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Autore: Vera_D_Winters    25/04/2017    1 recensioni
Queste sono in realtà tre one shot fini a se stesse, che però possono essere messe in ordine cronologico e formare un'unica storia che parla di un'ipotetica storia d'amore tra appunto Marco ed Ace. Il quarto e ultimo capitolo invece è slegato dai primi tre, e presuppone un Marco innamorato che non è mai riuscito a confessare i propri sentimenti. Ho deciso di raggrupparle tutte assieme dato che comunque parlano tutti della mia Otp di One Piece. Spero possano piacervi :3 Le recensioni sono sempre benvenute, siano esse positive o negative
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Marco, Portuguese D. Ace, Thatch
Note: Lemon, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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"Se questa è la tua decisione, allora non abbiamo più nulla da dirci."
Queste erano state le parole usate da Marco, le ultime rivolte ad Ace quando questi aveva annunciato che il mattino seguente sarebbe partito per andare a cercare Teach con l'obiettivo di vendicare Thatch e ripulire il buon nome di Barbabianca.
Convincerlo a desistere era stato inutile e alla fine la fenice se n'era uscito con quella frase che troncava ogni idea di riavvicinamento, come se non potesse mai più perdonarlo, come se non gli sarebbe più importato del fato del giovane dai capelli corvini.
Nulla di più falso ovviamente. 
Se però il biondo avesse dovuto sviscerare i propri sentimenti al momento non avrebbe saputo farlo. Troppe cose gli balenavano per la mente: la morte del suo fratello più caro era ancora una ferita freschissima e scoperta, e il pensiero di perdere anche Ace lo faceva impazzire. Tuttavia non c'era solo questo. Sotto la paura si muoveva la rabbia per non essere riuscito a fargli cambiare idea, insieme ad un poco di amarezza: possibile che nonostante la loro storia non fosse riuscito a fargli cambiare idea? Non era abbastanza importante da far desiderare ad Ace di rimanere lì' con lui? Eppure ancora sotto, in una parte più profonda e consapevole del suo essere, Marco sapeva di star solo cercando una scusa per arrabbiarsi, perchè in fondo quella testa calda la capiva fin troppo bene. Ed era anche pronto a scusarla.
Se solo non avesse avuto tutta quella responsabilità sulle spalle sarebbe partito l'indomani con il pirata più giovane. Ma non poteva... Papà aveva bisogno di lui lì, sulla Moby, per tenere tutti uniti. Non poteva partire...

[...]

A metà di quella notte insonne Marco si era alzato di scatto, e con il cuore che gli martellava nel petto aveva preso la decisione più audace e folle della sua vita: aveva deciso di partire, non con Ace, ma al suo posto. Non poteva rischiare di perderlo, sarebbe impazzito dal dolore, e per una volta mise davanti i propri bisogni a quelli della ciurma e del suo amato. Per una volta aveva deciso di essere egoista, pur sapendo che se gli fosse accaduto qualcosa ne avrebbero sofferto anche gli altri. In quel momento però non importava.
Scrisse un bigliettino con poche righe in cui spiegava il suo gesto, e lo fece scivolare sotto la porta della stanza di Barbabianca, troppo codardo per infilarlo sotto quella di Ace, poi approfittando delle ombre della notte, spiccò il volo, benedicendo per una volta il potere di quel frutto del mare che non gli aveva permesso di salvare Thatch, ma che almeno lo avrebbe aiutato a proteggere Ace.

[...]

Agonia... quella era una crudele agonia. 
Il prode Marco aveva sottovalutato largamente il suo avversario e ora ne pagava le conseguenze, incatenato alle stregua di una bestia da macello.
Il kairoseki gli bruciava la pelle nei punti in cui si stringeva, e le forse lo avevano quasi del tutto abbandonato. Le ferite che gli erano state inflitte inoltre, non si rimarginavano come avrebbero fatto normalmente, e questo stava comportando una notevolissima perdita di sangue che di certo non migliorava la situazione generale. 
Il biondo alternava stati di coscienza a stati di totale delirio in cui si perdeva tra i suoi ricordi, rivedendosi sulla nave con tutti gli altri, intenti a festeggiare chissà quale ricorrenza. Altre volte i deliri della mente poi divenivano vere e proprie allucinazioni con le quali intratteneva lunghe conversazioni. In alcuni casi vedeva Ace, lì seduto accanto a lui con il viso allegro spruzzato di lentiggini e il cappello tenuto alto sul capo, e con lui si scusava per essere partito senza dire nulla, per avergli detto come ultimo addio semplicemente: non abbiamo più nulla da dirci. No no, aveva sbagliato in toto. Avrebbe dovuto dirgli che lo amava, e che era la cosa migliore che gli fosse capitata nella sua lunga vinta.
Quando era Thatch a sederglisi accanto invece, si scusava per non averlo potuto guarire. Si scusava di non aver potuto fare altro che stringere il suo corpo tra le braccia e dargli una degna sepoltura. Si scusava delle lacrime che aveva pianto come un bambino, e che continuava a versare ogni volta che pensava a lui, perchè gli mancava da morire. E si scusava anche per aver pensato per un solo attimo di raggiungerlo immediatamente. Non voleva essere debole davanti agli occhi del suo migliore amico, dovunque lui fosse ormai.
In fine, quando era Papà a ergersi di fronte a lui, neanche a dirlo si scusava di nuovo. Per essere partito, per averlo lasciato nel momento del bisogno. Poi gli chiedeva se era stato davvero un bravo figlio e un bravo comandante, un buon braccio destro per quell'uomo a cui doveva tutto. E lui sorrideva indulgente. Tutti e tre lo facevano, perchè erano allucinazioni e dovevano dargli conforto, la sua mente le produceva apposta per farlo sopravvivere e di certo non aveva bisogno di altro dolore, cosa che invece gli avrebbe provocato la consapevolezza di averli delusi tutti e tre.
Nei rari momenti in cui però la ragione tornava a farsi forte e viva in lui, implorava Teach di ucciderlo, perchè sapeva che quella era l'unica soluzione. Perchè era conscio di essere tenuto in vita solo come agnello sacrificale per attirare i suoi compagni in una trappola in cui non voleva cadessero. Avevano già perso tutti fin troppo... 
Quel bastardo però gli rideva in faccia e lo lasciava lì al suo tormento, almeno per la maggior parte delle volte. Quando invece voleva torturarlo ancora un po', ingabbiava la fenice nel suo potere oscuro, e si divertiva a giocare con la sua psiche, gettandolo in uno sconforto tale da fargli desiderare davvero la morte, solo per porre fine a tutto quanto. Il nero lo avvolgeva inesorabilmente, e lo trasportava in un universo desolato dove era costretto a rivivere le perdite dolorose di cui era stato spettatore e partecipe nel corso degli anni, in un loop senza fine.
Da quei viaggetti ne usciva sempre più distrutto e indebolito, e quasi sperava alla fine di cedere per sfinimento. L'importante era che morisse no? Prima che qualcuno provasse a salvarlo finendo nelle grinfie di Barbanera.
Non che gli dispiacesse quell'idea. In un angolo recondito della sua mente si permetteva qualche volta di sperare, di veder apparire proprio Ace sulla soglia della cella, pronto a salvarlo, ma metteva da parte quel desiderio egoista e riprendeva a pregare che ciò non accadesse mai. Non doveva perire nessuno a causa sua.
"Resta al sicuro... non venire a cercarmi..."
Mormorava nel nulla di quella prigione fredda e silenziosa, sperando che in qualche modo la sua voce giungesse alla coscienza del giovane pirata, e lo facesse davvero desistere da qualsiasi piano avesse in mente.
E intanto si alternavano i giorni e le notti, scandite solo da intervalli irregolari tra tortura e pace, facendo perdere alla fenice la cognizione del tempo. Per quanto ne sapeva potevano anche essere passati anni... ma non importava. Tutto ciò che desiderava era la fredda carezza della signora con la falce, così da liberare se stesso e i suoi compagni da quel fardello.
Non si era mai pentito tanto di una sua scelta in vita sua.
Una sola volta aveva ascoltato l'istinto piuttosto che il buon senso... e con quell'unica volta aveva semplicemente rovinato tutto.

   
 
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