«Questa canzone mi
sta uccidendo. Può spegnere per favore?»
sputò a denti stretti.
La donna dietro di lui emise un mugolio spaventato, la ragazza
invece indietreggiò, sollevandosi appena dalla sedia.
«Non posso»
rispose provando a tenere un tono professionale.
«Come sarebbe
che non può?!»
«No, non ho il telecomando» si
giustificò, ma
lui aveva già capito.
«È il dottor
Deaton che gliel'ha imposto?» lei non disse nulla e nel
frattempo
quella canzone gli rosicchiava il cervello come un tarlo. Si
guardò
intorno alla ricerca dello stereo, la paziente paurosa si
alzò e
scappò via. Doveva spegnere quella canzone prima di fare del
male a
qualcuno.
Si diresse verso il portariviste e iniziò a gettarle in
giro per la stanza.
«Ci sono... ci sono
delle casse qui?» balbettò, trattenendosi a fatica
dal fare tutto a
pezzi.
La musica cessò e il dottore uscì dalla propria
stanza. E
allora Stiles si rese conto di aver esagerato.
Lo studio di
Deaton era di una normalità disarmante, era proprio come se
lo
aspettava, con gli scaffali in noce carichi di libri sulla psiche
umana, una scrivania e una chaise longue in ecopelle che emanava un
forte odore di ecopelle. Lui però odiava sia le chaise
longue che
l'ecopelle, così scelse la poltrona davanti a quella del
dottore.
«Mi ha fatto una bella porcata dottor Deaton,
chiaro?»
disse risentito.
«Chiamami Alan» rispose quello con calma.
«Sì,
Alan, non è così che si accoglie la gente,
chiaro?» si grattò la
testa, senza riuscire a fermare la gamba. Faceva saltellare il
ginocchio e Lydia odiava quando lo faceva.
«Scrivitelo su
quel... su quel tuo libricino degli appunti»
indicò con un gesto
stanco il taccuino su cui Deaton scriveva senza sosta.
«Mi dispiace per la
canzone, volevo soltanto vedere se ancora scattavi» disse il
dottore, sinceramente dispiaciuto.
«Bravo, ancora scatto e...»
Stiles si stropicciò gli occhi e sospirò
«...e non voglio prendere
le medicine».
«Stiles, sai che devi prendere le tue
medicine».
«No, no, no. Mi stordiscono, non le voglio,
spiacente» scosse la testa risoluto, lo sguardo basso per non
concedere alcuna possibilità di replica. «Senti,
non sono uno che
dà di matto, mio padre è quello che dà
di matto, io non sono così.
È stato cacciato dallo stadio, non so quanti ne abbia
picchiati per
gli Eagles, è sulla lista dei diffidati e ha rischiato di
perdere il
lavoro».
Deaton restò in silenzio a fissarlo, finché
Stiles non
ne poté più e tornò a guardarlo in
faccia.
«Io ho avuto un
solo incidente!»
«Un incidente ti può cambiare la vita».
«Sì,
ma... ma io... io sono pronto!» disse con voce incrinata.
Perché
nessuno gli credeva?
«Io sono pronto ad assumermi la mia parte di
responsabilità e anche Lydia deve assumersi la sua parte
però».
«Quale sarebbe?»
«Quale sarebbe? Vuoi scherzare?!
Be', torniamo all'incidente. Torno a casa dal lavoro dopo essere
uscito prima, cosa che non faccio mai a proposito, ma avevo discusso
con mio padre, lo sceriffo. Torno a casa e che sento? La canzone del
mio matrimonio, quella che tu così deliziosamente hai messo
qui per
noi oggi. Sta suonando e a me non viene in mente niente, il che
è
strano, avrebbe dovuto. Torno a casa e che cosa vedo? E-entro in casa
e... e vedo mutande e capi d'abbigliamento e pantaloni da uomo con la
cinta infilata, che sono proprio uguali a quelli della mia divisa, e
allora salgo le scale e a un tratto vedo il lettore cd e nel lettore
cd c'è il cd della canzone del matrimonio, poi abbasso lo
sguardo e
vedo le mutandine di mia moglie per terra, poi alzo lo sguardo, lo
alzo ancora e la vedo nuda nella doccia e penso oh, che carina!
È
già nella doccia e così è perfetto,
magari ci entrerò anch'io,
non abbiamo più scopato nella doccia, magari oggi lo
facciamo.
Scosto la tendina con le mani e c'è quello stronzo di Jordan
Parrish, il mio collega di lavoro. E sai lui che mi dice? È
meglio
che tu te ne vada! È questo che dice, perciò
sì, ho svalvolato,
l'ho quasi pestato a morte e ora sono castigato per questo? Mi
paragonano a mio padre, non credo proprio!»
Aveva parlato
velocemente, senza riprendere fiato, tanto che sentiva la gola
bruciare e il viso caldo per lo sforzo, ma non riusciva proprio a
frenarsi quando si trattava dell'incidente.
Deaton non sembrava
impressionato e non dava segni di voler capire quanto lui avesse
ragione.
«Va bene. Vuoi parlarmi di quello che hai fatto prima
dell'incidente?»
Ecco la domanda, quella che non avrebbe voluto
sentire, il pungolo sul nervo scoperto. Stiles mise il pollice in
bocca e iniziò a mordicchiare la pelle attorno
all'unghia.
«Stiles...»
«Una settimana prima dell'incidente
ho detto a mio padre che mia moglie e Parrish complottavano contro di
me e... e non era vero, era una fissazione. Più tardi
abbiamo
scoperto in ospedale che questa era un...»
«Non diagnosticato
bipolarismo».
Stiles si lasciò andare contro lo schienale della
poltrona, abbassando di nuovo lo sguardo.
«Sì, con sbalzi
d'umore e pensieri strani provocati da un grosso stress. È
sporadico, grazie a Dio».
Stava scivolando nell'altro baratro,
quello della tristezza, così si disse
“excelsior!” e si sforzò
di proseguire, andare oltre, risalire in superficie.
«E poi, e
poi c'è stato l'incidente della doccia. È
là che tutto è esploso,
allora mi sono reso conto che oh, ehi, wow, ecco io combatto con
questo da tutta la vita e senza alcuna assistenza ho affrontato tutto
da solo e insomma praticamente ho vissuto a pugni stretti... tutta la
vita».
«Sarà stato difficile».
«Sì, parecchio
dura, soprattutto se non sai che diavolo sta succedendo, invece ora
lo so. Più o meno».
Nel pomeriggio
si disputava la partita Eagles vs Giants, suo padre si era preso
qualche ora di permesso e per poterla guardare a casa in tv. Aveva
preparato un vassoio di stuzzichini e portato alcune birre e lattine
di cola in salotto.
«Stiles vieni a
sederti qui con il tuo vecchio, sta per iniziare!» gli
urlò dalla
sua poltrona.
Stiles era però in cucina a fare dei buchi ad un
sacco nero per la spazzatura, ne indossava sempre uno sulla felpa
prima di andare a correre. Lydia diceva che sudare non l'avrebbe
aiutato a dimagrire, ma lui aveva perso peso e messo su parecchi
muscoli, quindi forse lei non sapeva tutto.
Infilò la testa poi
le braccia nella plastica e fece qualche salto sul posto per
riscaldare le gambe.
«STILES!» lo
chiamò di nuovo lo sceriffo e così lo raggiunse
senza smettere di
saltellare.
«Che c'è?»
«Hai preso le medicine?» disse
senza staccare gli occhi dallo schermo.
«No, lo sai che mi
gonfiano come un pallone e mi fanno stare male» si
lamentò
esasperato.
«Prendile e falla
finita, non puoi rischiare, la responsabilità è
mia ora».
«Stai tranquillo,
papà, affronto tutto con l'esercizio fisico».
Noah fece una
smorfia infastidita e lo guardò. «Che stai... che
stai facendo?
Perché indossi un sacco dell'immondizia?»
«Mi fa sudare e mi
tiene in forma» si strinse nelle spalle. «Io vado,
ci vediamo
dopo».
«E ora dove stai
andando? Resta qui a vedere con me la partita, dai!»
Stiles si
fermò sulla soglia.
«Ma papà! Per favore, ho delle cose da
fare».
«Siediti dai, sette minuti e siamo zero a zero, vieni a
scacciare la jella» gli sorrise mostrandogli un fazzoletto
verde e
bianco.
«Non credo nella
jella».
«Aaah coraggio
mister Excelsior, vuoi essere positivo? Sii positivo, siediti
qua»
gli indicò per l'ennesima volta il divano.
Suo padre non era solo
testardo come un mulo, aveva anche la brutta abitudine di mettere il
broncio e diventare insopportabilmente antipatico se qualcuno non
faceva ciò che lui gli aveva detto di fare.
«Uff, e va bene, ma
solo per un secondo, guardo l'inizio della partita»
andò a sedersi
contro voglia.
«Vedrai, andrà
bene, sono convinto che tu porterai fortuna».
E da quando aveva
iniziato a scommettere si era lasciato conquistare dalla
superstizione.
«Che hai in mano?»
fece cenno verso il fazzoletto verde che Noah si rigirava tra le
dita.
«Un fazzoletto, era
tuo. L'ho trovato sgomberando la tua camera ed è finito
accidentalmente sul divano proprio il giorno in cui gli Eagles hanno
stravinto contro i Chicago Bears».
«E immagino che sia andata
così anche con i telecomandi».
«Sì, qualcosa del
genere».
«Papà, il tuo è un disturbo
ossessivo-compulsivo,
dovresti venire con me dal dottor Deaton».
«Ma va! Solo perché
voglio guardare la partita con mio figlio sono
superstizioso?»
Sì,
lo era e Stiles non riusciva proprio a smettere di pensare alla cosa
che voleva fare. Quasi non riuscì a controllare le gambe
quando si
rimise in piedi.
«Dai, dove vai?
Resta! Se faccio un sacco di soldi che ti importa come li
faccio?»
Stiles sorrise. Tutti volevano che prendesse degli psicofarmaci e
un'ordinanza restrittiva gli impediva di vedere sua moglie, mentre lo
sceriffo della città scommetteva sulle partite di football
tenendosi
vicino una schiera di talismani portafortuna, convinto che avrebbero
fatto la differenza.
Mosse il primo passo
verso la porta e sentì il telecronista urlare
“TOUCHDOWN!”.
L'esultanza di Noah fu così esplosiva da risultare
contagiosa.
«Hai visto? Il tuo destino è stare qui,
è speciale!
Tutto succede per un motivo, è per questo che sei tornato,
abbraccia
il destino, abbraccia...» il telefono squillò e
suo padre fu
costretto a rispondere, era uno che voleva confermare una
scommessa.
Stiles approfittò del momento di distrazione per
sgattaiolare via. Lui non credeva a quel genere di cose, altrimenti
avrebbe pensato che una forza sconosciuta lo stava attirando verso la
sua vecchia casa, quella che Lydia aveva venduto senza chiedergli il
permesso.
No, non si trattava del fato, del destino, era la sua
personalità disturbata che lo spingeva a correre veloce come
il
vento verso il luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
A metà
strada, però, incontrò un ostacolo: un uomo aveva
parcheggiato
l'auto a metà del vialetto e stava scaricando dei pacchi
verdeacqua
dal cofano. Quando si avvicinò si rese conto che i pacchi
erano
confezioni giganti di pannolini per neonato e che quell'uomo era
proprio il suo migliore amico, Scott McCall. Stiles si fermò
e
abbassò il cappuccio della felpa grigia. Si scrutarono per
un
momento, poi il volto di Scott si illuminò.
«Ehi! Bentornato!
Quindi sei uscito?» gli andò incontro ad
abbracciarlo.
Stiles
ricambiò freddamente: non sarebbe bastata la sua filosofia a
fargli
dimenticare il fatto che non era andato a trovarlo in ospedale
neppure una volta in otto mesi.
«Sì, sono uscito»
rispose, mettendosi le mani in tasca giusto per fare qualcosa.
«Bene. Forte, sono
contento per te. E poi ti sei rimesso in forma, quasi non ti
riconoscevo, con questa barba e questi capelli lunghi poi, ho fatto
un po' di fatica» Scott gli sorrise, ma Stiles si strinse
nelle
spalle, incapace di ricambiare.
«Sì,
grazie».
«Senti, mi dispiace non essere venuto quando stavi
male, ma sai il lavoro è impazzito, lei ha avuto una
bambina» disse
indicando con il pollice la porta aperta della casa. «Sono
felice
che sei tornato, mi sei mancato, dico sul serio. E poi devi venire a
vedere la bambina, è bellissima e... e Allison vuole dare
una cena
per te».
«Congratulazioni
per la bambina, ma non mi bevo la storia dell'invito».
Scott
aggrottò la fronte. «Perché pensi che
Allison ancora ti odi?»
«Lo so che Allison ancora mi odia. Lydia diceva sempre
“La
moglie di Scott tiene la sua vita sociale insieme alle sue palle
nella borsa”».
Il sorriso di Scott si spense del tutto.
«Questo non è vero» disse, ma l'urlo di
sua moglie proveniente
dal primo piano lo contraddisse subito.
«SCOTT! Che stai
facendo?»
Stiles sollevò le sopracciglia con lo sguardo da 'te
l'avevo detto'.
«D'accordo, è un po' vero, ma se pensi che
ancora ti odi, ti sbagli. Altrimenti perché mi avrebbe detto
di
invitarti a cena?»
«L'HAI INVITATO A
CENA?!» strepitò lei affacciata alla finestra.
«SI!»
«E HA DETTO SE PUO'
VENIRE?!»
«ANCORA NON LO SO! Ce la fai a venire?»
«Certo, ci
sarò».
«Bene, ci vediamo domani allora».
«Senti, tu e
Lydia siete ancora in contatto?»
«Sì, certo».
«SCOTT!
VIENI DENTRO HO BISOGNO DI TE!»
«STO ARRIVANDO!»
A Stiles venne da ridere per la seconda volta. Come aveva fatto
Scott a cacciarsi in quella situazione? Ogni parola rivolta alla
moglie era velata di frustrazione e sembrava che stesse per scoppiare
da un momento all'altro.
La vita era proprio strana, lui e Lydia
si amavano davvero eppure erano costretti a stare separati, quei due
invece che si tolleravano a malapena non solo stavano insieme, ma
avevano anche una figlia. Anche lui avrebbe avuto una figlia o forse
un figlio, magari entrambi e magari avrebbero preso un cane e la
domenica avrebbero giocato tutti insieme sul prato davanti casa.
Lui
amava stare all'aria aperta, Lydia invece lo odiava.
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Angolo autrice
Questo è un piccolo
esperimento, una cosa che non ho mai fatto e che probabilmente non
ripeterò. Diciamo che è una storia unica nel suo
genere per i miei
personali standard.
Stavo riguardando il film per l'ennesima
volta e di colpo mi sono venuti in mente Stiles e Malia. Purtroppo
però non sono brava né con Photoshop per farne un
AU su Instagram,
né con il video editing per fare un trailer fanmade su
YouTube.
Ahimè so solo scrivere ^_^''
La parte “sperimentale” consiste
nel fatto che all'interno del testo ci sono alcuni dialoghi
trascritti direttamente dal film, in un mix di originale e non
originale.
Anche lo stile di scrittura si adatta ai toni del
film, quindi sarà volutamente frenetico e ripetitivo, per
riprendere
il modo di parlare e agire di Pat/Stiles e Tiffany/Malia.
Spero che vi
piaccia, lasciate una recensione per farmi sapere
cosa ne
pensate!