Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    29/04/2017    1 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5
DONNE FORTI
 
 
 
                Lì la festa pareva tirar su fino alle mattinate. Xenya aveva sperato di poter essere lei quella ad avere in mano il controllo della situazione, ma dopo diverse ore passate ad osservare il delirio di cibo, giochi, danze, urla e sesso di quella popolazione di invasati che gli uomini-drago del nord del continente altro non si erano rivelati, guardò negli occhi Jorando Pashamanyna e Tampepe l’arciere Sayun-sama e si rese conto che erano stremati. Prima di arrivare in quella collina, nascosti tra le fronde, avevano trascorso una lunga giornata a scalare sentieri e rocce. Riuscirono a passare solo pochi altri minuti a spiare il nuovo, interessantissimo, re lucertola che era uscito fuori dalla montagna… poi Tampepe crollò per primo. Jorando lo seguì poco dopo. E infine anche lei poggiò il suo sacco a mo’ di cuscino e si addormentò come una bimba. Quando si risvegliò, qualcuno la stava tenendo per le braccia e trascinando bruscamente: gli uomini-drago li avevano trovati.
                Xenya aveva sperato che prima o poi anche quegli energumeni, essendo pur sempre umani, avessero sentito l’esigenza fisiologica del riposo. Dunque, riposando lei e i suoi compagni per primi, si sarebbero anche svegliati per primi e dunque addormentarsi relativamente scoperti non sarebbe stato poi questo gran problema. Oltretutto, tutto questo ragionare la giovane esploratrice lo aveva fatto in quel momento di ubriacatura che precede un sonno profondo, quando gli occhi si chiudono da soli e i suoni da soli si attutiscono. Sonno e ragionamento sbagliato si erano rivelati due pessimi soci, che insieme avevano condotto lei, Jorando e Tampepe tra le braccia del nemico prima ancora che il loro riposo si fosse completato e che le prime luci dell’alba avessero illuminato il cielo notturno. Era ancora notte fonda e parte dei selvaggi danzavano ancora quando i tre “forestieri” vennero gettati ai piedi dell’immenso re della montagna. A guardarlo da vicino, i tratti demoniaci del sovrano dei selvaggi si erano decisamente accentuati. I suoi piedi… parevano scimmiottare l’umanità più che imitarla: erano enormi e anziché le consuete tre dita che Xenya avrebbe voluto aspettarsi, vide tre molto più grossi ammassi di carne, più o meno di lunghezza identica l’uno con l’altro, coronati da tozze e appuntite unghie da animale. La muscolatura del resto del corpo, quella delle gambe, o delle braccia, o del collo, era davvero molto più simili a quella di un toro che a quelle di uno qualsiasi dei selvaggi lì presenti. La pelle… era traslucida, come una cosa nuova, appena venuta fuori da un grembo… o da un uovo. Ma la cosa più inquietante naturalmente fu il viso: completamente spoglio di qualsiasi pelo o capello, pieno di venature che come una ragnatela si infittivano dal cranio giù verso le spalle e il torace. E poi due occhi con all’interno una sottilissima iride color del fuoco; e uno sguardo molto più simile a quello di un uccello rapace che a qualsiasi mammifero di questo mondo.
                Xenya aveva viaggiato parecchio nella sua vita, e diverse volte si era trovata in situazioni critiche come quella. Tuttavia, non appena il diavolo della montagna, dalla sua altezza simile a quella di due uomini – o forse addirittura qualcosa in più – aprì la bocca per farne uscire dei suoni che incatenati parevano simili a una lingua degli uomini, ma che Xenya non conosceva, allora la schiena dell’esploratrice fu travolta da una sequenza di brividi difficili da nascondere. Ce la fece, essendo lei una donna tutta d’un pezzo, abituata al pericolo e al rischio della vita, ma lo trovò parecchio difficoltoso. La verità era che Xenya si era trovata perfino in situazioni più difficili nel corso dei suoi viaggi nel nord o nell’est, dunque se stare inginocchiati davanti a un suo potenziale assassino fosse stato l’unico elemento di minaccia, lei sarebbe rimasta anche più che serena. Ma in un individuo con quell’aspetto, in tutti i suoi viaggi, Xenya l’esploratrice non si era mai imbattuta. E una voce come quella, in tutti i suoi viaggi, non l’aveva mai udita.
                Il mostro incoronato d’ossa intanto, vedendo che non riceveva risposta a quella sua questione enunciata in quella lingua sconosciuta, si decise alfine a cambiare lingua. E ancora una volta né Xenya, né Jorando, né Tampepe risposero. Alla terza lingua che cambiò, tuttavia, questa volta l’arciere Sayun-sama si apprestò a rispondere: disse qualcosa, ma Xenya lo interruppe quasi da subito, comandandogli di tradurre per lei. A quel punto, un sorriso euforico si dipinse sul volto del mostro, mentre i suoi occhi si spostavano dall’arciere alla esploratrice. Il re della montagna parlò e Tampepe tradusse letteralmente: «S-siete un gruppo guidato da una femmina… non è la prima volta che vedo una società guidata da una femmina, m-ma… la cosa mi… desta curiosità ogni volta»
                «Lasciateci liberi» disse Xenya pacatamente, e Tampepe tradusse.
                «Voi s-siete liberi, figli miei. Desideravo solo darvi uno sguardo. Io adoro osservare quanto voi siate divenuti differenti gli uni dagli altri, eppure così simili… così simili… a noi»
                «Voi… chi siete?»
                «Soddisferò la vostra curiosità come voi state soddisfacendo la mia… ma la vostra piccola mente… ehm… lontana dal tempo… e dalle ere… non può… ehm… non può comprendere appieno quello che potrei dirvi o m-mostrarvi»
                «Mostraci»
                «Sei ardita, o femmina, come un cavaliere… no, ehm… come un cavalcatore di wanchi, non so cosa sia…»
                «Hai detto di averne già viste, ardite come me»
                «Di più. Sono stato… ehm… allo stesso livello di una come te, stesso ruolo, stesso potere… o forse lei perfino qualche cosa in più»
                «Dunque… che cosa sei tu?»
                «Ti ho promesso una risposta, eccola: sono la stirpe che… che… precede il tempo. Sono parte di coloro che hanno visto… fondersi la luce e le ombre. Io ho veduto gli uomini crearsi da loro, e poi da loro distruggersi. Sono sempre rimasto. Sono sempre… stato»
                «Sono… estremamente felice di avere avuto la possibilità di una simile conoscenza… ma ora, visto che ci hai lasciati liberi, non intendiamo andare presso la nostra casa…»
                «Io vi ho lasciati liberi, mia signora, di vivere la vostra vita. Ma non posso p-permettervi di lasciare questo luogo, oramai»
                «Che cosa?!»
                «V-vi troverete bene tra i miei figli, loro sono una razza superiore. Pensate che li ho c-creati solo maschi e da soli hanno trovato il modo p-per generare l-la f-femmina»
                «Le leggende non erano poi così mendaci, allora» commentò Pashamanyna a bassissima voce, alludendo a una diceria dei selvaggi del sud che narrava gli uomini-drago come solo maschi. Tampepe continuò a tradurre: «Voi non siete n-nemmeno i primi Sayun-sama a visitare questo luogo, e nessuno di voi lo ha mai lasciato. Si sono trovati sempre bene tra i miei figli»
                «Noi non siamo dei Sayun»
                «Q-questo… è financo molto meglio»
                «No, io non la penso così. JORANDO!». In anni e anni di lavoro insieme, Xenya e Pashamanyna avevano imparato a conoscersi anche oltre la semplice comunicazione verbale. Avevano trovato una perfetta sintonia personale, oltre che a una più che solida amicizia, che gli permetteva di capirsi a prescindere, anche senza parole specifiche, anche senza uno sguardo. Xenya era perfettamente consapevole che il suo secondo era ormai da qualche minuto che stava aspettando un suo cenno. E urlando il suo nome, lei glielo diede.
                Pashamanyna camminava sempre armato fino ai denti. Disponeva di tutta una serie di lame orientali in cui solo lui o pochi altri erano davvero addestrati, almeno dalla parte occidentale del Mare Stretto. Ed erano dannatamente leggere: alcune si lanciavano semplicemente, di piatto, possibilmente puntate verso la gola o il fianco dell’avversario. Altre erano legate a delle corde e si facevano ruotare. E poi c’era un bastone fatto di canne che andava montato all’occasione, e sulla punta naturalmente si disponeva come una specie di grosso coltello da cervo o da cinghiale. Ma per prime Jorando decise giustamente di utilizzare le lame da lancio: Xenya lo sapeva che avrebbe scelto quelle. E con esse liberò se stesso ed entrambi i suoi compagni dai muscolosi uomini-drago che li stavano tenendo fermi al cospetto di quello strano re lucertola. A questo punto, anche lei estrasse i suoi due piccoli fedeli e storici pugnali, e Tampepe rapidamente incoccò il primo dei suoi dardi. Ne sterminarono diversi di quei selvaggi bastardi, ma più ne ammazzavano e più ne spuntavano: erano impreparati e disarmati, ma dannatamente grossi, numerosi e agguerriti. Xenya non riusciva a vedere soluzioni, tranne una…
                Quando riuscì a trovare un po’ di spazio, prese e con un agile salto balzò dietro il re della montagna. Puntò entrambi i pugnali alla larga gola del gigante e tutto si fermò. Tampepe e Pashamanyna smisero di massacrare uomini-drago, ma soprattutto perché gli uomini drago, e le donne e i vecchi e i bambini si erano tutti fermati. Osservavano preoccupati la gola del loro re. Per diversi secondi fu il silenzio assoluto. L’esploratrice cominciò: «Bene. Adesso, Tampepe, di’ a questi esauriti che se loro…». Fu costretta ad interrompersi. Qualcuno stava ridendo. Il re stava ridendo. Una risata profonda e insieme metallica. Come connessa con tutte le energie del sottosuolo e delle rocce dentro la montagna. La risata più terribile e spaventosa che Xenya, sempre nella sua immensa esperienza di esploratrice, avesse mai ascoltato.
                D’improvviso, qualcosa sotto di lei tremò. Ma non era la terra, come accaduto qualche ora prima. Era proprio il re della montagna. Egli stava… mutando. In pochissimo tempo, divenne immenso: centuplicò le proprie dimensioni. E in pochissimo tempo, da dietro la schiena di un avversario particolarmente alto, ma con in pugno la situazione, Xenya si ritrovò confusa sul dorso di… qualcosa. Un animale a scaglie, come quelle di un serpente, però… dure. Non intendeva crederci, eppure quello che i suoi occhi parevano suggerirle era che si trattasse… di un drago.
                Ma i draghi di cui aveva letto lei, quelli di cui avevo visto illustrazioni presso svariate biblioteche, per quanto enormi e terribili… non erano neanche lontanamente grossi come quell’animale sulla cui schiena a scaglie adesso lei si ritrovava… quello era tipo “il re dei draghi” o roba simile. Ma Xenya non ebbe il tempo di specularci più per ancora molto; con un movimento oscillatorio di spalle prima e di braccia poi, l’enorme animale la fece cadere soavemente. Dopodiché la imprigionò tra gli artigli del suo arto superiore destro, la guardò, e muovendo il suo muso allungato e le sue fauci piene di denti come una comune bocca umana, disse: «Sei stata audace, femmina. Molto audace».
 
 
 
                Gino raggiunse l’assolata Cowain in una mattina particolarmente calda, in cui tutti gli abitanti della ridente cittadina, evidentemente non consapevoli del demone rinvigorito presso la magione della loro signora, sorridevano ed erano gentili, e l’odore della primavera sprizzava da ogni fiore, foglia o ramo. Era inutile negarlo: Gino adorava il caldo, Cowain sarebbe stata volentieri la sua città di preferenza, anche per uno stabilimento definitivo. Tuttavia quel giorno il caldo era decisamente asfissiante; tanto che Gino decise di spogliarsi di qualsiasi insegna e abito sfarzoso: bussò alla dimora di Xalandra agghindato come un qualsiasi garzone da bottega, solo che continuava ad avere un seguito di una trentina di cavalieri.
                «Lord Gino!» lo salutò Xalandra, andandogli in contro, quando Barron raggiunse la sua piccola sala di rappresentanza. Come al solito, quel luogo era pieno di donne… e a Gino rivederle tutte, e tutte assieme, suscitò insieme meravigliosi ricordi e anche un po’ di imbarazzo: poco tempo prima, la metà di quelle ragazze Gino aveva avuto la possibilità di portarsele a letto. Con Xalandra, sempre con quel suo modo di fare affrettato, come se avesse di meglio e più urgente da fare che accogliere il suo vecchio amico e importante potenziale alleato, invece, il sentimento di meraviglia si appiattiva, lasciando decisamente molto più posto a quello dell’imbarazzo. Xalandra doveva esser stata una bagascia divina qualche secolo prima, ma quell’unica volta in cui aveva preteso la carne di Gino… beh si trattava di poco tempo addietro, e dunque… della stessa anziana signora coi capelli dipinti di un colore che non esiste e decisamente troppo truccata che in quel momento gli stava andando in contro, con quel suo fare affrettato.
                «Milady Xalandra» replicò Gino al saluto, e con estremo garbo prese anche la mano della sua ospite e la baciò. «Sai che non sono una Lady, ma va bene così: ho rinunciato a fartelo presente» fece quella, decisamente più brusca, e Gino ancora più ruffiano: «Siete una Lady per il mio cuore, mia signora»
                «Sì, io e quante altre? Ad ogni modo, mio Lord Protettore dell’Altopiano, mi perdonerai se intendo saltare i convenevoli, ma – come avrai intuito – la situazione ci sta sfuggendo di mano di ora in ora»
                «Sì, l’avevo intuito in effetti»
                «Novità dalla costa orientale?» continuò a chiedere la reggente di Cowain, incamminandosi per i corridoi della sua magione, «Hai fatto presente al re della nostra situazione? E lui ti ha dato dei consigli? Oppure hai parlato con qualcuno ancor più navigato in materia? A essere franchi, anche se questo nuovo re sostiene di essere un Targaryen, a me dà tutta l’impressione di un tipetto abbastanza ignorante in merito alle cose di questo mondo»
                «Questo è plausibile. Ed è per questo che mi sono rivolto a qualcun altro…»
                «Sì? E a chi?»
                «A Lord Braff»
                «Temevo che facessi quel nome»
                «Beh, sai bene anche tu che Braff invece è in politica da molto più tempo del re, ed è un uomo particolarmente… eclettico, se non vogliamo dire saggio»
                «Di’ pure quello che vuoi! Quali sono i suggerimenti di quel vecchio cialtrone?»
                «Lui non mi ha risposto. Non gli ho dato il tempo: sono venuto qui subito. Desideravo toccare con mano il problema…»
                «O e lo toccherai, mio signore… lo toccherai e ti scotterai, fidati»
                «È lì che stiamo andando adesso, mia signora? Lo chiedo per… prepararmi psicologicamente, ecco»
                «Beh, preparati psicologicamente a questo, giovinotto: al momento ti sto conducendo da un’altra parte, perché c’è un’altra gatta che devi pelare… sorpresa!»
                «Di che si tratta?» a questo punto il tono di Gino si fece parecchio serio: non adorava i giochetti, e men che meno le trappole, anche se a tendergliele fossero state persone quando non proprio amiche, almeno orientativamente degne di un certo grado di fiducia, come Xalandra senza dubbio a suo avviso era. Dopo circa una decina di passi, Gino si accorse che l’ex puttana non gli stava rispondendo, dunque insistette: «Xalandra! Di che si tratta?»
                «Hai combinato un bel guaio, ragazzino»
                «In che senso?»
                «Non posso dirti oltre, non intendo farlo. Lo farà lei, anche contro la sua volontà: praticamente la sto costringendo»
                «Daessenya?»
                «Quando ha saputo che mi ero rivolta a te, e evidentemente percependo che saresti venuto, ha deciso di fare i bagagli e lasciare il mio servizio. E io desidero che rimanga. A te il compito di convincerla, Barron, sono stata chiara?»
                «Cosa? Ma se io non…»
                «Mylord! La fanciulla lascia il mio servizio per sempre, senza neanche dirmi dov’è diretta, perché non intende rivederti. E io ti sto portando da lei! Buon lavoro» concluse la Lady reggente, indicando la porta dinanzi al quale si erano entrambi fermati. Gino la aprì soavemente, e penetrò.
                Stava davvero facendo i bagagli. C’erano fagotti un po’ dovunque in quella camera, quasi tutto incartato, pronto per una spedizione definitiva. Lei si trovava dietro una modesta libreria, ma piena di scaffali e volumi. Stava cercando di sistemare un ultimo pacco dentro un baule chiaramente già troppo pieno; dunque era di spalle… Gino fu tentato, seriamente tentato, di prenderla per la vita, voltarla e baciarla come se il mondo dovesse finire di lì a un minuto. Si avvicinò piano; lei era evidentemente troppo indaffarata con quel pacchetto per ascoltare il suo arrivo. Lui riuscì ad avvicinarla, ed effettivamente le poggiò con la delicatezza di un vasaio la mano sul fianco destro. Lei si voltò di scatto, dapprima sorpresa e quasi scossa dal fatto che qualcuno la stesse distraendo da quella sua delicatissima operazione geometrica di inserimento dell’ultimo bagaglio nel baule colmo. Ma poi subito si accorse che era lui: il suo sguardo si fece tenero, languido. Gino desiderò più di ogni altra cosa baciarla, per pochi attimi decise di resistere; non era giusto che lo facesse lui: se voleva, doveva essere la signora a farlo. Gli istanti trascorsero e divennero secondi. Vide gli occhi di Daessenya piano piano riempirsi di lacrime; forse lo stavano facendo anche i suoi… infine, lei spezzò l’incantesimo. Distolse lo sguardo e, voltandosi, riprese a fare quello che stava facendo. Disse: «Che sei venuto a fare?»
                «Lady Xalandra ha richiesto il mio ausilio» rispose il giovane Barron «Per quella cosa del demone risorto: so bene che sai di cosa sto parlando»
                «È così, sì»
                «Daessenya, io…»
                «Ma io intendevo sapere… cosa sei venuto a fare qui, nei miei appartamenti. È la vecchia ad avertici condotto, non è così? O hai avuto perfino la faccia tosta di chiedere da te le informazioni su dove esattamente risiedo adesso?»
                «Faccia tosta? Ma di che stiamo parlando?»
                «Del fatto che io non intendevo rivederti» rispose lei, freddissima, praticamente pugnalandolo al cuore. Era perfino riuscita a infilare quel suo maledetto pacchettino nel baule da viaggio e si era di nuovo voltata, guardandolo dritto negli occhi mentre diceva quella cosa. Ora non c’erano più lacrime. Gino ormai aveva concluso che ne sarebbe andata della sua felicità, perciò si scoprì: «Che cosa vuoi? Dimmi cosa vuoi e… io farò di tutto per…»
                «Voglio che mi lasci in pace»
                «Come faccio: sono innamorato di te, l’hai capito questo, sì? E… lo sei anche tu». Lei chinò lo sguardo: palese segno che Gino aveva ragione. Dunque il giovane Lord se la sentì di rilanciare: «Allora perché dobbiamo negarci la possibilità di essere felici?»
                «Gino, pensavo di esser stata ben chiara l’ultima volta: non possiamo permettere di continuare con questa messinscena. Tu sei il Lord di Altogiardino e io… non sono adatta a fare la moglie e men che meno la concubina. Dunque, se davvero c’è un sentimento, è meglio reciderlo da subito prima che possa diventare una fissazione… e torturarci. Parlo soprattutto per il tuo bene, guarda. Io sto per andare e…»
                «Ma dove vai?» fece Barron preoccupato, percependo che davvero si stava per mettere un punto a tutta quella storia, «La tua vita è qui…»
                «La mia vita… è dovunque io possa essere una donna libera. E finché tu saprai dove sto di casa, donna libera non sarò mai»
                «Daessenya ti prego…» non riuscì a resistere alla sua bellezza, s’inginocchiò «Ti prego…»
                «Finitela, mylord. Che diamine, chi nella mia vita doveva dirmi che un giorno… avrei fatto inginocchiare un Lord» e per la prima volta quel giorno, Gino la vide sorridere. Sorridere quasi sinceramente. Sorridere quasi come sorride una donna innamorata. Fu lei stessa a porgergli il braccio e farlo rialzare; dopodiché, riconducendolo verso la porta, gli disse: «È stato davvero bello, Gino, voglio che tu lo sappia. Voglio che tu sappia che per un certo periodo tu hai reso una povera donna, quella più felice del mondo. Sento… un debito di gratitudine nei tuoi confronti, davvero. Ecco perché ti dico questo: ero già una donna libera prima di conoscerti, ma conoscendoti ho avuto la forza di aggiungere una sfumatura in più a questa mia libertà. Sono una donna forte, vissuta tra donne forti. E continuerò su questa strada: ho sentito dire di una donna, più giovane di me e di te, che in questo momento regge un importante e strategico castello. È lì che ho intenzione di presentare le mie referenze. Qui a Cowain sono stata bene: ma talvolta ci si stufa di servire sempre lo stesso padrone. E la prima delle libertà è quella di poter scegliere a chi prestare il proprio servizio»
                «Ma dove, Daessenya? Dove…?». Come un ebete, il Protettore dell’Altopiano non riuscì a pronunciare altre parole. Quando giunse davanti alla porta chiese: «Dove?», quando la porta venne aperta chiese: «Dove?», e quando fu fuori dalla camera della sua amata, e la porta fu chiusa, il giovane Barron chiese: «Dove?».
                Più tardi, Gino ebbe modo di visitare pure l’area del castello caduta sotto il controllo del diavolo di fuoco. Prima naturalmente, dovette sorbirsi pure il rimbrotto di Xalandra, la quale – che era sicuramente consapevole delle sofferenze di Gino in materia – insensibilmente non fece altro che lamentarsi del fatto che stava perdendo quella che a suo dire (ma Gino ci credeva) era la migliore tra le sue collaboratrici. In realtà, Gino pensava che Xalandra voleva anche che il Lord suo amico convincesse la sua sottoposta ad amarlo, a restare accanto a lui, ma la puttana reggente non era il tipo di donna che facilmente cedeva a quel tipo di sentimentalismo. In realtà, poche donne lì nei dintorni di Cowain erano quel tipo di donna.
                La situazione per quanto riguardava il demone era esattamente per come Gino se l’era immaginata: una stanza in preda a fiamme costanti, al centro della quale il teschio nero sorrideva maligno e diabolico, esattamente per come il giovane Barron se lo ricordava dal campo della battaglia di Cowain… solo… senza un corpo, che probabilmente ancora quel mostro non era stato in grado di ricostituire a dovere. Inoltre le minacce e le oscenità che quella bocca senza pelle e senza labbra riusciva a pronunciare nell’arco di pochissimo tempo, lasciarono il giovane Lord seriamente sconcertato. Neanche nelle peggiori bettole dei peggiori rioni si ascoltavano oscenità di quella categoria, alcune delle quali ora indirizzate allo stesso Gino Barron, che con massima cura cercò di non farsi vedere da quel potente nemico, ma che comunque evidentemente il potente nemico riuscì a intercettare in qualche maniera, visto che gran parte delle porcherie che disse, il diavolo dal teschio nero cominciò a coniugarle al maschile.
                E l’altra cosa che purtroppo rimase esattamente come nelle aspettative del Barron, fu che, visto che era giunto senza soluzioni a Cowain, senza soluzioni rimase. Quello che cambiò, fu l’intonazione della sua nuova missiva inidirzzata a Lord Braff, la quale – data ora la consapevolezza della situazione – assunse ben più tragici e disperati toni.
 
 
 
                Shirley la chimera era evidentemente stremata. Non era mai stata ferma da quando Marcus era arrivato dall’altro continente con un compagno stregone di fuoco che ora probabilmente giaceva sotto le macerie di Roccia del Re. La povera bestiola aveva affrontato una battaglia: miracolosamente senza ferirsi in modo grave. Poi, dopo dunque un viaggio da un continente all’altro e un sanguinoso conflitto, era stata costretta a viaggiare ancora. Certo, la piccola imbarcazione su cui Mirietta viaggiava insieme a tre fedeli compagni, aveva avuto modo di fermarsi di tanto in tanto presso seni di terra i più possibili nascosti da occhio umano. Tuttavia erano pur sempre dei fuorilegge, dei fuggiaschi… e dunque non erano mai rimasti per troppo tempo fermi nella stessa baia, e non si erano mai avventurati nell’entroterra in cerca di cibo o amicizia. Così Mirietta aveva comandato, e così Marcus – evidentemente il secondo in comando lì in mezzo, in quanto Cavaliere della Chimera, oltre che individuo nelle cui arterie scorreva sangue reale – aveva condiviso. Ma riposare per poche ore era come quasi non riposare affatto, e infatti Shirley praticamente non ce la faceva più e questo Marcus, che con la sua chimera era legato da un nodo che esulava e di molto il normale rapporto cavaliere/destriero, lo percepiva chiaramente. Fu con questo pensiero fisso, e con il pessimo ricordo della sua città natale distrutta e invasa da mostri, della donna che amava sperduta in mezzo a una ressa di soldati, e del cadavere del suo mentore senza più vita steso su una strada come una carcassa qualsiasi, che Marcus infine rivide le luci del porto di Lannisport.
                A Lannisport, Mirietta sosteneva di essere sicura. Marcus lo era di meno, ma decise di fidarsi: numero uno, perché non c’erano molte alternative. E numero due, perché in effetti la sua piccola sorellina si era dimostrata dotata di una grandissima forza politica. I suoi uomini a Roccia del Re pendevano dalle sue labbra: in molti erano morti per lei. E, d’altro canto, non era poi così illogico pensare che in quella roccaforte Mirietta sarebbe stata beneaccetta: aveva passato lì la gran parte dei suoi anni grossomodo da quando Marcus aveva cominciato a trascorrere i suoi alla Valle del Leone. Se c’era un luogo dove viandanti con sangue Lannister avevano qualche possibilità di rimanere al sicuro, quello era Lannisport.
                E tutto in effetti andò a meraviglia. A Lannisport Marcus mangiò bene come non mangiava da chissà quanto tempo. Bevve vino fino all’euforia. Rise, si divertì, e poi si addormentò in un comodo letto, fino alla tarda mattinata del giorno dopo.
                L’uomo di fiducia di Mirietta lì a Lannisport era un tale Sir Cauldron. “Sir” chissà poi quanto: Marcus non aveva mai sentito quel cognome, probabilmente si trattava di un qualche cavaliere errante nobilitato da un’azione valorosa o che in qualche altro modo aveva conquistato le simpatie di gente molto in alto, magari della stessa Mirietta. Fu proprio questo Sir ad accoglierli per primo al porto e fu lui a organizzare il banchetto. Inoltre, era lui che aveva predisposto la nuova ricchissima flotta di cui Mirietta nel corso del viaggio gli aveva parlato, e con la quale l’intento era di partire al più presto alla volta dell’occidente. Non più per visitare o esplorare il nuovo continente, bensì per assoggettarlo. Quel vecchio Sir Muldrow che si era insediato in quel paradiso grazie ai Tyrell, era una volpe che per troppo tempo ormai si era cibata di quel pollaio. Avrebbe fatto storie sicuramente non appena Mirietta gli avrebbe comunicato che sostanzialmente i Tyrell non c’erano più; era un personaggio scomodo, e bisognava necessariamente toglierlo di mezzo. Non ucciderlo per forza, ma costringerlo a mollare il suo soglio di unico sovrano dei Sayun-sama questo sì. E quale modo migliore che presentarsi al suo cospetto armati di tutto punto?
                Mirietta e Marcus avevano bisogno di rifornimenti e di uomini per riprendersi Roccia del Re e assicurare che la corretta linea dinastica tornasse a sedere sul Trono di Spade. E il nuovo continente era la più logica risposta a questo loro problema. Per tali ragioni finalmente la sua piccola sorella era riuscita a convincere chi di dovere a finanziare una spedizione per come fin dall’origine lei se l’era immaginata. E per tale ragione, di lì a poco la sua flotta sarebbe partita dal porto di Lannisport.
                Era con questa prospettiva per la testa che Marcus, come detto a mattina inoltrata, si svegliò dalla sua comoda branda e raggiunse sua sorella, la quale gli chiese di prepararsi alla bell’e meglio e seguirla a una colazione da soli loro due insieme a Sir Cauldron. Marcus in realtà non stava morendo dalla voglia di introdurre ancora roba nello stomaco, dato l’immenso quantitativo di cibo che aveva ingurgitato la sera prima. Era un uomo alto e discretamente possente, ma data la fame che aveva preceduto quella cena, aveva infine mangiato più come un bue che come un normale principe del Regno Unificato, e l’idea di una ulteriore colazione in tutta franchezza non lo entusiasmava più. Ma non c’erano ragioni per rifiutare: c’era sicuramente un motivo per cui quella colazione la Lady sua sorella avesse deciso di farla in privato, e d’altro canto lui era come una specie di sovrano indiretto di quel luogo. Se non avesse voluto mangiare, gli sarebbe bastato limitarsi a non farlo.
                Giunto al tavolo della colazione, Marcus si rese subito conto che in realtà era stato Cauldron a chiedere quell’incontro, e non Mirietta. Lui aveva pensato che si trattasse di qualcosa che riguardava, magari, la predisposizione del viaggio o altre questioni logistiche di quella portata. Invece quello che il Sir disse fu: «Mia signora, so che il tuo entusiasmo per questo nuovo itinerario è alle stelle, e lungi da me voler deludere questa tua prospettiva… ti prego di considerare che sono solo un latore, e che non prendo decisioni…»
                «Su, Cauldron» fece la piccola Lady, sorpresa ma risoluta, «Spara: non tenermi sulle spine»
                «Ehm… v-vostro zio Pylgrim, o prozio, o quello che è… come sapete è stato il principale finanziatore della flotta»
                «Tecnicamente… sono io la reggente di Lannisport, signore, dunque in realtà me la sono finanziata da sola»
                «Sì, ma… oh, insomma, milady, tu sai bene che tuo zio ormai è un importante giocatore della partita della vostra famiglia. Castel Granito risponde a lui, non a te. Ti vuole bene, così come sono sicuro tu ne vuoi a lui, ma tutto quello che ti chiede è… di ritardare la tua partenza di qualche giorno…»
                «E perché, sentiamo?»
                «Vuole parlarti… di persona»
                «Allora perché non è venuto lui direttamente a…»
                «Mia signoria, il Leone Nero è un uomo anziano e…»
                «Ah» rise Marcus «L’anziano più risoluto che abbia mai conosciuto in vita mia»
                «Ti prego, mia signora» fece ancora Cauldron «Non rendere complessa una cosa che potrebbe risolversi in poco tempo…». A questo punto, l’Andalo non poté non percepire l’espressione di profondo disappunto sul volto della sua sorellina. La verità era che non c’erano ragioni per non assecondare la richiesta del vecchio: probabilmente voleva solo qualche delucidazione in più in merito alla loro partenza, o perfino addirittura rivederli e salutarli visto che sostanzialmente i soldi per quella nuova avventura, checché Mirietta ne dicesse, li stava uscendo lui, non la giovane e pure determinata fanciulla.
                Pylgrim Lannister, detto il Leone Nero, non era loro zio. Era più facile chiamarlo a quel modo, ma era l’ultimo dei fratelli di loro nonno, e fratello del compianto Primo Cavaliere Duhenlar, dunque zio già di loro padre e di loro più giustamente “prozio”. Era molto giovane per essere uno che apparteneva a quella generazione: un vecchio rampante, che per tre quarti della sua vita aveva combattuto. Uno dei cavalieri più noti e stimati del continente occidentale. Detto Leone Nero poiché la sfumatura del castano dei suoi capelli e della sua barba, che ora erano grigi, un tempo era stata parecchio scura. Stando alla tradizione leggendaria, tutti i Lannister erano biondi o castani chiari: tuttavia col tempo il mito si era via via sfatato, il sangue si era mischiato, ed erano cominciati ad intravedersi delle tonalità più scure; lo stesso Marcus, o anche Daniel ad esempio, biondi non era neanche alla lontana. Ma scuri, di pelo e di pelle, così come il vecchio Pylgrim, in effetti di Lannister non se ne erano mai visti e ancora non se ne vedevano: ecco perché era saltato fuori “il Leone Nero”, attributo decisamente accattivante che Marcus l’Andalo avrebbe scambiato senza pensarci con quello invece che veniva associato a lui.
                Da anziano, Pylgrim si era alfine insediato a Castel Granito, cuore difensivo della famiglia Lannister e una volta loro capitale. Castel Granito continuava ad essere la roccaforte presso la quale si accumulavano la gran parte delle ricchezze della famiglia, anche se il movimento dell’entrate e delle uscite si trovava a Lannisport, che invece era il cuore pulsante della famiglia Lannister, il luogo degli scambi e del prestigio. Il Leone Nero era stato un servitore leale della famiglia da sempre, e da sempre metteva una buona parola su tutto. Non c’era nessuno, da Constant a Lionel, da Axelion alla stessa Mirietta, cui Marcus aveva mai sentito dire qualcosa di male sullo zio Pylgrim. Il vecchietto faceva il suo lavoro supportato oramai da una significativa esperienza, e di conseguenza lo faceva anche bene. Non c’era una sola ragione per cui Mirietta potesse rifiutarsi di assecondarlo, salvo il suo capriccio di partire subito, perché – Marcus ormai l’aveva capito – lei adorava tutta quella situazione, adorava l’idea del nuovo continente, e adorava quella di potersi rendere utile, e dunque era sicuramente contrariata a causa di questo imprevisto dello zio al quale, d’altro canto, non aveva vere ragioni per dire di no. Mirietta inoltre era una fanciullina molto matura per la sua età, anche questo Marcus ormai doveva riconoscerlo. Non proprio una donna fatta e finita (solo l’idea lo faceva sentire già vecchio, raggrinzito e in punto di morte), ma una femmina abbastanza intelligente da capire che non era opportuno fare scenate senza senso davanti a un suo diretto sottoposto, questo sì. Anche se la bimba dentro di sé avesse voluto piangere e strepitare, e voler partire prima di subito.
                Marcus dal canto suo non si pronunciò: sapeva che sua sorella avrebbe fatto la scelta giusta, e la fece. Disse a Cauldron di preparare un piccolo manipolo: ritardare il viaggio all’occidente sì, ma ritardare anche quello per Castel Granito… per quale ragione?
   
 
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